Paolo Riva, il creativo dei dolci

paolo-riva-prodotti-3Una décolleté rossa, l’intramontabile bauletto di Louis Vuitton custoditi in una teca trasparente. I capi che fanno impazzire le donne sono trasformati in dolci al cioccolato dalla creatività di Paolo Riva.

Sono passati tre anni dall’inaugurazione della pasticceria a Treviglio, raffinata per i colori provenzali ripresi nel marchio e familiare dagli inebrianti profumi che ti avvolgono. Oggi non è solo il locale preferito dai golosi ma, con i suoi dipendenti, passati da una decina a 24, si conferma un’azienda florida. Durante le feste continua la produzione, a ritmo serrato, dei panettoni: dal laboratorio artigianale ne escono tremila l’anno. Le varietà sono tredici: classico, cioccolato e noci, cioccolato e pere, cioccolato, marron glacé, albicocca, uvetta, frutti di bosco, veneziana, pandoro, vuoto, mandorlata e una prelibatezza, mela e scorze di limone candite che ricorda nell’aroma la torta della nonna.

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«A contare più di tutto è la materia prima – ci tiene a precisare Riva -. Da noi non si trova la pralineria industriale, ma prodotti con una durata più breve proprio perché contengono ingredienti freschissimi come la polpa di frutta, più gustosi e salutari perché senza oli raffinati, dunque con il 60-70 per cento di grassi in meno». A colpire la vista sono capolavori in formato mignon come i pasticcini, oltre a marmellate, gelato e 18 tipi di brioche, dalla sacher con marmellata di lamponi a quella al pistacchio.

paolo-riva-prodotti-1Anche se la passione di Paolo Riva è il cacao. Portano la sua firma i cioccolatini al caramello, rosmarino e nocciola, le “Paolline”, sfere di cioccolato bianco ripiene allo zabaione oppure le “Nocciole alla Paolo” tostate e caramellate con una spruzzata di cioccolato bianco e lampone essiccato, il pasticcino con marzapane, fondente e noce, le barrette di fondente fermentato con il frutto della passione o la banana.
Il biscotto più gettonato è il macaron, un amaretto morbido dentro, dalla crosta croccante. Per realizzarlo al meglio, l’imprenditore è volato in Francia per seguire un corso e oggi ne sforna di ogni gusto e colore. In bella mostra le torte: ci sono le bavaresi al cioccolato fondente, alle arachidi e cioccolato morbido, al frutto della passione, al lampone, la gelée di fragole ai frutti di bosco con due strati di savoiardo, la mousse ai tre cioccolati senza farina, “Alba” con le tipiche nocciole, la panna cotta al cioccolato biondo.

paolo-riva-prodotti-2«Il segreto consiste nell’essere caparbi, umili e nel saper rischiare, spesso le difficoltà sono la molla più grande – dice il maestro pasticcere -. Oggi c’è un’esigenza di apparire, meglio essere defilati, esprimendosi solo quando c’è un vero bisogno. E lavorare sodo: fino a pochi anni fa era da “sfigato” fare il pasticcere, oggi, complice la tv, c’è la fila di aspiranti». Nel locale si può anche pranzare con sfizi gastronomici, insalate, panini, focacce, oltre ad acquistare conserve, spalmabili e l’ottimo caffè della sua torrefazione. E assaggiare l’ultima nata, la torta “Neve”, dal nome della bambina di Riva e della compagna Elena: una base di biscotto morbido alle nocciole croccanti, con strati di mandorle, pere e cioccolato, cremoso al mascarpone e crema ganache montata al cioccolato biscotto.

Pasticceria Paolo Riva

viale De Gasperi, 14/E,
Treviglio
tel. 0363 305162
www.pasticceriapaoloriva.com



Kalika, a Treviglio la pizza è anche solidale

kalika-2A Treviglio è possibile mangiare una buona pizza mettendosi una mano sul cuore. Sedersi da Kalica, in via Milano, non significa infatti solo gustare il cibo più amato dagli italiani, ma anche essere solidali.

Il locale è nato come cooperativa di lavoro per dare vita alla pizzeria della solidarietà ed è l’emanazione diretta dell’omonima associazione, senza fini di lucro, fondata tre anni fa per sostenere i genitori di disabili adulti in carrozzina finanziando i loro progetti. Le difficoltà diventano, infatti, sempre più gravi quando i ragazzi crescono e rischiano di perdere chi li ha accuditi. Il nome in greco significa bocciolo, simbolo del ristorante. L’obiettivo degli associati è raccogliere 400mila euro, cifra necessaria per acquistare l’immobile che diventerà una casa famiglia.

La struttura è già stata individuata, si trova ad Arcene, supera i 500 metri quadri e può ospitare tre famiglie e sette ragazzi. Per realizzare il sogno, ogni sera, si alternano con entusiasmo al banco e tra i tavoli una quarantina di volontari. A presiedere la cooperativa è Emilia Ruggeri, con esperienze nella ristorazione, che da quarant’anni vive sulla sua pelle le problematiche legate alla gestione di un figlio disabile, colpito da meningite all’età di 18 mesi.

Emilia Ruggeri con la famiglia
Emilia Ruggeri con la famiglia

«Il nostro calvario è cominciato proprio quando Cristian era vispo e cominciava a parlare. Con il tempo aveva cominciato a mangiare e camminare da solo, ma cinque anni fa c’è stata una forte crisi convulsiva, seguita dal coma e quando si è ripreso aveva perso ogni progresso – spiega la signora -. Negli anni, quando ho avuto la necessità di un supporto esterno, mi sono accorta che non esisteva una struttura in grado di aiutarmi». Nei progetti, la futura casa famiglia avrà un dirigente e si avvarrà di personale qualificato, su doppio turno, che sarà pagato attraverso le rette e garantirà un’assistenza ai pazienti soprattutto dopo la morte dei loro genitori e in assenza di altri parenti che possano prendersene cura. Il servizio riguarderà la bergamasca.

kalika«Ma per chi non avesse risorse per provvedere a sé economicamente, interverrà la pizzeria a coprire i costi», annuncia Emilia. Un altro motivo per cenare da Kalica è che le pizze sono davvero buone. Si usa il lievito naturale, la pasta riposa per 72 ore, formagelle e salumi sono nostrani, la mozzarella di bufala è Dop e le verdure sono da agricoltura biologica. Confortevole e colorato anche l’ambiente, arricchito dagli arcobaleni sulle pareti e dotato di un’area con i giochi per i bambini.

I prezzi sono convenienti: 10 euro per una margherita o una marinara inclusi bibita o birra grande e caffè, 13 se la pizza è a scelta. Per le festicciole di compleanno bastano 50 euro per dieci invitati, cifra che include cinque pizze, bibite e animazione. Kalica è anche pizzeria da asporto. Aperta dalle 17.30 a mezzanotte. Giorno di chiusura il lunedì.




Sulle tracce della trippa

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È una delle zuppe più tipiche e succulente della tradizione orobica. In brodo, in umido, con una spolverata di parmigiano o accompagnata da una fetta di polenta, la trippa è un gustoso misto di frattaglie, verdure e spezie che di recente sta tornando in voga sulle tavole di molti ristoranti. Piatto unico per eccellenza fin dai primi del Novecento, questa pietanza nel corso degli anni ha vissuto alterne fortune. Già, perché l’idea di mettere sotto i denti le viscere di un bovino di certo non piace a tutti. Se da un lato le vecchie generazioni non hanno mai smesso di apprezzarla, dall’altro c’è anche una folta schiera di giovani pronti a storcere il naso appena ne sentono pronunciare il nome.

Eppure, superato lo scetticismo iniziale, anche i più schizzinosi dopo il primo cucchiaio si convertono irreversibilmente al gusto tondo e confortante della trippa. Negli anni del boom economico questa minestra del quinto quarto è stata accantonata dai ristoratori orobici che la ritenevano troppo povera e di non facile preparazione nell’era frenetica del benessere. Da qualche tempo, però, la trippa è tornata timidamente a farsi viva, soprattutto in quei locali che hanno scelto di rispolverare le radici attraverso i piatti tipici della tradizione. Osterie valligiane, trattorie di città ma anche ristoranti stellati la propongono sempre più spesso, nel menù del giorno o da asporto, nei periodi più freddi dell’anno. Persino rinomati chef internazionali, come il britannico Gordon Ramsay e il suo omologo in “Cucine da incubo” Antonino Cannavacciuolo stanno cavalcando la crociata della trippa servita nelle sue molteplici varianti, da un ruspante panino fino a una più raffinata trippa di agnello con tempura di gamberi rossi. E così da piatto nazional-popolare di sagre e feste di paese, questa specialità d’altri tempi si è tramutata in un piatto intrigante, che mette d’accordo tutti, o quasi.

LA TRADIZIONE

trippa-la-ciotolaAll’inizio del Novecento erano soprattutto gli uomini che frequentavano le osterie di paese con cucina casalinga a richiedere la trippa. Nelle trattorie della Bergamasca erano ammessi solo clienti maschi e sposati che, dopo le nozze, erano soliti fare un salto al ristorante per ricevere una sorta di investitura assaggiando un cucchiaio di trippa. Le donne invece in osteria entravano soltanto per riempire la pentola e portare a casa il cibo.

Ancora oggi in tante case e ristoranti dell’alta Valle Brembana, la vigilia di Santa Lucia equivale al pentolone di trippa, la cosiddetta büsèca, che bolle sul fuoco dal primo pomeriggio. All’agriturismo Ferdy di Lenna, per esempio, questa specialità non manca mai in inverno. La preparano tagliata a pezzetti con piedino di vitello disossato, fagioli bianchi e pomodoro fresco. Può essere servita come minestra oppure come secondo piatto, accompagnata da un contorno di polenta bergamasca.

O SI AMA O SI ODIA

ol-giopi-e-la-margiLa trippa è una zuppa di verdure miste e frattaglie costituite dall’apparato digerente dei bovini, fra l’esofago e lo stomaco. Per questa ragione la sola descrizione la rende assai poco appetibile ed anche l’autorevolezza di molte buone forchette fatica a convincere ad un assaggio i più restii. Come spiega Alioscha Foglieni, co-titolare del ristorante Ol Giopì e la Margì di via Borgo Palazzo: «Noi serviamo la trippa da oltre vent’anni. Non la toglieremo mai dal menù perché amiamo valorizzare le tipicità bergamasche e la trippa fa parte dei sapori tradizionali della nostra cultura. La prepariamo con sedano, carote, cipolla, pomodoro, patate e fagioli. Per farla conoscere anche ai più scettici abbiamo pensato di proporla come antipasto all’interno di una selezione di cinque assaggini misti del nostro territorio. Così molti clienti dopo averla provata ne rimangono colpiti e ci chiedono di averla come piatto di portata. Anche i turisti la provano e la apprezzano».

BERGAMASCA, MA NON SOLO

Ferdinando Testa
Ferdinando Testa

Veneta, romana, toscana o genovese, quasi ogni regione e provincia ha la sua ricetta per la trippa. Si va dalla trippa di Brescia in brodo di verdure alla “busecca” alla milanese, passando attraverso la trippa calabrese “ara carvunara”, solo per citarne alcune. Paninozzi croccanti con lampredotto o fette di pane sciocco e trippa solleticavano i palati dei fiorentini già ai tempi di Lorenzo de’ Medici. In provincia di Torino c’è persino la Confraternita della trippa che vanta origini trecentesche. La versione originale della trippa alla Bergamasca è in brodo. Tuttavia ogni cuoco ha la sua ricetta. «Per una trippa perfetta – spiega Ferdinando Testa, titolare con la sorella Antonella del ristorante La Ciotola di viale Papa Giovanni – consiglio di utilizzare interiora di qualità e un mix di verdure di stagione e spezie. La cottura dev’essere lunga e lenta: servono circa tre ore. In generale più la trippa cuoce e meglio è. I nostri nonni dicevano che il giorno dopo è ancora più buona».

UN GUSTO INTERNAZIONALE

In antichità i greci cucinavano la trippa alla brace, i romani invece la utilizzavano per preparare salsicce. Ma anche oggi questa pietanza è presente nelle cucine tradizionali di tutto il mondo. Al nord della Francia, in Normandia, si fanno la Tripes à la mode de Caen o la Tripes en brochette de la Ferté-Macé mentre al sud c’è il Pieds et paquets, una gustosa specialità marsigliese. La trippa si trova anche in Romania, sia in umido (Chkémbè tchorba) che in brodo (Ciorba de burta), e in Medio Oriente (İşkembe). C’è poi il ristoratore bergamasco Venanzio Poloni che è riuscito a portare la trippa alla bergamasca fino a Medjugorie: apprezzatissima dai pellegrini, è diventata una delle pietanze di punta del suo Hotel Stella Maris insieme al capù di verze. Anche Ferdinando Testa conferma la propensione degli stranieri per questo piatto tipico: «Per molti anni la trippa era scomparsa dal nostro menù – evidenzia -. Il nostro è un locale di grande passaggio turistico e ci si era convinti che un piatto così non avrebbe funzionato. Di solito era più ricercato nelle trattorie tipiche bergamasche. Tuttavia da un anno a questa parte abbiamo deciso di rivoluzionare il nostro menù andando alla scoperta delle pietanze della tradizione, trippa compresa. È stato un successo – rivela -. A ordinarla sono soprattutto i clienti dai cinquant’anni in su che vanno alla ricerca dei sapori della loro infanzia, mentre i giovani restano molto scettici. La trippa è molto amata anche dagli stranieri, soprattutto da chi proviene dai Paesi nordici, inglesi ma anche dai francesi, che in fatto di zuppe la sanno lunga».

IN CUCINA

Ai fornelli ogni chef ha il suo stile nel preparare la trippa. Celebre è per esempio il foiolo del ristorante Lio Pellegrini di via San Tomaso accompagnato da una fetta di polenta grigliata. Rispetto ad altre preparazioni tradizionali, la ricetta di Giuliano Pellegrini è più leggera. Per iniziare niente aglio, pancetta o lardo ma solo olio d’oliva e due piccole cipolle anziché il mezzo chilo di un tempo. Anche la cottura cambia: due ore anziché quattro. Vincenzina Salvi, cuoca dell’albergo Centrale di Fino del Monte punta invece sul gusto delle verdure e degli aromi. Per quanto riguarda la carne, oltre allo stomaco della mucca, la cuoca mette il ginocchio di maiale per dare più sapore: «Una buona trippa dev’essere fresca. La carne va fatta bollire bene con una spruzzata di acqua e aceto. Poi metto in pentola a freddo tutti gli ingredienti. Con gli ortaggi di stagione e le erbe ci si può sbizzarrire. Personalmente metto di tutto tranne i piselli o le carote perché sono troppo dolci. Nella mia trippa c’è anche il ginocchio di maiale, un’aggiunta che nella ricetta originale non è prevista. Infine metto la passata di pomodoro, salvia, rosmarino, prezzemolo e alla fine regolo con il sale, ma senza esagerare perché più la zuppa bolle più diventa saporita. A tavola c’è chi la aggiusta la trippa con il pepe, il peperoncino, i crostini di pane o il parmigiano. Io consiglio di consumarla al naturale, senza formaggio perché rende la trippa più acida falsandone il sapore».

IL PIATTO DEL GIORNO

Susi Assolari e Walter Brembilla
Susi Assolari e Walter Brembilla

Per lo chef Walter Brembilla della trattoria “Come una volta” di Desenzano Albino preparare la trippa per i clienti è una gioia, come conferma la titolare Susi Assolari: «Da sei anni a questa parte abbiamo scelto ottobre come il mese della trippa. È un piatto molto particolare, non piace a tutti, quindi non lo teniamo nel menù tutto l’anno ma solo per un periodo limitato, sia a tavola che da asporto, in concomitanza con la festa della Beata Vergine del Miracolo della Gamba. Quando c’è, però, la ordinano in molti. Grazie al passaparola arrivano da noi parecchi clienti soltanto per assaggiare la trippa. Se qualcuno ce lo chiede con anticipo al momento della prenotazione, gli possiamo preparare la trippa su richiesta. Il nostro chef adora cucinarla anche se il procedimento è lento e lungo». All’albergo Centrale di Fino del Monte la trippa non manca mai, nemmeno nei mesi caldi: «Preparo trippa in umido tutti i giorni, estate e inverno – conferma la cuoca Vincenzina Salvi –. Qui da noi è sempre disponibile nel buffet e la si può mangiare a volontà. Piace moltissimo».

FRESCA O PRECOTTA

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Fabio Magri

In lattine, tetrapak o bustone surgelate, tra gli scaffali del supermercato o nel banco frigo spuntano parecchie confezioni di trippa adatte a chi non ha tempo di mettersi ai fornelli. Bastano pochi minuti al microonde per ottenere una zuppa fumante come al ristorante. Metodi culinari rapidi che tuttavia piacciono poco a Fabio Magri, titolare della macelleria Magri di Chiuduno: «C’è stato un momento storico in Italia in cui abbiamo perso la tradizione delle nostre nonne e abbiamo optato per una cucina veloce. Si è progressivamente affermato un predominio della tecnologia alimentare di stampo industriale sui metodi più tradizionali. Per molti cucinare è diventato soprattutto l’atto di scaldare qualcosa di già pronto e surgelato. Con il cibo in scatola è un altro pianeta, ci sono troppi conservanti. Per fortuna da qualche tempo la gente sta ritornando alle radici, prestando più attenzione agli ingredienti sani».

I nomi e le preparazioni

trippa-per-box-nomiBUSECCA: dal tedesco Butze, è il nome lombardo, perlopiù milanese, usato anche in Bergamasca. Prevede l’utilizzo di tutti i tagli dei prestomaci, dello stomaco e perfino della prima parte dell’intestino (quello che i romani chiamano pajata).

CUFFIA: altro nome del reticolo, di forma globosa.

FOIOLO: (detto anche millefoglie o libro) identifica l’omaso, ovvero la parte che molti ritengono la migliore sia in cottura sia per il gusto delicato. I piatti che ne prevedono l’utilizzo esclusivo ne prendono il nome.

LAMPREDOTTO: nome fiorentino della trippa ricavata dall’abomaso, ovvero lo stomaco. È un tipico cibo da strada, ideale per farcire panini. Prende il nome dalla lampreda, un’anguilla primordiale di cui ricorda la forma e il colore.

RICCIA: è il nome più diffuso della trippa ricavata dalla parte più pregiata dell’abomaso (detto anche gala). È caratterizzata dalla presenza di creste violacee che conferiscono alla trippa un sapore più intenso.

Qualche indirizzo dove gustarla

In città: La Ciotola (viale Papa Giovanni) – tutto l’anno; Ol Giopì e la Margì (via Borgo Palazzo) – tutto l’anno; Trattoria Lozza (via Madonna del Bosco) – da ottobre a febbraio.

In provincia: Trattoria Moro da Gigi (Desenzano di Albino) – da ottobre a maggio nel menù del giorno e da asporto; Trattoria Come una volta (Desenzano di Albino) – nel mese di ottobre in occasione della festa della Madonna della Gamba e su prenotazione durante l’anno; Hosteria del Vapore (Carobbio degli Angeli) – piatto del giorno da settembre a marzo; Antica Locanda (Clusone) – una volta al mese come piatto del giorno; Albergo Centrale (Fino del Monte) – tutti i giorni dell’anno; agriturismo Ferdy (Lenna) – nei periodi freddi e in occasione di Santa Lucia; Al Platano da Gira (Foresto Sparso) – piatto del giorno nei periodi più freddi dell’anno; Polisena “L’altro agriturismo” (Pontida) – nel menù autunnale; Albergo ristorante Da Gianni (Zogno) – serate a tema nel mese di novembre.

Le sagre: Festa della trippa di San Pellegrino (Santa Croce) – settembre; Sagra del Casoncello d’autunno a Strozza, con sfida tra casoncello, trippa e pizzoccheri – metà ottobre.

 




Alla ricerca del panettone ideale? A Milano assaggi gratuiti nelle pasticcerie

panettone-milaneseVolete trovare il panettone che più vi piace? Giovedì 15 dicembre è la giornata giusta perché a Milano e provincia si tiene la “Giornata del Panettone artigianale milanese”, che propone assaggi gratis quasi cento pasticcerie e panifici che realizzano il panettone milanese tradizionale.

La possibilità di assaggio si vede dalla vetrina: i pasticceri aderenti espongono infatti la vetrofania per invitare i clienti alla prova del panettone artigianale. Oltre che in città, si assaggia anche a Cinisello, Sesto, Segrete, Legnano, Corsico e altre aree del territorio. Qui l’elenco delle insegne che partecipano.

Sempre il 15 dicembre una degustazione di panettone sarà proposta, dalle 14.30 alle 15.30, al Casello Ovest di Porta Venezia, sede dell’Associazione Panificatori di Confcommercio Milano, mentre sabato 17 sarà l’Unione Artigiani ad organizzarla, alle ore 11,30 presso la sede del Sole 24 Ore, in via Monterosa 91.

Ci sono anche dei gadget natalizi: l’albero del panettone tipico da ritagliare e le decorazioni per Natale. Si trovano nelle pasticcerie e si scaricano in internet dal sito: www.mi.camcom.it

Sono invece 150 le pasticcerie che possono fregiarsi del marchio “panettone tipico della tradizione artigianale milanese”, che assicura che si tratta di un prodotto fresco, senza conservanti e artigianale. Il marchio è depositato presso l’Ufficio Brevetti della Camera di commercio di Milano ed è una iniziativa promossa dalla Camera di commercio di Milano, dal Comitato dei Maestri Pasticceri Milanesi, dalle Associazioni dei pasticceri, dei panificatori, degli artigiani e dei consumatori.

Intanto cresce il business del panettone, 2,5 milioni in più rispetto allo scorso anno, +5% e affari per 60 milioni. Emerge da un’indagine della Camera di commercio di Milano su oltre trenta pasticcerie milanesi contattate in questi giorni. Per 9 su 10 va quello tradizionale. Per i pasticceri è il simbolo principale e naturale di Milano (55% moltissimo, 42% molto). Crescono gli stranieri tra la clientela, un cliente su venti, il 5%. Il 32% è favorevole a un panettone in versione estiva per avere un dolce tipico tutto l’anno.i Istat al primo semestre 2016 e 2015.




L’architetto, l’antiquaria e la passione per le torte: ecco DuLciS

Simona Sai e Laura Crotti
Simona Sai e Laura Crotti

La passione e la volontà fungono da benzina per sviluppare progetti che sembrano impossibili da realizzare, ma che improvvisamente diventano realtà e permettono di seguire un percorso, una strada che forse non si era neanche mai immaginata come futuro sbocco professionale.

Devono averlo pensato, solo qualche mese fa, Laura Crotti e Simona Sai, due bergamasche che, tornando indietro di un paio di decenni, già si conoscevano di vista e frequentavano alcuni amici in comune, ma la cui quotidianità era segnata da professioni e storie molto diverse. Laura con competenze professionali nel mondo dell’antiquariato (e un negozio di famiglia da gestire in centro a Bergamo), Simona, invece, impegnata nel seguire, dopo l’università, la carriera di architetto, tra progettazioni edilizie e la costruzione di impianti sportivi e centri benessere.

Poi, quasi in contemporanea, è arrivata la svolta per entrambe, la cosiddetta “sliding door”, con la grande passione per la pasticceria, che nasce e si evolve sulla scia dell’esplosione, anche mediatica, del cake design, ma prende il via con un approccio più casalingo per entrambe, prima di seguire dei corsi specialistici.

«Ricordo bene quando ho deciso che volevo lavorare nel mondo dei dolci – dice oggi Simona -. È stato circa sette anni fa, il giorno in cui mi sono messa a preparare una torta di compleanno per mio nipote. Mi sono sentita subito realizzata nel fare qualcosa di più personale e piacevole di quello che il destino mi aveva riservato sino ad allora con la routine giornaliera tra cantieri e uffici».

E a farle eco è l’attuale socia Laura, con la quale ha inaugurato da poche settimane DuLciS, un laboratorio di pasticceria ad Almé, in via Campofiori al civico 26c: «Questa è una professione che ho iniziato a svolgere in maniera piuttosto naturale, perché possiamo certamente dire che racchiude una certa dose di creatività e permette di sviluppare idee artistiche davvero interessanti. In fin dei conti non è poi stato complicato, perché tutte e due già svolgevamo dei lavori dove la creatività e il gusto del bello dovevano essere decisamente spiccati. Diciamo che ora abbiamo aggiunto anche il gusto del buono…».

Simona e Laura si sono incontrate quattro anni fa un po’ per caso. Hanno scoperto che entrambe dovevano partecipare al corso di modelling di un famoso cake designer a Legnano, così si sono risentite dopo anni e hanno deciso di fare il viaggio in macchina insieme. Durante la lunga chiacchierata che è scaturita sono state gettate in qualche modo le premesse della futura collaborazione, anche se negli anni successivi il percorso delle due è stato un po’ diverso. Simona ha lavorato nel dietro le quinte de La Marianna, in Città Alta, occupandosi prevalentemente della decorazione della biscotteria lavorata, mentre Laura ha iniziato a confezionare torte con la pasta da zucchero e a inanellare collaborazioni di prestigio che continuano tuttora. Per fare un esempio, il grande cappello da chef che pochi mesi ornava la torta celebrativa dei cinquant’anni del ristorante Da Vittorio è opera sua, e con la famiglia Cerea ancora oggi le capita di realizzare torte su misura o parti di dolci che richiedono attenzioni certosine e manualità artigianale.

Ora con il nuovo laboratorio DuLciS (la L e la S maiuscole ovviamente sono le iniziali delle due socie…) si sono aggiunte anche collaborazioni con altri ristoranti di fama, come l’Osteria della Brughiera e Frosio, i due indirizzi “stellati” che, tra l’altro, sono più vicini al laboratorio. Certo, il nuovo lavoro in proprio adesso impone ritmi più serrati e una scaletta decisamente impegnativa, come si vede bene osservando dalla vetrina che invita ad entrare nel laboratorio Così, pur mantenendo la caratteristica di una attività assolutamente artigianale, di due ragazze che realizzano dolci su ordinazione, DuLciS sin dall’apertura ha iniziato a sfornare un mondo di prelibatezze piuttosto variegato, che prende il via dalle praline, passa attraverso i biscotti e arriva dalle parti delle torte, passando per la cioccolateria.

Con scelte ben precise, che non badano troppo alle esigenze di chi, proprio in questi giorni, vorrebbe ordinare il classico dolce delle feste. Dice Laura: «Niente panettoni o pandori. Preferiamo concentrare la nostra attenzione sui prodotti freschi e in tutti quelli dove si percepisce bene l’utilizzo di un’ottima materia prima. Sicuramente prepareremo anche dei dolci natalizi, ma come idea regalo e saranno perlopiù confezioni di biscotti, quelli con la frolla decorata, oppure cioccolatini con un packaging dedicato proprio al Natale. Non vogliamo buttarci in una produzione seriale e preferiamo curare la qualità e il rapporto con il singolo cliente. Sia ben chiaro, la nostra idea di dolce è quella della classica torta italiana e della pasticceria tradizionale, ma al tempo stesso ci piace l’idea di adattare qualche preparazione alle novità proposte dal cake design, senza però finire nelle classiche americanate».

Intanto da DuLciS c’è già l’occasione di partecipare a dei corsi di pasticceria, per un massimo di otto persone e sono quasi sempre giornate intense, per i grandi che vogliono poi cimentarsi tra le mura domestiche, magari carpendo prima qualche trucco del mestiere, oppure per i piccini che si divertono a impastare e a preparare dolcetti, come se fosse un gioco.

DuLciS

via Campofiori, 26c
Almé
dulcissnc@hotmail.com
366.4943440 – 393.9866639



“Tilde”, a Treviglio il panettiere che rilancia i grani antichi

Simone conti con la moglie Marisol
Simone conti con la moglie Marisol

Cresciuto nel negozio di alimentari gestito per mezzo secolo da suo papà Pino, storico commerciante trevigliese scomparso il mese scorso, Simone Conti sembrava lontano anni luce dal raccoglierne il testimone: si è laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Bergamo, in Editoria a Londra, dove ha vissuto e conosciuto la moglie Marisol Malatesta – pittrice peruviana e tutor all’ateneo di Bournemouth, al suo fianco nella nuova avventura, dopo una parentesi a Barcellona – occupandosi di fotografia e mantenendosi lavorando nei ristoranti della City.

Finché, dopo tante esperienze, ha ritrovato la strada di casa, aprendo un forno artigiano, nella frazione di Castel Cerreto, dove produce pane a pasta madre e recupera grani antichi. Le pagnotte sono a pezzatura grande, sugli 850 grammi, e destinate a negozi e ristoranti. Annessa, però, c’è la bottega per la vendita diretta. Il laboratorio, 120 metri quadri nella corte padronale di via Contessa Piazzoni, si chiama “Tilde”, come il simbolo dell’infinito che è impresso nel suo pane, usato in spagnolo e, fin dal Medioevo, dagli amanuensi per abbreviare risparmiando carta e inchiostro. «Richiama la mia filosofia: cura e rispetto della tradizione, usando tecnologie moderne», spiega Simone.

La svolta è avvenuta proprio a Londra, dove era “fuggito” nel 2005 con l’obiettivo di migliorare l’inglese. Il nonno paterno, Luigi, era agricoltore e aveva un banco al mercato. Il padre iniziò a stare dietro al bancone della carne che era dodicenne. Due anni dopo aveva ottenuto il primo contratto in regola. Dopo quattordici anni di lavoro come dipendente, il grande salto: l’opportunità, colta al volo, di comprare l’attività, diventata a conduzione familiare.

«Ricordo, da bambino, quando facevo da accompagnatore per le consegne con il furgoncino. Mio papà ha sempre amato il suo mestiere, tanto da dimenticarsi di aver raggiunto i requisiti per la pensione, ma ha anche sempre condotto una vita durissima e io, al contrario dei miei familiari, ho scelto di fare altre esperienze», sorride il panettiere.

Tilde - forno artigiano - Treviglio - paneMentre cercava la sua strada, Simone si è mantenuto prima lavando i piatti, poi arrivando a occuparsi di pasticceria e diventando cuoco nella capitale inglese. L’incontro che gli ha aperto un nuovo mondo è stato con Giorgio Locatelli, il più famoso chef italiano a Londra, che vanta clienti come Madonna, Robbie Williams, Johnny Deep o i Beckham. «Mi ha fatto apprezzare la filosofia di Slow Food ed è stato allora che ho maturato il mio progetto – dice Conti -: usare farine ottenute da varietà di cereali rare e superiori per migliorare il prodotto, renderlo più aromatico e salutare, favorendo l’economia locale e facendo tornare sovrana la biodiversità alimentare». I grani provengono da aziende che praticano un’agricoltura in piccola scala, investono in pochi ettari di campi e non usano pesticidi. Il glutine è limitato. La macinatura avviene a pietra naturale in modo che il chicco non sia spaccato, né schiacciato, ma pelato, conservando tutte le proprietà nutritive originali. Il lievito madre è da farine tipo 2 e integrale con germe di grano e parte della fibra.

Difficile da lavorare, la miscela è impastata da una macchina speciale a braccia tuffanti, dopo un passaggio in apposite celle frigorifere che fanno ritardare la fermentazione. Il prodotto si mantiene in tutta la sua bontà per almeno per cinque giorni. Segreti e tecniche che Simone ha imparato frequentando un master a Bra nel 2010. Tornato a Londra, ha preso spunto da ciò che accadeva a Hackney, il quartiere dove viveva con Marisol, dalla riscoperta delle botteghe e del cibo a chilometro zero già avviata. A Bristol, al Bordeaux Quay, ristorante che ricicla anche l’acqua piovana, ha invece appreso l’importanza della sostenibilità, mentre all’E5 Bake House di Londra l’arte della panificazione, impastando ogni giorno a mano. «Gli inglesi si ispirano molto ai francesi nelle tecniche, ma sono più integralisti e sono copiati anche dagli americani. Nulla è approssimativo o lasciato al caso, da loro ho imparato l’importanza delle lievitazioni lunghissime, che superano le venti ore e che quasi nessuno, da noi in Italia, propone perché antieconomiche, ma che io metto in pratica ogni giorno», ammette.

Nel suo forno a Castel Cerreto, l’artigiano si concentra su quattro varietà. La prima è la più antica, il grano tenero che mescola sei-sette tipi di semi, forniti dall’azienda agricola Floriddia di Peccioli, nel Pisano. «Ogni risultato è un esperimento, provano a coltivare diverse specialità e quel miscuglio diventa il frutto tipico di quel territorio, un unico irripetibile altrove», aggiunge Marisol.

I nomi dei semi sono, per citarne alcuni, il monococco, la sarragolla, la tumminia, il farro spelta e il farro dicocco. Poi, i grani siciliani, i tre farri e la segale Val di Gesso. A fornire la materia prima sono anche il Mulino della Riviera di Dronero e dal Sobrino a La Morra, nel Cuneese, Del Ponte a Castelvetrano, in provincia di Trapani, e Podere Monticelli a Villanova del Sillaro, nel Lodigiano.

Il locale possiede uno spazio che sarà dedicato alle esposizioni d’arte e in programma ci sono anche corsi per i bambini. «L’educazione è la base, la differenza non sta nel prezzo, ma nella qualità, le nuove generazioni devono saper distinguere una fetta “vuota” da una ricca di vitamine», è l’opinione della coppia. La produzione iniziale è di 300 chilogrammi a settimana. A questi si aggiungono biscotti, dolci, focacce e la rivendita di prodotti del territorio come latte, uova, confetture, miele, lumache. Tra tanta esperienza, la più importante resta però quella di papà Pino: «Lui vale più di qualsiasi master, lo ricordo sempre felice dietro al bancone, conosceva i nomi dei clienti, scambiava battute in dialetto, li consigliava. Mia mamma e due mie sorelle gli erano sempre vicine – ricorda l’artigiano del pane -. Per lui i problemi non dovevano entrare nella bottega, doveva accogliere il suo cliente. Con il sorriso».

Tilde - forno artigiano - Treviglio - paneTilde

via Contessa Piazzoni 7/a
Treviglio – Castel Cerreto
www.tildeforno.com

 




Francesca Marsetti, dalla “Prova del Cuoco” alle cene a domicilio

Francesca Marsetti
Francesca Marsetti

Fa la spesa al posto del cliente, prepara le basi nel suo laboratorio a Clusane, arriva nella casa un paio d’ore prima e cucina sotto gli occhi degli invitati come se stesse tenendo uno show cooking. Se i commensali sono tanti, si porta le stoviglie. Non importa la distanza, ma soddisfare i palati più esigenti, da Nord a Sud. Il talento di Francesca Marsetti, nata a Calcinate, ma residente a Iseo, si fa conoscere nelle case degli italiani sia grazie alla sua presenza alla “Prova del Cuoco”, sia per la sua professione di chef a domicilio. A ricorrere ai suoi manicaretti è la più svariata tipologia di cliente. Anche fidanzati pronti a chiede alla dolce metà di convolare a nozze.

Marsetti è presente sul web con il sito raggiungibile all’indirizzo Francichef.it. I menù spaziano dalla tradizione del lago alla cucina mediterranea, da quella tipica bergamasca al sushi. A volte, le richieste sono le più stravaganti. «Un ragazzo per una festa di compleanno mi ha commissionato piatti esotici, io ho preparato il sea bass, una spigola che si trova nei mari del Sud Africa, guarnita da frutta», svela.

Francesca può cucinare da sola se impegnata per due/quattro persone, in caso contrario, con compagnie di 15-20 ospiti si avvale di collaboratori. Il costo della cena varia dai piatti al numero di invitati e parte da 60 euro a testa (o 70 per un menù dagli occhi a mandorla), esclusi i vini, il gettone dello chef o eventuali spese in caso di lunghe trasferte. Nonostante la mamma sia cuoca e il papà abbia gestito una macelleria a Grumello del Monte con un’esperienza che si tramanda da generazioni, la famiglia l’ha messa in guardia fin da subito sulle difficoltà che avrebbe incontrato. «Lavorare in cucina è massacrante. I miei avrebbero preferito un mestiere più leggero, ma io sono testarda», ammette Marsetti.

A soli 12 anni Francesca era già iscritta alla scuola Le Cordon Bleu di Bergamo, poi si è diplomata all’Alberghiero di San Pellegrino, cimentandosi ai fornelli del ristorante bistellato “Da Vittorio”. «È l’esperienza più importante. Ero l’unica donna tra 21 uomini. Comunque, se sei brava, conquisti il tuo posto, l’importante è non assumere atteggiamenti maschili», dice.

con Antonella Clerici alla Prova del Cuoco
con Antonella Clerici alla Prova del Cuoco

A Raiuno è approdata dopo essere stata selezionata tra i componenti della Nazionale Italiana Cuochi. Oggi aiuta i concorrenti della sfida settimanale nelle prove. L’anno scorso, nel programma di Antonella Clerici ha anche vinto il torneo “I Primi siamo noi” con i casoncelli. Docente all’Accademia del Gusto di Osio Sotto, la chef ha anche firmato le trofie al pesto per “My cooking box”: scatolette, in vendita in aeroporto o in eleganti gastronomie, dove si trova tutto il necessario per preparare un piatto da gourmet. Ma se fosse lei a dover conquistare con una portata, cosa preparerebbe? «Spaghetti al pomodoro, se vinci nella semplicità, vinci sempre».




Quante cantonate sulla storia del riso. Pure Cracco ne ha presa una

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«Qual è il piatto che unisce l’Italia?» – tuona Carlo Cracco in una delle puntate d’apertura dell’ultima edizione di Hell’s Kitchen. Schierata dinnanzi all’impudente mattatore, la spaurita brigata di cucina appare ancor più esitante del solito. «Il riso» – azzarda un commis di chiare origini sicule. Per quanto assai più pertinente della pizza che lo chef vicentino vorrebbe sentirsi suggerire, la risposta è da questi accolta con un’irridente canzonatura: “Certo, chi non conosce le celebri piantagioni siciliane di riso?”. La frecciata del nume televisivo dei fornelli sibila tra i risolini di condiscendenza degli astanti. “Ma gli arancini?” – si schermisce l’ingiustamente sbeffeggiato concorrente, cui nessuno presta però più attenzione.

Pur senza ubique coltivazioni, è in realtà indiscutibile che il riso sia profondamente radicato nella tradizione culinaria di quasi ogni angolo del nostro paese. E proprio la Sicilia fu il portale attraverso il quale, su impulso arabo, il cereale fece nel cuore del medioevo il suo definitivo approdo alla gastronomia della Penisola. Oltre che dai famosi arancini, questo importante passaggio storico è eloquentemente documentato da un manicaretto tutt’oggi in voga nel levante della Trinacria: la tummala, un timballo strettamente imparentato con i polow della cucina persiana. La singolare denominazione della vivanda è legata all’emiro-gourmet Mohamed Ibn Thumma, reggente di Catania nell’XI secolo, che nell’epopea dei paladini ha estorto discutibili simpatie tradendo i correligionari per stringere alleanza con il normanno Ruggero I d’Altavilla.

Quella su cui è sdrucciolato l’ineffabile Cracco non è certo la prima – ed a fortiori neppure la più illustre – delle topiche nelle quali, discettando di riso, sono incappati gastronomi e uomini di scienza. Già nel I secolo d.c. Plinio il Vecchio scriveva che lo stelo della graminacea è corredato di «foglie carnose, simili a quelle del porro, ma più grandi». Tale descrizione appare, ad essere generosi, quantomeno fantasiosa. A discolpa dell’illustre naturalista, v’è da precisare che all’epoca il cereale non era ancora coltivato in Europa e che dunque, con ogni probabilità, mai lo studioso aveva avuto facoltà di ammirarne una pianticella con i propri occhi. Diciassette secoli più tardi toccò nientemeno che al sommo Carlo Linneo, padre della moderna classificazione degli esseri viventi, prendere un veniale granchio collocando in Etiopia – e non, come successivamente assodato, in estremo oriente – la località d’originaria provenienza dell’oryza sativa.

Di minor indulgenza sono invece meritevoli gli svarioni dei quali sono zeppe parecchie pagine a stampa dei nostri giorni. Scrivendo ad esempio del vialone nano veronese, tal Marino Melissano, compilatore di una trattato dall’ampollosa titolazione di “Alimentologia”, sostiene che «la sua coltivazione fu spinta dalla Repubblica Serenissima di Venezia». Peccato che la celebre varietà risicola fu ottenuta per ibridazione presso la Stazione Sperimentale di Vercelli solo nel 1937 – ovverosia quasi un secolo e mezzo dopo la caduta dello Stato Veneto per mano del Bonaparte. A rincarare la dose ci pensa Rosalba Gioffré in un libello dedicato al “Vegano Italiano”. Nel trattare di risi e bisi – piatto che il giorno di San Marco era servito sulle mense dei Dogi – l’immaginifica gastronoma si spinge addirittura a speculare sul cru della graminacea di cui si sarebbero approvvigionati gli antichi cucinieri di Palazzo Ducale, azzardando chimericamente che «il riso utilizzato è sempre stato il vialone nano di Grumolo delle Abbadesse».

In effetti, le varietà risicole attualmente in voga nella nostra cucina hanno alle spalle una storia relativamente recente. Sino alla fine del XVIII secolo di fatto se ne conosceva solamente una – l’ormai estinta nostrale – appartenente alla sottospecie nota come indica. Si doveva trattare di un ceppo a grani cilindrici ed allungati, probabilmente simili a quelli dell’esotico basmati che oggi è agevolmente reperibile anche presso la grande distribuzione. All’inizio dell’ottocento le risaie iniziarono tuttavia a subire gli attacchi di un appestamento botanico – il cosiddetto brusone – il cui impatto sulla coltivazione della graminacea fu non meno devastante di quello che la fillossera avrebbe di lì a pochi decenni avuto sulla viticoltura. L’ottenimento di cloni cerealicoli resistenti alla patologia, che scamparono la risicoltura del nostro paese da un’altrimenti certa capitolazione, fu esclusivo merito di due autentici eroi della storia agricola Italiana, tanto schivi in vita delle luci della ribalta quanto ingiustamente relegati in un postumo oblio.

riso-carnaroli

Il primo dei due personaggi rispondeva al nome di padre Giovanni Calleri, un tenace gesuita sabaudo spedito nei primi decenni del XIX secolo ad evangelizzare i selvaggi delle Filippine. Sulla via del definitivo rientro a casa, l’ardimentoso canonico riuscì a trafugare dalla Cina le sementi di ben 43 varietà risicole endemiche, appartenenti alla sottospecie denominata japonica, la cui esportazione dal Catai era all’epoca (1839) severamente interdetta. Le pianticelle che germinarono dai chicchi arraffati dal religioso, immuni al brusone e produttive di grani pingui ed oblunghi, assicurarono le fondamenta genetiche delle principali tipologie di riso oggi coltivate nella Penisola.

La seconda figura è quella di Ettore De Vecchi, un caparbio agronomo pavese che nella prima metà del novecento dedicò la propria esistenza a selezionare nuovi cloni di elevato profilo qualitativo. Povero al punto da non potersi permettere un’automobile – perì infatti quasi ottuagenario travolto in sella alla sua vecchia motocicletta – De Vecchi fu l’indiscusso padre di molte tra le varietà d’eccellenza attualmente in dote alla risicoltura italiana. Tra queste hanno distinzione il carnaroli, cui per eccesso di modestia l’agronomo impose il nome di un collaboratore, ed il vialone, che ai nostri giorni sopravvive quasi esclusivamente nella versione ibridata con la varietà nano.

A pochi è infine noto che la coltivazione della nobile graminacea conobbe una timida quanto caduca fioritura anche nel nostro circondario. A metà dell’ottocento lo storico Gabriele Rosa censiva infatti diecimila pertiche a risaia sulla sponda meridionale del fosso bergamasco, in un distretto all’epoca vocato alla coltura del cereale per via degli acquitrini che ancora residuavano dall’antico lago Gerundo. Neppure lo stizzoso Cracco avrà dunque titolo a disconoscere che il riso sia a buon diritto da annoverarsi tra i prodotti storici della cucina di Bergamo.




Prodotti locali e un nuovo raviolo, il Convivium celebra la Val Brembana

Più di trenta chicche. Formaggi soprattutto, di cui la Valle è prezioso scrigno, ma anche salumi, verdure, confetture, succhi di frutta, pane, zafferano, tartufi, birra e persino latte d’asina. Prodotti spesso realizzati da piccole aziende che con coraggio resistono nel difficile contesto della montagna.

Li ha riuniti in una serata denominata “Convivium – Eccellenze della Valle Brembana”  lo chef Andrew Regazzoni, che nell’occasione ha anche presentato ufficialmente un nuovo piatto omaggio al territorio, il “Capel de Monega” (Cappello di monaca), un raviolo che nella forma ricorda il copricapo di alcuni ordini religiosi e che nel ripieno raccoglie produzioni locali – patate, barbabietole, formaggio di monte stagionato e burro di malga -.

L’iniziativa, lo scorso venerdì 25 novembre all’albergo Papa di San Pellegrino, realizzata in collaborazione con le aziende e gli chef brembani, ha fatto assaggiare le diverse specialità gastronomiche in versione finger food e poi il piatto forte, il Capel de Monega, seguito da “Sella di coniglio bardata al tartufo con bresaola orobica sfumata alla birra di Via Priula”, polenta “Nostrano orobico”, patate della Ca’ Al del Mans al latte d’asina e Formai de Mut, per chiudere con il panettone alle mele della Val Brembana.

Il Capel de Monega è stato creato nei primi anni novanta da Ludovico Pozzi, l’amico e collega Regazzoni ha scelto di valorizzarlo registrando all’Ufficio brevetti e marchi della Camera di Commercio di Bergamo nome, forma e ingredienti del piatto, corredandolo di tabella nutrizionale, curata dal nutrizionista Vito Traversa, e di un’immagine firmata dall’illustratore Stefano Torriani. L’operazione si è realizzata grazie anche al sostegno della Comunità Montana valle Brembana e degli Operatori turistici di San Pellegrino Terme. «La scelta di tutelarlo con un marchio non è legata a fini commerciali – precisa Regazzoni -, ma alla volontà di fissare in maniera precisa come è fatto e come è nato. Questo progetto serve ad affermare che in Val Brembana ci sono prodotti di eccellenza ma anche idee, professionalità e determinazione per farli apprezzare. Un modo per dare una mano al territorio con ciò che noi cuochi sappiamo fare».

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Il Topinambur trova “casa” a Fontanella

Elisabetta Ravani
Elisabetta Ravani

A portarlo in Italia è stato Cristoforo Colombo, eppure ancora oggi è poco conosciuto. Dopo averlo consumato nei periodi delle guerre, è stato dimenticato con l’eccezione della cucina piemontese. Il topinambur, o rapa tedesca, oltre a essere buono, fa bene, tanto da essere chiamato la patata della salute. L’azienda Lombarda Topinambur, di Fontanella, la prima nella Bergamasca a coltivare l’antico tubero, ha iniziato il raccolto a ottobre e proseguirà fino a primavera con la previsione di distribuirne cinque tonnellate. A decidere di farlo tornare sulle tavole è stata Elisabetta Ravani, 31 anni, appassionata di sana alimentazione.

«Quando ho avviato il progetto, c’era chi mi guardava incredulo chiedendomi cosa fosse il topinambur – sorride l’imprenditrice agricola -: i suoi benefici sono tantissimi, purtroppo la raccolta a mano l’ha reso un ortaggio difficile, le multinazionali hanno preferito le patate. Noi lo coltiviamo senza l’utilizzo di concimi, diserbanti, antigermoglianti, antiparassitari, prelevando di volta in volta i tuberi in base agli ordini che riceviamo per offrire la massima freschezza del prodotto».

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I bulbi sono, infatti, attorno alle radici e, al contrario delle patate, possono restare sotto terra, mantenendo inalterate le loro proprietà. L’aspetto ricorda quello del ginger, il colore è rosso-violaceo, mentre la pianta, che si semina tra febbraio e maggio, può raggiungere i quattro metri di altezza. Altra sua caratteristica sono i fiori gialli, simili ai girasoli che si volgono verso la luce. Le qualità sono tantissime: è povero di calorie, quindi ideale nelle diete dimagranti, ricco di vitamine A, B1, B2 e C e di minerali come magnesio, ferro e zinco, ha poco amido e tanta inulina. Inoltre, ha potere lassativo e viene usato nella cucina dell’infanzia e come digestivo, con un’accortezza: non si possono superare i 200 grammi giornalieri. Il sapore ricorda il cuore del carciofo, non serve pelarlo, ma basta spazzolarlo. Si può consumare nel risotto, al forno con le patate, come polpette che accompagnano la carne, tagliato a pezzetti nella minestra o nel minestrone, nella pasta, fritto a fettine sottili come le patatine. Ottimo anche trifolato, condito con olio, aglio, sale, prezzemolo e pepe. Si può consumare anche crudo in insalata, dopo averlo tagliato con una mandolina.

img_1344Lombarda Topinambur guarda anche al suo utilizzo tutto l’anno. «È un peccato non godere dei suoi benefici in estate, l’idea è di essiccarlo come si fa con i funghi porcini e creare una farina per pane e dolci. E poi farne sottolii e ravioli, oltre a infusi con fiori e foglie», conclude Elisabetta. Le consegne sono gratuite nei paesi limitrofi a Fontanella, come Treviglio, Caravaggio, Soncino, Misano, Mozzanica, Chiari, Romano, Bariano, Calvenzano, Covo, Calcio, Cortenuova. Il costo è 2,40 euro per mezzo chilo, 4,60 per uno, 19,50 per cinque.

Lombarda Topinambur

via Filippo Corridoni, 42
Fontanella
www.lombardatopinambur.it
tel. 333 5237430