Sigep, Val Seriana sul podio con pane e pasticceria

Valle Seriana terra di campioni… del gusto. La 38esima edizione del Sigep, il Salone internazionale della gelateria, pasticceria, panificazione artigianali e del caffè, di scena nei giorni scorsi a Rimini, ha consegnato due importanti allori ai professionisti di casa nostra.

panificio zucca - vicitore concorso il pane di alex e sylvia - Giacomo ZuccaGiacomo Zucca, titolare dello storico panificio nella piazza Casnigo, ha vinto il primo concorso nazionale “Il pane di Alex e Sylvia”, ispirato al cartoon che ha caratterizzato il padiglione dell’Unione europea a Expo 2015, dedicato al pane. Dopo la selezione di cinque finalisti, la competizione riminese ha premiato la migliore realizzazione del pane raccontato dall’animazione, simbolo della volontà di coniugare i valori dell’Europa intorno ad un prodotto diffuso in tutte le sue regioni e dalla storia millenaria, un segno di unità nella diversità delle sue componenti, semplice e buono.

I panettieri dovevano partire dalla ricetta base del pane di Alex e Sylvia (con miele o zucchero scuro, burro o olio extravergine di oliva, farina di frumento, fiocchi d’avena e farina integrale come ingredienti principali) e bilanciando materie prime, forma e lavorazione realizzarne la versione più buona e accattivante possibile.

La finale era inserita in un incontro al quale hanno partecipato Fernanda Guerrieri, vicedirettore generale della Fao, e Roberto Capello, presidente dell’Aspan di Bergamo nonché della Federazione Italiana Panificatori, tra i promotori del concorso. Zucca non è nuovo ai successi. Con la Garibalda, pagnotta ormai conosciuta su tutto il territorio provinciale e prodotta anche da altri panifici, ha vinto il concorso “Un pane per Bergamo”, organizzato nel 2009 dalla Camera di Commercio e dall’Aspan.

mattia cortinovis - sigep 2017 - secondo posto camiponato mondiale pasticceria juniores
Mattia Cortinovis (a destra) con il compagno di squadra Andrea Marzo

Ha sfiorato invece di un soffio il titolo mondiale juniores di pasticceria Mattia Cortinovis, che affianca papà Giancarlo (anch’egli plurimedagliato nei concorsi nazionali e internazionali) nella pasticceria di Ranica. In coppia con il bresciano Andrea Marzo è stato staccato di soli sei punti (3.918 a 3.912) dai giapponesi Yokouchi e Yuki Matsuda, che si sono confermati Campioni del Mondo. Terza la Francia (3.733 punti), nove le nazioni in gara (Francia, Giappone, India, Filippine, Singapore, Messico, Polonia, Russia e Italia).

Le creazioni si sono ispirate al tema Planet Fantasy, il potere della fantasia, e sono state valutate in base alla qualità, alla ricerca nell’utilizzo delle materie prime e al perfezionamento del livello tecnico. Il mondiale juniores si è svolto in diretta streaming in tutto il mondo, con repliche notturne per favorire le nazionali con differente fuso orario. «Possiamo racchiudere questo mondiale in una parola: esperienza – hanno commentato i due ragazzi -. Un anno di allenamenti, poi questa sfida così incerta. Siamo soddisfatti, abbiamo dato il meglio di noi e in gara abbiamo fatto meglio di quanto non ci riuscisse nelle settimane scorse». Mattia Cortinovis, 22 anni il prossimo aprile, aveva vinto due anni fa, sempre al Sigep, il campionato italiano di pasticceria juniores.

 




A Bergamo è boom di allevamenti caprini da latte: +28 % negli ultimi 10 anni

caprini apreNegli ultimi 10 anni, nella Bergamasca si è verificato un vero e proprio boom di allevamenti caprini da latte, che sono passati dai 75 del 2006 ai 104 del 2016 (+28%). Il fenomeno è messo in evidenzia da un’analisi di Coldiretti Bergamo su dati dell’Anagrafe Nazionale Zootecnica.  Secondo la Coldiretti provinciale il ritorno alla terra dei giovani si concretizza spesso proprio nell’allevamento caprino, che non è più confinato solo nelle aree montane ma è abbastanza diffuso anche in collina e in pianura. Molte aziende si sono dotate di caseificio aziendale per la produzione diretta di formaggi, altre invece consegnano il latte direttamente all’industria. Sono aumentate anche le realtà legate all’agriturismo. L’allevamento di capre da latte un tempo era considerato un comparto minore, di nicchia e  praticato solo in zone marginali, oggi invece rappresenta un tassello di tutto rispetto dell’agricoltura provinciale. Il trend in crescita della provincia di Bergamo è in controtendenza con quanto sta accadendo a livello regionale. Infatti nel 2006 in  Lombardia gli allevamenti di capre da latte erano 1.080, nel 2016 sono invece scesi a 710 ( – 35%).

“La riscossa del comparto sul nostro territorio  – spiega Lucia Morali allevatrice di capre di San Giovanni Bianco e vice presidente di Assonapa (Associazione Nazionale  Pastorizia) –  è dovuta oltre che alla necessità di individuare nuovi ambiti produttivi anche alla capacità degli imprenditori di intercettare le nuove tendenze alimentari. Oggi il consumatore riserva un’attenzione particolare al latte e ai formaggi caprini, che sono facilmente digeribili e meglio tollerati dalle persone allergiche alle proteine del latte vaccino. Questo ha permesso agli allevamenti di avere più spazio di mercato e quindi di migliorare la propria redditività. Per la tutela e la valorizzazione delle nostre produzioni possiamo ora contare  anche sul recente decreto che ha introdotto l’obbligo di indicare in etichetta l’origine del latte, mettendoci al riparo dalla concorrenza sleale di che sfrutta impropriamente il valore del made in Italy”. Nella Bergamasca la crescita dell’allevamento caprino si è incrociata con la radicata tradizione casearia e da questo incontro è nata una gamma di prodotti ampia e variegata, che comprende sia quelli a coagulazione acida, come i caprini freschi e le croste fiorite, sia quelli a coagulazione presamica, come gli stracchini e le formagelle. I formaggi caprini si prestano anche ad essere arricchiti con spezie ed erbe aromatiche. Negli ultimi tempi stanno incontrando il favore dei consumatori anche lo yogurt e il gelato realizzati con latte di capra.

“Ho avviato la mia azienda nel 2012 – racconta Federica Cornolti di Ponteranica – mentre stavo frequentando l’università. Pur non essendo figlia di agricoltori ho sempre avuto una grande passione per questa attività. Ho però capito che questa era la mia strada durante il tirocinio richiesto dal mio corso di studi e che ho fatto proprio in un allevamento di capre. E nata così la mia avventura imprenditoriale. Con la stalla ho costruito anche il caseificio e oggi ho 40 capi di razza Saanen in lattazione e faccio la vendita diretta dei formaggi che produco. E’ un lavoro molto impegnativo e i problemi non mancano, ma mi appassiona e mi dà anche soddisfazioni”. Francesca Belloli di Calcio ha invece iniziato la sua scommessa nel 2007 con 20 capre da latte razza Saanen. “Ho adottato la politica dei piccoli passi però mi sono da subito appassionata a questo mondo. Pian piano ho implementato i capi e così sono arrivata ad avere un allevamento ben strutturato. Ho chiuso il 2016 con 180 capi in lattazione, il mio obiettivo per il 2017 è di arrivare a 230 capi. Il latte che mungo non lo trasformo direttamente ma lo conferisco a un caseificio. Sono abbastanza soddisfatta perché c’è una buona richiesta di questo prodotto”.

 

 




InGruppo, entra Ezio Gritti. E al ristorante si va con l’autista

ingruppoDal 16 gennaio al 30 aprile 2017, gli chef dei più rinomati locali bergamaschi danno vita alla quinta edizione di Ingruppo, il progetto che mette insieme ambienti, gusto, tradizione e innovazione. Diciannove professionisti della ristorazione bergamasca, con due “escursioni” nelle province di Lecco e Milano, uniranno le forze per rimarcare la loro appartenenza ad un progetto volto alla valorizzazione del moderno ristorante. Lo faranno con prezzi accessibili. Perché il vero obiettivo di Ingruppo è portare nei propri ristoranti quella parte di clientela intimorita dalla spesa eccessiva e la clientela più giovane con l’augurio d’educarla al piacere di una sosta che generi una felicità a tutto tondo.

Le novità

La nuova edizione di Ingruppo si avvale di alcune importanti novità. A unirsi ai ristoratori che da tempo animano Ingruppo (i titolari di A’Anteprima, Al Vigneto, Antica Osteria dei Camelì, Casual Ristorante, Colleoni & Dell’Angelo, Collina, Nuova Trattoria Dac A Trà, Da Vittorio, Ristorante Enrico Bartolini al Mudec, Frosio, Il Saraceno, La Caprese, Lio Pellegrini, Loro, Osteria della Brughiera, Posta, Roof Garden Restaurant, Villa Patrizia Ristorante) quest’anno vi sarà Ezio Gritti, col suo ristorante omonimo inaugurato recentemente sul Sentierone, nel cuore di Bergamo. Una new entry attesissima, che fa già gola a tutti gli appassionati di alta cucina e che con le sue ricette, intrise di tradizione e autenticità, darà nuova energia a tutta l’iniziativa.

Ma non è tutto: per la nuova, attesissima, stagione, Ingruppo ha deciso di attivare una speciale convenzione che darà la possibilità agli avventori dei propri ristoranti di lasciare a casa l’auto. Ingruppo, infatti, ha voluto fare sistema con il territorio, contribuendo alla promozione dell’eccellenza enogastronomica locale su strade più sicure, attraverso una mobilità più efficiente e sostenibile: per questo, i clienti di Ingruppo potranno evitare corse e code per i parcheggi e affidarsi ad autisti professionisti, evitando di mettersi alla guida al termine della cena. Il tutto, ad un prezzo speciale.

La formula

Per il quinto anno consecutivo Ingruppo conferma la sua formula: dal 16 gennaio al 30 aprile 2017, con l’esclusione del 14 febbraio e del 16 aprile (giorno di Pasqua), i ristoranti aderenti all’iniziativa offriranno la possibilità di consumare menù completi (almeno un antipasto, un primo, un secondo e un dolce con, c’è da scommettere, golose sorprese degli chef) comprensivi di vino, bevande e caffè, al costo prestabilito di 55 euro a persona per 16 dei 19 ristoranti coinvolti. Mentre il costo sarà di 110 euro a persona per tre di loro (A’Anteprima, Da Vittorio, Enrico Bartolini Mudec). La formula è valida sia a pranzo che a cena compatibilmente con i giorni di apertura dei locali. La prenotazione può essere effettuata via telefono o via e-mail, direttamente al ristorante, specificando la richiesta del menù “Ingruppo”.




Olio d’oliva, ma come si fa a capire quando è buono?

olio oliva - generica

È su tutte le nostre tavole, ma siamo in grado di stabilire se un olio d’oliva è buono o scadente? E, non meno importante, lo conserviamo nel modo giusto? Perché la dicitura “olio extravergine di oliva” da sola non garantisce che siamo di fronte a un olio di qualità.

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Marco Antonucci

Con l’aiuto di Marco Antonucci, da molti anni impegnato a livello internazionale nella diffusione della cultura dell’extravergine e dell’analisi sensoriale attraverso seminari, corsi, incontri, guide, articoli e pubblicazioni di carattere sia divulgativo che universitario, abbiamo realizzato un vademecum fatto di piccoli trucchi che vi aiuteranno a riconoscere un olio buono da uno che non lo è. E a conservarlo in modo corretto. Tanto per iniziare, sfatiamo subito una convinzione diffusa: il colore non è importante.

Leggere con attenzione l’etichetta

Il primo consiglio è leggere bene l’etichetta. Più informazioni sono riportate, più chiare sono, e più possiamo fidarci del prodotto. L’indicazione Igp o Dop, che garantisce che l’olio è di una determinata area, e il marchio di consorzi locali possono essere buoni indici di qualità, oltre a tutte le indicazioni di legge.

È importante verificare anche la provenienza delle olive: non c’è una regione di provenienza migliore dell’altra, ma esistono tecniche virtuose di gestione dell’oliveto, raccolta, trasformazione e conservazione che permettono di avere un olio di qualità. Se le olive sono lavorate in frantoio aziendale, ad esempio, è una garanzia in più (il frantoio aziendale consente la lavorazione delle olive dopo poche ore dalla raccolta, conferendo agli oli alti valori nutrizionali). Altre informazioni importanti sono i dati del confezionatore (se non è lo stesso produttore), il numero del lotto (che facilita la rintracciabilità), il contenuto in acido oleico, di polifenoli, di vitamina A, D ed E. La trasparenza informativa tra produttore e consumatore è un elemento decisivo nel mercato di oggi. Il consiglio di Coldiretti è di guardare anche la data di scadenza e preferire l’extravergine nuovo guardando l’annata di produzione che molti indicano volontariamente in etichetta.

«Da qualche anno c’è scritto se l’olio è comunitario o non comunitario – dice Antonucci -. L’indicazione da cercare è “prodotto e confezionato da”. È questa “e” a fare la differenza. Anche la scritta “olio italiano al 100%” va benissimo ed è garanzia di qualità. Al contrario, la scritta “olio proveniente da Comunità europea” deve far pensare che l’olio può essere spagnolo o greco. Se è riportato anche l’anno di raccolta è un altro segno di qualità. Se non c’è scritto, è facile che nella bottiglia siano presenti anche oli di altri anni». «Il colore, invece, non va considerato – aggiunge – non dà né gusto né profumo».

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Il profumo deve ricordare l’oliva

Quello che leggiamo in etichetta non basta a garantire la qualità. È importante anche valutare la componente olfattiva. L’olio deve avere un profumo che ricorda l’oliva, perché alla fine non è altro che una spremuta di olive (in gergo si dice che l’olio deve avere un “fruttato maggiore di zero”). Sembra una banalità scriverlo, però è utile e da tenere sempre a mente. Se profuma di erba appena tagliata, di pomodoro, carciofo, mela o mandorla, siamo in presenza di un buon prodotto.

Deve avere un gusto amaro e piccante

«L’olio è come il vino, per capire se è buono va assaggiato – spiega Antonucci -. Se all’assaggio si nota una sensazione di amaro in bocca, leggermente tendente al piccante in gola, allora l’olio è buono». Amaro e piccante, insieme al fruttato, sono i tre pregi che un buon olio extravergine deve avere e garantiscono anche le proprietà salutistiche del prodotto: alcuni composti nobili dell’olio come l’oleuropeina e l’oleocantale (l’uno antinfiammatorio, l’altro antiossidante potentissimo) garantiscono la loro presenza nel prodotto proprio attraverso il gusto, il primo di amaro e il secondo di piccante. Per assaporare bene l’olio lo si tiene su palato e lingua almeno 20 secondi, quindi si deglutisce.

olio oliva - bottiglietta paneNon deve essere rancido né acido

Uno dei difetti più comuni dell’olio è il “rancido”, dovuto all’invecchiamento dell’olio che è causato dalla luce, dal calore o dall’ossidazione (come sapore e odore assomiglia al grasso del prosciutto crudo lasciato una giornata al caldo a contatto con l’aria). «Per bene che lo si conservi, a un certo punto muore, come il burro – spiega Antonucci -. Dipende da come è conservato, ma in generale la durata media di un olio è un paio di anni».

Un altro difetto è la fermentazione. «Le olive si raccolgono la mattina e si portano al frantoio il pomeriggio. Se si lascia passare più tempo e le olive vengono ammassate in ambienti poco aerati e umidi, fermentano. In questo caso l’olio assume un leggero odore di aceto». In generale, se si percepiscono odori che richiamano verdure o frutti passati o peggio ancora l’odore della salamoia o di rancido, è segno che il prodotto è scadente e forse non è nemmeno extravergine.

Non deve avere il fondo

«Un terzo difetto che può avere l’olio è di presentare il fondo. «Come per il vino, anche per l’olio, la bottiglia non deve avere il fondo. Se l’olio è novello va bene, ma va consumato subito. In generale però è sempre bene filtrare l’olio ed evitare di acquistare oli che presentano uno strato sul fondo della bottiglia», consiglia Antonucci.

Non può costare meno di 12 euro

«Il detto “costa poco, vale poco” nel caso dell’olio d’oliva va tenuto sempre a mente. Bisogna diffidare degli oli a prezzi bassi. Un buon olio extravergine di oliva, lavorato con metodi artigianali e di qualità, deve avere un costo minimo di 12 euro al litro. Se il prezzo è più basso, quasi di sicuro la sua qualità non è eccellente ed è composto da un mix di oli provenienti da Paesi europei ed extra-europei, non soltanto da olio extravergine di provenienza italiana. La cosa migliore è acquistare l’olio direttamente dal produttore, sia per risparmiare accorciando la filiera, sia per avere la possibilità di assaggiare il prodotto prima dell’acquisto e per verificare personalmente come avviene la produzione».

Va conservato come il vino

Una volta acquistato un buon olio extravergine, è importante conservarlo nel modo corretto. «L’olio è più delicato del vino. La prima accortezza è evitare di sottoporlo a temperature elevate e dividere la damigiana in tante bottiglie. Se lo acquisto in Puglia in damigiane e lo metto nel baule dell’auto a una temperatura di 40 gradi e poi, arrivato a casa, lo ripongo in cantina lo uccido». Anche la conservazione in casa richiede alcune attenzioni. «Molti conservano male l’olio – avverte Antonucci -. La bottiglia deve essere riposta lontano dai fornelli e al buio, a una temperatura tra gli 11 e i 16 gradi, altrimenti si guasta. Inoltre quando si apre una bottiglia bisogna richiuderla subito, cosa che non si fa di solito. A differenza del vino, infatti, l’olio non ha conservanti quindi se si lascia aperto si ossida. Infine, quando la bottiglia è finita la si deve buttare perché sulle pareti si forma dell’olio ossidato». «Se si conserva l’olio come il vino non si hanno problemi» garantisce l’esperto.




L’inno alla “ciccia” del macellaio-poeta

Dario Cecchini
Dario Cecchini

In tempi in cui della carne si preferisce avere la visione più distante possibile dall’animale – in forma di fettine o arrosti, belli e pronti da mettere in padella – Dario Cecchini, il macellaio di Panzano in Chianti che ha reso il suo negozio una meta turistica internazionale, fa l’esatto contrario e trasforma in uno show (riuscitissimo!) niente meno che il sezionamento e il taglio di una mezzena di manzo.

È stato lui l’ospite della cena degli auguri dell’Associazione cuochi bergamaschi, che nell’occasione lo ha nominato socio onorario.

Gesti sicuri, parlata schietta e i versi di Dante a dire che dentro le vene di questo artigiano, erede di una tradizione nella macelleria lunga 250 anni, scorre anche il gusto per la poesia. «L’animale bisogna trattarlo il meglio possibile, dargli cibo buono, una vita lunga e una morte dignitosa, più compassionevole possibile. E per rendergli il giusto onore va usato tutto, dal naso alla coda, perché se la qualità c’è, è dappertutto». È il primo caposaldo del Cecchini-pensiero.

Il secondo, e conseguente, è l’elogio delle parti meno nobili. «La prima ricetta dell’Artusi è il brodo, che, guarda caso, si fa con le ossa, non con il filetto». E che dire della pancia del manzo? «Oggi ci si fanno gli hamburger, ma a me sembra sprecata – evidenzia -, prima ci si facevano bolliti eccezionali».

Sarà che è stato tirato su con gli “scarti” della macelleria di famiglia. «Da piccolo pensavo che la mucca avesse 5 teste, 20 zampe e 4 code – ricorda -. Le bistecche erano per i clienti e alla nonna portavano da cucinare tutto ciò che in bottega non era richiesto. La mia “prima volta” con la bistecca è stata al compimento dei 18 anni: è stato meraviglioso, ma è stato meraviglioso anche tutto quanto avevo mangiato fino ad allora, grazie alla sapienza in cucina della nonna».

Natale del cuoco 2016 -premiazione cecchiniIl giusto incentivo ai cuochi in sala a trasformare con passione e arte anche le parti più difficili. «Anche la gente, che ha sempre visto il manzo come un oggetto misterioso, sta cominciando a capire che la carne non deve essere per forza magra», rassicura Cecchini, che intanto svela un segreto: «Il taglio migliore, quello che i macellai non vendono mai ma che tengono come ricompensa per la famiglia è il “ragno”, un pezzettino brutto e un po’ grasso, con delle nervature a mo’ di ragnatela, da cui il nome». Dalla coscia, farcita di midollo e insaporita con sale e aromi, ha invece ricavato il pezzo forte di Natale della sua macelleria, il brasato al midollo.

Quanto alla bistecca, le regole sono poche ma tassative. «Deve essere alta troppo, grande troppo e bella troppo. Sotto i quattro centimetri è carpaccio – sentenzia – . Va cotta sulla brace otto minuti da un lato, otto dall’altro e otto per in piedi e mangiata nella maniera più primitiva possibile, portando in tavola solo sale e olio».

Con buona pace della fettina.




Formaggi bergamaschi, chi è in… forma e chi un po’ meno

Tempo di bilanci per il mondo caseario, massima espressione economica a livello provinciale. Sulla soglia, infatti, di un anno decisivo (si spera) per il salto di qualità dell’agroalimentare bergamasco, con il Progetto Erg 2017 che renderà il nostro territorio (insieme ad altri tre della Lombardia Orientale: Brescia, Cremona e Mantova) il baricentro europeo della gastronomia, è bene capire lo stato di forma di alcuni dei nostri “campioni”, anche tenendo presente che uno dei biglietti da visita più autorevoli che presenteremo al Vecchio Continente sarà proprio l’invidiabile primato nazionale delle Dop casearie (ben nove). Forniamo quindi qualche valutazione dei prodotti, ma anche dei personaggi, locali e iniziative che più si sono messe in mostra nel 2016 appena concluso.

Taleggio

taleggioLa corazzata avanza, anche se dal punto di vista dei numeri (qualcosa in meno sul fronte vendite rispetto al passato) e promozionale c’è stata qualche battuta a vuoto unita all’inspiegabile congedo dello storico direttore Vittorio Emanuele Pisani, protagonista, insieme ad altri, del trend positivo degli ultimi anni e soprattutto della crescita d’immagine verso i giovani, anche attraverso efficaci campagne sui social network, come quella dei “Taleggiatori” che ha avuto protagonisti Elio e le storie tese.

Strachitunt

strachituntL’anno di “castigo” è finito: in estate dall’Europa è arrivato il via libera per tornare a marchiare Dop il “nonno” del gorgonzola, dopo la brutta avventura legata alle misure non corrette riscontrate in alcune forme. Peraltro durante l’anno di “limbo”, il formaggio, che continuava ad essere venduto come “Stracchino di montagna a due paste” non ha perso i suoi estimatori, anche se il danno d’immagine fatalmente c’è stato: ora si riparte.

Bitto storico

biitto-storicoDestino amaro per un Cru venduto nel mondo a prezzi stellari (anche 250 euro al chilo), rimasto fedele alla sua storia, eppure costretto a cambiare denominazione per non incorrere in multe europee: siamo curiosi di capire come il mercato accoglierà la nuova parabola dello “Storico ribelle”, nato per distinguersi dal Bitto Dop, e figlio di una delle più annose dispute casearie, peraltro numerose a questi latitudine (vedi anche Strachiunt e soprattutto Branzi). Le premesse per rialzarsi ci sono.

Branzi

branzi-ftb-180-gg-branzi-ftb-frescoResta un formaggio meraviglioso se fatto invecchiare al punto giusto (fresco invece è piuttosto anonimo), ma anche un grande incompiuto sul fronte della mancata Dop, dopo che in passato la nascita e soprattutto la contrapposizione di due Consorzi di tutela aveva portato a un unico risultato: neutralizzare gli sforzi di entrambi. Nonostante ciò, continua ad essere “il formaggio dei bergamaschi”, dalla grande popolarità e dal grande utilizzo in cucina come ingrediente principe di tante ricette.

Agrì

agri-3È un momento di grande crescita per il “bon bon” di Valtorta, che piace a grandi e piccini e che comincia a sfondare anche sui mercati esteri, pur con i limiti legati ai numeri (sempre esigui) della produzione e ai problemi di conservazione per un formaggio che dà il suo meglio quando viene mangiato freschissimo. Il 2017 può diventare l’anno della definitiva consacrazione, anche grazie al supporto sempre crescente del presidio Slowfood.

Formai de Mut

formai-de-mutBuona produzione e alcuni giovani leve compensano la “mezza scivolata” degli organizzatori della Fiera di San Matteo, che avevano imposto la vendita del solo Dop brembano durante l’evento, lasciando al box altri caci blasonati come lo stesso Branzi, per giunta in casa sua. Ma noi crediamo che il Formai sia più forte anche degli incidenti di percorso.

Zola Spalmabile

Quella degli spalmabili è un “amore di ritorno”, nel senso che fin dagli anni Settanta erano noti formaggi più freschi anche a livello industriale (vedi Dover) messi sul mercato solo per essere spalmati sul pane. Oggi in tanti, da Arrigoni di Pagazzano a CasArrigoni hanno riscoperto questo filone, proponendo zola dolci al cucchiaio di grande qualità che stanno incontrando un gradimento crescente.

L’iniziativa finanziaria

Formaggio nero della NonaIl crowdfunding anche per un formaggio? Perché no? Uno dei più antichi della Val di Scalve, il formaggio Nero de la Nona (datato 1753) ha puntato forte su questa forma di raccolta fondi finanziaria dal basso, solitamente dedicata alle start up più innovative, per rilanciare immagine e produzione: primo step 15mila euro con la caccia ai sostenitori aperta fin da settembre ricercando adesioni su Eppela, la principale piattaforma italiana di crowdfunding. Le “azioni”? In forme o anche solo in spicchi del cacio prodotto con latte intero di mucche di Bruna Alpina.

Il manager caseario

Gialuigi Zenti è un manager bergamasco (nativo di Zù di Riva di Solto) noto soprattutto per avere prima sviluppato il mercato americano per il gruppo Barilla (ha anche gestito per Barilla l’Academia di Parma). Ora sta cercando di sviluppare un progetto ad ampio raggio per Bergamo, partendo dai prodotti della Cooperativa di Vigolo (Monte Bronzone in primis), per poi ampliare il suo raggio d’azione verso altre realtà importanti dell’agroalimentare e il successivo coinvolgimento di attività turistiche e di accoglienza. Idea affascinante e coraggiosa che merita attenzione.

Il superpremio

arrigoni_gorgonzola-dolce-dopMeno male che qualcuno diceva che Bergamo per il Gorgonzola era ai confini dell’impero. Il terzo posto assoluto a livello mondiale del “dolce” Dop di Arrigoni di Pagazzano, alla finalissima della 29esima edizione dei World Cheese Awards di San Sebastian, dimostra al Consorzio di Tutela novarese che anche in terra d’Orobie, il principe degli erborinati viene fatto a regola d’arte. Lo certifica uno dei pochi premi internazionali “seri”, quest’anno tenutosi in terra basca, a cui hanno partecipato 3.000 caci in rappresentanza di 30 Paesi.

L’exploit in casa dei rivali francesi: Taddei & Gritti

Massimo e Camilla Taddei
Massimo e Camilla Taddei

Lasciare a bocca aperta i francesi con un serie di chicche made in Italy non è da tutti. Invece recentemente Massimo e Camilla Taddei di Fornovo e i fratelli Alfio e Bruno Gritti del caseificio Quattro Portoni di Cologno al Serio, hanno riscosso grande successo al Mercato internazionale di Rungis (Parigi), la più grande e importante vetrina agroalimentare di prodotti freschi del mondo, praticamente la Disneyland degli appassionati del fromage, guadagnando ordini anche tra i grossisti d’Oltralpe.

Il Locale: il cheese bar BBù - cheese bar Bergamo (3)ù

Finale non per un prodotto ma per un locale. Che il creato da Francesco Maroni e soci in un solo di anno di vita sia già diventato un punto di riferimento nazionale dei locali legati alla proposta casearia, con tanto di riconoscimento del “guru” Marcomini, non è cosa da poco…




Al Gigianca, l’osteria in città

Anche se non ci sono le classiche tovaglie a quadretti bianchi e rossi e tavoli e sedie di arte povera, ad imitare i locali del passato, l’Osteria Al Gigianca, col sottotitolo di “premiata officina gastronomica”, si propone come autentica osteria in città, rispettando, debitamente aggiornati ai tempi, lo spirito e la cucina di questa tradizione. Un carattere riconosciuto anche dall’ultima edizione della guida Osterie d’Italia di Slow Food, dove è presente, unica segnalazione nel perimetro cittadino, dal 2014 e dove ha mantenuto il simbolo della bottiglia, a sottolineare la particolare attenzione alla carta dei vini.

Alessia Mazzola e Gigi Pesenti
Alessia Mazzola e Gigi Pesenti

Luigi “Gigi” Pesenti, 40 anni, e la moglie Alessia Mazzola, 38, hanno iniziato questa attività nel 2010 a Bergamo in via Broseta al numero 113, in una saletta luminosa, arredata con gusto, che può ospitare al massimo 40 coperti. Una dimensione che già di per sé suggerisce il loro orientamento verso un rapporto molto stretto con la clientela: la qualità, insomma, piuttosto che i numeri. A chiarire ulteriormente gli obiettivi c’è l’adesione al progetto SlowCooking, una rete di ristoranti lombardi che si riconoscono nei concetti di semplicità, valorizzazione delle materie prime, rispetto pragmatico per coloro che lavorano la terra, amore verso il proprio territorio.

«Alessia ed io venivamo da esperienze diverse – racconta Gigi Pesenti –. Io facevo il promoter di eventi anche musicali mentre lei è laureata in Scienze dell’educazione e per pagarsi gli studi lavorava in una pizzeria da asporto. All’inizio abbiamo avuto a disposizione uno chef professionista, che per sette mesi ha insegnato ad Alessia a gestire la cucina, poi abbiamo camminato con le nostre gambe. Visto che nella mia precedente attività ero parecchio in viaggio, nell’impostare la nostra linea mi sono rifatto a quello che mi piaceva trovare come cliente».

La carta di Al Gigianca è abbastanza contenuta ma di certo stuzzicante. Si tratta di una cucina che prende spunto dal territorio, da alcune ricette della tradizione magari con qualche variante, ma fondamentale è il riferimento al bacino per il reperimento delle materie prime. «Siamo molto legati alla stagionalità – prosegue Pesenti -. Per le verdure abbiamo il nostro orto a Locate, che viene coltivato dal papà di Alessia, e poi ci riforniamo da una cooperativa bio. In carta abbiamo solo pesce di lago mentre per il menù di mezzogiorno usiamo pesce azzurro nel rispetto della sostenibilità. Anche per le carni siamo attenti ai metodi di allevamento e produzione, vogliamo che gli animali siano rispettati, che si tratti di allevamenti etici».

al-gigianca-pecora-gigante-bergamasca-con-crema-di-patate-e-chutney-di-barbabietolaQuesti principi si concretizzano in una serie di piatti tra i quali spiccano il baccalà mantecato con crostini di polenta o la Caesar Salad con pecora gigante bergamasca tra gli antipasti, il risotto ai peperoni e patè di missoltino oltre agli immancabili casoncelli alla bergamasca tra i primi, mentre tra i secondi sono particolarmente gettonati il coniglio alla bergamasca con polenta, le lumache trifolate, la pecora gigante bergamasca con crema di patate e chutney di barbabietola e il filetto di lavarello del Sebino. I prezzi vanno dai 10-12 euro di antipasti e primi, ai 13-17 dei secondi, mentre per i dolci si spendono in media 6 euro.

al-gigianca-orto-autunno-2015«Abbiamo due menù degustazione (da 32 o 35 euro ndr.) – ricorda il patron – ed i clienti che vengono da fuori ci chiedono prevalentemente i casoncelli, la pecora bergamasca, il coniglio e il baccalà. Quanto ai vini, sono un appassionato e per questo ne abbiamo una buona selezione sia di italiani sia di altre nazioni come Francia, Germania, Austria, Slovenia, Spagna e Ungheria. Particolare riguardo dedichiamo anche ai formaggi, sempre di produzione locale, con la presenza di presìdi Slow Food».

E se Gigi si muove bene in sala, ai fornelli c’è Alessia, una passione per la cucina. «Passione e cuore sono i primi ingredienti – afferma convinta –. Io li ho ereditati da mia mamma Sandra che ha fatto la cuoca nelle mense scolastiche e le mamme dei bambini andavano a chiederle come mai a scuola mangiassero i broccoli e a casa no!». «Personalmente – spiega – seguo la tradizione e sono poco propensa ad innovare per forza, l’ispirazione mi viene da quello che vedo, da quello che trovo dai fornitori e da ciò che offre la stagione. Adesso, ad esempio, stiamo proponendo la tagliata di pecora gigante bergamasca, è ancora fuori dalla carta perché è un piatto che si esaurisce in fretta. La carne ce la porta la moglie del pastore, Danilo Agostini di Bolgare, che praticamente è in perenne transumanza. È un animale che mi dà grande sicurezza anche per il modo in cui viene allevato e poi pure della pecora non si butta via niente. Tolti i tagli nobili, con il resto si fanno il ragù e le polpette e con le ossa si fa il fondo». A dimostrare che anche il titolo di premiata officina gastronomica è pienamente meritato.

LA PROVA

Come d’abitudine assaggiamo la proposta per la colazione di lavoro. Al Gigianca il menù è inserito nella carta stessa ed è graficamente ben curato, soprattutto molto chiaro: un piatto 11 euro, due piatti 16 euro, due piatti più il dolce del giorno 19 euro. Coperto, acqua, un bicchiere di vino della casa e caffè sono compresi.

La scelta non è molto ampia in termini numerici ma è l’originalità dei piatti, non banali e nemmeno ricorrenti nei menù a prezzo fisso, a fare la differenza in senso positivo.

Crema di carote e zenzero con calamari e crostini alle erbe, maccheroncini ai broccoli e salsiccia, orecchiette alle cozze e fagioli sono le opzioni tra i primi piatti. Costine di maiale con verza e polenta e pesce del giorno (nell’occasione la trota), invece, le proposte per i secondi. Tutti piatti, soprattutto i primi, che stimolano la curiosità oltre all’appetito. Qualche attimo di indecisione e poi puntiamo sulle orecchiette alle cozze e fagioli e sulle classiche costine di maiale con verza e polenta che contenevano anche del buon cotechino.

Due piatti decisamente apprezzabili per scelta e preparazione che unitamente al servizio impeccabile e alla raffinatezza, non appariscente ma piacevole, del locale rendono il rapporto prezzo-qualità ottimo.

algigianca-salaOsteria Al Gigianca

via Broseta 113
Bergamo
tel. 035 5684928
chiuso la domenica tutto il giorno e il lunedi a pranzo



Enrico Bertolino: «Se v’invito a cena non chiedetemi cosa si mangia»

Enrico Bertolino è comico, conduttore televisivo, cabarettista ed esperto di comunicazione (è laureato in Economia alla Bocconi ed è manager nelle risorse umane). Da 30 anni è uno dei protagonisti dell’umorismo italiano. Il 31 dicembre si esibirà al Teatro Creberg di Bergamo nello spettacolo “Buon 2042! La festa di Capodanno”, un monologo sul meglio e il peggio dell’anno appena trascorso. Qui ci racconta il suo amore per il cibo fatto a mano, la sua curiosità per le cucine etniche e la sua amicizia con gli chef Berton e Oldani.

Che rapporto ha con il cibo?

«Di sudditanza psicologica, sono sempre in lotta con i regimi alimentari. Mi piace mangiare bene, le cose buone, anche sperimentare le cucine etniche».

Trattoria o ristorante stellato?

«Entrambi. Non amo il ristorante stellato perché è stellato ma quando ha una cucina curiosa. Come quella di Oldani e Berton, che sono amici e con i quali facciamo anche iniziative di solidarietà. In queste occasioni faccio l’assistente di cucina. E a Bergamo mi piace molto Da Vittorio anche perché lo conoscevo, non sono mai rimasto deluso dai suoi ravioli. Ma non disdegno la trattoria. Nella zona dove abito a Milano ne stanno aprendo diverse. Quando posso, le sperimento».

Dolce o salato?

«Adesso salato. Prima molto dolce».

Cosa non può mancare nella sua dispensa?

«L’amore per come si fanno le cose, le pietanze fatte a mano. Ora limito il sale e mi piace mettere lo zenzero, lo scalogno, i condimenti nuovi. Con l’età si diventa saggi».

Ai fornelli, cuoco esperto o piccolo disastro?

«Ai fornelli sono più bravi i ragazzi della scuola di Oldani. Ma a casa quando posso cucino. La nostra è una famiglia italo-brasiliana, mia figlia ama i piatti brasiliani».

Qual è il suo piatto preferito?

«Il vitello tonnato, è una combinazione irresistibile per me ed è un piatto che cucinava mia mamma. Ora che non cucina più glielo prepariamo noi. In generale mi piacciono i piatti tradizionali ma anche la cucina etnica. Ad esempio il churrasco. Deluderò qualcuno, ma sono tutto tranne che vegano».

Cosa mangia dopo uno spettacolo?

«Un primo o un secondo e poi chiudo con la sambuca. Sono entrato nel tunnel della sambuca. Prima di uno spettacolo invece non mangio mai, devo stare leggero. Un tempo si mangiava molto. Addirittura si facevano le tournée per poter andare a mangiare, nelle Marche ricordo dei ristoranti molto buoni. Adesso dopo cena è molto difficile trovare una cucina aperta, c’è poca cultura del dopo spettacolo. Possiamo contare su qualche ristoratore disponibile che tiene aperto, sono serate che non dimentichiamo».

La sua cena più bizzarra.

«È quella che non ho ancora fatto. Anche se Oldani mi ha stimolato molto con la sua cipolla caramellata. Sono rimasto dieci minuti a guardarla. Da allora non rifiuto più gli abbinamenti insoliti. Per me bizzarro è mangiare i prodotti del posto, la filiera corta, l’amatriciana ad Amatrice, in Sicilia i piatti siciliani. Credo che bisogna adattarsi».

Chi inviterebbe a cena a casa sua e perché?

«Persone accomodanti, come il sindaco di Milano Sala, che è un amico. Non apprezzo quelli che chiedono “cosa c’è da mangiare stasera?”. Mangi quel che c’è e apri la tua testa all’innovazione».

Vino o birra?

«In Brasile la birra, il vino non è competitivo ed è molto caro. Altrimenti vino. Sono stato di recente in un paesino in Francia a un mercatino. Abbiamo comprato olive farcite in tutti i modi e vino francese. Di più non si poteva chiedere».




Zuppe, due classici per le Feste

Le Feste sono qui ma c’è ancora chi non ha deciso cosa cucinare. Gli impegni sono tanti e trovare una ricetta che accontenti tutti è un’impresa quasi impossibile. Un piatto che può salvare è la zuppa. Sfiziosa, gustosa, facile da preparare, da qualche tempo è ritornata sulla tavola dei grandi chef come pietanza raffinata ed è di grande tendenza.

Le ricette sono infinite, da quelle classiche con le verdure, i legumi e i cereali come l’orzo e il farro, fino a quelle di pesce e carne o di tradizione orientale.

Per il menù di Natale o di capodanno noi vi proponiamo la zuppa di lenticchie e quella di pesce, perché sono buonissime e piacciono a (quasi) tutti. In pochi passaggi vi spieghiamo come realizzarle in modo impeccabile.

La Zuppa di lenticchie

zuppa-lenticchieLe lenticchie, simbolo di denaro e prosperità per l’anno in arrivo, sono un must nel menù delle Feste. La zuppa può essere proposta come primo piatto oppure come aperitivo: basta fare delle mini porzioni al bicchiere e il buffet sarà perfetto.

Si può scegliere tra le lenticchie grandi e quelle piccolissime, rosse, nere, verdi, ce n’è per tutti i gusti. Vista l’occasione importante, evitate le scorciatoie – pur utilissime – offerte dalle lenticchie già lessate e confezionate in barattoli che si trovano nei supermercati e dedicate al piatto un po’ di tempo e cura in più. Noi vi consigliamo le lenticchie di Castelluccio ma anche quelle di Altamaura e del Fucino sono buonissime.

Quale che sia la vostra scelta, ecco i procedimenti giusti per cucinarla.

L’ammollo

Le lenticchie hanno una buccia dura. Per ammorbidirle, il consiglio è di lasciarle in ammollo nell’acqua una notte intera. Questa operazione permetterà anche di eliminare le lenticchie non buone (le riconoscerete perché verranno a galla) ed eventuali impurità. Quando si mettono in ammollo aggiungere all’acqua un pezzetto di alga kombu, le lenticchie saranno più digeribili. Usata anche in cottura renderà la zuppa più saporita.

La cottura

Il giorno dopo, le lenticchie vanno lavate sotto acqua corrente e scolate molto bene. In una pentola di terracotta si fa un soffritto con un filo di olio, aglio, alloro e sedano e si aggiungono le lenticchie. Dopo pochi minuti si procede a bagnare con il brodo caldo facendo cuocere a fuoco basso per un’ora circa o comunque fino a che la cottura è perfetta e dalla zuppa emana un profumo intenso: alla vista la zuppa non deve apparire cremosa e le lenticchie devono essere integre. Quando è cotta va lasciata riposare per 10 minuti lontana dal fornello.

Attenzione a non salare subito l’acqua, perché il sale rende le lenticchie più dure. Il sale si aggiunge a pochi minuti dalla fine della cottura.

La presentazione

La zuppa si serve in ciotole di terracotta con extravergine d’oliva e delle fette di pane tostato. Attenzione: l’olio va aggiunto sempre a cottura ultimata e fornello spento. Se si è preparata la zuppa di lenticchie in anticipo, conviene prima riscaldarla, aggiungendo un mestolino di acqua, e condire solo dopo con sale ed olio.

L’abbinamento

Ideale un buon Frascati o il Malbec oppure una birra Ale.

La zuppa di pesce

zuppa-di-pesce-2Pur nella sua semplicità, la zuppa di pesce è uno dei piatti italiani più apprezzati nel mondo. Le ricette sono tantissime: c’è la versione toscana (cacciucco), quella adriatica (brodetto), quella delle regioni meridionali, quella ligure (buridda). Variano i nomi e le specie ittiche impiegate, ma il procedimento è più o meno lo stesso. Un mix di pesci di mare serviti su una fetta di pane imbevuta con salsa di pomodoro leggermente piccante e agliata. Per un’ottima zuppa di pesce occorrono aromi (aglio e peperoncino, anche in quantità moderata, sono assolutamente necessari), pomodoro e tante varietà di pesce: scorfano, gallinella, rana pescatrice, triglie, moscardini, seppie, gamberi, vongole e scampi. Il primo consiglio quando si è davanti al banco del pescivendolo è di non darsi alle spese pazze: il risultato della zuppa è eccellente anche con i cosiddetti pesci poveri.

La preparazione del pesce

Anche se il procedimento richiede più tempo, tutto il pesce va pulito, eviscerato e sfilettato. Se non si ha tempo o voglia, si può chiedere al pescivendolo di fare queste operazioni, ricordandosi però di farsi dare testa e lische. I molluschi vanno fatti aprire a parte, in una pentola senza condimenti. Poi si filtra l’acqua che rilasceranno e la si aggiunge al brodo, per arricchirne il sapore. Anche gli scarti scarti del pesce non vanno buttati ma utilizzati per preparare il brodo, che va passato e aggiunto poi al soffritto di cipolle, carote e sedano per far cuocere il pesce.

La cottura

La pentola perfetta per cucinare la zuppa di pesce è quella in coccio. Il pesce va cotto per pochi minuti e inserito nella zuppa in momenti diversi, mai insieme: prima quelli con carni più solide, poi quelli più teneri e delicati, per evitare che si sfaldino durante la cottura. Quindi, prima seppie e moscardini, dopo qualche minuto gallinella, scorfano e rana pescatrice. Poi triglie, molluschi e per ultimo crostacei. Basta avere pazienza e aggiungere il pesce in base ai tempi di cottura, per non ritrovarsi con un polpettone stracotto nel piatto (se siete al ristorante o ospiti da amici è il pesce è ridotto in poltiglia significa che la zuppa è stata riscaldata).
Lasciate cuocere il pesce nel suo vapore senza mai usare il mestolo. Fate attenzione a sfumare bene il vino, in modo che non resti un eccesso di acidità sul palato. Il soffritto si fa con aglio, carota, cipolla e sedano tritati con un filo d’olio extravergine.

La presentazione

Le zuppe si servono sempre calde con una spruzzata di prezzemolo fresco e del pane casereccio, anche raffermo. Per un sapore più deciso, dopo aver fatto scaldare il pane in forno lo si può sfregare con con dell’aglio. Per preparare i crostini si fa a pezzettini o listarelle il pane e si mette in forno per 10 minuti (si possono anche friggere ma la zuppa così diventa più calorica). Attenzione, il pane dev’essere abbrustolito molto bene per evitare che si spappoli subito a contatto con la parte liquida della zuppa. I crostini vanno posti sul fondo del piatto (come prevede la ricetta classica), in questo modo rendono la zuppa ancora più buona. Oppure serviti in una ciotola a parte.

L’abbinamento

Il vino ideale da abbinare alla zuppa di pesce è il Sauvignon. In alternativa una birra Porter o una Kolsch.

I segreti di una buona zuppa

Al di là delle singole ricette, ci sono consigli che valgono per tutte le zuppe. Perché – attenzione – la zuppa è un piatto semplice da cucinare, ma nasconde insidie ed è un attimo commettere errori che ne compromettono la bontà. Per realizzare una zuppa impeccabile basta seguire poche regole. Primo segreto il brodo, ma anche la selezione degli ingredienti è decisiva.

Fare il brodo in casa

Un brodo di buona qualità è il primo segreto e l’ingrediente indispensabile per fare una buona zuppa e senza dubbio quello fatto in casa è il migliore. A seconda degli ingredienti, si può preparare con la carne, con il pesce o con le verdure. In questo caso il consiglio è di arrostire prima per qualche minuto le verdure al forno, renderanno la zuppa più saporita.

Non introdurre tutti gli ingredienti nello stesso momento

Gli ingredienti di una zuppa richiedono diversi tempi di cottura. Le lenticchie, devono essere aggiunte all’inizio, mentre il pesce a seconda della varieta e consistenza.

Insaporire con le spezie

Utilizzando spezie, erbe aromatiche, concentrato di pomodoro si può ridurre la quantità di sale. Attenzione però a non esagerare con il piccante. Se avete messo troppe spezie, per attenuare l’eccesso di piccante, aggiungete una sostanza acida che ne annulli l’effetto come il limone, lo yogurt, l’ananas o l’aceto.

Non farla bollire

La zuppa non va fatta bollire, ma solo lentamente e cautamente sobbollire. Non è una pignoleria, solo con il controllo della temperatura si consente di rilasciare i sapori degli ingredienti, il che garantisce un ottimo risultato. Potete scegliere di lasciarla più liscia o renderla più corposa frullandone una parte a fine cottura.

Preparare brodo in abbondanza

Una zuppa troppo fitta è impresentabile. Cucinando una zuppa, gli ingredienti tenderanno ad assorbire il brodo, alcuni più di altri, quindi è consigliabile prepararne un po’ di più rispetto a quello preventivato.

zuppa-genericaSalare solo alla fine

Aspettate la fine della cottura, assaggiando prima e valutando il sapore. Se salate all’inizio della cottura, la zuppa risulterà troppo salata. Questo perché il brodo e gli altri ingredienti tendono a rilasciare i sali minerali e interpretano già il ruolo di “insaporitori”.

Attenzione alla temperatura dell’olio

Preparare gli ingredienti prima di aver messo l’olio in padella per evitare che l’olio si scaldi troppo. Se fuma significa che si è scaldato troppo con il risultato che avrà un sapore sgradevole e che può essere dannoso per la salute.

Il tocco finale

L’olio extravergine di oliva va sempre messo a freddo per completare il piatto.




A Medjugorje l’hotel che parla e cucina bergamasco

Venanzio Poloni
Venanzio Poloni

A Medjugorje, in una zona tranquilla immersa nel verde, c’è da qualche mese un hotel in cui si parla bergamasco. Si chiama Stella Maris e a gestirlo c’è un seriano che in fatto di ristorazione la sa lunga. Classe 1956, Venanzio Poloni è albergatore da oltre 30 anni ed è titolare dell’albergo Centrale di Fino del Monte. Negli ultimi 20 anni ha accompagnato tantissimi pullman di pellegrini come capogruppo in vari santuari mariani. Di qui l’idea di lasciare la Valle Seriana per la Bosnia Erzegovina, per stare più vicino alla Madonna e trasmettere agli altri, anche attraverso il lavoro di ristoratore, la sua testimonianza cristiana.

È alla guida dell’hotel Stella Maris a Medjugorje dallo scorso primo aprile e sta già riscuotendo parecchi consensi tra i clienti, non solo per la qualità delle camere ma anche per l’ottimo servizio di ristorazione. Qui Poloni offre infatti molti piatti tipici della tradizione orobica, dai Casoncelli fatti in casa al capù con carne trita e verza. C’è poi la trippa bergamasca, che all’albergo Centrale di Fino del Monte è un classico da gustare in ogni periodo dell’anno e così a Poloni è venuta naturale l’idea di proporla anche a Medjugorje. «È stata una bella sfida ma i clienti apprezzano – rileva -. Nel menù ho tante specialità della mia terra d’origine capaci di dare conforto non solo agli italiani ma anche a inglesi, tedeschi, francesi, spagnoli, portoghesi».

hotel-stella-maris MedjugorjeQuella di Venanzio è una storia di fede, viaggi e cucina che parte da lontano. La sua è una famiglia di albergatori e fin da bambino è cresciuto respirando il profumo confortante dei sughi, degli intingoli e dei ripieni preparati tra le mura domestiche. Ancora adolescente, ha iniziato ad accumulare esperienze in giro per il mondo. Dopo aver studiato l’inglese a Cambridge, è diventato prima cameriere di bordo a Montecarlo e poi caposala sulle navi da crociera americane con destinazione Polinesia, Alaska, Caraibi. Tornato a casa, è diventato titolare dell’albergo storico di famiglia nel cuore di Fino del Monte ma la devozione alla Vergine Maria è da sempre il suo primo pensiero. Così è nato il progetto di aprire un luogo di sosta e ristoro per i pellegrini di Medjugorje. Nell’ampia sala da pranzo dell’hotel, si vedono ogni giorno gruppi di fedeli che pranzano spensierati, condividendo lunghi tavoloni imbanditi di specialità.

pranzo-preghiera- hotel - stella-maris - medjugorjeL’atmosfera è calda, accogliente. Spesso qualcuno prende la chitarra e intona una canzone per rendere omaggio a Gesù, trasformando un momento conviviale in una vera e propria festa. «A Medjugorje senti proprio la presenza soprannaturale della Madonna che poi ti dà la forza di andare avanti nella tua quotidianità», spiega Poloni. La conversione di fede di quest’uomo semplice e spontaneo ha colpito anche la scrittrice clusonese Angela Grignani Scainelli che nel 2013 ha raccolto la testimonianza di Venanzio e l’ha trasformata in un libro dal titolo “A Medjugorje Dio ha Parlato al Mio Cuore” (Edizioni Paoline). In questo testo vivido e profondo trapela tutta la devozione di Poloni che ogni giorno, attraverso il suo lavoro e la sua fede, ama donare tempo e risorse al prossimo.