Perché difendiamo il depennato risotto con le rane (rumene)

Il risotto con le rane
Il risotto con le rane

Da modesto cultore di storia del cibo, non riesco che a sorridere dinnanzi all’inflessibilità dei disciplinari gastronomici del nostro tempo. Il cuoco che azzardi l’inserimento di un velo di cipolla nella ricetta dei bucatini alla gricia, o di uno spicchio d’aglio in camicia nel condimento degli spaghetti all’amatriciana, assai difficilmente sfugge ad un processo per iconoclastia. Eppure in passato tra i fornelli regnava la più spensierata approssimazione. Del biancomangiare – a buon titolo la più celebre pietanza medievale – l’illustre studioso Jean Luis Flandrin ha censito oltre trenta versioni, tutte significativamente divergenti. Descrivendo poi la preparazione di una vivanda di pollo al melograno, il Liber de Coquina – capostipite trecentesco dei ricettari di cucina del nostro paese – suggerisce che, in sostituzione dell’agrume, il piatto possa essere insaporito con un tutt’altro che pertinente brodo d’erbe. E la sequenza degli esempi potrebbe protrarsi all’infinito.

Non sorprende dunque la fresca manifestazione di intransigenza gastronomica che giusto in queste settimane è trapelata dalla nuova edizione de  “La tradizione a tavola”, curata dalla prestigiosa Accademia Italiana della Cucina per i tipi delle Edizioni Bolis. Dalla ponderosa raccolta di ricette – ben tremila, a compendio degli usi alimentari della Penisola  – si apprende infatti che è stato depennato il risotto con le rane perché i piccoli anfibi “ormai non sono più quelli del territorio, vengono dall’estero”. Ad esempio – si puntualizza – dalla Romania.

Di primo acchito, l’impulso a dare privilegio alle ricette contraddistinte da chiaro vincolo di territorialità delle materie prime parrebbe del tutto commendevole. E del resto quello del “chilometro zero” è uno dei temi oggi più in voga. Ma, a ben vedere, si tratta di un profondo equivoco. Da un canto, la nostra tradizione gastronomica – anche quella che affonda le proprie radici nelle epoche più remote – si è sempre tenuta ben lungi dall’autarchia. E’ vero che alcuni degli ingredienti di più chiara derivazione allogena sono passati attraverso un prolungato processo di assimilazione produttiva – è il caso del pomodoro, della patata, del mais, dello stesso riso. Ma altri, come aringhe, stoccafisso e baccalà, sono sempre stati e sono destinati a rimanere inderogabilmente forestieri.

Dall’altro, la morfologia stessa delle materie prime di cucina è tutt’altro che statica. Se l’intendimento dell’Accademia Italiana della Cucina è semplicemente quello di preservare i sapori di “una volta”, è bene precisare che ci si trova nel dominio delle imprese irrealizzabili. Secoli di incroci ed ibridazioni hanno irrimediabilmente modificato aspetto e profilo gustativo di tutte le specie coltivate ed allevate per l’alimentazione umana. Si prenda il caso del maiale: i capi oggi presenti sul territorio nazionale appartengono per lo più a varietà straniere il cui bagaglio genetico ha ben poco in comune con quello del suino di ceppo italico dei nostri antenati. Ma nessuno si sognerebbe mai di proporre il bando delle specialità di norcineria ricavate dalle carni dell’anglosassone large white dall’albo dei prodotti tipici Italiani.

Il depennamento del risotto con le rane – ancorché rumene – dalle ricette della nostra tradizione culinaria pare dunque un poco opportuno esercizio di purismo. Ed il pensiero corre inevitabilmente ad un memorabile apologo in dialetto milanese di Carlo Maria Maggi, vecchio di oltre tre secoli ma pur sempre attualissimo: el poverett leccard (di bocca buona), che no possend fà i verz co’l cervellaè (cervellato) no’l se contenta de mangiai co’l lard.




Aziende in mani straniere, così finiamo per fare la figura dei fessi

lactalisLa vicenda Telecom solleva un dubbio. Ma i francesi sono proprio stupidi? Perché continuano a recuperare quello che gli italiani buttano via? Lo hanno fatto con la moda e con il lusso, con la grande distribuzione, con buona parte dell’alimentare, insieme agli svizzeri, che secondo la vulgata xenofoba sono dei francesi (o dei tedeschi) venuti male. Lo hanno fatto con un’ampia serie di aziende meccaniche, con l’energia e adesso lo fanno con la telefonia.

Come quando si sente parlare del pazzo che va in contromano in autostrada, al quarto o quinto francese che si incontra in direzione opposta, forse si potrebbe iniziare a pensare che ad essere un po’ stupidi sono gli italiani. Il rapporto con i cugini d’Oltralpe è sempre stato complesso, tra la loro presunzione da grandeur e la nostra cialtroneria con complessi di inferiorità che ci fanno vedere solo il peggio di noi stessi. Però all’aforisma autocritico di Jean Cocteau sul fatto che i francesi sono degli italiani di cattivo umore dobbiamo aggiungere con umiltà che saranno anche incazzati, quando vince Bartali o qualsiasi altro italiano (e il sentimento è cordialmente ricambiato), ma un po’ più furbi o almeno lungimiranti lo sono.

Un altro dei vizi italici è quello della geniale improvvisazione, ma sempre vivendo un po’ alla giornata. Ed è così che si perdono le occasioni e anche le aziende. Non c’è da demonizzare l’acquisto straniero: l’operazione può essere un’opportunità quando fa arrivare nuove risorse e nuovi stimoli in un’azienda ferma e in più riempie gli ex azionisti italiani di denaro che può essere reinvestito in altre attività. Ma più che sugli acquisti esteri vale la pena di riflettere sulle vendite italiane. La questione si ripropone ora con Telecom, con la novità che per una volta sembra che sia stata tentata una reazione con la proposta della conversione delle azioni di risparmio che con la diluizione del capitale ordinario potrebbe rimescolare le carte. Ma anche questa inedita difesa apre dei dubbi.

Non è chiaro quello che accadrà quando l’imprenditore Xavier Niel, l’anno prossimo, potrà trasformare le sue opzioni nel 15% del capitale e così, aggiungendo il 20% detenuto dalla Vivendi del finanziere bretone Vincent Bolloré, un terzo di Telecom sarà in mano francesi. Niel attraverso la controllata Free in Francia ha fatto tremare le compagnie telefoniche tradizionali tagliando i prezzi dei servizi. Se ripetesse l’esperienza in Italia, forse ci sarebbe per la prima volta quell’influsso positivo sulla concorrenza sempre auspicato, ma mai manifestatosi, nella calata di nuovi proprietari stranieri. Finora infatti ci sono state solo delusioni e invece di una ventata di liberalizzazione c’è stata una sostituzione nelle precedenti rendite di posizione, con un sostanziale mantenimento dello status quo.

In pochi anni intanto le telecomunicazioni italiane sono diventate straniere. Vodafone è una public company britannica, Wind ha capitali russi e norvegesi, H3 cinesi, mentre Fastweb è svizzera. Telecom di fatto era già francese prima della scalata di Niel, senza che ci fossero state reazioni, anche perché Bolloré era già parte dell’establishment nazionale. Per questo si può pensare che la contromossa attraverso le azioni di risparmio non sia rivolta a evitare una francesizzazione di Telecom, che comunque c’è già stata, ma piuttosto ad allontanare Niel. Il fatto che Bollorè sia “contento” di vedersi diluire la quota e quindi appoggi la proposta lascia pensare che abbia qualche asso nella manica. Magari anche un pacchetto di risparmio per ricostituire la quota. In ogni caso la contesa appare adesso tra un francese dell’establishment e un francese non dell’establishment: in ogni caso non ci sono italiani tra quelli che si disputando il controllo di attività strategiche per il Paese come la rete a banda larga. Certo, ben venga chi ci pensa al posto nostro. Ma nella continua delega all’esterno spesso si pensa di essere furbi, ma si finisce per fare la figura dei fessi. La vicenda di Lactalis, che ora qualcuno chiede di “nazionalizzare” sulla scia delle polemiche per il prezzo del latte , sta lì a dimostrarlo,

 

 




Se Bergamo finanzia chi è fuori dalla “normalità sociale”

Il sabotaggio dell'Alta Velocità a Bologna
Il sabotaggio dell’Alta Velocità a Bologna

Un tempo, c’erano i nazionalismi: erano il modo di sentirsi vivi, di appartenere a qualcosa, degli europei del primo Novecento. Non erano soltanto questo, intendiamoci: i nazionalismi si declinavano in molti modi, dall’irredentismo di chi si sentiva parte di una Nazione cui non corrispondeva uno Stato, fino allo sciovinismo di quelli che pensavano di essere migliori degli altri, solo perché erano Tedeschi oppure Francesi o Italiani. Questa visione del mondo partorì la prima guerra mondiale, con quel che ne consegue. Finita la guerra e cicatrizzate, almeno in parte, le ferite del mondo, la cosiddetta dottrina Briand-Kellog postulò che la guerra non fosse un modo di risolvere le controversie internazionali: era il 1928, e dieci anni dopo eravamo ancora alla vigilia di un conflitto planetario. Questa volta, a determinarlo non furono i nazionalismi quanto le ideologie: partiti-stato che sacrificarono la propria popolazione sull’altare di visioni aberranti di nuovi ordini mondiali, tanto fascisti quanto comunisti. Ne uscimmo ancora più martoriati di quanto non lo fossimo stati nel 1918 e, per di più, senza avere cancellato il virus ideologico che, anzi, mantenne il mondo in uno stato di semi-guerra permanente, per decenni.

Se, grazie al cielo, questo scontro ideologico non sfociò mai in una guerra mondiale, ma, al massimo, in conflitti periferici, come nel caso della Corea o del Vietnam, tuttavia esso scatenò in Italia una piccola guerra generazionale: una stagione di ribellismi e di ribellioni che, oggi, definiamo semplicemente “Sessantotto”, ma che si protrasse a lungo, con una scia di violenze e di morti che, se pure incomparabilmente minori per numero rispetto ad una guerra tradizionale, pure segnarono profondamente l’unità nazionale e il tasso di umanità del nostro Paese. Poi, come per la fine di un incubo, anche la stagione delle ideologie si esaurì: il sogno delirante del comunismo sovietico si infranse contro la realtà dell’economia globale, costringendo i leader comunisti ad ammettere il proprio fallimento e ad avviarsi ad una progressiva regressione del totalitarismo, mentre la formidabile impostura degli opposti estremismi, un poco alla volta, smise di essere di stretta attualità, per consegnarsi alla storia.

Eppure, oggi, una parte di quest’odio, qualche scampolo di disumanità, tracce minuscole dei lager e dei gulag continuano ad esistere: il mondo democratico a qualcuno dà ancora fastidio, incredibilmente. Per questo, io giungo a sostenere che, alla luce della mia esperienza di storico e di uomo, vi sono atteggiamenti che qualcuno si ostina a definire politici e che, viceversa, sono semplicemente delle patologie: delle vere e proprie malattie mentali. Intendiamoci, gli estremismi sono sempre esistiti, nell’età moderna: io non sto parlando di posizioni estreme, sia sul versante reazionario che su quello anarco-libertario. Io parlo di una forma di demenza di quelle che necessitano di una cura specifica in regime di TSO. Perché non saprei in quale altro contesto collocare, ad esempio, l’atteggiamento di un sedicente democratico che, in nome della democrazia, pretenderebbe che avessero diritto di parola in pubblici consessi solo ed esclusivamente coloro i quali la pensino come lui o facciano pubblica dichiarazione di condividere la sua visione del mondo e della storia, se non in quello delle aberrazioni psichiche.

Eppure è capitato a me di imbattermi in questo signore, a Bergamo, nell’anno di grazia 2015. Farò un altro esempio: come catalogare quei signori che, inneggiando ad un mondo democratico ed antirazzista, interrompono una linea ferroviaria per danneggiare una manifestazione pubblica, autorizzata, di gente che non la pensa come loro, se non antidemocratici e razzisti? Razzisti ideologici, razzisti etici, ma cosa cambia, se il risultato è identico: non permettere al diverso di esprimersi? Alla faccia delle citazioni a vanvera di Voltaire e di Rousseau! Credo che si debba prendere atto che vi sono, nella nostra società, alcune frange politiche, alcune sensibilità ideologiche, che, in realtà, sono soltanto una forma molto particolare di psicosi: una malattia mentale mascherata da ideologia, insomma. Altrimenti non si spiega: qualunque cretino capirebbe che non si può difendere la libertà negandola a qualcuno e che non può esistere una democrazia oligarchica, in cui soltanto pochi e politicamente selezionati possano esprimere liberamente il proprio pensiero.

Qui non è questione di opinioni: è questione di sistema nervoso, di meccanismi mentali, di semplicissima capacità logica. La conclusione che ne traggo è che questi individui o questi gruppi di persone siano insani di mente e vadano trattati come tali: si debbano ricondurre nell’alveo della normalità sociale. Come? Bella domanda: lobotomizzarli non si può, anche se, forse, sarebbe una soluzione ottimale. Magari, circoscrivendone l’azione, isolandoli, levando loro la possibilità di nuocere. E non finanziandoli coi soldi dei cittadini, come succede a Bergamo, tanto per dire…




Italcementi, i sindacati chiedono l’impegno della Regione

L'iLab di Italcementi al Kilometro Rosso
L’iLab di Italcementi al Kilometro Rosso

Il coordinamento delle RSU di Italcementi della Lombardia e le organizzazioni sindacali hanno incontrato oggi gli assessori Valentina Aprea e Claudia Terzi, in rappresentanza della Regione Lombardia. La delegazione sindacale ha chiesto di impegnarsi nel piano industriale e illustrato le proposte avanzate nell’incontro al ministero dello Sviluppo Economico, avvenuto il 16 settembre. In particolare ha posto l’attenzione su tre aspetti, nei quali l’intervento della Regione potrebbe essere determinante: centro mondiale di gruppo presso l’Ilab a Bergamo, progetti di ricerca di nuovi prodotti con partenariato pubblico-privato in previsione degli anni 2019 e 2021 sugli edifici neutralmente energetici, valorizzazione dell’Italia come gestore dell’area mediterranea. “In una economica manifatturiera che ha all’orizzonte la fase 4.0 – scrivono i sindacati in una nota -, la Lombardia non può perdere le conoscenze, le competenze e la capacità di proposta costruita in diversi anni. La filiera delle costruzioni non può uscire dalla devastante crisi che l’ha colpita con lo stesso modello produttivo con il quale ci è entrata. Abbiamo evidenziato che l’impatto sociale sarebbe devastante se non riuscissimo a tenere delle funzioni di gruppo in Italia. L’acquisizione di Italcementi da parte di Heidelberg – prosegue la nota – non è solo un problema sindacale, ma coinvolge l’intera comunità a partire dal Comune di Bergamo, dalla Provincia di Bergamo per arrivare alla Regione Lombardia e al governo italiano”. Per questo motivo, i sindacati chiedono a tutte le istituzioni di “intervenire e di collaborare con le forze sindacali per salvaguardare le intelligenze collettive del territorio”.




Credaro, il commercio dà segni di risveglio

CredaroDopo anni di silenzio la piazza di Credaro torna a vivere. In poco più di due settimane hanno aperto due attività commerciali, un bar e un salone toelettatura per animali e sembra ci sia interesse per un locale attiguo. Per il bar si tratta di una nuova gestione, la quinta in otto anni.
Con le nuove insegne, piazza Don Bruno Bellini riprende vivacità dopo il trasferimento della boutique Vavassori a Sarnico, e della lavanderia a pochi metri di distanza, sulla provinciale. Il complesso residenziale nato alle spalle del municipio nove anni fa non ha mai visto decollare la sua parte commerciale, anche a causa degli affitti piuttosto alti e della viabilità che non ne facilita l’accesso. I clienti devono infatti posteggiare l’auto nel parcheggio di fronte e attraversare la provinciale molto trafficata, oppure raggiungere il posteggio alle spalle del complesso, facendo però un percorso più lungo e articolato. Con le nuove attività la piazza è più frequentata ora però il rischio è che sia anche troppo rumorosa. La nuova gestione del bar, Zeta Caffè, sembra orientata a puntare su una proposta serale e la musica alta e gli schiamazzi dei frequentatori hanno già sollevato le lamentele dei residenti. “Siamo felici che il bar abbia riaperto – dice Elisabeth Dossi -. E’ un servizio anche per noi ed è bello vedere la gente in piazza, però il locale si trova in un contesto di abitazioni e deve rispettare il diritto legittimo al riposo delle famiglie che ci abitano. Ci auguriamo che i gestori lo capiscano”.

 




Popolare di Bergamo, ok alla trimestrale. In crescita la raccolta totale

Il Cda della Banca Popolare di Bergamo ha approvato la situazione patrimoniale ed economica al termine del terzo trimestre 2015. L’utile netto è risultato pari a 123,7 milioni, superiore rispetto a quanto preventivato. La gestione operativa si è posizionata a 270,7 milioni, determinata da proventi operativi per 598,1 milioni e oneri operativi per 327,4 milioni.

Il margine d’interesse, a 307,1 milioni (-7,3% sul settembre 2014), ha confermato anche nel terzo trimestre il trend dei primi sei mesi dell’anno, risentendo del basso livello dei tassi, con l’Euribor che permane negativo. Le commissioni nette, a 263,9 milioni (- 4%), hanno risentito del minore apporto del comparto relativo al collocamento di titoli di gruppo (- 21,5 milioni), contro una positiva dinamica delle commissioni da raccolta gestita (+ 10,5 milioni) ed assicurativa (+ 3,3 milioni). Il raffronto anno su anno degli oneri operativi registra una complessiva contrazione (- 1,1%), determinata dalla riduzione delle altre spese amministrative (- 5,4 milioni, – 4,1%) alla quale si è contrapposta la crescita dellespese del personale dell’1,3% (+ 2,5 milioni), da attribuire principalmente al minore apporto del “Fondo di solidarietà per il sostegno dell’occupazione del credito” per oltre 5 milioni.  L’andamento di proventi e oneri operativi posiziona il rapporto Cost/Income al 54,74% contro il 52,26% del terzo trimestre 2014. Risultano in deciso miglioramento gli indicatori sulla qualità del credito: le rettifiche nette su crediti, pari a 77,1 milioni (100,1 milioni a fine settembre 2014) confermano l’attenta gestione del portafoglio crediti della banca, che trova riscontro anche nella significativa riduzione del costo del credito, attestatosi allo 0,54% annualizzato (0,72% al termine dei nove mesi del 2014). Nel periodo è stato rilevante il sostegno all’economia del territorio e alle famiglie: gli impieghi alla clientela (19,1 miliardi) sono aumentati di oltre 2 punti percentuali; in crescita, a 2.250 milioni, le nuove erogazioni di finanziamenti a medio/lungo termine – di cui 504 milioni a favore dei privati (+ 24%) e circa 1.670 milioni a favore delle imprese (+ 78%). Di rilievo il risultato registrato dal comparto leasing, con nuovi contratti nel periodo per 230 milioni (+ 77% anno su anno). Il comparto dei crediti deteriorati netti a 1,57 miliardi (8,25% dei crediti netti verso la clientela) si mantiene nei limiti degli obiettivi prefissati per il periodo.

Il rapporto sofferenze nette/impieghi netti, attestatosi al 4,36%, risulta sostanzialmente in linea rispetto al dicembre 2014 (4,33%) mantenendosi al di sotto del dato di sistema (4,79%). Cresce la raccolta totale che, al netto del trasferimento di quote su dossier Ubi per circa 2,2 miliardi, ammonta a 47,3 miliardi. In particolare, la raccolta diretta da clientela, pari a 14,5 miliardi, raggiunge i 20 miliardi se si ricomprendono i prestiti obbligazionari emessi dalla Capogruppo e collocati dalla Banca (complessivamente 5,5 miliardi). La raccolta indiretta da clientela ordinaria (al netto dei PO Ubi collocati dalla Banca) è pari a 26,7 miliardi: nel periodo è proseguita la riqualificazione delle forme di investimento, determinando l’incremento del “risparmio gestito” – comprensivo di “polizze vita” – che raggiunge i 16 miliardi (+ 11,2%) e la flessione della raccolta amministrata (- 3,4%). Da inizio anno si sono registrati flussi netti di “gestito” per circa 1.190 milioni e nuove sottoscrizioni di “polizze vita” per oltre 680 milioni. A fine settembre il rapporto fra il capitale primario di classe 1 e il totale delle attività di rischio ponderate (Common Equity Tier 1) è del 18,38%, a conferma della forte patrimonializzazione e solidità della Banca.




Sabina Guzzanti: «Vi spiego perché siamo caduti così in basso»


Dopo i primi tre appuntamenti con la musica, il cartellone del Creberg Teatro Bergamo passa alle parole. E sono quelle del nuovo monologo satirico scritto e interpretato da Sabina Guzzanti, in programma venerdì 13 novembre.

“Come ne venimmo fuori (proiezioni dal futuro)” è il titolo del lavoro – per la regia di Giorgio Gallione, musiche di Paolo Silvestri, scenografia di Guido Fiorato e abito di scena di Minimal To – che arriva a sei anni di distanza dalla precedente produzione teatrale ed è il risultato delle ricerche sul sistema economico post-capitalista o neoliberista su cui l’autrice sta lavorando già da qualche anno. Questioni complesse ma che, trattate con la chiave della comicità – assicura la Guzzanti –, faranno divertire il pubblico, oltre che riflettere.

Il tempo in cui si svolge lo spettacolo è un futuro finalmente armonico e civile, dove il denaro è tornato ad essere semplicemente un mezzo e non più un fine. Un mondo fantastico, dove, perché non si perda la memoria e si scongiuri il pericolo di ripetersi, ogni anno si tiene un discorso celebrativo sulla fine del periodo storico, tristissimo e feroce, gli anni che vanno dal 1990 al 2041, che sarebbe il nostro tempo presente. Ad occuparsene sul palco è SabnaQƒ2.

Che cosa mette all’indice del periodo che stiamo vivendo e della nostra società?

«Nel futuro si è diffusa l’idea che gli uomini del nostro tristissimo periodo storico – conosciuto come il “secolo di merda” – fossero tutti imbecilli. In realtà la mia protagonista intende dimostrare che non eravamo imbecilli e che ci sono delle ragioni per cui gli abitanti di quel periodo caddero tanto in basso. Erano tutti vittime di una ideologia che non solo era riuscita a plasmare le idee politiche ma anche il modo di sentire, i desideri, la memoria, le relazioni».

Quali sono le figure emblematiche di questo secolo tanto buio?

«Attraverso personaggi e parodie – perché, come sempre ho fatto, anche questo è un testo di satira e credo che il pubblico potrà divertirsi abbastanza – porto degli esempi di quello che dal passato è arrivato agli abitanti del futuro. Atteggiamenti diffusi sui social, un certo modo di fare televisione, una strana idea di Europa e alcuni personaggi famosi dell’epoca, la Merkel, la Marcegaglia, Berlusconi e anche un certo Renzi o Ronzi che qualcuno dice diventò Presidente del Consiglio, anche se le immagini che ci sono arrivate di lui ci fanno escludere che possa aver occupato un ruolo così importante».

C’è anche qualche rimedio, visto che nel 2041 regnerà l’armonia?

«Nello spettacolo c’è uno stato d’animo di serenità, una dimensione liberatoria e un grande senso di ottimismo perché si svolge in un’epoca in cui le cose sono cambiate e guardare da lontano il nostro oggi ci mette in pace. Certo si spiega anche il rimedio che ci ha fatto uscire da questo terribile periodo ma bisogna necessariamente venire a teatro per scoprirlo».

Dopo Bergamo, “Come ne venimmo fuori” sarà a Varese (14 novembre) e a Brescia (17 novembre) proseguendo poi in tour nelle principali città italiane – da Napoli a Bari, a Palermo, Genova, Bologna, Roma, Torino – fino ad aprile 2016.

Sabina Guzzanti - Come ne venimmo fuori - foto Lucrezia Testa Iannilli

foto Lucrezia Testa Iannilli

 




Ecco quali sono le tasse più odiate dalle imprese

calcolatrice - fisco - tasseGli italiani pagano un centinaio di tasse, elenco che include addizionali, accise, imposte, sovraimposte, tributi, ritenute con tanto di sigle e siglette. A individuarle la Cgia di Mestre secondo cui nel 2015, ogni italiano pagherà mediamente 8 mila euro di imposte e tasse, importo che sale a quasi 12 mila euro considerando anche i contributi previdenziali. Le imposte che gravano di più sulle tasche dei cittadini italiani sono due e rappresentano più della metà del gettito (il 53,1%): si chiamano Irpef e Iva. La prima garantisce alle casse dello Stato un gettito che supera i 161 miliardi di euro (il 33,2% ovvero un terzo del gettito) mentre la seconda sfiora i 97 miliardi di euro (19,9% del gettito). Per Cgia a un sistema tributario frammentato, che vessa cittadini e imprese con le sue tante scadenze fiscali, si accompagna invece un gettito estremamente concentrato: le prime 10 imposte valgono 417,7 miliardi di euro e garantiscono l’86% del gettito tributario complessivo che nel 2014 si è attestato a 486,6 miliardi di euro. Per le aziende le imposte che pesano di più sono l’Ires (Imposta sul reddito delle società), che nel 2014 ha consentito all’erario di incassare 31 miliardi di euro e l’Irap (Imposta regionale sulle attività produttive) che ha assicurato 30,4 miliardi di gettito (di cui 20,9 miliardi in capo alle imprese e la rimanente parte alle Pubbliche Amministrazioni). «La serie storica – sottolinea Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi Cgia – indica che negli ultimi 20 anni le entrate tributarie pro-capite sono aumentate di 76 punti percentuali, molto di più rispetto all’inflazione che, invece, è salita del 47 per cento». Va anche tenuto conto che la pressione tributaria (imposte, tasse e tributi sul Pil) in Italia (30,1%) è la terza più elevata dell’Area Euro dopo Finlandia e Belgio, superiore di sette punti percentuali rispetto a quella tedesca (22,9%). Sulle 100 tasse degli italiani la Cgia ha stilato una mappa delle curiosità. Eccola: l’imposta quella più elevata è l’Irpef; quella che paghiamo tutti i giorni è l’Iva; la più pagata dalle società è l’Ires; la più odiata dalle imprese è l’Irap; la più singolare è quella applicata dalle Regioni sulle emissioni sonore degli aeromobili; la più lunga come dicitura è l’ imposta sostitutiva imprenditori e lavoratori autonomi regime di vantaggio e regime forfetario agevolato; la più corta (acronimi esclusi) è il bollo auto; l’ultima grande imposta introdotta è la Tasi; la più odiata dalle famiglie è l’l’Imu/Tasi; le più stravaganti sono le imposte sugli spiriti (distillazione alcolici), quelle sui gas incondensabili e sulle riserve matematiche di assicurazione (tasse su accantonamenti obbligatori delle assicurazioni). Ci sono poi la tassa annuale sulla numerazione e bollatura di libri e registri contabili e, infine, tutte le sovraimposte di confine applicate dalla dogana vale a dire quelle sugli spiriti, sui fiammiferi, sui sacchetti di plastica non biodegradabili.




Seriate, dopo la rapina alla farmacia un presidio per chiedere più sicurezza

La modalità con cui è stata compiuta l’ultima rapina – lo scorso venerdì, allo scoccare dell’ora di chiusura – ha acceso ulteriormente i riflettori sul problema sicurezza della farmacia comunale 1 di Seriate, in via Paderno. A mettere a segno il colpo è stato infatti un individuo con indosso la maschera di un cattivo dei cartoni animati, Skeletor della saga di He Man, che ha scaricato il contenuto di un estintore in polvere nei locali ed è fuggito con circa 300 euro presi dalla cassa, lasciando nel panico le due addette presenti al momento.

Al quattro episodio criminoso subito quest’anno, le dipendenti hanno denunciato di sentirsi impotenti di fronte alla criminalità, in balia degli eventi senza tutele da parte del Comune, anche per via della cattiva illuminazione dell’area, e senza la vigilanza delle forze dell’ordine. Per testimoniare la propria solidarietà al personale della farmacia (in tutto quattro persone) e chiedere una svolta sul tema della sicurezza il Pd di Seriate ha organizzato lunedì 9 novembre, alle ore 18, un presidio fuori dall’esercizio. «Con quella di venerdì scorso – spiega in una nota – è la quarta volta quest’anno che la farmacia di via Paderno subisce una rapina. Ma a Seriate sono vittime di rapina famiglie e imprese commerciali. L’amministrazione comunale, a guida leghista, che della sicurezza fa una bandiera, non riesce però a attuare una politica che produca risultati concreti. Con questo presidio, al quale hanno aderito altre organizzazioni, associazioni e cittadini, si vuole manifestare solidarietà alle farmaciste, chiedendo all’amministrazione di porre al centro la sicurezza, che non è evidentemente garantita da parole e proclami e neppure da sceriffi in pensione».

Sull’episodio il sindaco Cristian Vezzoli replica: «La Farmacia comunale 1 di via Paderno ha sempre erogato ottimi servizi e realizzato un fatturato in continua crescita. L’amministrazione comunale ha sempre tutelato le sue attività e lavoratrici. Anche adesso che la farmacia è stata messa in vendita, per potere realizzare servizi per la Città con l’incasso, il Comune ha posto la massima attenzione verso le dipendenti, che sono state reintegrate e non è stata aperta nessuna mobilità o fatto alcun licenziamento».

«Purtroppo – prosegue – è difficile prevedere l’arrivo di malintenzionati. La farmacia è sotto il controllo di un sistema di videosorveglianza, dei pattugliamenti degli agenti di Polizia locale, dei Carabinieri e della Polizia. Il problema risiede nella piccola criminalità che non si fa intimorire dalla presenza o meno della luce dei lampioni. Spiace constatare che le farmaciste affidino alla stampa locale le loro riflessioni in tema di sicurezza, su cui non era mai stata fatta alcuna lamentela. Sinora le loro uniche istanze erano per il posto di lavoro garantito. Inoltre quando una farmacia comunale viene rapinata le vittime non sono solo le dipendenti ma l’intera comunità per il danno che subisce per la violazione di propri servizi e strutture».

Quanto all’iniziativa pubblica, «è inutile organizzare un presidio politico», commenta. «Se il Pd di Seriate chiede sicurezza rivolga le sue richieste al premier, che continua a tagliare fondi alla polizia e non ha stanziato alcuna risorsa per la sicurezza e la legalità nelle città. Spiace constatare che il Pd locale non perde occasione per strumentalizzare fatti nel proprio interesse! Così facendo però si esasperano i problemi senza dare alcun reale contributo alla loro soluzione!»




Social Bond, Ubi Banca in campo per aiutare l’Airc

a-ubi.jpgUBI Banca ha annunciato l’emissione del prestito obbligazionario solidale (Social Bond) “UBI Comunità per AIRC”, per un ammontare complessivo di 20 milioni di euro, i cui proventi saranno in parte devoluti a titolo di liberalità all’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro. Il contributo verrà utilizzato da AIRC all’interno del programma riservato ai ricercatori con meno di 40 anni, denominato My First AIRC Grant (MFAG). I finanziamenti sono triennali, dedicati a ricercatori che non hanno mai avuto precedentemente un grant da AIRC e che in tal modo possono avviare la propria ricerca indipendente. I progetti sono selezionati  in base all’innovatività, alla fattibilità e all’impatto per la cura dei pazienti. Al completamento di ciascun progetto co-finanziato AIRC comunicherà gli obiettivi conseguiti, valutati sulla base di specifici indicatori anche bibliografici di natura qualitativa e quantitativa.

Il contributo complessivamente devoluto da UBI Banca ad AIRC, a titolo di liberalità, per sostenere questi progetti di ricerca, può arrivare fino a 100mila euro in caso di sottoscrizione dell’intero ammontare nominale delle obbligazioni oggetto dell’offerta. Le obbligazioni, emesse da UBI Banca, hanno taglio minimo di sottoscrizione pari a 1.000 euro, durata 3 anni, cedola semestrale, tasso annuo lordo pari al 0,90% e possono essere sottoscritte dal 9 novembre 2015 al 16 dicembre 2015, salvo chiusura anticipata o estensione del periodo di offerta. Le obbligazioni non sono destinate alla quotazione in nessun mercato regolamentato o sistema multilaterale di negoziazione: saranno negoziate dai collocatori in contropartita diretta nell’ambito del servizio di negoziazione per conto proprio. Il sostegno a “My First AIRC Grant” tramite  il Social Bond si affianca alle altre attività della partnership fra UBI Banca e AIRC per il periodo 2013-2015. In questi due anni UBI Banca ha potuto raccogliere oltre un milione e mezzo di Euro per AIRC, contribuendo al finanziamento della ricerca oncologica italiana. Dal 9 novembre inizia in tutte le filiali del Gruppo UBI Banca la raccolta fondi denominata “Cioccolatini della Ricerca”: con una donazione di 10 euro a favore di AIRC si potrà ricevere una confezione di cioccolatini. A supporto dell’attività di ricerca scientifica di AIRC anche la carta prepagata Enjoy Social Edition: per ogni carta attiva e per ogni transazione il Gruppo UBI Banca rinuncerà a parte dei propri ricavi devolvendoli a favore di AIRC. Particolarmente significativa è la possibilità per i clienti del Gruppo UBI Banca di utilizzare una funzionalità innovativa  dell’app UBI Pay, grazie alla quale effettuare una donazione sarà semplice come mandare un messaggio via smartphone, rendendo il proprio cellulare anche uno strumento per sostenere l’Associazione e i suoi ricercatori tramite la funzione di Invio Denaro Jiffy (tutti i dettagli sono disponibili sul sito www.ubibanca.com).