Val del Fich, i formaggi da premio della “Giamburrasca” dei caprini

Federico Cornolti
Federica Cornolti

Nessuna emozione quando le telecamere di Linea Verde l’hanno ripresa tra le stalle e i prati dell’azienda, durante la mungitura e la preparazione delle sue “creature” a chilometro zero, ricotte e formaggelle, con tanto di consegna a domicilio nei paesi limitrofi, mentre da quest’anno ha avviato anche una fattoria didattica per i bambini.

Ma è sui formaggi che si concentra la critica, dopo il riconoscimento prestigioso già incassato da Federica nel concorso milanese Onaf 2016 “All’Ombra della Madonnina» per la doppietta stracchinello-tronchetto. Da quel momento la sua vita non è stata più la stessa e nel giro di un paio d’anni è diventata una delle allevatrici più “mediatiche” del Bel Paese, dimostrando di cavarsela assai bene non solo nella caseificazione e nell’allevamento, ma anche davanti a microfoni e telecamere. Lei però è fatta così, spontanea come il suo sorriso, e ama ricordare come tutto nacque poco più di tre anni fa, nell’anno in cui a Milano frequentava la facoltà di Veterinaria all’Università, con indirizzo “Allevamento e Benessere Animale”.

Federica racconta di aver deciso di fare il tirocinio in un allevamento di capre «poiché è l’animale da reddito che mi ha sempre affascinato sin da bambina». Così iniziò a frequentare l’Azienda agricola Gamba, dove Battista Leidi, il vero guru italiano dei caprini, insegnandole l’arte della caseificazione, non le risparmiò ruvidezze e rilievi. «I primi giorni – ricorda – furono difficili soprattutto perché Battista era molto rigido nei suoi insegnamenti, ma col passare dei giorni mi sono sempre più legata a lui e il tirocinio è durato più del dovuto. Cercavo di unire la teoria e gli studi universitari con la tecnica e la tradizione che mi trasmetteva Battista: lì ho capito che quello era il lavoro che avrei voluto fare e con l’appoggio dei miei genitori ho deciso di buttarmi in questa avventura, coronando il mio sogno: lavorare con gli animali».

Federica Cornolti

L’attività parte con 15 capi in lattazione stabulati in una piccola struttura provvisoria: Federica inizia a lavorare il primo latte in un piccolo laboratorio mentre aspetta i premessi per la struttura finale. «Ad oggi possiedo 40 capi in lattazione e lavoro un buon quantitativo di latte che viene completamente trasformato per la produzione di formaggi freschi, formaggelle, ricotte e yogurt». La soddisfazione più grande sono i complimenti dei clienti e della critica, specie in occasione del concorso milanese all’Ombra della Madonnina.

caprini - azienda agricola Val del Fich (2)«La Giuria mi ha assegnato l’eccellenza per il tronchetto crosta fiorita: è stata una sorpresa perché non avrei mai pensato, visto la mia poca esperienza, di raggiungere un premio del genere». L’entusiasmo è la sua arma in più, quella che le fa reggere la giornata anche a ritmi infernali: «Mungo le capre due volte al giorno, do da mangiare agli altri animali e poi parto con la caseificazione. Adesso mi sto attrezzando per organizzare i campi estivi con i ragazzi. È un lavoro sette giorni su sette. Anche se cerco di godermi al massimo i momenti di relax. A Pasquetta sono andata in montagna, ma prima di partire e una volta tornata, mi aspettavano le capre da mungere: non mi pesa, è la mia vita».

Con i clienti ha un rapporto speciale, in tanti le danno del tu, c’è empatia quasi immediata: «Mi piace il rapporto diretto con la gente: ascolto tutti, mi vanno bene i complimenti, ma ascolto anche i consigli e faccio tesoro anche delle critiche quando arrivano. Il consumatore cerca disperatamente la genuinità: preferisce venire al mio spaccio anziché andare al supermercato, ma in questo modo mi sento anche investita di tante responsabilità, perché devo dar loro i messaggi giusti, per una corretta alimentazione o uno stile di vita sano». E tanto per non farsi mancare niente, Federica ha varato anche una linea di confetture: «Le produco insieme a mia mamma e mia nonna. Diciamo che è un’idea intergenerazionale: è bello fare qualcosa insieme alla propria famiglia, e sono pure buone!».

Federica Cornolti - azienda agricola val del fich (2)Ma tornando alla sua antica vocazione, nonostante sia stata molto tempo, recentemente, davanti a taccuini e telecamere con disinvoltura disarmante, Federica confessa che la sua più grande emozione resta quella che le capita abbastanza spesso, ormai, in stalla: «È quando vedo nascere un capretto: a quel punto tutta la fatica scivola via e resta soltanto una grande gioia».

Azienda Agricola “Val del Fich”

via Cornella
Ponteranica
346 1045697



Alto Sebino, passeggiata gastronomica con i sapori della collina

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Tutti in marcia domenica 21 maggio a Solto Collina per l’undicesima edizione di “Profumi di Collina”, la camminata enogastronomica tra le località dell’Alto Sebino, una bella passeggiata con panorami naturali in cui la fatica di ogni tappa sarà ricompensata dalla degustazione di piatti locali.

Si parte alle ore 9.30 dall’oratorio San Giovanni Bosco di Solto Collina. La prima tappa è a Esmate, con la degustazione, dalle 10, di tisane dell’azienda agricola “L’asino del lago” di Solto Collina e del miele dell’Apicoltura Morandini di Fonteno. Seconda sosta, dalle 11, alla chiesetta di San Defendente per l’antipasto a base di salame, coppa e pancetta di produzione locale con bocconcino del lago. Il primo piatto, Garganelli di Solforino, sarà servito all’oratorio di Riva di Solto, a partire da mezzogiorno, mentre un’ora dopo, al campo sportivo di Fonteno si troverà il secondo: lombatina di maiale al forno con patate sabbiate o formaggella e stracchino del Monte Bronzone. È qui che sarà possibile per i bambini provare le cavalcate sugli asini proposte dell’azienda agricola “L’asino del lago”. Per la frutta e per il dolce di Solforino si torna al punto di partenza, dove i primi arrivi sono previsti dalle 14.30. Piatti e prodotti saranno accompagnati da acqua e vini. Per chi non ce la fa a coprire tutto il percorso a piedi, sono organizzate due navette, tra la terza e la quarta tappa e tra la quarta e l’ultima. Sul percorso si troveranno informazioni e promoter del territorio.

Il costo di partecipazione è di 20 euro per gli adulti, 10 per i ragazzi da 12 a 14 anni, 5 euro per i bambini da 6 a 11 anni. Le prenotazioni si ricevono fino a venerdì 19 maggio. La manifestazione è organizzata dalla Pro Loco La Collina, info www.prolocolacollina.it – 348 0811402




Il lecca lecca? Fu inventato a Bergamo

La fioritura di denominazioni e di presìdi a designare le eccellenze gastronomiche del nostro Paese non è certo esclusivo vezzo dei nostri giorni. Risale infatti a cinque secoli fa la compilazione da parte del poligrafo milanese Ortensio Lando – eccentricamente temerario al punto di imbarcarsi, tra le cruente reprimende della controriforma, nella prima traduzione in Italiano delle opere di Martin Lutero – del più antico tra i repertori delle specialità della Penisola. Poco più di cent’anni dopo toccava all’incisore bolognese Giuseppe Maria Mitelli redigere un memorabile censimento grafico delle principali prerogative di molte città d’Italia circa le robe mangiative, racchiuso nella stampa di una singolare riffa seicentesca intitolata gioco di cucagna.

Non stupisce che una così puntuale rassegna figurativa di leccornie risalga al secolo che, nell’arco dell’ultimo millennio, contende all’undicesimo la poco invidiabile palma dei picchi storici di indigenza e di inedia. Più del pugno di quatrini che il succinto regolamento della scommessa metteva in palio, non v’è dubbio che ai giocatori dell’epoca stesse a cuore l’onirico approdo alle maggiormente ambite tra le caselle del percorso ludo-gastronomico. Del resto, non è mistero che il mito del paese del bengodi abbia attinto i vertici di popolarità proprio allorché le generali condizioni di vita si adagiavano sui livelli più miserevoli.

Il seicentesco gioco della cuccagna
Il seicentesco gioco della cuccagna

L’opera d’arte, destinata in origine a far da tappeto al lancio dei dadi sui tavolacci di qualche taverna piuttosto che da decoro alle pareti dei palazzi patrizi, contiene una gran copia di rivelazioni assai preziose per gli storici dell’alimentazione. In essa si provvede ben più di un’asettica elencazione di prelibatezze – espressione per giunta di un’Italia monca che vedeva tracciato a Napoli il proprio limitare meridionale. Ogni specialità vi è difatti ritratta con apprezzabile grado di dettaglio, esibendo con precisione la morfologia da cui era contraddistinta quattro secoli or sono.

Alcune delle leccornie sono icone tutt’oggi vitali ed immediatamente distinguibili dei patrimoni alimentari regionali: è il caso dei cantuchi (cantucci) di Pisa e della rosolia – attualmente chiamata ratafià – sabauda; delle persiche (pesche) di Verona e del turone cremonese, della busecha meneghina e delle spongate di Reggio Emilia. Non meno attuale è il lustro degli insaccati parmensi e modenesi, nonché della mortadella di Bologna, la cui centralità nella tavola da gioco trova presumibilmente ragione nei natali petroniani dell’incisore.

Altre tra le ghiottonerie illustrate dal Mitelli sono passate attraverso secolari processi evolutivi, che ne hanno più o meno profondamente modificato denominazione e caratteristiche. Delle gatafure genovesi – antesignane delle celebri torte liguri di verdura – scriveva nel cinquecento il già menzionato Ortensio Lando, chiosando che così erano denominate perché le gatte volentieri le furano (rubano) e vaghe ne sono. Non è dato di sapere quale i felini dell’era moderna prediligessero tra la versione alle biete e quella alla cipolla, di cui Bartolomeo Scappi forniva le ricette nella coeva Opera. Nelle provature romane non è altresì arduo individuare le progenitrici di mozzarelle e scamorze dell’Agro Pontino, mentre il cuore del distretto di produzione dell’antico formaggio di Piacenza è negli ultimi secoli migrato a sud-est di qualche miglio, fondendosi con quello del parmigiano.

L’aldilà delle memorie gastronomiche ha, infine, ineluttabilmente accolto tra le sue brume un buon numero delle specialità vagheggiate lungo la tratta della seicentesca cuccagna. La tardiva comparsa dei broccoli napoletani scandiva ormai il crepuscolo dell’era, protrattasi appunto sino al termine del XVII secolo, nella quale la civiltà alimentare partenopea era designata come quella dei mangiafoglie, spianando la strada alla calata dei mangiamaccheroni. Delle trote che sguazzavano nei laghi di Mantova, così come della persicata ferrarese e dei pinoli ravennati – all’epoca rinomati al punto da meritare alla città rivierasca l’eponimo di bolla dil pignoli – oggi si serbano solo sbiadite rimembranze. Eguale sorte è toccata al pane di Padova, del quale già nel XIX secolo il clinico patavino Antonio Faggiani lamentava l’irreversibile decadenza. Irrimediabilmente trapassata è anche la prelibatezza a celebrazione della quale il Mitelli aveva riservato a Bergamo una tappa del suo itinerario. Si tratta del cinamomo confetto, a riguardo del quale già ci si è dilungati nel numero di Affari di Gola del novembre 2014. È comunque d’uopo tornare brevemente sul tema, giacché dall’incisione emergono nuovi ed interessanti particolari.

Il "lecca solo" bergamasco raffigurato nel seicentesco gioco della cuccagna
Il “lecca solo” bergamasco raffigurato nel seicentesco gioco della cuccagna

Colpisce anzitutto la singolare conformazione dello storico dolciume. In virtù della sua appartenenza al dominio della confetteria, ci si sarebbe attesi un morselletto oblungo o tondeggiante. Ma la raffigurazione che ne fornisce la stampa è quella di un sottile stecco di scorza di cannella, che da fonti del tempo sappiamo rivestito di zucchero. Quanto poi alle modalità del suo consumo, è affatto eloquente l’indicazione lecca solo che correda l’icona.

Questi indizi paiono convergere verso una curiosa conclusione. La letteratura gastronomica tende ad individuare nella Gran Bretagna del XVII secolo la culla di quello che nel mondo anglosassone è chiamato lollypop. In realtà il più antico lecca-lecca di cui si abbiano dettagliate notizie è proprio il cinamomo confetto di Bergamo, i cui natali sono da collocarsi nella prima metà del cinquecento. È indiscutibile che si trattasse di un prototipo ingegnosamente atipico, di un mangetout del quale nulla andava perduto. L’asticciola di legno aromatico che ne costituiva lo stelo – ed al contempo l’anima – era infatti da sgranocchiarsi dopo che la glassa che la ricopriva si era dissolta. In un’epoca di fiatelle pestilenziali, vieppiù appesantite dal largo consumo di agli e cipolle crudi e da condizioni di igiene orale sulle quali è preferibile glissare, la cannella d’altronde rappresentava uno dei più efficaci palliativi per le problematiche di alitosi.

Al di là di queste contingenze, spiccano le benemerenze della Consorteria degli Speziali ed Aromatari di Bergamo. Oltre ad aver dato vita alla prima specialità locale di autentica fama planetaria, la leggendaria corporazione ha infatti titolo ad annoverare, tra le proprie patenti di invenzione, anche quella dell’archetipo di uno tra i più popolari dolciumi di ogni tempo.




Aimo a Bergamo, in cucina all’Accademia del Gusto

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Aimo Moroni e la moglie Nadia (foto Brambilla e Serrani)

Talmente noto che basta il nome. Aimo (Moroni), insieme alla moglie Nadia, è uno dei miti della cucina italiana, quella che parte dai migliori prodotti della terra. Toscano di origine, a Milano da settant’anni, due stelle Michelin, dal 2012 ha passato il testimone ai fornelli de Il Luogo di Aimo e Nadia (altro nome “in purezza”, per quella trattoria diventata felice punto di incontro tra creatività e arte, memoria gustativa italiana e gesto contemporaneo, oggi guidata dalla figlia Stefania) agli chef Alessandro Negrini e Fabio Pisani, in forza al progetto dal 2005.

Non ha però smesso di trasmettere cultura gastronomica e mercoledì 10 maggio ha condiviso la propria esperienza e visione all’Accademia del Gusto di Osio Sotto, in un pomeriggio dedicato ai professionisti, insieme a Fabio Pisani. Per chi vuole un assaggio del pensiero dello chef, ecco la nostra intervista

Settant’anni di presenza a Milano, una lista di riconoscimenti che continua ad allungarsi: si sente un maestro?

«Io sono un cuoco. Ho dato la vita per la mia idea di ristorazione, di una cucina che fosse esattamente come io la sentivo. Una cucina fatta di passione e amore, in cui la qualità della materia prima riveste un ruolo fondamentale. Non ho mai pensato che il mio lavoro dovesse riempire il cassetto e raggiungere riconoscimenti e stelle. Poi sono arrivati… La prima stella nel 1980, la seconda dieci anni dopo. Non me le aspettavo proprio. Quando arrivò la seconda, quasi svenni. Ma i più grandi riconoscimenti arrivano dall’apprezzamento dei tuoi clienti, quando alla fine della serata vengono in cucina per ringraziarti e dirti che è stata un’ottima cena. Questo è ciò che ti rimane davvero dentro al cuore».

Che cos’è cambiato di più nel mondo del cibo?

«Sicuramente negli ultimi anni si è affermata sempre più la “moda” di cucine etniche. Ben venga la grande cucina di altri Paesi (la grande cucina, però!), ben venga lo street food, ma non dobbiamo dimenticare la nostra cultura gastronomica. Oggi a Milano è più facile trovare un ristorante che prepara sushi piuttosto che uno che cucini un buon risotto alla milanese. Ed è un vero peccato perdere le nostre radici. Perché la cucina è cultura, storia e civiltà».

I suoi piatti hanno attraversato i decenni, qual è il segreto?

«Credo che sia essere sempre stato coerente con una mia idea di cucina e di cucina italiana. Nell’aver creato piatti che nascevano dall’amore e dalla conoscenza del prodotto, interpretati con fantasia e creatività, ma sempre fedeli a sé stessi. Perché, come amo ripetere, la cucina non è ricca o povera, è buona. Quando mi si chiedeva perché non avevo in carta caviale e ostriche ho sempre risposto che il mio caviale era il pane e pomodoro e le ostriche il mio paté».

Ci racconta come è nato un suo piatto famoso?

«Gli spaghetti al cipollotto, nati nel 1965 e ancora oggi uno dei piatti simbolo del ristorante. Volevo fare una variante degli spaghetti aglio e olio, buonissimi, ma l’aglio di questa ricetta inibiva il palato e diventava quindi difficile apprezzare i piatti successivi. Così cominciai a lavorare sul cipollotto. Ci impiegai una settimana, chiuso in cucina, a fare le prove. Quando finalmente sentii il gusto che avevo in mente, mi commossi. Ecco come sono nati gli Spaghetti con il cipollotto fresco di Tropea, peperoncino di Diamante, basilico ligure e un filo di olio crudo della mia terra. Un giornalista scrisse che questo piatto è come la Settimana Enigmistica, vanta più di settanta imitazioni!»

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La squadra de Il Luogo di Aimo e Nadia. Da sinistra, Alessandro Negrini, Fabio Pisani, Nicola Dell’Agnolo, Stefania Moroni e Alberto Piras (foto Sara Magni)

Il suo nome è legato indissolubilmente a quello di sua moglie Nadia. Oggi è vostra figlia Stefania a dirigere Il Luogo. Quanto conta la famiglia in un’attività di ristorazione?

«Nadia ed io abbiamo iniziato a lavorare insieme da ragazzini e siamo stati insieme 24 ore al giorno per tutta la vita. E ha funzionato, ha funzionato benissimo! Alla fine degli Anni 80 nostra figlia Stefania incomincia a lavorare con noi, con iniziative che consentono di diffondere la conoscenza della nostra cucina in Italia e all’estero e avvia la collaborazione con l’artista e scienziato Paolo Ferrari da cui nasce il progetto del Luogo tuttora in progress. Nel 2005 arrivano in cucina Alessandro Negrini e Fabio Pisani, che apprendono e proseguono il nostro lavoro e lo fanno con un nuovo spirito, con una nuova consapevolezza, nuove conoscenze anche tecniche. Oggi la cosa che ci rende più orgogliosi è sapere che tutto il nostro lavoro non è andato perso, ma va avanti con nostra figlia Stefania e Alessandro e Fabio, una vivace famiglia allargata».

Per la sua cucina ha scelto non uno ma due eredi. Ai fornelli la coppia funziona meglio?

«Con noi ha funzionato e sta funzionando benissimo con Alessandro e Fabio. Il dialogo e il confronto arricchiscono. Ognuno di loro ha la propria esperienza, la propria storia e il proprio modo di essere, ma viaggiano entrambi sullo stesso binario, con un’unica visione».

Lei è anche stato consigliere dell’Epam, il sindacato milanese dei pubblici esercizi. Qual è il valore dell’associazionismo?

«L’associazionismo è importante quando diventa non solo un momento di scambio di idee e di confronto su problemi che riguardano la categoria, ma ha anche la capacità di creare un fronte unico su determinate questioni e problematiche comuni».

Oggi che si definisce “felicemente pensionato” cucina ancora?

«Oggi cucino per i nipoti e gli amici. Dopo aver trascorso una vita intera con pentole e fornelli, non posso più farne a meno, la cucina è nel mio Dna e a casa continuo a sperimentare, per passione. Non so usare il tablet, ma con una padella in mano riesco ancora ad emozionare gli amici!»

A proposito di clienti, qual è l’episodio che ricorda con più piacere?

«Diversi anni fa, quando eravamo ancora una trattoria e qui intorno a noi era solo campagna, capitarono dai noi un signore ed una signora con autista che si erano persi in una notte di forte nebbia. Suonarono il campanello e ci chiesero aiuto. Avevano fame, preparai loro gli spaghetti al cipollotto. Mi chiesero un doppio bis. Dopo due settimane arrivò da Vienna una bellissima lettera in carta pergamenata che ringraziava e diceva: Carissimi Aimo e Nadia gli spaghetti al cipollotto erano come la nona sintonia di Beethoven. Firmato Rita e Leonard Bernstein, uno dei più famosi compositori del Novecento».

Guide e Tripadvisor, cosa ne pensa? E dei blogger?

«Ho sempre cucinato per il piacere di cucinare e per il cliente. Le Guide sono utili, ma non possono essere il fine. I blogger? Ho un’altra età…».

Guarda i programmi di cucina in tv?

«La cucina mi piace farla, più che guardarla».

La sua è una cucina di prodotto. Dalla terra bergamasca ne ha attinto qualcuno?

«Dai migliori produttori in terra Bergamasca attingo soprattutto i formaggi, lo stracchino, il taleggio, lo strachitunt e il quartirolo della Presolana. Ma anche salami e vini. È una terra le cui eccellenze dovrebbero essere valorizzate di più».




Un lago diVino, a Sarnico 40 cantine in piazza nel weekend

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Postazioni di degustazione di vino e bollicine, percorsi guidati tra bar e negozi del borgo, laboratori e occasioni di incontro all’insegna di buon bere. Sabato 6 e domenica 7 maggio a Sarnico ritorna “Un lago diVino”, la due giorni dedicata agli appassionati di vini e buoni sapori.

Dalle ore 16 alle ore 22 le piazze della cittadina ospiteranno le eccellenze enologiche del territorio. Le cantine tra cui scegliere saranno circa 40. La mostra mercato permetterà di conoscere le etichette delle cantine più note e di aziende vinicole emergenti della Franciacorta e della Valcalepio. E in più alcuni produttori della Valcamonica, delle Langhe, dell’Oltrepò pavese e della Puglia.

sarnico lago di vino 2La formula è quella ormai consolidata. Con l’acquisto di un ticket (in vendita allo stand dell’organizzazione al costo di 12 euro) si riceverà una tasca da sommelier con un calice. A quel punto si potrà iniziare a esplorare le vie di Sarnico, degustando sorso dopo sorso i vini proposti. Sono previste degustazioni guidate, laboratori Slow Food (sull’olio extravergine, sui salami del progetto 13 lune, sulla sardina essiccata tradizionale del lago d’Iseo, sui caprini delle varie province lombarde), in collaborazione con la scuola alberghiera Serafino Riva di Sarnico, truccabimbi e concerti.

La manifestazione è organizzata da Sarnicom, l’associazione commercianti di Sarnico. Per maggiori informazioni: pagina Facebook Un Lago di Vino Sarnico.




Milano, ora anche il cibo ha il suo fuorisalone

weekandfood

Come succede per mobili, design e arredamento, a Milano anche il cibo si appresta a vivere il suo fuorisalone. Accanto alla fiera internazionale di settore Tuttofood, in programma alla Fiera di Rho-Pero dall’8 all’11 maggio, debuttano infatti quest’anno le manifestazioni diffuse nelle location più di tendenza della città.

Il programma ideato da Tuttofood si chiama Week&food e grazie alla collaborazione con Comune di Milano, Regione Lombardia, Confcommercio, Fondazione Feltrinelli e JRE Jeunes Réstaurateurs si è ampliato fino a diventare Milano Food City, la prima food week della città.

Gli appuntamenti vanno dal 4 all’11 maggio e comprendono show-cooking, aperitivi a 5 stelle, circuiti esperienziali tra i ristoranti, degustazioni e street food. L’intento, proseguendo sulla strada tracciata dall’Expo, è dare vita ad una grande festa del cibo di qualità senza dimenticare una riflessione sulla naturalità, la sostenibilità e la lotta allo spreco alimentare. In particolare, il tratto distintivo degli eventi Week&food è il ruolo da protagonisti degli espositori e delle associazioni di categoria che per la prima volta usciranno dai cancelli della fiera per condividere anche con foodies, viaggiatori e tutti i cittadini le eccellenze di solito riservate in anteprima ai professionisti del settore in manifestazione.

Gli eventi e gli appuntamenti conviviali

Al The Mall di Porta Nuova, dal 4 al 7 maggio andrà in scena Taste of Milano, il festival dove gli chef stellati incontrano il grande pubblico.

Dal 6 al 10 maggio, al Superstudio Più di via Tortona 27, Tuttofood sarà partner di Italian Gourmet, una 5 giorni non-stop di eventi dedicati alla grande tradizione enogastronomica italiana in diverse aree tematiche: entertainment, cultura, cibo, workshop.

Il 5 maggio alle 19 è in programma la festa con cui saranno riconsegnati alla città i Dazi dell’Arco della Pace, che ospiteranno eventi serali facendo eco alle iniziative sparse in città. Sempre ai Dazi, la mostra “Design for Food” realizzata da ADI (Associazione del Disegno Industriale) illustrerà come il design sia parte essenziale di uno dei comparti più importanti del Made in Italy.

In giro per la città

Tra le iniziative diffuse, “Le fermate del Gusto” articoleranno per tutta la settimana percorsi di street food tra corso Garibaldi, piazza XXV aprile e vie limitrofe, oltre che in piazza XXIV maggio e Nuova Darsena, protagonisti Apecar, food truck e pop-up sempre più gourmand.

Nelle serate dell’8 e 9 maggio, i migliori ristoranti e locali di Milano proporranno degustazioni di piatti, menù, vini, cocktail dedicati, con il nome di Week&food experience.

Dall’8 all’11 maggio con il progetto FoodFriends si ampliano i circuiti dedicati al commercio con quattro percorsi: FoodFriends Day con assaggi nei negozi e mercati coperti e degustazioni in ristoranti e bar; FoodFriends Night con feste in alcune vie della città; FoodFriends Weekend dedicato all’accoglienza e infine FoodFriends Charity con la “FoodFriends doggy bag” e la “FoodFriends sustainability week” per la lotta allo spreco alimentare.

Infine, dal 3 al 9 maggio, al punto vendita de Il Viaggiator Goloso in viale Bellisario 1-3 si potrà diventare giurati di un’innovativa modalità di concorso: Cheese for People Awards, un premio che intende valorizzare i formaggi tipici italiani attraverso assaggi “al buio”.

Per riflettere

Week&food sarà anche riflessione e consapevolezza. In collaborazione con FederBio, sabato 6 il Palazzo Giureconsulti in via Mercanti ospita la Festa del Bio, con produttori, aziende, consumatori, giornalisti, blogger e aperta a millennials, studenti, bambini e adulti.

Intanto dal 4 al 10 maggio, la Fondazione Feltrinelli in viale Pasubio sarà animata da dibattiti, laboratori, talk e spettacoli con la partecipazione di protagonisti nazionali e internazionali impegnati in attività istituzionali, associative, imprenditoriali, di ricerca e culturali.

Oltre Milano

Alla Sapore in Lombardia Lounge presso il Roses Restaurant del Rosa Grand Hotel, in piazza Fontana, dal 7 all’11 maggio ci si può cimentare in una full immersion nell’enogastronomia lombarda attraverso sapori e aromi di tutte le sue tradizione locali; mentre dal 3 al 6 maggio, all’insegna dell’hashtag #saporeinlombardia, un viaggio lungo 400 km di strade lombarde che toccherà 1.000 scorci tipici coinvolgerà 5 team, 4 lingue, 10 influencer in un viaggio alla ricerca di luoghi, ristoranti, cantine uniche, da far conoscere al pubblico.

Business e aggiornamento professionale

A completare il quadro la ricca offerta di contenuti ed eventi all’interno della fiera. Tra questi spiccano lo spazio-evento Seeds&Chips, dedicato all’innovazione agrifoodtech, con start-up, istituzioni ed esperti; Spazio Nutrizione, dove scienziati e nutrizionisti dibattono con l’industria e i professionisti food; Wine Discovery, momento di alto profilo sui vini con la Vinitaly Wine Academy.

A oggi sono registrati a Tuttofood 2017 2.850 espositori, dei quali oltre 500 esteri (+10%), consolidando i 2.800 dell’edizione record di Expo 2015, eguagliata anche nella superficie espositiva con 180mila mq lordi. Sono più di 3.150 i buyer profilati dall’Italia e dall’estero, con le delegazioni più numerose provenienti, nell’ordine, da Usa, Canada, Sud America, Germania e Paesi del Golfo.




«Bergamo ha un ricco patrimonio caseario, ma non siamo capaci di valorizzarlo»

Gianluigi Zenti
Gianluigi Zenti

È stato uno degli ambasciatori più preziosi dell’agroalimentare italiano nel mondo Gianluigi Zenti, bergamasco doc (nativo di Zù di Riva di Solto) noto soprattutto per aver sviluppato il mercato americano per il gruppo Barilla (ha anche gestito per Barilla l’«Academia» di Parma, biglietto da visita della cultura gastronomica italiana nel mondo). Ora è tornato in Bergamasca per sviluppare un progetto ad ampio raggio che, partendo dai prodotti della Cooperativa di Vigolo (il formaggio Monte Bronzone in primis), potrebbe in futuro essere in grado di ampliare la sua azione verso altre realtà importanti del food and beverage, col successivo coinvolgimento di attività turistiche e di accoglienza. Sfida affascinante e coraggiosa per il nostro manager caseario, che potrebbe smuovere le acque di un comparto che negli ultimi anni, anche grazie a Expo, ha fatto passi da gigante, ma che poche volte in passato ha avuto una strategia comune ed è stato in grado di fare rete.

Dottor Zenti, lei torna in Bergamasca con obiettivi ambiziosi…

«Ora mi occupo di sviluppo, promozione e difesa dell’identità della cultura enogastronomica italiana attraverso progetti di formazione e internazionalizzazione di imprese italiane all’estero. Nello specifico in Bergamasca mi sto occupando del rilancio del caseificio di montagna della cooperativa agricola Monti e Laghi e di promozione dell’incoming turistico sul lago d’Iseo. Nella stagione estiva 2016 abbiamo portato oltre 600 turisti stranieri provenienti da Regno Unito, Germania, Olanda, Stati Uniti, Danimarca, Francia, Australia, Giappone, Israele, Russia».

L’agroalimentare è una risorsa che potrebbe avere potenzialità superiori nella nostra provincia?

«L’agroalimentare è un asset importantissimo nella Bergamasca, ma fino ad ora poco valorizzato. I settori su cui si è messa maggiore enfasi sono sempre stati industria, costruzioni e servizi mentre su agroalimentare e turismo non sono mai stati fatti investimenti importanti. Il nostro territorio possiede una forte identità caratterizzata dalla sua storia, dalla sua cultura e dalla sua conformazione geografica che lo distingue in modo particolare. Olio, riso, farine, prodotti ittici, salumi, vini e formaggi sono un fiore all’occhiello frutto della nostra tradizione gastronomica ma poco conosciuti e valorizzati sia a livello locale che nazionale e internazionale».

La necessità di fare rete tra produttori, ma anche fra territori è basilare: cosa manca a Bergamo su questo fronte?

«La rete tra produttori e territori è uno strumento tattico ma non strategico. I bergamaschi sanno bene che prima di costruire la casa serve un progetto ben fatto. Per seguire una direzione condivisa è necessario avere una vision, una mission e una strategia chiara con obiettivi misurabili e ruoli/responsabilità chiaramente attribuiti».

Bergamo è la capitale dei formaggi Dop con 9 prodotti, facciamo abbastanza per promuoverli?

«Continuiamo a raccontarci che l’Italia è il paese più bello del mondo, ricco di cultura, cibo, moda, design, mobili, auto di lusso etc. ma siamo arrivati nel 2017 senza essere stati in grado di valorizzare in maniera efficace queste ricchezze mentre la concorrenza di altri paesi sta rubando l’identità dei prodotti italiani. Ad esempio oggi il Grana Padano è la prima Dop Italiana al mondo ma è anche la più contraffatta: oltre il 70% del Grana venduto in America con il nome “parmesan” non è un prodotto italiano ma un prodotto americano commercializzato da una multinazionale. Questo dimostra che anche se il prodotto si rende disponibile su un determinato mercato, senza un’adeguata formazione il consumatore non è in grado di distinguerne la qualità e l’origine. In queste situazioni ha campo fertile la contraffazione e quindi la difesa legale diventa indispensabile per tutelare l’identità dei nostri prodotti».

Stracchino BronzoneQuindi esiste un problema d’identità e ancor prima di comunicazione?

«Esatto. Non basta esistere ma bisogna saper comunicare di esistere. Questo vale in particolar modo per i nostri formaggi. Di 9 Dop solo 4 sono conosciuti a livello nazionale e poco a livello internazionale. Anche il Grana Padano ha una notorietà pari a circa la metà del Parmigiano Reggiano nonostante abbia un fatturato di oltre il doppio».

Monte Bronzone, ma anche Agrì o altre chicche casearie, come il blu di bufala o alcune formaggelle: in che modo sviluppare il business di questi formaggi? Non ci si muove troppo in ordine sparso?

«“Chi fa da se fa per tre” è un detto molto sentito nella Bergamasca ma in un mondo sempre più globalizzato non si può più pensare di andare in ordine sparso. Serve un coordinamento ed è necessario individuare in quali mercati/canali si vuole agire da soli ed in quali creare delle sinergie tra pubblico e privato. Ingredienti essenziali per poter raggiungere risultati positivi rimangono comunque competenze e investimenti. Come già menzionato c’è scarsa conoscenza dei nostri prodotti e del loro utilizzo ed è quindi sempre da qui che bisogna partire. Con i prodotti del Monte Bronzone abbiamo cominciato a sviluppare ricette per aiutare le persone a trovare nuovi modi di utilizzo oltre alle modalità di consumo tradizionali».

Il progetto Erg 2017, che vede Bergamo capofila, potrebbe davvero portare giovamenti al nostro food? Quali gli errori da non commettere?

«Non conosco il progetto Erg nel suo dettaglio, ma da quanto ho letto mi sembra il giusto approccio per creare sinergie tra agroalimentare e turismo enogastronomico. All’aggregazione delle informazioni devono seguire azioni concrete e accordi per stimolare ulteriormente i flussi turistici e il consumo di prodotti enogastronomici. Per poter studiare e portare a termine con successo attività di questo tipo occorrono esperienza e competenze specifici. Il rischio è che non vi siano risultati sostanziali in tempi brevi».




Sul lago Garda è l’ora di Fish & Chef: sei cene d’autore con i prodotti del territorio

fish & chef

I grandi prodotti del Lago di Garda incontrano celebri nomi della cucina italiana contemporanea. Dal pesce d’acqua dolce alla garronese veneta, dai vini delle denominazioni del Custoza e della Valtènesi all’olio extravergine d’oliva Dop del Garda: dal 23 al 28 aprile le eccellenze del Lago torneranno ad essere le protagoniste di Fish&Chef, la rassegna ideata Leandro Luppi ed Elvira Trimeloni, che nel 2017 ha raggiunto l’ottava edizione.

Cinque gli chef cui quest’anno è stata lanciata la sfida di raccontare e valorizzare i prodotti enogastronomici del Lago attraverso un menù degustazione servito in altrettante cene in alcuni dei più esclusivi hotel sulle tre sponde del Garda.

Si comincia domenica 23 aprile con Paolo Trippini del Ristorante Trippini, ospite dell’Hotel Bellevue San Lorenzo di Malcesine, per poi spostarsi sulla riva lombarda lunedì 24 aprile, dove al Grand Hotel Fasano di Gardone Riviera arriverà Silvio Battistoni del Ristorante Colonne. Martedì 25 aprile sarà la volta di Vinod Sookar di Al Fornello da Ricci, ospite dell’Aqualux Hotel spa e Suite di Bardolino, seguito da Andrea Tonola del Ristorante Lanterna Verde, che mercoledì 26 aprile animerà le cucine dell’Hotel Lido Palace di Riva del Garda e da Paolo Donei di Malga Panna, che giovedì 27 aprile si esibirà al Palazzo Arzaga di Calvagese della Riviera.

Il gran finale nella serata di venerdì 28 aprile, quando all’Hotel Regina Adelaide di Garda si terrà la cena realizzata a otto mani da quattro chef del Dream Team del Garda: Leandro Luppi del ristorante Vecchia Malcesine di Malcesine; Stefano Baiocco, chef del ristorante di Villa Feltrinelli di Gargnano; Andrea Costantini del Ristorante Regio Patio di Garda e Matteo Felter del Ristorante Fagiano di Gardone Riviera.

La particolarità dell’evento è anche nel servizio in sala. Per ogni serata uno chef del Dream Team del Garda girerà tra i tavoli raccontando ai convitati i piatti ed i vini scelti in abbinamento a ciascuna portata. La figura del maître di sala tornerà così in primo piano accanto a quella dello chef e, soprattutto, in questo modo verrà sancito il legame che unisce a doppio filo gli chef del Garda ai loro colleghi da tutta Italia. Se a questi ultimi spetterà il compito di interpretare e rileggere con una nuova chiave i prodotti tipici del territorio gardesano, ai primi verrà affidato il compito di raccontare al pubblico i menù proposti. Le novità presentate in anteprima durante le serate sono, infatti, piatti nati dalla commistione della materia prima locale con le diverse esperienze portate dai loro colleghi.

Il costo della cene è di 80 euro. Le prenotazioni per le cene e i pernottamenti devono essere effettuate direttamente negli alberghi.




Uova senza sorprese. Ecco come sceglierle e cucinarle al meglio

uova - confezione

Carlo Cracco ne ha fatto la sua bandiera, Paolo Parisi lo vende come fosse d’oro, Davide Scabin l’ha trasformato in un piatto visionario, il Cyber egg.

Pochi prodotti come l’uovo sanno essere tanto versatili in cucina. Può creare piatti semplici e raffinatissimi, comparire sulle tavole più povere e su quelle dei ristoratori più blasonati. Di gallina, di struzzo, quaglia, anatra, oca, lo si può bollire, strapazzare, friggere, fare al forno, declinare in tantissime ricette: in camicia, alla coque, alla diavola, all’occhio di bue, in insalata e, ovviamente, sodo e in frittata, con le sue infinite varianti.

Se pensate che cucinarlo sia facile, però, sbagliate: la cottura delle uova è fra le più insidiose delle basi di cucina e anche le ricette che consideriamo scontate, non lo sono. Lo sanno bene gli chef: alcuni raccontano addirittura di avere vissuto momenti di panico nella preparazione di un uovo in camicia. Ecco allora una piccola guida per scoprire curiosità che non conoscevate e per realizzare preparazioni perfette. Con una chicca, la ricetta dello chef Darwin Foglieni del ristorante Ol Giopì e la Margì di Bergamo, in via Borgo Palazzo.

1) IL COLORE DEL GUSCIO NON CONTA, IL TIPO D’ALLEVAMENTO SÌ

Prima di comprare le uova, è importante controllare che siano integre e pulite e che siano più fresche possibile. Un modo per scoprirlo è guardare il guscio, che deve essere opaco – se è lucido, sono vecchie. Il colore del guscio, invece, non c’entra con la qualità e bontà dell’uovo, ma solo con la razza della gallina. Il meglio del meglio è comprarle da un allevatore diretto che conoscete. Se questo non è possibile, preferite sempre uova di galline allevate con metodo biologico o comunque all’aperto. Di solito viene specificato sulla confezione, se non è così verificate sull’etichetta (deve esserci sempre) che il primo numero del codice riportato sia 0 e 1. Meglio le uova confezionate nel cartone perché si conservano meglio e si può riciclare il contenitore.

uovo - forchette2) C’È UN UOVO PER OGNI ESIGENZA

Nei supermercati si trovano uova di ogni tipo: oltre alle uova tradizionali, ci sono uova in bottiglia pastorizzate, inventate per prolungare la durata e migliorare l’igiene in cucina. Si può acquistare solo il rosso o solo il bianco e sono ideali per la preparazione di creme; c’è l’uovo liottizzato, consumato prevalentemente dagli sportivi; l’uovo light, a basso contenuto di grassi, e l’uovo a forma di tubo, ideale per tagliare fettine tutte uguali e imbottire tramezzini e panini. Per la pasticceria, infine c’è l’albume in polvere.

3) PROVA FRESCHEZZA

Ci sono più modi casalinghi per capire se un uovo è fresco oppure no. Il più immediato è quello anticipato al punto 1: guardare il guscio, se è lucido è vecchio. Un altro modo, più preciso, consiste nell’immergerlo in un bicchiere d’acqua con una manciata di sale: se va fondo è freschissimo, se resta a metà vuol dire che è abbastanza fresco ma è meglio non cucinarlo alla coque; se galleggia non va mangiato. L’uovo non deve contenere corpi estranei né deve emanare odore. Il tuorlo deve trovarsi in posizione centrale e deve essere immobile. Se l’uovo è rotto, meglio buttarlo. Controllate in ogni caso la data di deposizione: vanno consumate entro 3-4 settimane.

4) COME CONSERVARLE

Le uova vanno pulite con un tovagliolo e tenute al fresco. Conservatele a temperatura ambiente così come le acquistate se siete certi di mangiarle nel giro di pochi giorni; diversamente riponetele in frigorifero, lasciandole nella loro confezione e mettetele a testa in giù nel ripiano più alto, così si conservano meglio e più a lungo. Tenetele lontane da frutta e verdura per evitare il rischio salmonella e da alimenti con odori forti.

uovo - fritto - pane - colazione5) TUTTI I TRUCCHI PER LA COTTURA

I due segreti più importanti per avere una cottura perfetta sono usare uova a temperatura ambiente e cuocerle con calore moderato. Questo permette agli ingredienti di amalgamarsi e all’uovo di non diventare secco. Per ogni ricetta, poi, ci sono errori da evitare e dritte che consentono di ottenere un piatto perfetto, a prova di chef. Ecco i più importanti.

Bagnomaria e al vapore, in casa sono i metodi migliori

La cottura a bagnomaria permette di rispettare al massimo sapore e consistenza e limita l’uso dei grassi. Richiede 10 minuti abbondanti e un continuo rimescolamento, ma ne vale la pena. In assenza del roner, si può avere un ottimo risultato anche con la cottura a vapore e al forno che lasciano l’uovo più morbido (si cuociono le uova al forno a 70° per 15 minuti, oppure in una vaporiera, a bassa temperatura).

Uova sode, l’acqua deve essere fredda

Usate uova a temperatura ambiente e immergetele in acqua fredda (l’acqua calda crea uno “shock termico” che fa rompere il guscio più facilmente). L’acqua deve riscoprirle per tutta la durata della cottura. Per evitare che si rompano in cottura aggiungete all’acqua un po’ di sale. Se il guscio si crepa nell’acqua mentre l’uovo cuoce, aggiungete all’acqua dell’aceto, farà rapprendere subito l’albume che sta per fuoriuscire. Per sbucciarle più facilmente: a fine cottura togliete le uova dal pentolino e immergetele in acqua fredda; oppure, immergetele in un pentolino con acqua molto fredda, tappate con un coperchio e agitate velocemente da destra a sinistra per 20 secondi.

Uova strapazzate, il sale va messo alla fine

Il segreto per ottenere delle uova strapazzate soffici è usare uova di qualità (biologiche o da galline allevate all’aperto), tenere la fiamma al minimo e mescolare continuamente. Le uova vanno rimosse dalla padella prima che la cottura sia finita, quando sono ancora un po’ liquide e mescolate ancora per qualche attimo. Sale e pepe vanno aggiunti a cottura completa. Per renderle ancora più soffici, incorporare una goccia di acqua gassata; per renderle più cremose, sostituire il latte con la panna, oppure miscelare latte e panna in porzioni uguali. Se si cuociono a bagnomaria vengono ancora più cremose.

Uovo in camicia, la corretta tempistica è decisiva

Le uova devono essere freschissime e tutti gli ingredienti vanno preparati prima di mettersi ai fornelli. La pentola deve essere ampia (almeno 10 cm di profondità). Le uova vanno rotte in un piatto e poi fatte scivolare delicatamente nella casseruola riempita di acqua. Meglio cuocere un uovo per volta. L’acqua non deve essere bollente e il calore deve essere moderato (se l’acqua è troppo calda l’uovo si indurisce). Prima di tuffare l’uovo, mescolate l’acqua con un cucchiaio, in questo modo si abbassa la temperatura e si crea un piccolo vortice che aiuterà il tuorlo ad avvolgersi nel proprio albume. Cuocete da 1 a 4 minuti, continuando a girare delicatamente con un cucchiaio per mantenere in movimento l’uovo. Per facilitare la cottura, unire all’acqua due cucchiai di aceto di vino bianco e aiutare l’albume ad avvolgere il tuorlo, irrorandolo di acqua mentre cuoce, per circa 20 secondi.

uova - frittataFrittata, con l’albume montato è più soffice

Per avere una frittata soffice e facile da girare, mescolate poco le uova senza amalgamarle completamente e unite alle uova un albume montato a neve, incorporandolo delicatamente dal basso verso l’alto, oppure qualche cucchiaio di latte o panna fresca. Gli altri ingredienti, ad esempio le verdure, vanno cotti e fatti raffreddare e uniti alle uova sbattute fuori dal fuoco. La padella deve avere il fondo pesante e deve essere scaldata bene, prima di aggiungere olio o burro. La cottura deve avvenire prima a fiamma moderata. Durante la cottura, incidere la frittata in modo che la parte liquida scivoli sotto e si rapprenda e spostarla lateralmente in modo che non si attacchi al fondo e non cuocia solo la parte centrale ma anche i bordi. Per rendere più profumata la frittata aggiungere alle uova sbattute del prezzemolo o dell’erba cipollina.

La nutrizionista: «Va bene mangiarne fino a quattro a settimana»

L’uovo è un alimento benefico sotto molti aspetti ed è adatto a tutte le età. Occupa uno dei primi posti nella scala degli alimenti ad alto valore biologico, perché contiene tutti gli aminoacidi essenziali e tutti in forma utilizzabile. Inoltre, è ricco di vitamine e sali minerali. «Altri componenti importanti sono l’acido oleico, l’acido linolenico e la lecitina. Quest’ultima, insieme ai due acidi grassi polinsaturi, è l’antagonista più importante del colesterolo e aiuta anche l’innalzamento del colesterolo HDL, detto colesterolo buono, che è una sostanza necessaria al nostro organismo». spiega la biologa nutrizionista Roberta Zanardini (robertazanardini@gmail.com).

Le uova non dovrebbero mancare nell’alimentazione di vegetariani, anziani, sportivi, bambini e adolescenti, è invece sconsigliato a chi soffre di calcolosi biliare, colecisti, ipercolesterolemia, alle persone immunodepresse e bimbi con familiarità per allergie alle proteine dell’uovo, dice Zanardini che consiglia: «Va bene mangiarne fino a quattro a settimana negli adulti e due nei bambini. Con una attenzione: diversamente da altri alimenti, da cotto (sodo) l’uovo risulta meno digeribile, quindi preferitelo alla coque, ma soprattutto evitate le fritture».

IL TOCCO DELLO CHEF

Darwin Foglieni
Darwin Foglieni

Ravioli al Formai de Mut con uovo in camicia e tartufo nero bergamasco – di Darwin Foglieni

Ingredienti (per 4 porzioni):
  • 400 g sfoglia fresca all’uovo
  • 200 g panna fresca
  • 300g Formai de Mut Alta Val Brembana Dop
  • 4 uova freschissime biologiche
  • un cucchiaio di aceto di vino

per il condimento

  • 20 g grana padano
  • 50 g burro di malga
  • 6 foglie di salvia
  • qb tartufo nero fresco bergamasco
Procedimento:

In una pentola far bollire la panna fresca. Al primo bollore togliere dal fuoco e unire il formaggio tagliato a cubetti, facendolo sciogliere completamente. Versare il tutto in un contenitore e riporre in frigorifero. Quando il composto è freddo, ricavare delle palline di fonduta e farcire i ravioli.

In una pentola con bordi alti far bollire l’acqua con l’aceto. Aprire un uovo per volta in una ciotolina e versarlo nell’acqua per pochi minuti. Con una schiumarola togliere le uova e asciugarle su un panno. Le uova possono anche essere cotte a vapore in forno. In questo caso portare il forno alla temperatura di 80°, adagiare le uova su una griglia, chiudere il forno e impostarlo a 70° per 15 minuti. Cuocere i ravioli in acqua, scolarli e disporli a porzione sul piatto, aggiungendo al centro un uovo in camicia. Condire i ravioli con burro fuso alla salvia, grana padano grattugiato e guarnire con qualche lamella di tartufo nero bergamasco.

ricetta ravioli uovo darwin foglieni




Carlo, il Maestro del commercio da 71 anni dietro al bancone

carlo rossetti caravaggio - i suoi salumi«Mi dicono di non fermarmi e io accetto il consiglio». A 84 anni Carlo Rossetti continua a fare il mestiere di famiglia, imparato da ragazzo e portato avanti con passione per tutta la vita, quello del salumiere, nella duplice accezione di produttore di salumi e di negoziante, nella piccola bottega in largo Cavenaghi 19 a Caravaggio, all’estremo opposto del viale rispetto al Santuario, dopo l’arco di Porta Nuova, che segna uno degli accessi al centro storico.

Carlo è lì da sempre (i suoi genitori, Giuseppe e Giaele, hanno aperto l’attività nel 1927 a pochi metri dal negozio attuale, che è invece del ’38) e lo scorso 5 marzo per la sua longevità lavorativa ha ricevuto nella sede dell’Ascom di Bergamo l’Aquila di Diamante, il distintivo con il simbolo della Confcommercio destinato a chi raggiunge i cinquant’anni di carriera, nell’ambito della premiazione dei Maestri del Commercio di 50&Più, che in Bergamasca ha assegnato complessivamente 14 riconoscimenti.

salumeria Rossetti - caravaggio - foto storica
La bottega in un’immagine del 1947…

Salumeria Rossetti - Caravaggio
… e oggi

«Sono diventato titolare della salumeria nel ’65 – ricorda Rossetti, che si è già appuntato al petto le Aquile d’argento e d’oro ed ha ottenuto nel 2002 il titolo di Cavaliere -, ma già a 7-8 anni, dopo la scuola, davo una mano a pulire le ossa con un coltellino e dai 13 ho cominciato a lavorare stabilmente al fianco dei miei genitori e dei miei fratelli, Giulio e Arturo. Sono perciò 71 anni che faccio questo mestiere». «Negli anni – aggiunge ripercorrendo le tappe della storia di famiglia – abbiamo aperto anche una macelleria qui di fianco e una Masano e una salumeria a Fornovo San Giovanni. Oggi è rimasta solo la mia attività, che è potuta crescere grazie alla fondamentale presenza di mia moglie Maria e prosegue con mio figlio Pietro e mia nipote Giulia, che ha 26 anni. Vedere che quanto abbiamo costruito partendo da mio papà sta andando avanti è ciò che mi rende più orgoglioso. Io, dal canto mio, continuo a fare tutto con piacere, la lavorazione delle carni, la preparazione dei salumi, il servizio al banco. Amo il rapporto con i clienti, che in certi casi va avanti da generazioni, ma anche curare le nostre produzioni. Sto bene, sono ancora impegnato dalle sei dal mattino alle otto di sera e non mi pesa». Anche la moglie Maria, classe 1934 non ha comunque mollato del tutto – ci svelano – e quando occorre dà il suo aiuto “dietro le quinte”.

Che sia un negozio storico lo si capisce senza bisogno di targhe o vetrofanie (anche se c’è l’intenzione di chiedere il riconoscimento ufficiale alla Regione Lombardia). Una sola vetrina/ingresso, l’insegna “salumeria” a caratteri rossi su fondo bianco, una trentina di metri quadri di superficie in totale, bancone ben fornito, salumi appesi, scaffali e frigo dove trovare quasi tutto: è la classica bottega “di una volta”, non di quelle artificialmente retrò che usano ora, ma il distillato di anni al servizio delle necessità alimentari del paese, che, con garbo e attenzione, va avanti senza effetti speciali.

Carlo Rosetti e il figlio Pietro
Carlo Rosetti e il figlio Pietro

Il punto di forza sono i salumi e gli insaccati freschi. Settantun anni di esperienza si sentono nel perfetto equilibrio della salsiccia al formaggio, la specialità più amata della salumeria. Nella Bassa è in uso aggiungere del Grana grattugiato all’impasto e il risultato in casa Rossetti è un prodotto che sin dal profumo mentre sfrigola in padella si annuncia nella sua golosità. Mobida, avvolgente, saporita al punto giusto, la si può gustare semplicemente arrostita, oppure sgranata nel risotto, come ragù per condire pasta o gnocchi o anche in umido: nella zona in autunno la si prepara in una sorta di spezzatino con i funghi chiodini. E poi ci sono i cotechini, il salame, i cacciatori, lo zampone quando è stagione. «Abbiamo smesso di produrre i salumi che rischiedono una stagionatura più lunga, come coppe e pancette – dicono Carlo e il figlio Pietro -. Continuiamo invece a fare la mortadella di fegato, un insaccato della tradizione che oltre alla carne impiega anche il fegato del maiale, spezie e vin brulé. Ai giovani è difficile che piaccia, ma chi l’ha sempre apprezzata ce la chiede. È stagionata circa un mese, la si fa bollire per un’oretta e si accompagna con purè o lenticchie. È un salume saporito, del genere della salama ferrarese. Qualcuno la mangia anche cruda».

In tempi prodotti omologati, l’artigianalità dei Rossetti è una preziosa eccezione e non stupisce che chi è andato ad abitare lontano da Caravaggio richieda ai parenti qualche loro salame o salamella come souvenir. «Il segreto? È la freschezza – afferma Carlo –. Prepariamo gli insaccati ogni martedì e se serve anche il venerdì. La salsicca al formaggio, per esempio, va mangiata subito, altrimenti prende acidità. Poi, ovviamente, contano la selezione della carne e dei tagli, che non siano nervosi, l’uso di spezie e aromi di buona qualità, la cura nella lavorazione», tutti elementi sapientemente affinati in tanti anni di lavoro.

Esperti del maiale quali sono, i Rossetti offrono anche prodotti di macelleria, solo suina, quindi lonza, filetto, braciole, costine, spiedini, involtini, fegato. L’ingresso di Pietro, coadiutore del padre dall’89 e appassionato di cucina, ha portato in negozio alcuni piatti di gastronomia rigorosamente prodotti in casa, classici come l’insalata russa fatta con le verdure fresche, il vitello tonnato, il roast beef, le torte salate, il cotechino con lenticchie o spinaci. Nel pieno rispetto della tradizione il venerdì c’è il merluzzo fritto e, dopo il successo riscontrato durante la festa di Caravaggio, il sabato è giorno di trippa. Sul banco anche altri salumi, tra cui un crudo di Langhirano e una porchetta di Ariccia, tra i formaggi un Parmigiano di montagna e a rotazione anche qualche francese e di capra.

«Lo spazio è poco – evidenzia Pietro –, ciò che cerchiamo di fare è proporre ogni giorno qualcosa di diverso tra i prodotti freschi. Grandi strategie non ce ne sono, è importante capire quali sono le esigenze e dove vanno i gusti, ci aiuta la conoscenza che abbiamo della clientela». «I momenti difficili ci sono stati e ci saranno, ma pian piano abbiamo sempre cercato di andare un passo avanti», gli fa eco il padre, che con la sua lunga carriera conferma la validità di questa semplice filosofia.

La premiazione di Rossetti con l'Aquila di diamante della Confcommercio. Da sinistra: Paolo Malvestiti presidente Ascom, Renato Borghi presidente naizonale di 50 & Più, Sergio Gandi vicesindaco di Bergamo, Giuseppe Capurro presidente di 50 & Più Bergsmo e Alessandra Locatelli consigliere provinciale
La premiazione di Rossetti con l’Aquila di diamante della Confcommercio. Da sinistra: Paolo Malvestiti presidente Ascom, Renato Borghi presidente naizonale di 50 & Più, Sergio Gandi vicesindaco di Bergamo, Giuseppe Capurro presidente di 50 & Più Bergsmo e Alessandra Locatelli consigliere provinciale