Borghi: “Serve un nuovo equilibrio tra dettaglio e grande distribuzione”

“La crisi colpisce anche il commercio. A maggior ragione occorre proseguire con politiche di sostegno del comparto, far leva sui Distretti del commercio e sfruttare l'opportunità offerta da Expo 2015”. E' quanto ha affermato l'assessore regionale al Commercio, Turismo e Servizi, Giovanni Bozzetti, agli Stati generali del commercio, lo scorso 4 febbraio a Palazzo Lombardia. “I numeri del mondo del commercio – ha detto l’assessore – rispecchiano la crisi economica dell'Italia. Il potere d'acquisto delle famiglie è diminuito del 4,4 per cento, ogni minuto chiude un'impresa e le ore di cassa integrazione, dal 2007 a oggi, sono passate da 572.000 a 4.230.000. Una Pubblica amministrazione ha il dovere di sostenere il settore del commercio, perché ogni luce rappresentata da un negozio illumina la città e ogni luce che si spegne rende il nostro territorio sempre più buio”.
In Regione Lombardia, secondo i dati dell'Osservatorio del commercio, ogni giorno negli ultimi sette anni, sono stati inaugurati 554 metri quadrati di nuovi supermercati e centri commerciali con conseguenze negative anche per il territorio. “Gli Stati generali – ha aggiunto l'assessore – che hanno registrato oltre 300 partecipanti ai tre focus, servono per fare il punto delle problematiche del mondo del commercio, per lasciare, in eredità, alla prossima legislatura regionale, il resoconto sul quale continuare a lavorare”.
In Lombardia, sono oltre 200mila (su un totale di 900mila) le
imprese del commercio che operano sul territorio, una forza che
vale, da sola, il 22 per cento dell'intero tessuto imprenditoriale regionale. Un settore, quindi, che merita di essere sostenuto. “E' allo studio – ha ricordato l'assessore – un Testo unico del commercio, che prenda in considerazione le nuove forme di vendita come gli outlet, i temporary shop, l'e-commerce e il franchising, per garantire tutela e trasparenza al consumatore”. In Regione, è forte la convinzione che anche l'Expo rappresenti una grande occasione non solo per la Lombardia, ma, in particolare, per il settore del commercio”
In occasione degli Stati Generali del Commercio la piccola distribuzione ha protestato contro il provvedimento di liberalizzazione delle aperture festive e contro la Grande Distribuzione. Il vicepresidente vicario di Confcommercio Lombardia e presidente di Federazione Moda Italia, Renato Borghi, ha affermato che “il contesto economico è di grande difficoltà. In Lombardia l'anno scorso hanno chiuso in media 15 punti vendita al giorno, per un saldo negativo di 5.500 negozi nel 2012. Tanti si improvvisano nel mondo del commercio per affrontare situazioni di crisi familiari o per perdita di lavoro, ma essere imprenditori in tempo di crisi è ancora più impegnativo e rischioso. Al futuro governo della Regione chiediamo una politica che tenga conto delle diversità e della pluralità delle forme di commercio che ci sono sul nostro territorio, favorendo uno sviluppo armonioso ed equilibrato tra la grande distribuzione ed il dettaglio”. “Riteniamo la tutela delle botteghe storiche e dei negozi di vicinato – ha aggiunto Borghi – un obiettivo da perseguire. La liberalizzazione degli orari imposta dal governo attraverso il Decreto Salva Italia ha determinato un contesto di assoluta mancanza di ogni regola, che di fatto favorisce la grande distribuzione, mentre i punti vendita tradizionali non sono in grado di reggere la concorrenza. la norma che si proponeva di facilitare la competizione ha un effetto contrario. Specialmente in Lombardia dove ai negozi era già garantita l'apertura tutto l'anno nei capoluoghi di provincia e in 200 comuni a vocazione turistica e circa 30 domeniche nel resto del territorio, assicurando un servizio efficiente ai consumatori e un ritmo che anche le piccole e medie imprese potevano reggere. L'eliminazione totale delle regole, invece, non tiene conto dell'esigenza di conciliare lavoro e famiglia. In Lombardia, negli ultimi sette anni ogni giorno è stato dato il via libera a 550 metri quadrati di nuovi supermercati, ipermercati, centri commerciali e outlet. Occorre un serio momento di riflessione per dar tempo alla nuova giunta di verificare se questo sistema normativo corrisponda davvero alle esigenze di uno sviluppo compatibile con l'ambiente e con il diritto di imprenditori e lavoratori ad avere una vita che concili tempo del lavoro e tempo delle relazioni sociali”. 




“Manifattura Macconi e Mazzoleni” 80 anni al servizio della moda

Da un mondo di sarti e di sartine, in cui si facevano i vestiti in casa, grazie alle sapienti mani di mamme, nonne e zie, o in piccoli laboratori, a una realtà in cui per rimanere sul mercato è necessario rendere un servizio di qualità, in cui contano la personalizzazione e la rapidità nelle consegne. Un cambiamento sociale, in mezzo al quale sta tutta la storia della Manifattura Macconi e Mazzoleni di Bergamo, cominciata nel 1930.
«Sono stati i nostri nonni, Carlo Mazzoleni e Luigi Macconi, soci e cognati, a partire con l’attività di vendita all’ingrosso di articoli di sartoria in via Sant’Orsola» –  raccontano i nipoti Nicola Mazzoleni e Luigi Macconi, la terza generazione a tenere il timone dell’ azienda di famiglia.
«All’epoca c’erano molti sarti e il lavoro si è sviluppato bene – continua Nicola -. Negli anni Sessanta, con la seconda generazione rappresentata dai nostri genitori, Giancarlo Mazzoleni e Giacomo Macconi, seguendo lo sviluppo economico di quel periodo, abbiamo trasformato la merceria in centro in un negozio al dettaglio e nell’altro immobile attiguo, già di nostra proprietà, abbiamo aperto il negozio di abbigliamento che si può ancora vedere oggi e che è gestito da mio fratello, Carlo Mazzoleni».
Nello stesso periodo, si amplia l’attività guardando anche all’ambito industriale, in una congiuntura economica in cui, nel nostro territorio, la manifattura tessile e il confezionamento erano forti: «Nasce così la sede di via Borgo Palazzo, che si occupa di produzione e distribuzione di foderame e accessori per l’industria della confezione».
Un settore in cui la crescita di questa attività avviene in una prima fase in modo quantitativo, perché «una volta c’erano pochi articoli standard – spiega Luigi – perciò tenevamo un maggior volume di magazzino e si faceva presto ad accontentare il cliente nelle sue richieste». In una seconda fase, invece, concentrata soprattutto negli ultimi anni, conta di più l’aspetto qualitativo del servizio e la rapidità: «Il tipo di prodotto che ci viene richiesto è più specialistico e personalizzato – precisa Nicola -, per cui anche nella produzione dobbiamo ingegnarci con i nostri terzisti in tempi piuttosto ridotti, massimo una settimana. E non basta, perché bisogna abbinare un servizio altrettanto efficiente che, in uno o due giorni, sia in grado di effettuare la consegna di quanto richiesto».
Il cliente, in sostanza, ordina ciò che serve e, se si tratta di cerniere o foderami, si avvia una produzione specifica, altrimenti ci si rivolge ai terzisti che producono bottoni o altri accessori per soddisfare la richiesta. Un meccanismo in cui produzione e commercializzazione si sono quasi omologate e hanno lo stesso peso, anche se il servizio, sempre più spesso, costituisce un valore aggiunto. Tra i clienti della Manifattura Macconi e Mazzoleni, le poche industrie di confezionamento rimaste – «con la crisi solo una su dieci ha resistito» – e, lungo la filiera del settore, anche grandi marchi della moda.
«Il cambiamento più forte – considera Nicola – si è visto negli ultimi dieci anni, sia per quanto riguarda la parte industriale sia per la vendita al dettaglio». Per la parte industriale, «il nostro impegno – aggiunge – è quello di sviluppare sempre di più il rapporto qualità e prezzo con il servizio, in modo che sia il migliore e il più competitivo. Perché l’investimento oggi è già il poter dire di essere in grado di continuare l’attività». La filosofia è quella di essere sempre pronti a cambiare, per tenere il passo coi cambiamenti, per questo «stiamo già lavorando per migliorare l’immagine del negozio di via Sant’Orsola – continua -, con una ristrutturazione che porti innovazione, pur mantenendo la serietà dell’esperienza e la qualità dei prodotti commercializzati. Vorremmo riorganizzare la gestione e l’allestimento del punto vendita, per adeguare l’offerta alla domanda attuale».
Il centro cittadino, d’altra parte, negli ultimi anni ha assistito a un rapido e continuo cambiamento delle attività commerciali insediate, con negozi che hanno aperto e dopo pochi mesi hanno anche già chiuso i battenti; e le realtà storiche sono ormai pochissime. «In un negozio bisogna seguire l’evoluzione del cliente nei suoi gusti – chiarisce Nicola Mazzoleni – e il cliente moderno cerca anche un ambiente nuovo, con un’immagine al passo coi tempi».
La speranza è che questi sforzi diano il loro frutto, pur consapevoli della crisi in atto e del ristagno dei consumi, e permettano la continuità di un’attività «bella, un lavoro che ci piace molto – concludono Nicola Mazzoleni e Luigi Macconi -, perché ci permette di avere tanti contatti. Vorremmo mantenere come punto di forza la serietà del servizio e la qualità data dall’esperienza, con l’aggiornamento dell’offerta. Per mantenere la nostra clientela abituale e avvicinare nuovi clienti».
Dal 2005, infine, si è investito anche nel campo immobiliare, per cercare di bilanciare le oscillazioni cicliche del settore tessile.




Bonicelli (Giovani Ascom): «Obiettivo collaborare con l’Università» 

nella foto: Luca Bonicelli (a sinistra) con il suo predecessore Ettore Coffetti

Sono la dimostrazione che un futuro per il commercio c’è. Che le nuove generazioni, spesso rappresentate senza prospettive e spazi d’azione, si sanno costruire un proprio percorso, personale e al passo con i tempi. I giovani imprenditori sono prima di tutto questo per il nuovo presidente del Gruppo Ascom Luca Bonicelli, eletto dall’Assemblea per il rinnovo delle cariche lo scorso 11 febbraio. Classe 1974 (compirà 39 anni a fine febbraio), titolare di una salumeria-gastronomia a Villa d’Ogna, fa parte del Direttivo dei Giovani sin dalla costituzione (avvenuta nel 2005), nel primo mandato come consigliere e nel secondo con la carica di vicepresidente. Sposato, con due figli, è anche consigliere della Banca di Credito Cooperativo Valle Seriana. Raccoglie il testimone di Ettore Coffetti, alla guida del Gruppo nei primi otto anni di vita.
«Credo che il Gruppo possa recitare un ruolo importante di testimonianza e guida per l’evoluzione del settore – afferma -. Ed è questo aspetto che mi piacerebbe sviluppare nel corso del quadriennio. Sino ad ora siamo stati visti più che altro come i promotori dell’evento solidale. Intendiamoci, è un’iniziativa che fa parte della nostra storia e che continueremo a proporre, ma ora, dopo la fase di avvio e consolidamento della nostra organizzazione per la quale tutti dobbiamo ringraziare Ettore Coffetti, si può pensare anche ad alzare l’asticella degli obiettivi». Che cosa ha in mente? «Vorrei fare in modo che il Gruppo si aprisse al territorio – spiega -, instaurare collaborazioni con l’Università, con le scuole, ma anche andare a “scovare” giovani imprenditori che con le loro esperienze possano essere di esempio. È un percorso in due direzioni. Da un lato incontrare chi ancora sta studiando e magari riuscire a trasmettere il senso di un lavoro come il nostro, offrire uno spunto in più su cosa fare del proprio futuro, dall’altro crescere noi stessi grazie al confronto con altre storie imprenditoriali o con momenti di approfondimento e formazione».
Bonicelli è un convinto sostenitore dell’importanza di incontrarsi e scambiare visioni. «Un valore aggiunto del Gruppo Giovani – rileva – è il fatto che è trasversale, abbraccia cioè diversi settori del terziario. Ciò permette di uscire dagli schemi con cui si è abituati a leggere la propria attività e di trovare, magari proprio adottando un diverso punto di vista, nuove idee e soluzioni. Questo fatto sarà ulteriormente potenziato – annuncia – con la creazione di un coordinamento tra i Gruppi Giovani delle diverse associazioni di categoria bergamasche, che condividiamo appieno e sul quale ci stiamo già attivando».
Nelle sue parole ci sono tutto l’entusiasmo e la positività – davvero rare di questi tempi – di chi ha abbracciato una professione nella quale crede. «I problemi ci sono, oggi più che mai, ma quello che ho imparato e vorrei riuscire a trasmettere – dice il nuovo presidente – è che fare l’imprenditore significa capire che l’attività avrà sempre alti e bassi, che occorre trovare la forza e la convinzione per rialzarsi mille volte. Nell’immaginario comune l’imprenditore è chi può permettersi una bella auto. Questa è la debolezza di fondo di chi pensa di mettersi in proprio, perché non considera invece che il vero patrimonio dell’impresa è l’impegno che vi si dedica ogni giorno, spesso lavorando dalle cinque del mattino a tarda sera. È questo il valore su cui può crescere la nuova imprenditorialità. Se ci sono queste premesse ci potrà sempre essere un domani per le attività commerciali e del terziario. Non significa per forza crescere di dimensione, un giovane potrà ampliare l’albergo di famiglia o decidere di tenere poche stanze ma di rinnovare le modalità dell’accoglienza, l’importante è capire dove ci sono le possibilità e ritagliarsi uno spazio per lavorare». Non riesce ad essere negativo nemmeno di fronte alla moria dei piccoli negozi, tanto nei piccoli centri (e lui è un bell’esempio di chi resiste) quanto in città: «Sono le piccole attività che sostengono il tessuto sociale, non potranno scomparire».
Ed è pronto a ribaltare la prospettiva anche in tema di passaggio generazionale. «Sembra che il fatto che i figli dei commercianti non vogliano proseguire l’attività dei genitori sia naturale, che le cose debbano sempre e per forza andare così – fa notare -. Tenendo come premessa la libertà di ciascuno di scegliere la propria strada, credo che si debba almeno riflettere su questo fenomeno. Magari è perché i padri hanno trasmesso solo l’idea del sacrificio o perché non si comprende che fare l’ingegnere è altrettanto impegnativo e faticoso. È davvero un peccato che l’esperienza e la tradizione vadano perse anche solo per dei pregiudizi, perché non c’è una visione chiara di ciò che significa fare l’imprenditore nei nostri settori». Proprio su questo argomento si concretizzerà una delle nuove iniziative del Gruppo, Bonicelli ha infatti intenzione di promuovere entro il primo anno di mandato un convegno sul passaggio generazionale.
«Un altro obiettivo, a breve termine, – ricorda – è il potenziamento dell’informazione e della comunicazione, sviluppando la nostra presenza on line con il sito ed i social network e dando risalto a tante notizie che magari sfuggono, come finanziamenti e iniziative rivolte espressamente ai giovani». «Proprio perché credo nel confronto – conclude -, mi piacerebbe che tutto il Gruppo lavorasse, che ogni componente del Consiglio si prendesse in carico qualche aspetto da sviluppare. Se devo essere sincero, la definizione di “presidente” è fin troppo altisonante per come intendo il mio ruolo. Naturalmente mi fa piacere aver ricevuto questo incarico, ma mi piacerebbe più essere il portavoce di tutte le idee ed i progetti che nasceranno all’interno del Gruppo».    

IL PROBLEMA
La criticità di fondo, secondo Bonicelli, di chi si affaccia nel mondo dell’impresa è la mancanza di quella che definisce “etica dell’imprenditorialità”. «Un imprenditore non è bravo per ciò che ha – dice -, ma per l’impegno che mette nelle cose che fa, per la capacità di portare avanti un progetto, la consapevolezza che non c’è mai una ricetta sicura e si può sbagliare 3mila volte».

IL PROGETTO
Un convegno sul passaggio generazionale entro il primo anno di mandato. «Il fatto che i figli non continuino l’attività dei genitori deve far riflettere. Magari è perché i padri hanno trasmesso solo l’idea del sacrificio o perché non si comprende che fare l’ingegnere è altrettanto impegnativo e faticoso. È davvero un peccato che l’esperienza e la tradizione vadano perse anche solo per dei pregiudizi».

LA SFIDA
Ovvero il sogno, il grande obiettivo. «I giovani sono la parte più vivace della società e devono dare lo slancio, mi piacerebbe che Giovani dell’Ascom potessero essere riconosciuti un giorno come una guida da parte di chi vuole aprire un’attività, un punto di riferimento e un aiuto».




Accesso al credito, «per le imprese sarà un 2013 ancora difficile»

Sarà ancora un anno di passione per le micro e piccole e medie imprese del commercio, del turismo e dei servizi. L’accesso al credito rappresenta per molte attività un percorso ad ostacoli e i nuovi parametri di “Basilea 3” destano più che una preoccupazione tra gli imprenditori. Oltre a lanciare l’invito all’impegno, in particolare in sede europea, per una revisione dei parametri, Ernesto Ghidinelli, responsabile del settore credito e incentivi di Confcommercio, evidenzia le problematiche del rapporto banca ed impresa, sottolineando il ruolo di “cuscinetto” e “ammortizzatore” rappresentato dai Confidi. In vista delle imminenti elezioni, Ghidinelli rinnova a chi governerà il Paese l’invito – avanzato da Rete Imprese Italia in occasione della Giornata di Mobilitazione – a supportare l’accesso al credito per ricostruire la liquidità delle imprese, a rafforzare la solidità patrimoniale dei Confidi, a sbloccare i crediti vantati nei confronti della pubblica amministrazione e a ridurre i costi a carico delle imprese in vista dell’obbligo di accettazione dei pagamenti con carte di credito che entrerà in vigore il prossimo gennaio.
I nuovi parametri di Basilea 3 come ridisegnano gli scenari del credito?
“Premesso che l’attività di regolamentazione del Comitato di Basilea, finalizzata al miglioramento delle condizioni bancarie di stabilità, ha rappresentato negli ultimi 25 anni un punto di riferimento costante nell’operatività dei sistemi bancari, in particolare nei Paesi occidentali, va detto che  la crisi finanziaria globale dell’estate 2007, propagatasi poi all’economia reale nel biennio successivo, ha indotto il Comitato di Basilea ad integrare ulteriormente la regolamentazione con lo scopo di aumentare i requisiti patrimoniali delle banche, definendo così i testi di nuovi accordi interbancari, che vanno sotto il nome di “Basilea3”.
Cos’è cambiato?
“Beh, siamo di fronte ad un quadro di proposte di regolamentazione, da realizzarsi con progressione annuale, che in linea di principio intendono favorire il rafforzamento della solidità patrimoniale delle banche, ma che si traducono, per quanto riguarda i loro effetti sull’economia reale, nell’attivazione di parametri più stringenti nella valutazione dei requisiti per la concessione di finanziamenti”.
Il risultato?
“La conseguenza è che cresce la convinzione da parte del mondo imprenditoriale che Basilea 3 da un lato fatichi a prevenirne le distorsioni del mercato finanziario, e dall’altro sottovaluti gli effetti delle decisioni adottate sull’economia reale ed in particolare sulle imprese di piccole e medie dimensioni. Il tutto in una fase economica di perdurante recessione in molti Paesi, quali l’Italia”.
Cosa si può fare?
“E’ necessario sviluppare, in particolare in sede europea, un’iniziativa per apportare correttivi ai parametri di Basilea 3 che non siano limitati, come finora avvenuto, ad una semplice correzione di alcuni coefficienti bancari di liquidità, ma che siano finalizzati a contrastare in modo significativo effetti restrittivi per l’accesso al credito delle micro e piccole e medie imprese”.
Quali sono le maggiori criticità nel rapporto tra banca ed impresa?
“Le micro e piccole e medie imprese hanno crescenti difficoltà di accesso al credito, che ben sappiamo rappresenta spesso l’unica fonte esterna di finanziamento. La debolezza della domanda interna e la difficoltà ad incassare i crediti generano la riduzione dei flussi di cassa, con problemi rilevanti per il finanziamento del capitale circolante e, dunque, dell’attività corrente delle imprese”.
Come dovrebbero agire le banche?
“In un contesto così critico è essenziale per le imprese poter disporre di partner bancari che siano davvero in grado di valutare l’excursus professionale di un imprenditore, le sue competenze in uno specifico settore di attività e la bontà di un progetto aziendale e che non si limitino, invece, a considerare in modo asettico poche informazioni quantitative sull’azienda. Se vi sono per certe imprese esigenze finanziarie legate al sostegno dell’innovazione, per molte altre si rilevano soprattutto esigenze legate al miglioramento delle condizioni di liquidità e solidità finanziaria aziendale”.
Quali sono gli strumenti a disposizione per ridurre i divari tra banche e imprese?
“Su questo tema risulta fondamentale un equilibrato rafforzamento del sistema dei Confidi, così come la valorizzazione del ruolo delle associazioni di categoria nel facilitare l’accesso al credito delle imprese di piccola e media dimensione. Soprattutto i Confidi, connessi strutturalmente con la rete associativa diffusa, sfruttando quindi la vicinanza con il loro territorio di riferimento, hanno avuto la capacità fin dall’avvio della crisi di fornire al sistema bancario quegli indispensabili elementi di conoscenza delle imprese che pongono il sistema bancario nella condizione di considerare il merito di credito con occhio maggiormente attento alla qualità dell’impresa, piuttosto che a soli parametri quantitativi. Ciò consente di veicolare mezzi finanziari fondamentali per il sostegno e lo sviluppo economico/sociale delle realtà territoriali di cui associazioni imprenditoriali e confidi fanno parte, svolgendo un insostituibile ruolo di ammortizzatori sociali nel rapporto tra banche ed imprese ed assumendo una quota rilevante del rischio economico connesso alle azioni di finanziamento del sistema delle imprese”.
Quali richieste avanzate a chi si candida a governare il Paese?
“La virulenza della crisi ed il perdurare delle condizioni recessive pongono il tema dell’accesso al credito delle micro, piccole e medie imprese e del loro rapporto con le banche tra i punti qualificanti rispetto alla determinazione dell’agenda politica. Oltre all’impegno, in particolare in sede europea, per una revisione dei parametri di Basilea 3, si possono individuare nell’Agenda recentemente presentata da Rete Imprese Italia altri interventi di natura prioritaria.
Quali?
“Urge sostenere l’accesso al credito per ricostituire la liquidità ed il capitale circolante delle imprese: di ciò bisogna tenere conto non solo nelle politiche finanziarie, ma anche nella definizione degli interventi pubblici di incentivazione alle micro, piccole e medie imprese sia a livello nazionale sia territoriale. L’invito è a sostenere quindi con maggiore convinzione l’intervento finalizzato a recuperare la solidità patrimoniale dei Confidi di matrice associativa, oltre che a rendere sempre più fruibile l’accesso agli interventi del Fondo centrale di garanzia per le PMI e ad assicurare la piena operatività agli accordi in materia di certificazione e smobilizzo dei crediti delle imprese nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni. Una questione particolarmente importante da affrontare è poi il supporto alla modernizzazione del sistema dei pagamenti del nostro Paese con la riduzione effettiva dei costi a carico delle imprese sul versante degli incassi tramite POS, una riduzione non più procrastinabile in vista dell’obbligo di accettazione dei pagamenti con carte di debito che scatterà dal prossimo gennaio 2014”.
Che 2013 dobbiamo aspettarci allora sul fronte del credito?
“In base alle rilevazioni sistematicamente effettuate dall’Osservatorio Credito Confcommercio, la percezione delle imprese del terziario riguardo all’andamento dell’economia italiana è ormai negativa dall’inizio del 2012 e le previsioni per il primo trimestre 2013 subiscono un ulteriore significativo peggioramento. Anche focalizzando l’attenzione sulle singole imprese, la situazione è vista in peggioramento e, in prospettiva, le valutazioni delle imprese intervistate non cambiano tenore. Si rileva che le imprese di minori dimensioni risultano essere in maggiore difficoltà e preoccupate per il futuro, a prescindere dal comparto di appartenenza”.
Si intravede qualche segnale di inversione di tendenza?
“I ricavi e l’occupazione, anche nell’ultimo trimestre 2012 risultano in diminuzione e non si rilevano segnale positivo per il prossimo trimestre. Le imprese di minori dimensioni tendono a mantenere stabili i loro organici, mentre il turismo risulta essere il settore che più degli altri registra riduzioni di personale. Per quanto concerne la situazione finanziaria delle imprese e le condizioni di accesso al credito, il numero delle imprese che sono riuscite a far fronte ai propri impegni finanziari nel quarto trimestre del 2012 si attesta sugli stessi valori del trimestre precedente, arrestando un declino che era iniziato nel 2011, ma con una prevalenza di casi di difficoltà, ancora una volta fra le imprese più piccole. Su base nazionale, invece, diminuisce rispetto al trimestre precedente il numero di imprese che si sono rivolte a un istituto di credito per chiedere un finanziamento (tra queste oltre il 79% risulta averlo fatto per soddisfare un fabbisogno di liquidità o ristrutturazione del debito e solo il 20,7% per investimenti). Anche nel quarto trimestre 2012 l’area dell’irrigidimento nell’accesso al credito ha superato quella della stabilità ed è difficile prevedere quando nel corso del 2013 questa tendenza potrà essere invertita”. 




Affari di Gola, in edicola e on line le news più golose

Cercate un’idea nuova per uscire a cena o per la pausa pranzo? Volete scoprire le nuove tendenze in fatto di gusto o riscoprire le tradizioni? Affari di Gola è la rivista che ogni mese risponde alle curiosità dei buongustai e aggiorna gli addetti ai lavori sulla realtà bergamasca e non solo. Il numero di febbraio è in edicola e on line da domani ed offre, come d’abitudine, servizi tutti da assaporare. La storia di copertina è quella di M1.lle, il locale aperto da poche settimane in viale Papa Giovanni, in città, guidato da Paola e Giampaolo Stefanetti, che si propone come nuovo baricentro di idee golose. Con le interviste ai fornitori si fa il quadro delle scelte di ristoratori e baristi per il nuovo anno in fatto di acquisti alla luce della crisi e se volete sapere che aria si respira ogni mattina tra i banchi del mercato ortofrutticolo alla Celadina risparmiandovi la levataccia basta andare qualche pagina più in là. Nel numero si parla anche di formazione e delle possibilità di lavoro che la ristorazione offre nell’intervista al direttore generale di Abf Luigi Roffia, di come valorizzare le erbe spontanee, delle piccole ma interessanti produzioni di salumi affumicati in Bergamasca e del boom del cibo da strada all’insegna della tradizione. I ristorante visitato è Cucina Cereda a Ponte San Pietro, mentre per il menù fisso di mezzogiorno la tappa è stata alla Trattoria Magetta di Cividate al Piano. Non mancano gli spunti di dibattito e il calendario degli appuntamenti. 




Sigarette elettroniche, si accende la polemica

Dal rituale del narghilè alla sigaretta elettronica, caricata con tanto di presa usb al pc. Il fumo “digitale” di e-cigarette è ormai una vera propria moda, cavalcata e confermata dall’apertura di nuovi negozi, per lo più in franchising, in città – da via Sant’Orsola a via Sant’Alessandro, a via Quarenghi e via Borgo Palazzo – e in provincia, dai centri storici ai centri commerciali. Le insegne si moltiplicano: Smooke, Ovale Store, Smart Smoke, Cloudia, Pro-Fumo, Flavour Art, Fumo digitale, Digi Svapo, Officine Svapo, Don’t Smoke, You Smoke, per citare le principali. Tra gli “svapatori”- così si chiamano i fumatori elettronici con nuvoletta al seguito, aromatizzata in un’infinità di gusti, dal brandy al caffè – non mancano vip e personaggi illustri, tra cui un insospettabile Sergio Marchionne; ci sono anche i convertiti, come Vasco Rossi che, dopo aver cantato per anni il suo amore per le Lucky Strike, ha battezzato con il suo nome, il Blasco, la sigaretta digitale preferita. La e-cig – a differenza delle vecchie bionde per cui ogni forma pubblicitaria e allusione rappresenta da anni un vero e proprio tabù – ha fatto perfino da sponsor al cine-panettone con Massimo Boldi, “Natale a quattro zampe”, e non è infrequente imbattersi in spot televisivi e trovare inserzioni su periodici e quotidiani.
In concomitanza con l’ascesa del nuovo business delle sigarette elettroniche, aumentano le polemiche sui potenziali effetti nocivi, sulla possibilità di pubblicizzare questa tipologia di prodotti, ma soprattutto sull’inquadramento normativo e quindi su chi le debba vendere e con quali restrizioni. L’Istituto Superiore di Sanità ha messo in guardia, al momento in via cautelare, sui rischi legati alle sigarette elettroniche, affermando che quelle contenenti nicotina «sollevano preoccupazioni per la salute pubblica».
In risposta, la neonata Associazione nazionale Fumo Elettronico – A.Na.F.E. ribadisce che le sigarette elettroniche non sono presentate, né vendute per smettere di fumare, ma come una valida alternativa al fumo di tabacco. E anzi pubblica sul sito che «l’e-cig offre ai fumatori notevoli potenzialità sociali e sanitarie per ridurre i rischi connessi al tabagismo e ai prodotti tossici nocivi normalmente presenti nel fumo di tabacco». La Federazione Italiana Tabaccai-Fit, aderente a Confcommercio, lancia la palla al governo, attendendo di conoscere in quale “categoria merceologica” vengano comprese le sigarette elettroniche: «Tutto verte sulla loro definizione. Se sono “prodotti succedanei del tabacco” il problema non si pone: sono prodotti simili al tabacco lavorato e, come tali, rientrano nella stessa regolamentazione. Da ciò ne deriva che saranno soggetti ad una tassazione specifica e potranno essere venduti solo attraverso le tabaccherie – chiarisce la Federazione -. Qualora invece fosse provato che non nuocciano alla salute anche solo perché non contengono nicotina, non sarebbero evidentemente considerate prodotti succedanei del tabacco e quindi la loro vendita sarebbe liberalizzata. In tal caso, le sigarette elettroniche potrebbero essere vendute anche in tabaccheria. Del resto, in questo caso non si potrebbe certo sostenere che si tratti di un prodotto destinato ad uso terapeutico e, come tale, riservato alle farmacie».
È incerta anche la possibilità di “svapare” in luoghi pubblici, aggirando la Legge Sirchia, anche se il Ministero non ha nascosto – come riportato dalla stampa – la propria preoccupazione che la sigaretta elettronica venga utilizzata per fumare in luoghi in cui è proibito, auspicando la messa al bando anche delle elettroniche che richiamano nella gestualità il consumo delle sigarette. L’opinione dei medici si divide tra chi ritiene che facciano male, allineandosi così al parere dell’Istituto Superiore di Sanità, e quelli che le ritengono innocue per la salute. Nel vuoto legislativo il fumo elettronico avanza con le sue spire “profumate” al bar, al ristorante, in ufficio e al cinema (non mancano “consigli” da parte della direzione di molte sale cinematografiche) e i più incalliti sostituiscono la sigaretta “analogica” con quella digitale al volante. Per porre un limite alla diffusione della moda tra i più giovani, il governo ha promulgato alla fine di settembre un’ordinanza – pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 248 del 23 ottobre – dall’eloquente titolo “Divieto di vendita ai minori di anni 16 di sigarette elettroniche con presenza di nicotina ”. In caso di violazione sarà applicata la sanzione amministrativa pecuniaria da 250 a 1.000 euro con eventuale aumento dell'importo sino a 2.000 euro e sospensione trimestrale della licenza di esercizio nelle ipotesi di reiterazione della condotta illecita.

Cosa accade all’estero

All’estero, la linea in molti Paesi è quella di regolamentare le sigarette elettroniche come dispositivi medici o prodotti farmaceutici. È così in Austria, Belgio, Germania, Portogallo e Svezia. In Norvegia sono vietate e anche la Cina – che pur le ha inventate nel 2003 – le ha messe al bando, mentre la Francia le autorizza solo a scopo terapeutico. Il Regno Unito le sta regolamentando, gli Stati Uniti sembrano orientati a sottoporle alle stesse prove di valutazione dei farmaci. A dicembre l’Unione Europea aveva proposto di obbligare i produttori a scrivere su ricariche e prodotti contenenti nicotina informazioni sui rischi per la salute, né più né meno di quanto previsto per le vecchie bionde. 

L'IDENTIKIT
Gli “svapatori” sono il 2% dei fumatori

L’Associazione Nazionale Fumo Elettronico A.Na.Fe. ha tracciato il profilo dello svapatore-tipo e fornito alcuni dati sul business delle e-cig: nel 2012 il comparto ha fatturato circa 100 milioni di euro (ma muove un giro d’affari in costante crescita per un valore di 250 milioni di euro) e ha dato lavoro a 1.500 persone. I fumatori di sigarette elettroniche sono 320mila in Italia, ma il target del fumo digitale punta a 2 milioni di svapatori. I fumatori elettronici sono il 2% dei fumatori in Italia, tra questi il 50% ha tentato almeno una volta di smettere e ricorre alla sigaretta elettronica come ultima spiaggia; il 30%invece è un fumatore abituale, mentre il 20% si concede una sigaretta solo occasionalmente. Tre su dieci fumano abitualmente l'e-cig da oltre un anno, tra i restanti ci sono quelli che hanno cominciato a fumarla per seguire la moda, il trend del momento o perché la trovano un gioco divertente. La sigaretta elettronica ha conquistato la fascia d’età degli over 45, con i “convertiti” che raggiungono il 20% dei consumatori abituali. Anche i fumatori tra i 30 e i 40 anni sono stati sedotti dalla sigaretta elettronica, per un totale del 36,8% di nuovi consumatori. La fascia d’età tra i 40 ed i 45 anni si ferma al 17,3%, mentre i più giovani non sembrano cercarla. I ragazzi tra i 16 e 20 anni sono l’1,8% dei consumatori, tra i 20 e i 25 sono l’11,2%, mentre quelli tra i 25 ed i 30 si fermano al 12,9%.




Bombassei: «La vera priorità è creare nuovi posti di lavoro»

Alberto Bombassei ha scelto di scendere in campo nell’agone politico a fianco del presidente del Consiglio uscente, Mario Monti, nella convinzione di “poter dare qualcosa, più che di ricevere”. Anche rispetto ad una “carriera politica” che, “alla mia età” – sostiene – “non mi interessa”. Dichiarazioni rese durante un incontro che si è svolto nei giorni scorsi nella sede dell’Associazione artigiani di Bergamo, in un confronto proposto dall’organizzazione Imprese e Territorio. A margine dell’evento, di cui parliamo nell’articolo accanto, il presidente della Brembo e capolista alla Camera per la lista “Scelta civica” guidata da Monti ha risposto a qualche nostra domanda.
Presidente Bombassei, qual ritiene che debba essere il primo problema che il nuovo governo dovrà affrontare e risolvere?
“Nei vari incontri che ho avuto in questi ultimi tempi, ho avuto la possibilità di ascoltare vari suggerimenti provenienti da più parti. Alcune di queste segnalazioni sono poi state inserite nelle misure che abbiamo chiamato della “prima fase”. Stiamo uscendo da un anno di gestione dell’emergenza e ora siamo già nella fase progettuale, cercando di costruire qualcosa per favorire gli investimenti, soprattutto per creare nuovi posti di lavoro, in particolare per i giovani. Sono argomenti che fanno parte delle misure annunciate qualche giorno fa da Monti e che sono poi quelle emerse dalle diverse segnalazioni provenienti dalle varie categorie. In questo modo, credo che si possa riuscire quanto meno ad iniziare a rimettere in moto la macchina”.
Quindi, prima di tutto occorre far ripartire il sistema economico?
“Certamente. Poi si potrà intervenire sul fronte delle riforme strutturali. Ma penso che ci vorrà del tempo, perché devono essere studiate, riviste e soprattutto condivise. Sono presenti nell’agenda Monti e su questi temi si giocherà la vera sfida dei cambiamenti, perché il proposito è di mutare radicalmente alcune situazioni, delle quali ci lamentiamo da tanti anni”.
Tra ripresa dell’economia, attenzione al lavoro e riforma dello Stato quale considera sia la tematica più importante?
“Ripeto, in questo momento la priorità è creare nuovi posti di lavoro, incentivare gli investimenti e cercare di rimettere in moto tutte le aziende in difficoltà, che in gran parte sono ferme e soffrono la crisi. E’ indispensabile ridare fiato, ossigeno a tutte queste centinaia e ormai migliaia di imprese medie, piccole e piccolissime. Ecco, credo che queste siano le cose prioritarie. Il resto poi viene di conseguenza. Nel momento in cui si innesca il meccanismo per favorire nuovi investimenti e si creano nuove possibilità, tutto il resto è molto più facile da seguire”.
Nella sua attività di imprenditore ha la possibilità di viaggiare molto anche all’estero. Alla luce di quello che ha potuto osservare in questi ultimi mesi, come vede collocato il nostro Paese sui mercati internazionali? Ci sono aree in ripresa che meritano particolare attenzione?
“Il mondo è talmente grande che è difficile dare un giudizio unico. L’Europa si trova in una situazione abbastanza statica, anche se si avverte qualche segnale di ripresa, magari non immediata, ma nel prossimo futuro. Poi ci sono altri Paesi che invece sono già ripartiti, come gli Stati Uniti, e i soliti Paesi emergenti, che possono rappresentare delle grandi opportunità per noi. Discorso che vale sia per le grandi imprese, sia per le piccole, perché la tipologia della produzione italiana ha diverse possibilità di successo, soprattutto nei Paesi emergenti. Le chance per collocare i nostri prodotti ci sono”.
E come vede la situazione di Bergamo?
“Innanzitutto direi che Bergamo è un territorio tutto sommato privilegiato. Pur avendo i medesimi problemi che affliggono le altre aree del Paese, qui la crisi non è così drammatica come in altre zone. Ad esempio, cito solo un dato: il tasso di disoccupazione, rispetto alla media italiana, è sensibilmente più basso. E anche per chi perde il posto di lavoro la ricollocazione è un’eventualità, non dico facile, ma abbastanza possibile. In altre aree del Paese non è così. Vi sono situazioni che sono, spesso, veramente drammatiche”.    




Lavoro, per sei giovani su dieci la laurea non basta

Scarsa propensione delle aziende ad assumere (26%), turnover bloccati (25%), poca esperienza maturata (16%). Queste le difficoltà maggiori individuate dai giovani italiani, laureati e ancora in corso di studio, nell’entrare nel mercato del lavoro, senza contare che per ben il 56% di loro neanche la laurea da sola basta a trovare un impiego. Nonostante questo, solo il 22% dei laureati e il 26% degli studenti lascerebbero l’Italia per andare all’estero. L’obiettivo futuro è la piena realizzazione professionale per un laureato su 4 (26%), mentre uno studente su 3 (31%) sogna di entrare a far parte di una grossa azienda o di un gruppo internazionale. Tuttavia ciò che manca, secondo i sondati, è un ponte che metta in comunicazione giovani e imprese (16%) e forme contrattuali che si trasformino in assunzione (16%). E alle aziende un ragazzo su 3 (30%) chiede più meritocrazia e integrazione nei progetti aziendali (15%).
E’ quanto emerge da una ricerca promossa dal Gruppo Sanpellegrino in occasione del Premio di Laurea Sanpellegrino Campus, attraverso un sondaggio online in collaborazione con Tesionline nel mese di dicembre 2012, su 11.011 tra laureati e studenti universitari italiani, per capire quali sono i problemi, i bisogni e le aspettative nei confronti del mondo del lavoro e delle aziende.
Quali difficoltà impediscono di trovare un posto di lavoro in Italia? Il 25% dei giovani imputa la mancanza di lavoro ai turnover bloccati, percezione che sale ancora di più tra gli universitari (31%). Il 36% dei laureati invece indica le difficoltà maggiori nei costi del lavoro troppo elevati (12%), poca attitudine al rischio e all’innovazione (12%) e al mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro (12%). E ben un giovane su 4 (26%) afferma che la difficoltà maggiore ad entrare nel mercato del lavoro e’ dovuta alla scarsa propensione delle aziende ad assumere, percezione che sale tra gli universitari (34%).
Lasceresti l’Italia per andare all’estero? Malgrado tutte queste difficoltà, solo il 24% dei giovani andrebbe all’estero. Il 16% dei laureati vorrebbe restare in Italia per affermarsi e trovare un futuro in quello che sentono come il loro Paese, mentre 2 studenti su 10 (20%) sono scettici e ritengono che all’estero la situazione non sia molto diversa da quella italiana. Senz’altro ciò che spingerebbe a trovare un’occupazione fuori dall’Italia e’ la sfiducia nelle possibilità di crescita del Paese, sensazione più alta nei giovani universitari (21%), e l’idea che al di fuori dei confini italiani ci siano criteri meritocratici più certi e trasparenza negli avanzamenti di carriera, convinzione più forte nei laureati (19%).
Quali sono i principali problemi che sorgono nel rapporto giovani e aziende? Per il 22% dei laureati la difficoltà maggiore è strutturale al sistema economico italiano che non riesce più ad assorbire forza lavoro con istruzione elevata. Gli studenti accusano di non vedersi riconosciuta l’esperienza maturata durante i frequenti cambi di lavoro (20%), lamentano l’inadeguatezza dei processi formativi (18%), la mancanza di un ponte che li metta in comunicazione con le imprese (18%) e l’esistenza di formule contrattuali che non sempre portano all’assunzione (18%). 
E a far incontrare aziende e giovani dovrebbero essere, secondo questi ultimi, principalmente le Istituzioni (31%), ovvero Stato ed enti locali. I laureati vorrebbero inoltre un’azione più incisiva delle Università (19%) mentre uno studente su 3 (29%) si aspetta di più dalle strutture di coordinamento tra domanda e offerta di lavoro. Ma a fare un passo verso i giovani, secondo il 14% di loro, dovrebbero essere inoltre le stesse aziende.
Ma in che modo le aziende possono sostenere le giovani risorse? Ben il 45% dei sondati vorrebbe che le aziende premiassero di più il merito, bisogno più forte negli studenti (39%), e facilitassero l’integrazione attiva delle risorse nei progetti aziendali, condizione invece molto sentita dai neo laureati (19%). Il 15% chiede alle aziende invece di attivare e investire in percorsi di formazione più incisivi, mentre il 14% crede che le imprese debbano dare una mano ai giovani soprattutto a livello di welfare aziendale, proprio per rispondere ad alcuni bisogni pratici che altrimenti impedirebbero alle risorse di lavorare attivamente.
Tuttavia ben 1 laureato su 3 (33%) e il 37% degli studenti non riescono a vedersi da qui a 10 anni, soprattutto perché il contesto attuale impedisce di fare programmi a lungo termine. Solo il 9% dei laureati e il 6% degli universitari si vedono pienamente realizzati, anche se prevale un senso di sfiducia: il15% dei sondati pensa che fra dieci anni non sarà in Italia; il 9% immagina che si troverà a fare un lavoro diverso per il quale ha studiato e investito tempo e denaro; un altro 9% dichiara che il futuro ridimensionerà sogni e ambizioni di oggi; infine il 7% pensa che non riuscirà a costruire una famiglia per via della precarietà lavorativa.




Expo, sul turismo tutti in cerca di una strategia unitaria 

A poco più di due anni dall’inaugurazione dell’Esposizione Universale a Milano non è stata ancora messa a punto una strategia unitaria per la promozione del territorio.  I primi Stati Generali del marketing territoriale lanciati dalla Regione martedì scorso hanno fornito, attraverso gli interventi di quaranta importanti relatori ed esperti, alcuni strumenti per rendere attrattivo il territorio ed accogliere i potenziali 20 milioni di visitatori attesi. Sul fronte del turismo non sono mancati spunti interessanti per virare con decisione verso profili di visitatori ben definiti e spesso ignorati. “La Lombardia è una destinazione di primo piano, che riveste la sedicesima posizione su 290 destinazioni europee prese in esame – sottolinea Manuela De Carlo, direttrice del Master in Tourism Management dell’Università Iulm – ma ci sono ampi margini per migliorare l’attrattività, nonostante i grandi investimenti effettuati, dalla creazione dei sistemi turistici all’orientamento ai territori e al mercato. L’analisi condotta su 144 portali turistici nazionali e stranieri mostra come le destinazioni migliori siano quelle che segmentano in modo innovativo il mercato, utilizzano i social media, integrano il portale con il servizio di prenotazione e acquisto di servizi o pacchetti turistici”.  Il turismo del futuro, come lo shopping, è sempre più esperienziale: “Bisogna promuovere le eccellenze del territorio attraverso temi e linee di prodotto, vocazioni e passioni come ad esempio “Fashion Experience”, “Food Culture”, “Great music of Lombardy”,  lavorando quindi su obiettivi specifici e segmentando il mercato turistico attraverso stili ed esperienze” continua De Carlo.  La definizione delle strategie rappresenta un aspetto fondamentale per incrementare le vendite on-line e le prenotazioni, ma bisogna ancora lavorare molto su questo fronte: “Nonostante il grande richiamo di design e moda, è ancora debole la segnalazione di attrattive collegate, dai negozi alle offerte a tema – continua De Carlo -. Bisogna lavorare ancora molto su posizionamento e sviluppo dell’offerta, sulla comunicazione e sulla governance, raccogliendo tutte le esperienze del territorio in un unico portale . E’ bene inoltre iniziare a lavorare non solo sui social media più diffusi, ma anche sulle piattaforme asiatiche, come del resto stanno facendo gli altri Paesi”. Claudia Sorlini, vice presidente del Touring Club, sottolinea la riscoperta di un turismo “lento” che predilige itinerari poco battuti: “Il viaggio è un atto paritetico tra viaggiatore ed abitante, sempre più all’insegna dell’esperienza e della conoscenza ed arricchimento personale. Fare marketing del territorio non è difficile nel nostro Paese ed in una regione ricca di arte, storia e natura come la Lombardia, ma bisogna lavorare su temi e percorsi trasformandoli in destinazioni. In occasione dell’inaugurazione dell’anno italiano negli Stati Uniti, a Washington, abbiamo ideato 36 percorsi per l’Italia meno conosciuta, con tre proposte al mese per puntare i riflettori sull’Italia dei territori”. 
Il turismo sportivo
Secondo i dati dell'Osservatorio nazionale del turismo, presentati alla Borsa del Turismo Sportivo di Montecatini, nel 2011 si sono registrati oltre 10 milioni di viaggi e più di 60 milioni di pernottamenti in strutture ricettive italiane legate allo sport, con un giro d'affari di 6,3 miliardi di euro. Un italiano su 4 sceglie la meta delle proprie vacanze anche in virtù dell'offerta sportiva. Tra i 27 milioni di italiani che praticano sport, 20 milioni sono amatori, 6,5 milioni dilettanti ed oltre 10 mila professionisti.
“Il turismo sportivo rappresenta un’importante risorsa da potenziare, anche perché si tratta di un turismo non stagionale, che può rappresentare un grande volano per la nostra regione, basti solo pensare al turismo legato alla montagna, che rappresenta un vero e proprio punto di forza per il territorio – sottolinea Filippo Grassia, assessore allo Sport e Giovani Regione Lombardia. “In chiave Expo dovremmo riuscire a portare una tappa del Giro d’Italia, replicando il successo dell’edizione dell’esposizione universale del 1909”. Per dare un’idea dell’impatto che lo sport, calcio in testa, ha sul territorio basta del resto pensare ad una domenica senza pallone: “Quando non ci sono le partite si perdono clienti nei ristoranti e nei bar, pedaggi autostradali, parcheggi e quant’altro”. Sul fronte della sostenibilità e sul versante “green” del turismo, in chiave Expo gli itinerari e appuntamenti su due ruote rappresentano un asset fondamentale: “Con una politica e degli itinerari adeguati si può cercare di intercettare 2 milioni di bikers, considerando che la sola Germania ne conta 3 milioni”. Un turismo di nicchia come quello legato al golf rappresenta, invece, un vero e proprio catalizzatore tra sport e cultura: “Il turismo golfistico è diverso da tutte le altre forme di visita, a partire dalla permanenza, in media di una settimana e di una disponibilità di spesa pari a due-tre volte quella del turista tipo – ha sottolineato Carlo Borghi, presidente del comitato regionale lombardo Fig -. Nel 2012 il golf ha mosso 25 milioni di turisti per un giro d’affari che supera i 40 miliardi di euro. Nel mondo i golfisti sono cresciuti e sono arrivati ad essere più di 70 i milioni di praticanti”. In Lombardia è attesa il prossimo anno la  più importante manifestazione fieristica, l’Igtm – tra le fiere in crescita a livello mondiale – che porterà a Como 1400 operatori e tour operator specializzati. L’evento rappresenta un’occasione per presentare una regione ancora poco conosciuta dai golfisti”.  Eppure ai nostri “green” non manca nulla: “In Lombardia – continua Borghi – abbiamo 39 percorsi golfistici e 29 per i neofiti, senza contare i club che hanno una storia alle spalle di 110 anni. La nostra è la patria di chi ama questo sport in Italia, visto che del 105 mila giocatori italiani, 28 mila sono lombardi”.
Le terme
“La Lombardia conta 13 terme e a livello nazionale-180 le località termali italiane – è seconda solo alla Campania. Oggi le terme sono un vero e proprio “hub” territoriale e rappresentano un punto di partenza per visitare e conoscere il territorio circostante. Le terme non sono più luoghi in cui si passano le acque, ma delle mete e dei passepartout per i piccoli comuni dove sono maggiormente presenti per la visita alle vicine città d’arte al di fuori dei tour più classici e per la scoperta della nostra ricchezza oltre che culturale enogastronomica. Se l’Expo mira a far diventare la Lombardia capitale dell’acqua, non dobbiamo dimenticarci di valorizzare le nostre acque termali e ricordare che hanno proprietà che nessuna spa, nonostante la loro offerta sia ormai qualitativamente elevata, potrà mai vantare”.  Il popolo delle terme è cambiato profondamente negli ultimi anni ed è bene attrezzarsi per accogliere al meglio il nuovo turista: “Negli ultimi 10-15 anni grazie anche all’attività scientifica,  le terme hanno avuto, dopo la crisi degli anni Novanta, un notevole impulso e la ricerca di benessere psico-fisico crescente  ne fa ormai una meta di un turismo trasversale. Una vera e propria rivoluzione se si pensa che fino agli anni Sessanta le terme erano appannaggio di un pubblico d’ èlite, negli anni Settanta erano mete di un turismo sociale ed oggi attraggono sempre più giovani”. 
I concerti
Il bilancio del 2011 di Assomusica rende l’idea del fenomeno del turismo dei concerti: 181 milioni di euro di ricavi dalla vendita dei biglietti, 5,7 milioni di spettatori e 3284 eventi a pagamento. Un business  generato per quasi la metà dalla Lombardia: “Con 63 milioni di euro e 1345 eventi a pagamento la regione ha una capacità di attrattività per la musica senza precedenti” sottolinea Marco Boraso, direttore marketing Live Nation Italia. Ma l’indotto di un evento di portata internazionale sul territorio supera di cinque volte gli incassi delle biglietterie: “La stima della ricaduta sul territorio a fronte di 2,5 milioni di euro di ricavi dalla vendita  di biglietti è compresa tra i 7,3 e gli 8,3 milioni di euro. Ma la cifra sale se si considera la somma della ricaduta diretta ed indiretta sul territorio tra i 9,4 e gli 11,2 milioni di euro, tetto che si supera ulteriormente se si considera la ricaduta positiva del territorio generata attraverso i social media. Le foto e i video dei concerti pubblicati dai fan su You Tube, Facebook e Twitter ed i “tag” con il nome dell’artista e del luogo dell’evento amplificano la promozione del territorio, al punto che si stima un indotto compreso tra gli 11,2 e i 13,4 milioni di euro”. 




Perché le corsie preferenziali non possono salvarci dal traffico

Il discorso delle corsie riservate è viziato alla base da opposti preconcetti ideologici.
I problemi del traffico sono causati da un eccesso di mobilità individuale conseguente a sua volta, in buona misura, a un’inadeguatezza del trasporto pubblico.
La soluzione, l’unica possibile, non può che consistere nel far sì che i trasporti pubblici siano adeguati alle effettive esigenze di mobilità dei cittadini e siano appetibili, tanto da poter essere preferibili all’automobile.
A tale fine, le corsie preferenziali, permettendo velocità commerciali maggiori rispetto al restante traffico, sono molto importanti, ma non bastano; se esse infatti sono percorse da semplici autobus con capienze massime dell’ordine delle 100 persone, con frequenze di circa 15 minuti per linea, privi praticamente di asservimento semaforico e soggetti comunque, in molti punti nevralgici del percorso, agli ingorghi e agli incolonnamenti prodotti dal traffico individuale (facilmente aggravati proprio dalle stesse corsie riservate), si favoriranno, forse, gli attuali utenti del trasporto pubblico (tali sia per necessità sia per scelta virtuosa, ma comunque relativamente pochi) e si avrà un vantaggio per il bilancio dell’Atb con il risparmio di qualche autobus, ma non permetteranno certo di trasferire al trasporto pubblico quote di mobilità tali da ridurre significativamente il traffico individuale, né consentiranno di ridurre, per un numero significativo di persone, la necessità di usare l’auto, anche perché un servizio siffatto, espletato solo lungo gli itinerari principali, lascia scoperti diversi collegamenti minori che, insieme, alimentano una quota non indifferente della domanda complessiva di trasporto. Pertanto le corsie riservate, così concepite, effettivamente, non solo non alleviano il problema della mobilità urbana, ma rischiano anche di aggravarlo.
Per trasferire grosse quote di mobilità dai mezzi individuali al trasporto pubblico occorre invece un sistema strutturato di trasporto pubblico prevedente, lungo gli itinerari principali, vetture della capacità, quanto meno, di 200/250 persone con frequenze, per ogni linea, dell’ordine dei 10 minuti e con marcia fortemente agevolata (assoluta precedenza agli incroci, asservimento semaforico, sedi riservate, ecc.) che colleghino i popolosi centri dell’hinterland con le zone centrali pedonalizzate o a traffico limitato, integrate con un sistema di linee su gomma attestate alle fermate fuori dal centro, a servizio capillare di tutti i quartieri (linee brevi, fuori dalle strade trafficate). Ai capolinea esterni delle linee di forza dovrebbero poi attestarsi altre linee su gomma dirette alle varie località della provincia e dovrebbero esservi adeguati parcheggi di corrispondenza con tariffa integrata.
Tale sistema dovrebbe però anche essere supportato da una piena collaborazione degli Organi responsabili della pianificazione del territorio e di tutti gli Enti che decidono la dislocazione di insediamenti e servizi generanti mobilità; in altre parole tutto quanto genera notevoli flussi di traffico (un esempio eclatante è dato dal nuovo ospedale) dovrebbe essere collocato lungo gli assi di forza del trasporto pubblico. Chiunque presieda o controlli attività comportanti movimenti di persone nel territorio dovrebbe CESSARE di presupporre o pretendere che operatori, clienti o utenti si muovano con un mezzo proprio! Solo così si possono ridurre al massimo i casi in cui è necessario un mezzo individuale.
Tutte le realtà urbane europee che sono riuscite ad affrontare efficacemente il problema del traffico e, nel contempo, ad avere i centri storici più vivibili si sono mosse nella citata direzione. Le città svizzere, austriache e tedesche che non hanno mai rinunciato del tutto al sistema tranviario si sono trovate avvantaggiate in quanto hanno dovuto solo potenziare ed espandere lo stesso. Le città francesi che, a suo tempo (dagli anni 30 agli anni 50), hanno compiuto l’errore fatale di distruggere le tranvie, si sono messe di buona volontà investendo grandi quantità di risorse per ricostruirle; lo stesso hanno fatto molte città inglesi, spagnole, scandinave e statunitensi.
Noi però ci troviamo ora in una drammatica crisi economica per cui è impensabile, al momento attuale, por mano alla costruzione di un sistema tranviario che, comunque potrebbe essere realizzato in sufficiente completezza in non meno di 15 anni! Quindi non c’è niente da fare, al di fuori di qualche piccolo palliativo, che potrà forse alleviare qualche criticità specifica, ma che non potrà comunque dare risultati sostanzialmente significativi.
Possiamo solo prendercela con gli amministratori di sessant’anni fa che decisero di smantellare la rete tranviaria (ma, d’altra parte, fu questo un errore tipico dell’epoca: pressoché ovunque si credeva che il tram fosse un mezzo superato!); possiamo, più realisticamente, prendercela con gli amministratori di una decina di anni fa (quando ancora potevano esservi risorse per realizzare qualcosa), che di fatto affossarono ogni progetto di creare un sistema tranviario cittadino e di far sì che la Bergamo–Albino non rimanesse solo un segmento, un segmento d’eccellenza, ma pur sempre un segmento, anche per il timore che il tram togliesse spazio alle auto o costringesse gli automobilisti a un più rigoroso rispetto delle regole.
Ormai è troppo tardi: quello che non è stato fatto non è stato fatto; conviene rassegnarci al caos da Terzo Mondo e all’inquinamento risparmiandoci la commedia di una diatriba tra due fazioni: una che crede che si possano affrontare i problemi del traffico, rendendo nel contempo vivibile la città, lasciando pressoché intatto il ruolo dell’automobile come mezzo di trasporto base per la popolazione attiva, dimenticandosi della Legge d’impenetrabilità dei corpi, spalleggiata da commercianti che dicono: «La gente ormai viaggia solo in auto, ragion per cui, se si vuole che la città viva, bisogna accettare che le auto arrivino dappertutto», l’altra che crede che si possa avere una conversione modale a favore del trasporto pubblico solo tracciando qualche corsia riservata e mettendo in linea dei “minibus”!

Maurizio Alfisi
Verdellino