Pizzerie, a Bergamo un angolo di Napoli grazie a “Donna Regina”
Sapori, suoni, cultura ma sopratutto la verace pizza napoletana: stiamo parlando di Donna Regina, la pizzeria di Bergamo, inaugurata ieri sera in via Campagnola. Un autentico angolo partenopeo in città, una fusione di cultura storica e culinaria che rende Donna Regina il punto di riferimento bergamasco per l’autentica pizza napoletana STG (Specialità Tradizionale Garantita), l’unica pizzeria riconosciuta per l’intera Lombardia dall’ Associazione Pizzaiuoli Napoletani.
Abbiamo incontrato Olga Maggioni e Giuseppe Buonaguro, rispettivamente amministratrice e direttore del locale per scoprire i segreti del locale. “Se non è napoletana, che pizza è? – taglia corto Giuseppe Buonaguro -. La pizza non è solo acqua e farina. Quella verace napoletana è un tripudio di sapori, grazie alla scelta accurata delle materie prime, al lievito madre e alla lunga lievitazione, almeno ventiquattro. Queste sono le basi principali della nostra pizza. Quanto alle materie prime, le scegliamo e acquistiamo direttamente in Campania da piccoli produttori di filiera: i latticini provengono da tre luoghi diversi: la mozzarella di bufala da Aversa, il fior di latte – che per la prima volta abbiamo portato qui a Bergamo – da Agerola, patria del fior di latte, e la provola affumicata fresca di bufala da Battipaglia. I pomodorini del piennolo arrivano dalle falde del Vesuvio, gli oli dalla valle del Cilento”. “La qualità ha un prezzo – sottolinea Olga Maggioni -, tuttavia, nonostante i quotidiani arrivi delle materie prime dal Sud Italia, siamo riusciti a restare in linea con i prezzi delle principali pizzerie di qualità della città, pur offrendo un prodotto totalmente differente che segue la tradizione napoletana”.
Donna Regina si fregia di avere all’interno della pizzeria due pizzaioli, Salvatore Grieco e il Maestro pizzaiolo Antonio Romeo (che fa parte di Associazione Pizzaiuoli Napoletani). I due non esitano a svelare il segreto di una buona pizza. “La scelta di una farina consistente ed italiana – evidenziano -, una lunga lievitazione e il giusto tasso di idratazione rappresentano le basi fondamentali per un buon impasto. La manualità che si acquisisce nel corso degli anni va poi a rafforzare la riuscita del prodotto finale”. “Sappiamo di essere una pizzeria 2.0 – prosegue Olga Maggioni -, disponiamo di un sito web costantemente aggiornato e seguito da numerose pagine social, siamo in testa ai ranking dei principali motori di ricerca come Google e disponiamo di un app dedicata scaricabile dagli stores su smartphone e tablet. I nostri clienti potranno prenotare il loro tavolo, ordinare la pizza con consegna a domicilio e pagare direttamente all’atto dell’acquisto oppure al fattorino anche con carte di credito e bancomat. Insomma Donna Regina ha dato sicuramente una svolta al mondo delle pizzerie della città di Bergamo”. Non solo pizza a Donna Regina: chi vuole, può degustare il panuozzo – nato a Gragnano, città famosa nel mondo per la pasta – o il cuoppo, contenitore di carta-paglia che contiene fritti di ortaggi e pesce e prossimamente aprirà anche la sezione dedicata alla cucina tradizionale napoletana. I presupposti ci sono tutti per affermarsi sul territorio sempre in maniera più decisa”.
Donna Regina
via Campagnola 5
Bergamo
035-0960452
www.pizzeriadonnaregina.com
Mostra del Bitto, a Morbegno pronta l’edizione 109
Il 15 e il 16 ottobre, a Morbegno, si terrà la 109esima edizione della Mostra del Bitto, evento che valorizza la tradizione ma riesce a stare al passo coi tempi, rinnovandosi anno dopo anno da oltre un secolo.
La Mostra coinvolgerà tutta Morbegno, da Piazza Sant’Antonio fino alle attività collaterali in stile “country” presso il Polo Fieristico sulle rive del fiume Adda. In centro città in evidenza i classici “calecc” – le antiche costruzioni in pietra dislocate sui pascoli che garantivano un riparo alla “culdera” di rame dentro cui si lavorava il Bitto -, le casette dello street food valtellinese (sciatt e pizzoccheri da passeggio), i mercatini dei produttori, l’area eventi per spettacoli e attività d’intrattenimento, in spazi semi-open che si affacciano su Piazza Sant’Antonio.
Cuore della Mostra quest’anno sarà “Casa Mainardi”, dove lo chef “atomico” si esibirà in showcooking a sua immagine e somiglianza per valorizzare il formaggio di fondovalle per eccellenza, il Valtellina Casera Dop. Nel Chiostro di Sant’Antonio si terrà invece la tradizionale Casèra che ospiterà l’esposizione delle forme di Bitto Dop, Valtellina Casera Dop e Scimudin partecipanti allo storico concorso. Nelle salette adiacenti troveranno posto le aule didattiche e i corsi per degustatori di formaggio.
Per tutti gli amanti del vino è stato pensato anche un suggestivo enotour nelle cantine del centro storico con “Morbegno in Cantina” che quest’anno abbinerà i vini Doc e Docg di Valtellina con i formaggi Dop, per un “cheese&wine” da non perdere. Tra gusto e cultura, nella cornice dello splendido Palazzo Malacrida sarà la volta di “taste&sound”, degustazioni in musica alla scoperta delle note aromatiche dei formaggi valtellinesi nelle diverse forme e stagionature.
La regina dei salumi, la Bresaola della Valtellina Igp, sposerà sua maestà il Bitto Dop in abbinamenti insoliti quali, ad esempio, il “sandwich Valtellina”da portarsi in un giro in bici lungo l’Adda o sul sentiero Valtellina, alla scoperta dei tanti angoli e panorami nei dintorni di Morbegno.
Tra le novità di quest’anno anche gli assaggi inediti a bordo di un vero “London bus” a due piani e un’area “country” presso il Polo Fieristico sulle rive del fiume Adda, riservata alle fattorie didattiche, alla mostra dei trattori, alle dimostrazioni di mungitura, agli spettacoli equestri.
I formaggi che nascono in città
Pierino Moleri
Moleri fa il formaggio in città. Contraddizione? Non per lui. E neppure per i suoi clienti che continuano a crescere. Fare il formaggio a Bergamo è una bella impresa, eppure c’è ancora chi ci riesce, mantenendo alti i criteri di qualità e conciliando i tempi della mungitura con quelli del pascolo, ai bordi del centro urbano, con le sue mucche sparse nei pochi prati ancora abbordabili nel quartiere Grumellina.
«Può sembrare un paradosso, ma anche un formaggio fatto all’ombra della città ha un suo perché», spiega lui, il Pierino, 66 primavere e non sentirle. Significa che l’agricoltura non si è ancora arresa all’asfalto e allo smog. In quest’angolo periferico di città sembra di stare nella Bassa bergamasca, con la sveglia che suona immancabile alle 5 e la vita scandita dai ritmi del lavoro con il bestiame e nei campi. Era stato suo padre Faustino a portare la famiglia a Bergamo e a trasmettergli il mestiere, lui unico di cinque fratelli a continuare l’attività, «perché quella per il latte e i formaggi è da sempre la mia grande passione», insieme a quella per la musica (suona in due bande il suo basso-tuba). Così si è andato a scegliersi una per una le 30 vacche in Alto Adige, «e sono tutte certificate: una dozzina da mungitura tra brune, pezzate rosse, Jersey».
Nasce a Fara Olivana Pierino Moleri, ma poi si trasferisce a Grumello, dove da piccolissimo è protagonista in piazza di interminabili partite alla “sgaréla”, sorta di baseball ante litteram, poi sua madre, a forza di insistere, gli insegna a fare il formaggio. Così ha cominciato e va avanti da oltre 40 anni, con a fianco un’altra donna, la moglie Luciana, che lo aiuta in tutte le fasi, dalla pulizia degli animali fino alla vendita allo spaccio di via Santa Croce dove tra caciotte e stracchini, formaggelle e paste filate è una processione continua di clienti, molto affezionati anche alla casetta dove è possibile acquistare il latte crudo.
«La mia giornata? Interminabile, però a me piace così – risponde senza esitazioni Pierino -: appena sveglio, poco dopo le 5, comincio a mungere, poi riempio di latte fresco la Casetta e poi comincio a fare il formaggio. Quale? Dipende dall’ispirazione: un giorno faccio stracchini, quello seguente paste filate. In tutto lavoro 300 litri di latte al giorno, non mi fermo mai. Premi? Guardi, non ho proprio il tempo di partecipare ai concorsi, mi basta la gratificazione dei clienti, che continuano a crescere e a distanza di anni continuano a venire ad acquistare allo spaccio: ogni tanto vengono a dare un’occhiata a come lavoro, sanno che non baro mai, che cerco sempre di rifarmi ai sapori di una volta. E poi, in un quartiere in cui scarseggiano i negozi di alimentari il nostro resta un punto di riferimento».
Un aspetto, quello dell’agricoltura che sopravvive in città, che ha ben presente Confagricoltura Bergamo, a cui Moleri aderisce. «Per noi – spiega il direttore di Confagricoltura Bergamo Aldo Marcassoli – è importante vedere un’agricoltura professionale anche in città, che non è, per intenderci, quella degli orti urbani, ma quella di aziende ben strutturate che alla periferia di Bergamo producono carni bovine, formaggi, salumi oppure vino, frutta e ortaggi nella parte collinare, spesso dedite alle attività multifunzionali come l’agriturismo, la didattica in fattoria, la vendita diretta in azienda o a gruppi di acquisto cittadini».
In un panorama non certo florido per l’agricoltura tradizionale «nel caso di Moleri, come di altri – afferma Marcassoli – siamo invece di fronte a realtà che hanno saputo trovare una loro precisa collocazione sul mercato e un non sempre facile equilibrio tra le proprie esigenze produttive e il fatto di operare nelle vicinanze di un contesto urbano fortemente urbanizzato o, all’opposto, caratterizzato dall’esistenza di forti vincoli ambientali come accade nelle aree protette e a parco. Sono imprese che rifuggono dall’immagine folcloristica e pittoresca che il cittadino a volte vorrebbe trovare in esse e che si propongono invece, con molta dignità e professionalità, per l’importante ruolo che svolgono in tema di conservazione dell’ambiente e del paesaggio, di contributo a una sana alimentazione e a una migliore qualità della vita».
«Oggi chi acquista prodotti agricoli deve avere il diritto di essere informato sull’origine della filiera – aggiunge Moleri -, so che il nostro ministro bergamasco Martina si sta adoperando in questo senso, perché è fondamentale che il consumatore venga tutelato al massimo. Noi facciamo tanti sacrifici per dare un prodotto garantito, con latte italiano, anzi bergamasco, da cui deriva un formaggio buono e sano, come si faceva una volta. Oggi purtroppo, però, tante volte si trova sul mercato un formaggio prodotto qui, ma con latte fatto in chissà quale Paese estero: tutto deve essere alla luce del sole».
Zogno, un fermento di sapori
Zogno è considerato più che altro un luogo di passaggio per chi sale nelle zone più alte della Val Brembana. Eppure, a poche decine di minuti dalla città, permette di godere delle Prealpi senza troppa fatica. Dal centro storico, vivo e caratteristico, partono le vie che portano alle contrade, di cui il territorio comunale collinare è disseminato: da Poscante a Endenna, Somendenna, Ambria che sono solo le principali. Ma anche Stabello, famosa per l’annuale sagra della polenta taragna. Sul Monte di Zogno ve ne sono diverse, anche molto piccole.
Proprio questa zona è culla di alcune delle aziende agricole in cui fare tappa per godere dei prodotti tipici locali, ma regala anche la possibilità di passeggiare sul sentiero Cai n. 505, che porta fino alla vetta del Monte Zucco (a 1.232 metri). Se si decide di unire alla scoperta gastronomica un’escursione, lo si può percorrere tutto oppure partire da Sant’Antonio Abbandonato e proseguire tra boschi e splendide vallette fino al Rifugio Gesp (Gruppo Escursionisti San Pellegrino) e poi iniziare la facile salita verso la cima per osservare uno stupendo panorama sulle Prealpi Orobie.
Quanto alle soste golose, sono davvero molte, legate anche a tradizioni antiche come quella dei “Biligòcc”: la diffusa coltivazione della castagna e la vendita sono state, infatti, per questa zona un’importante fonte di sostentamento.
Non ci resta che partire, dunque, per incontrare, nell’ordine, l’allevamento di capre Saanen di Valentino Ruggeri, dove anche l’equitazione è tra le attività proposte, l’esperto macellaio e allevatore Walter Carminati, l’azienda agricola Gioan di Pice, in cui Silvano e la sorella Romina producono prelibati salumi artigianali, e per dormire o mangiare, ma solo previa prenotazione e disponibilità, l’agriturismo Casa Martina.
I formaggi di capra di Valentino Ruggeri valgono una sosta
Valentino Ruggeri
Risalendo la strada dal centro di Zogno, superato l’abitato, dopo alcune tortuose curve che regalano un panorama sulla valle sempre più suggestivo, si arriva all’azienda agricola Valentino Ruggeri (via Carrubbo – tel. 349 378 0883) che ha tra le sue attività principali l’allevamento di capre, con la relativa produzione casearia, e l’equitazione, con una pensione per cavalli.
«Sono nato qua – racconta Valentino, classe 1969 –, i miei genitori avevano i bovini, ma pian piano abbiamo smesso di allevare e io sono andato a lavorare altrove perché l’agricoltura al momento non era un’attività economicamente sostenibile». Ma poi, ecco che Valentino fa ritorno alle origini e la passione per gli animali si rifà viva. «Ho ricominciato ad allevare, inizialmente con soli 15 capi di razza Saneen – prosegue – poi il numero è gradualmente aumentato e ho avuto la necessità di fare una nuova stalla, che potesse accogliere al meglio i miei animali e sapesse far fronte alle nuove necessità aziendali».
Ora la produzione di formaggi di capra è orientata a tre tipologie, le più classiche: lo stracchino, la formaggella e il caprino fresco, l’unica cagliata acida prodotta. «All’inizio avevo buone aspettative, ero molto stimolato ed ero arrivato a produrre fino a 15 tipologie di formaggio diverse tra loro – ricorda -. Poi, il mercato mi ha costretto a fare altre scelte e iniziare a produrre ciò che riuscivo a vendere meglio. Ciò non toglie che sono pronto a produrre anche le altre tipologie qualora ve ne fosse richiesta». L’amore per gli animali di Valentino non si ferma qua. Alleva alcuni capi di bovino da carne e si occupa dell’equitazione, gestendo una pensione per cavalli e offrendo lezioni e passeggiate a chi lascia il proprio cavallo nelle sue mani. Lo spaccio aziendale è aperto, non è un luogo di passaggio, ma durante una gita sul monte potrebbe essere una tappa interessante.
La carne secondo Walter Carminati, il macellaio agricolo
Walter Carminati
Walter è un simpatico allevatore e macellaio, la sua azienda agricola si trova poco dopo quella di Valentino Ruggeri. Nato nel 1965, non ha sempre fatto l’allevatore, ma fin da giovanissimo ha lavorato tra macelli e macellerie, arrivando così ad avere una grande esperienza sia nel lavorare e tagliare la carne sia nello scegliere e valutare l’animale da allevare per poi avere la carne “che piace a lui”. Principalmente acquista animali giovani e poi li alleva. Le razze sono tra le più diverse: dalle Piemontesi italiane alle Garronesi e alle Limousine. Dipende quali animali sono disponibili e se hanno le caratteristiche fisiche adeguate. Walter possiede anche animali nati in loco e un allevamento di cavalli, sempre allo scopo della produzione di carne. Effettua vendita anche ai privati anche se «ormai pochi acquistano gran parte dell’animale e tutti i tagli, questo è una difficoltà per chi come me macella pochi capi all’anno».
Come sceglie i suoi animali? «Come piacciono me – risponde sicuro -, li osservo e voglio la prima scelta. Valuto la finezza, le forme, l’ossatura. Io voglio scegliere, non prendo ciò che capita». La carne di qualità secondo lui è data da un mix tra le caratteristiche del singolo capo, dalla sua razza e dall’alimentazione. Nei limiti del possibile gli animali sono alimentati con erba e fieno cresciuti nei terreni limitrofi all’azienda e vengono macellati solo quando hanno raggiunto la maturità delle carni adeguata. La cura nel lavorare le carni e nel trattarne la frollatura rappresentano un valore aggiunto di artigianalità e qualità. Lo si trova in via San Cipriano (tel. 339 3221043).
Gioan di Pice, tra le ultime novità la crema di lardo
Silvano Sonzogni
Salendo sempre più, ci si inoltra tra boschi e prati, percorrendo questa strada sempre più tortuosa e suggestiva. Si raggiunge la località Camissinone ad un’altitudine che permette un punto di vista nuovo, sicuramente tra i meno conosciuti. L’azienda Gioan di Pice (www.gioandipice.it) si riconosce grazie a un cartello in legno ben in vista posizionato al margine della strada. Si scende quindi una stretta stradina. L’attività è condotta dal giovanissimo Silvano Sonzogni, 24 anni, aiutato dalla mamma e dalla sorella Romina. I maiali vengono acquistati e macellati ad un peso minimo di 200 kg. «Abbiamo scelto di provare questa strada solo tre anni fa – racconta Silvano –, io non trovavo lavoro; avevamo a disposizione questo spazio e abbiamo deciso di convertirlo in un piccolo laboratorio di lavorazione delle carni suine».
La produzione si concentra verso il classico salame bergamasco, ma spazia anche a tutti gli insaccati, fino ad arrivare a prodotti gustosi e diversi come la crema di lardo e il nuovissimo prodotto in sperimentazione: la “sonsa” alla lavanda. È un grasso emolliente, lubrificante e impermeabilizzante che si presta per diversi usi, da crema mani a isolante per scarpette da calcio o scarponi in pelle. Molto utilizzata nel passato, nella sua forma tradizionale intera, arrotolata su se stessa e stagionata, per ungere e lubrificare cavi di acciaio per il trasporto legna. Era anche un rimedio curativo popolare. Altre produzioni dell’azienda acquistabili direttamente sono le pancette, le salsicce piccanti o al formaggio e il musetto.
Casa Martina, l’agriturismo “vero”
Giovanni Ruggeri
Dalla parte opposta rispetto al monte, raggiungibile dopo aver attraversato il fiume Brembo, si trova l’agriturismo Casa Martina (www.casamartina.eu), con le sue accoglienti stanze e la cucina. La casa, costruita nel 1988, si trova a Piazza Martina ed è gestita da Giovanni Ruggeri con l’aiuto della sua famiglia. «Nel 1997 – racconta – mi sono sposato e avevamo una casa grande, proprio questa. Venivano spesso amici, ci aiutavano a gestire i prati e ci facevano compagnia per momenti conviviali. Poi, nel 2008, ci è venuta l’idea di preparare due stanze e nel mese di giugno abbiamo avuto i primi due ospiti inglesi. Nel marzo del 2009 abbiamo aperto l’azienda agricola e l’agriturismo». Attorno alla casa, Giovanni coltiva 2.000 mq di piccoli frutti e 8.000 mq di castagne. Le stesse erano un solido elemento dell’economia rurale di queste zone, lo dimostra l’ancora viva tradizione dei biligòch della frazione di Castegnone, dove ci sono ancora gli antichi secadùr.
La produzione aziendale si completa con l’orto, il miele, l’allevamento di sette capre per la produzione di latte e gli animali da cortile. Tutti i giorni Giovanni caseifica il latte producendo dei freschissimi e golosi formaggi da servire ai propri ospiti per la colazione, in abbinamento al suo miele e alle sue confetture, ma anche alle torte preparate con cura dalla moglie Lea. Un vero must è la cheese cake fatta con lo stesso formaggio e le confetture: una prelibatezza data anche dal fatto che le materie prime sono prodotte a pochi metri dal luogo in cui viene servita. L’agriturismo e la cucina sono invece aperti dal 15 di settembre al 15 di giugno nelle sole serate di venerdì, sabato e domenica. Solo su prenotazione e meglio se per gruppi. Dagli antipasti a base di salumi, formaggi e castagne (in azienda preparano anche la crema di castagne) ai primi piatti come risotti con frutti di bosco e Formai de Mut Dop oppure i casoncelli fatti a mano. Tra i secondi, spicca il maiale con i ribes oppure il capretto al forno. Il menù varia in base alle disponibilità di materia prima dell’azienda.
Il più antico manicaretto della storia? Polenta e osei
Narra Plutarco che lo spartano Pausania, comandante in capo della coalizione greca che nel 479 a.c. sconfisse i Medi a Platea, dopo il fausto epilogo della battaglia si fece imbandire negli acquartieramenti nemici un lauto banchetto alla moda dei vinti. “Per Ercole – sbottò il condottiero, stupefatto dall’opulenza dei manicaretti – questi Persiani devono proprio essere degli incorreggibili ingordi se, già disponendo di tutto questo ben di Dio, è venuta loro fame anche della nostra polenta!”.
Non sorprende affatto che il generale lacedemone, originario per giunta del centro culinariamente più retrogrado di tutta l’Ellade, fosse rimasto a bocca spalancata dinnanzi alle succulente vivande servite nell’epula. Ancorché avvolta per lo più nel mistero, quella persiana è difatti stata la più alta tra le civiltà gastronomiche dell’antichità. Del resto traspare da più fonti che i greci guardassero con malcelata ammirazione alla cultura materiale degli storici rivali. L’ateniese Senofonte, ad esempio, annotava come i figli dell’impero Achemenide si astenessero dallo scatarrare, soffiarsi il naso per terra e prodursi pubblicamente in flatulenze. Abitudini che, vien da presumere, a quei tempi dovessero essere tutt’altro che desuete presso i concittadini dell’autorevole storico. Erodoto riferiva altresì che fosse costume del jet set di Persepoli e di Susa celebrare il genetliaco offrendo ai convitati un cammello arrostito tutto intero. Per quanto kitsch possa apparire la portata, è indiscutibile che da quelle parti già ai tempi di Ciro il Grande le cucine nobiliari fossero assai ben attrezzate.
Facezie a parte, è assodato che molte delle vivande-cardine della gastronomia europea moderna e contemporanea, tra cui alcuni capisaldi della tanto celebrata dieta mediterranea, rechino chiaramente impresso il marchio dell’antica Persia. E l’elenco si apre nulladimeno che con la pasta. Giunta in Europa nel cuore del medio evo grazie alla mediazione di arabi ed ebrei, la versatile vivanda ha assai probabilmente visto la luce nell’altopiano iranico o nel bacino mesopotamico. Le principali voci utilizzate nel lessico moresco e giudaico per designare l’alimento – reshteh ed itrya – sono infatti di diretta derivazione persiano-aramaica. D’altronde, come evidenziato nello scorso numero di Affari di Gola, pare che persino il casoncello bergamasco sia legato da vincoli di remota parentela ai kushkusnai dell’impero Sasanide.
La feconda vena degli arcaici cucinieri dell’Asia centrale nel dominio di quelli che sono oggi definiti primi piatti è confermata da un’altra invenzione destinata a lasciare un profondo segno nelle vicende del cibo: quella del risotto. È noto che la coltivazione del riso si sia storicamente diffusa dall’estremo oriente, prendendo piede in Persia ai tempi della dinastia Achemenide. Ed è con certezza sulle sponde meridionali del mar Caspio che si è realizzata la cruciale trasfigurazione culinaria del cereale. Qui la graminacea è in effetti passata dall’accomodamento minimalista ancor oggi prevalente in Indocina – semplicemente lessata senza alcun condimento – alle elaborazioni riccamente ammannite della gastronomia persiana, successivamente riprese in occidente su impulso arabo e salutate da secolare successo.
È del tutto perspicuo che una tanto cospicua dotazione di competenze tecniche non possa certo essere germinata dal nulla. Recenti rinvenimenti hanno restituito evidenza a quella che l’archeologo Jean Bottero ha a buon titolo definito la prima grande cucina del passato remoto, cui la cultura gastronomica persiana ha generosamente attinto. Si tratta della civiltà alimentare mesopotamica, il cui inimmaginabile grado di raffinatezza e perfezione tecnica è attestato da alcuni ricettari in lingua accadica risalenti addirittura al 1700 a.c.. È risaputo che le popolazioni di stanza tra Tigri ed Eufrate intrattennero relazioni ed interscambi privilegiati – ancorché a tratti inevitabilmente burrascosi – con gli agguerriti vicini d’oriente. E nel 539 a.c. Babilonia divenne addirittura una satrapia persiana, per successivamente restarlo, salvo brevi interruzioni, lungo l’arco di oltre un millennio.
Tra le antichissime ricette mesopotaniche a noi pervenute spicca quella di una vivanda che rivela sorprendenti analogie con la polenta e osei della nostra tradizione. Il procedimento per la sua preparazione prevedeva che degli uccelletti, con il corredo dei loro ventrigli, passassero per un’elaborata cottura in due fasi: dapprima saltati velocemente in una padella di metallo, quindi stufati a lungo in una casseruola di terracotta con l’aggiunta di erbe aromatiche, porro ed aglio su una base liquida di acqua e latte (ancora ai nostri giorni talune versioni azzardano il complemento, esecrato dai puristi, della panna). Così approntata, la cacciagione minuta veniva distribuita con la sua salsa nell’incavo di una pagnotta impastata con farina, porro, aglio ed un po’ di grasso di cottura dei volatili. Una volta farcito, il timballo veniva richiuso da un opercolo ricavato panificando la medesima massa dalla quale era stata ottenuta la base.
È impossibile non restare sbigottiti dinnanzi all’ingegnosità di questa portata, vecchia quasi di quaranta secoli. E sarebbe ingeneroso rimarcare che agli uccelletti assai meglio convenga, in luogo dell’arcaico accomodamento in crosta di pane, un morbido giaciglio di polenta. È nondimeno scherzosamente suggestivo congetturare che l’arcigno Pausania non si ingannasse di troppo quando insinuava che l’imperatore Serse I ed il suo luogotenente Mardonio, nella seconda campagna persiana in Ellade, fossero davvero mossi dalla curiosità verso l’umile eppur leggendaria farinata greco-romana. Passi per la pastasciutta e per il risotto, ma è incontrovertibile che almeno la polenta sia affare nostro sin dalla notte dei tempi.
Ponte di Briolo, che storia!
Se l’attività di un ristorante dura da 140 anni ci sarà un perché. La risposta è che si tratta di un posto in cui si mangia bene e che ha saputo stare al passo con i tempi. Considerazione semplicistica, banale, si dirà, ma la storia è tutta lì a confermarlo.
Siamo a Valbrembo al Ponte di Briolo, in via Briolo al numero 2. Qui l’attività è iniziata nel 1876 con la formula della classica trattoria di paese. Dal 1919 è iniziata la gestione della famiglia Assolari (il ristorante è riconosciuto come locale storico dalla Regione Lombardia) e dopo generazioni di nonne e mamme che si sono date fare in cucina la conduzione è passata nel 1972 ad Augusto Assolari, 66 anni, che aveva iniziato con il fratello Renato, purtroppo prematuramente scomparso nel 1988.
«A modo nostro abbiamo avviato una nuova cucina casalinga – racconta Assolari –, convinti che non ci voglia un eccesso di creatività quanto piuttosto leggerezza, qualità e stagionalità. Della cucina della nostra tradizione abbiamo mantenuto solo i casoncelli alla bergamasca. Ora il 60 per cento dei nostri piatti è a base di pesce e in stagione proponiamo funghi e tartufi».
Gli spazi sono arredati con cura e sobrietà, la capienza è variabile tra i 45 e i 70 posti. Nella bella stagione è disponibile il dehors per una quarantina di coperti. Il Ristorante al Ponte di Briolo svolge anche un’intensa attività di catering in location prestigiose. La cucina è in mani affidabili come quelle di Paolo Riva e Fabrizio Locatelli che lavorano nel locale rispettivamente da 20 e 10 anni.
Augusto Assolari con gli chef Paolo riva (a sinistra) e Fabrizio Locatelli
«Come è cambiato il nostro lavoro in tutto questo tempo? Basti pensare – riflette Assolari – che non molti anni fa, volendo fare una specie di statistica, nel raggio di cinque chilometri da Bergamo si potevano contare una ventina di ristoranti che svolgevano un lavoro come il nostro. All’interno dello stesso perimetro, adesso, ce ne sono centinaia. E non è un dato da poco se si considera che Bergamo è ritenuta una delle città dove si mangia meglio. Lo diceva anche il compianto Veronelli. Ci vogliono quindi passione, grande competenza e cultura del cibo, qualità. Poi, pian piano, senza strafare, senza creare grandi clamori si possono ottenere anche delle soddisfazioni».
Il Ponte di Briolo è tra gli aderenti al circuito di locali bergamaschi “trentacinqueuro.it”, che offre un menù guidato al costo promozionale di 35 euro tutto compreso, un’ottima occasione per saggiare la cucina, con la possibilità di scegliere tra quattro proposte per ogni portata e quindi tra quattro antipasti, quattro primi, quattro secondi e quattro dessert, rigorosamente fatti in casa.
D’obbligo citare i patti che vanno per la maggiore. Le cruditè di mare e le mazzancolle in purea di melanzane oppure i fiori di zucchine con fonduta di formaggi tra gli antipasti. Paccheri con scampi, pennette con gallinella di mare e spaghetti di Gragnano con guanciale di cinta senese tra i primi e poi baccalà con cipolle, sanpietro all’aneto e vitello da latte alle erbette. Anche nei dessert prevalgono i gusti puliti e freschi, nel gelato alla cannella su mirtilli e nel sorbetto alla mela verde con calvados, per esempio.
Augusto Assolari è un sommelier professionista storico a Bergamo ed accanto all’evoluzione del panorama della ristorazione annota i cambiamenti nell’approccio ai vini. «Penso sia evidente per tutti che i tempi sono mutati – rileva -, bottiglie di un certo costo sono destinate ad ammuffire, logico quindi che la carta dei vini sia stata un po’ snellita. Offriamo comunque una buona scelta per i prodotti bergamaschi, i vini di Franciacorta, diverse proposte nazionali e gli champagne. Per questi ultimi organizziamo anche delle serate a tema come facciamo anche per il pesce crudo e per il tartufo».
LA PROVA
Una pausa pranzo a prezzi super competitivi
Pausa pranzo insolita, se vogliamo, in un locale di nome e prestigio come il Ponte di Briolo che rappresenta un pezzo di storia della ristorazione bergamasca. La sorpresa sta nel fatto che il prezzo, per il menù di mezzogiorno, è di dieci euro e quindi non solo in linea con la media ma anche inferiore di uno o due euro, rispetto a servizi analoghi in ristoranti meno rinomati. Se si vuole il vino in bottiglia di buona qualità il prezzo sale a 13 euro ma comunque nei dieci euro sono compresi primo, secondo, acqua e caffè.
In cucina ci sono due cuochi esperti e sulla qualità ci si può scommettere. Le proposte seguono molto la stagionalità. In occasione della nostra visita la scelta nei primi era tra casoncelli alla bergamasca, spaghetti aglio olio e peperoncino, penne all’arrabbiata e all’Amatriciana, risotto alla parmigiana o ai funghi. Tra i secondi piatti c’erano invece il carpaccio, le scaloppine, gli straccetti, le puntarelle e una Cesar salad con tacchino.
Abbiamo scelto i casoncelli alla bergamasca fatti in casa ed il carpaccio. Non ci siamo fatti mancare un buon bianco in bottiglia e quindi abbiamo speso 13 euro per un ottimo rapporto qualità-prezzo. Veramente da provare.
A Redivo di Averara, in alta Valle Brembana, la storica sagra della castagna raddoppia e fa il pieno di iniziative interessanti e golose. La manifestazione, che compie 42 anni, si terrà in due week end: sabato 1 e domenica 2 ottobre, sabato 8 e domenica 9 ottobre. Sarà un’occasione per fare festa, valorizzare i prodotti locali e per far conoscere questo angolo di Bergamasca davvero particolare.
Non è un caso che proprio a Redivo venga celebrato questo frutto: i boschi della località di Averara infatti sono tra i più ricchi di castagni. L’associazione Castanicoltori, che organizza la sagra in collaborazione con il Comune di Averara e con il contributo dell’azienda Soluna, negli ultimi anni ha recuperato alcuni castagneti abbandonati. Un tempo costituivano un’importante fonte di sostentamento per la popolazione, poi lo spopolamento ha contribuito a dimenticare questa risorsa, ora riscoperta.
Il programma della sagra prevede per sabato 1 ottobre alle ore 14 la distribuzione del materiale informativo sotto i portici di Averara. Alle 14.30 “Camminata al castagneto” con Stefano D’Adda. Alle 17 “Un castagno divino”, degustazione di vini bergamaschi. “Troviamoci all’osteria”, alle 19, apertura di tre osterie a tema: l’atmosfera e l’offerta ristorativa di un tempo con musica e racconti in spazi caratteristici di Redivo.
Domenica 2 ottobre alle 10 “Profumi di erbe” con Gianfranco Goglio che guiderà i visitatori in un gioco alla scoperta delle erbe salutari dell’azienda Soluna. Alle 11 “Tra i rami”, dimostrazione di tree-climbing e potatura eseguita da Alessandro Regazzoni. “Caccia fotografica”, alle 14, con Paolo Ferrante e Aramis Egman che condurranno i visitatori lungo un percorso tra gli alberi “giganti” del bosco. Le fotografie prodotte saranno esposte domenica 9 ottobre sotto i portici.
Sabato 8 ottobre alle 10 “Madre natura e le sue magie” con l’apertura dei laboratori dell’azienda Soluna. Alle 11 “Camminata al castagneto” con Lorenzo Lego. Alle 15 “Passione nelle mani”, dimostrazioni di artigianato nella struttura-laboratorio a Redivo e alle 17 “Un salto in osteria”, due chiacchiere e un bicchiere prima della cena tradizionale con piatti a base di castagne.
Domenica 9 ottobre, alle 10 “Caccia ai tesori di Averara”: Simona Bellini accompagna i visitatori in un percorso alla scoperta della storia del paese. Alle 11 “L’alchimista brembano”, produzione e distribuzione di un distillato, con Gianfranco Goglio dell’azienda Soluna. Per chiudere, alle 15, “Lippa, cos’è?”: dimostrazione del gioco della lippa e giochi d’altri tempo con la partecipazione aperta al pubblico. Sempre domenica 9 ottobre dalle 10 alle 17 “Dire, fare, giocare”, animazione per i più piccoli con Barbara Stacchetti e Patrizia Geneletti del Teatro Prova.
Per tutta la durata della manifestazione alcune vie saranno chiuse al traffico. L’organizzazione consiglia di utilizzare i parcheggi segnalati in zona: ex asilo, campo sportivo, ditta Siga, Municipio, lungo fiume Mora. Sarà inoltre operativo un bus-navetta messo a disposizione per raggiungere la frazione Redivo partendo dai Portici.
È gradita la prenotazione agli eventi, telefonando ai numeri 366 9598725 – 333 3072758, ai quali ci si può rivolgere anche per ogni altra informazione.
Osterie d’Italia, i locali bergamaschi sulla nuova guida
La trattoria Dentella di Bracca
Le “vere” osterie in Bergamasca? Sono cinque e tutte conferme. È il responso della guida Osterie d’Italia 2017, la pubblicazione regina di Slow Food, giunta all’edizione numero 27. Ad aggiudicarsi la “Chiocciola”, il riconoscimento più significativo, assegnato ai locali con un’atmosfera che rispecchia appieno lo stile e la filosofia del movimento, sono ancora Burligo di Palazzago e Dentella di Bracca. Burligo ottiene anche una “Bottiglia” per le proposte eccellenti della cantina e viene segnalato per la presenza dell’orto, mentre Dentella riceve oltre alla Chiocciola il “Formaggio” che indica le osterie che propongono una selezione di prodotti caseari.
In città l’unico esponente è Al Gigianca, di via Broseta 111, premiato con la Bottiglia e segnalato per l’orto. La cinquina si completa con la Taverna di Arlecchino di San Giovanni Bianco, frazione Oneta, e Ai Burattini di Adrara San Martino,
«Abbiamo deciso di puntare sulla riscoperta dei locali autentici e, soprattutto, sull’accoglienza e l’ospitalità, il vero segno di riconoscimento che contraddistingue gli indirizzi presenti in Osterie d’Italia – hanno spiegato i curatori Marco Bolasco ed Eugenio Signoroni in occasione della presentazione alla Reggia di Venaria -. Con questa nuova edizione desideriamo rimanere il più fedeli possibile al concetto di osteria, per questo abbiamo scelto di ridurre notevolmente le pagine della guida e raccontare, invece, tutti quei locali che racchiudono in sé l’idea tradizionale: luoghi informali, semplici, accoglienti e la cui cucina si rifà alla tradizione».
Sono 153 le novità recensite, di cui la maggior parte con un menù che non supera i 35 euro: «Abbiamo scelto di non inserire i ristoranti che per costi, spirito e proposte in carta non rappresentano il concetto tradizionale di osteria, togliendo la storica sezione Oltre alle osterie – hanno evidenziato Bolasco e Signoroni -. Abbiamo comunque mantenuto alcuni locali storici che propongono menù completi sopra i 35 euro, ma che continuano a essere vere e proprie osterie d’altri tempi». La guida è stata alleggerita anche dagli Inserti regionali: sono rimasti solo quelli che raccontano la cultura del cibo e le modalità di preparazione legate al territorio e alla tradizione, come i cibi di strada siciliani, gli arrosticini abruzzesi, il morzello di Catanzaro, i trippai di Firenze e le malghe del Trentino Alto Adige.
L’attenzione al prezzo è rappresentata anche dal nuovo simbolo del bollino con un euro e una freccia, che semplifica la consultazione, e la ricerca è agevolata dai tre indici organizzati per prezzo, luogo geografico e ordine alfabetico dei locali. Rinnovate anche le schede di presentazione delle osterie: divise in due sezioni, raccontano da una parte la storia del locale e dall’altra quella dei suoi piatti. Osterie d’Italia diventa così una guida interattiva con elementi digitali, come i simboli, gli indici e le schede, che facilitano gli avventori nella lettura. Segnalate anche le osterie con un’accessibilità agevolata per i disabili, i locali gluten free e quelli con l’orto. In evidenza anche gli chef che aderiscono al progetto dell’Alleanza Slow Food dei cuochi.
«Il futuro è l’alleanza tra ristoratori, mondo contadino e cittadini – ha affermato il fondatore di Slow Food Carlo Petrini -. E sono proprio le relazioni che Osterie d’Italia riesce a creare che distinguono “la gialla” dal resto delle pubblicazioni presenti. relazioni tra gli osti, relazioni tra i produttori e i cuochi, e soprattutto, relazioni tra clienti e ristoratori».
I numeri della guida
1.570 Locali segnalati
263 Chiocciole
199 Locali del Buon Formaggio
375 Locali celebri per i vini
479 Locali con orto di proprietà
428 Locali con menù vegetariano
277 Locali con alloggio
153 Nuove segnalazioni rispetto all’edizione 2016
340 Collaboratori
L’appuntamento con l’applicazione per i sistemi Android e iOs è per la fine di ottobre.
Regione europea della gastronomia, un’occasione che Bergamo non può perdere
Il 2017 sarà un anno davvero importante per Bergamo: la città diventerà capitale del progetto regionale ERG (European Region of Gastronomy) che, a partire da Expo 2015, coinvolge quattro territori lombardi: Bergamo, Mantova, Cremona e Brescia.
ERG promette di funzionare come un vero motore per il turismo enogastronomico interterritoriale e questa è un’opportunità che Bergamo non può lasciarsi scappare. Il turismo enogastronomico è una risorsa che il nostro territorio deve valorizzare ulteriormente e in grado di coinvolgere un panorama davvero ampio: dall’area produttiva a quella della lavorazione, dalla ricettività alla ristorazione fino al turismo e al terziario.
Il progetto ERG ha già dimostrato di poter portare sui territori persone e fondi. Quello che lascia un po’ perplessi, tuttavia, è l’incertezza riguardo a come e in che comparti, tali risorse possano essere indirizzate e utilizzate. Senza voler puntualizzare eccessivamente, quest’estate ho visitato Toledo (è una delle ERG del 2016): accattivante l’enorme telo posto sulle mura all’ingresso della città per evidenziare il titolo acquisito di Regione Gastronomica Europea per il 2016. Peccato però scoprire che i contenuti non erano poi così evidenti, anzi. È stato quasi impossibile accedere a un itinerario o proposta gastronomica realizzata per tale circostanza e mi sono chiesto dove fossero i contenuti di questo splendido contenitore. Impensabile quindi immaginare che fondi provenienti da un tipo specifico di turismo, come quello enogastronomico, possano essere investiti ed utilizzati a supporto di ambiti che nulla hanno a che vedere con la fonte originaria.
È il momento di essere chiari: il turismo enogastronomico è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, è giusto quindi che gli introiti che arrivano da questo tipo di ambito trovino sbocchi in investimenti destinati a supportare e incrementare l’offerta rivolta all’eno-gastro-turista stesso. Quello che è davvero importante tenere a mente è che mai come in questi casi è importante agire in filiera: non mi piace parlare di kilometro zero come filosofia di sviluppo. Qui si tratta di fare i conti e di parlare di economia: è importante che i fondi destinati a questo tipo di attività e i ricavi che arriveranno dal circuito del turismo enogastronomico vengano re-investiti sul territorio stesso a partire dall’area produttiva, fino ad arrivare all’offerta turistica e culturale del territorio, senza poi parlare di come tutti gli operatori, nessuno escluso, debbano contribuire in modo concreto a questa incredibile opportunità.
Non è pensabile che il turista che nel pomeriggio ha visitato dei vigneti in Valcalepio arrivi a cena in un ristorante locale e non trovi in carta il vino del territorio. Allo stesso modo è impensabile per un visitatore arrivato sul nostro territorio, per approfondire la conoscenza dell’ampio panorama dei formaggi orobici (non dimentichiamoci che deteniamo il primato europeo di formaggi Dop) non poterli apprezzare nei piatti che degusta durante la giornata.
Non si tratta di mera facciata o di filosofia della cooperazione spiccia; si tratta di economia: è giusto che il territorio aiuti il territorio e che le risorse a disposizione, nonché quelle create da questa opportunità, vengano reinvestite in quello stesso settore per poter alzare ancora di più il livello dell’offerta.
La birra Via Priula piace anche al Giappone. Due medaglie a Yokohama
Non solo l’acqua. Ora è anche la birra di San Pellegrino a conquistare i palati internazionali. Al concorso The International Beer Cup 2016, svoltosi nei giorni scorsi a Yokohama, in Giappone, il birrificio Via Priula ha ottenuto due medaglie.
Quella d’argento con la “Camoz” nella categoria Imperial Stout in stile americano e quella di bronzo con “Rosa!”, tra le birre di frumento alla frutta.
La competizione è storica. Si tiene infatti sin dal 1996 ed ha come obiettivo diffondere una maggiore conoscenza delle diverse birre del mondo. Raccoglie prevalentemente i prodotti dei birrifici giapponesi ma negli ultimi anni ha aperto le porte anche a produttori dalle altre parti del mondo, in considerazione dell’espansione nel mercato asiatico di prodotti artigianali diversificati e di qualità,
Quest’anno ha raccolto la partecipazione di oltre 600 birre da 25 Paesi, che sono state valutate da 60 giudici di 20 nazionalità diverse, che hanno assegnato medaglie d’oro, d’argento e di bronzo in 106 stili birrari.
Via Priula ha partecipato per la prima volta al concorso e non nasconde la soddisfazione per il bel risultato. Per festeggiare giovedì 28 settembre nel proprio locale di via Matteotti, dalle 18 alle 20, offre un aperitivo con birra Rosa! e assaggio di finger food giapponesi. Chi vorrà potrà fermarsi a cena e gustare i piatti Via Priula e una specialità dalla cucina giapponese, reinterpretata nello stile del locale.
Per info e prenotazioni: 338 6438705 oppure info@birrificioviapriula.it