Otus, il birrificio raddoppia e lancia nuove etichette

Da sinistra, Anna Cremonesi, Ruben Agazzi, Alessandro Reali e Ivano Magri
Da sinistra, Anna Cremonesi, Ruben Agazzi, Alessandro Reali e Ivano Magri

Ormai appare chiaro quanto il panorama del settore inerente alla produzione di birra sia mutato nel giro di un decennio e del peso che hanno assunto i birrifici artigianali nel contesto italiano, pur non minacciando in maniera concorrenziale il terreno della produzione industriale, per differenze rilevanti a livello quantitativo e qualitativo, commerciale e distributivo.

La produzione artigianale ha però di fatto conferito un fascino particolare al mondo della birra, apportando creatività e innovazione. Su questo terreno il Birrificio Otus di Seriate si è instradato a partire dal 2015, anno di inizio della produzione, con la chiara scelta di posizionarsi nel mercato di rilievo. 

«Nell’ ambito dei prodotti brassicoli artigianali – afferma Ruben Agazzi, consigliere delegato del birrificio – oggi si incontra un mondo molto variegato, che spesso genera anche confusione. Per il consumatore medio non è certamente semplice riuscire a comprendere e, di conseguenza, a scegliere. Spesso, inoltre, si incorre in prodotti che subiscono variazioni significative. La ricerca della qualità di Otus è invece costante in tutto il processo produttivo, a partire dalle materie prime e dall’uso dell’acqua. La qualità autentica nasce infatti dalle migliori materie prime e dall’artigianalità, che significa tecniche antiche, gesti misurati e un’infinita passione per la creazione di prodotti unici, con ingredienti e procedure naturali».

«Da qui la scelta di collocare il birrificio a Seriate, per riprendere la tradizione della produzione di birra sul territorio, che risale al XIX – aggiunge Anna Cremonesi, vice presidente Otus -. Qui l’acqua, vista la leggerezza, è ideale per la produzione del “pane liquido”. Grazie, poi, alle alleanze strategiche, prendiamo il meglio degli ingredienti per trasformarli in birra artigianale d’eccellenza. La maestria, che l’immagine del gufo sapiente ha fin da subito richiamato, è infine sintetizzata nel lavoro preciso e competente del birraio, Alessandro Reali».

Laureato all’Università di Agraria di Milano, Reali è oggi il cuore pulsante della produzione Otus: «Ho lavorato diversi anni all’estero, potendo provare sul campo la preparazione teorica universitaria e acquisire ulteriormente le competenze specifiche che solo l’esperienza diretta può insegnare. L’intenzione è di creare birre diverse, con forte personalità ma uguali a se stesse in modo da guidare il consumatore verso una maggiore consapevolezza e conoscenza della varietà sensoriale e gustativa che il modo della birra offre».

otus - pils produzione

Per Otus il 2016 è un anno laborioso dal punto di vista degli investimenti produttivi, verrà infatti più che raddoppiata la capacità di produzione e saranno prodotte tre nuove tipologie. La prima ad essere immessa sul mercato è una lager chiara, mentre a giugno vedrà la luce una birra bianca “Side B” Blanche. Poi la gamma sarà arricchita con una Season. «Pils al quadrato, questo è il nome che abbiamo voluto darle. È una birra a bassa fermentazione – continua Cremonesi – ad ispirazione tedesco-ceca, fatta come sempre a modo nostro con luppoli continentali ed oceanici. I profumi floreali, speziati dei luppoli e i toni dolci dei malti ci preparano a una birra di estrema scorrevolezza e aromaticità. L’acqua povera in sali, il suo taglio secco e una punta di amaro, ne fanno una birra per tutte le occasioni e per tutti i gusti». La Blanche invece abbiamo deciso di chiamarla Side B e sarà la nostra interpretazione di uno stile nato in Belgio: il frumento coltivato a Km zero dona pienezza e una nota acidula mentre le spezie utilizzate donano note floreali, agrumate e fruttate. Il lievito utilizzato completa il bouquet con richiami di vaniglia e frutta. Nonostante la complessità aromatica, la birra che ne deriva è rinfrescante e facilissima da bere. Una birra proprio per la stagione estiva alle porte!».




Kanton, a Capriate il cinese che non t’aspetti

Kanton - Capriate San Gervasio - i titolari Weikun e la moglie Meiling
Weikun Zhu e la moglie Meiling

Tra i tanti ristoranti orientali che ormai propongono una cucina standardizzata, iperscontata (con la formula dell’all you can eat) e con l’utilizzo di materie prime non sempre ineccepibili sotto il profilo qualitativo, capita anche di incontrare degli indirizzi che, invece, è bene segnare sul proprio taccuino. Ed è il caso del Kanton a Capriate San Gervasio (al civico 17 di via Gramsci), a due passi dalla provincia milanese e inaugurato un paio di anni fa sulle ceneri di una pizzeria che aveva lo stesso nome e che a sua volta aveva rimpiazzato un altro ristorante anche esso orientale e chiamato Il Giardino di Giada.

La proprietà, ai tempi, era della famiglia Zhu, originaria della Cina, e lo è ancora oggi, ma vede farsi avanti prepotentemente la nuova generazione di giovani ristoratori, con il trentenne Weikun e la moglie Meiling a gestire un team affabile e ben preparato, capace di dare una svolta definitiva sia all’ambiente che alla cucina. Il locale ha subito un restyling e il Kanton gode ora di una sala moderna e di un arredo che unisce intuizioni zen a un design contemporaneo, ma è soprattutto la proposta al tavolo ad aver spiccato il volo.

Scordatevi sushi e sashimi o piatti che ormai figurano in ogni rappresentazione gastronomica dell’Oriente (vedi gli onnipresenti involtini primavera), perché qui si entra a contatto con la cucina cinese più autentica, che pesca nella tradizione cantonese con qualche deriva nella regione del Sichuan (e le differenze non mancano, visto che nel Sichuan i sapori sono più decisi e speziati), ma sempre attualizzata e vicina allo stile e alle indicazioni della cucina contemporanea. Marinature, affumicature, preparazioni al vapore, l’utilizzo dell’aceto di riso, le acidità che si mescolano a dolcezze.

kanton - salaLa cucina del Kanton è una scoperta e una sfida del palato, perché presuppone un impegno da parte dell’ospite che vuole entrare in contatto con un mondo forse in buona parte ancora sconosciuto. Per fortuna ci pensa il titolare Weikun, che si divide tra sala e cucina (dove i cuochi arrivano tutti dalla Cina) e spiega con dovizia di particolari e in un italiano perfetto (lui è arrivato a Capriate quando aveva 14 anni e non si è più mosso) la filosofia di ogni piatto, i richiami alla tradizione, il giusto abbinamento con un tè o con un vino e indirizza verso i sapori che si stanno per sperimentare in bocca.

Kanton - Capriate San Gervasio - piatto«All’inizio non è stato semplice – dice Weikun – perché la clientela italiana non era abituata a spingersi verso nuove esplorazioni gustative, ma dopo poco tempo ha subito prevalso la curiosità, la voglia di conoscere meglio la millenaria tradizione della cucina cinese e così al Kanton si vedono soprattutto italiani, oltre a qualche orientale di passaggio che vuole sentirsi a casa».

Il menù prevede, tra gli altri, curiosità come la Medusa (proveniente dalla Malesia) con funghi Jinzen e salsa Saoxin, la Mazzancolla scottata e all’aroma fiorito (con una salsa di menta e pugne cinesi), i classici Dim Sum con la Polpetta in crosta di patate e funghi o i Cannelloni sbagliati (preparati con la sfoglia di riso), ma anche il Ramen in brodo di manzo, il Filetto di branzino affumicato, l’Ombrina (arriva dalla Cina, è essiccata e poi viene reidratata come per lo stoccafisso), l’Anatra laccata e il delizioso Pollo croccante con basilico d’Oriente, aceto di Xi-an e olio di sesamo.

Nel futuro, secondo i progetti a lunga scadenza di Weikun, c’è anche l’idea di aprire un secondo indirizzo sul capoluogo lombardo, ma prima ancora la volontà è quella di rendere il menù del ristorante a Capriate sempre più dinamico e vario.

Kanton - Capriate San Gervasio - lo staffKanton Chinese Restaurant

via Gramsci, 17
Capriate San Gervasio
tel. 02 90962671
chiuso il lunedì
www.kantonrestaurant.it



Ad Albino anche la pizza sposa il “chilometro zero”

da sinistra: Matteo, Monica e David Gualdi
da sinistra: Matteo, Monica e David Gualdi

«Volevamo unire le esperienze e costruirci un futuro». Così sintetizza la nascita della Nuova Brasserie, ad Albino, il maggiore dei tre fratelli, Matteo Gualdi, 28 anni, che con David, 26, e Monica, 24, nel 2014, partendo da Vertova, ha deciso di iniziare non un’avventura ma un’impegnativa esperienza imprenditoriale. Alle spalle, regista segreta ma non troppo, la mamma Cosetta, 52 anni, che proviene da una lunga dinastia di ristoratori e sovraintende alla cucina.

Per il nome del locale i titolari hanno ripreso quello del pub molto in voga una decina di anni or sono aggiungendo solo “Nuova”. Ma molte cose sono cambiate.

albino - la nuova brasserie - internoCon l’ingresso dei nuovi proprietari, il ristorante pizzeria è stato completamente ristrutturato nella parte edilizia e rinnovato nell’arredamento. Ora le due sale, una al piano terra l’altra al primo piano, si presentano curate ed essenziali con la capienza per un centinaio circa di coperti. Ed essere cambiata non è però solo la struttura. «Avevamo un nostro progetto quando siamo partiti – continua Matteo – e sotto un certo profilo possiamo anche definirlo un locale polivalente visto che periodicamente facciamo musica dal vivo, karaoke e ogni mese ospitiamo la mostra di un artista diverso, che si tratti di pittori, scultori o fotografi. Ma siamo un ristorante pizzeria, non ce lo dimentichiamo, e quindi queste sono comunque iniziative di contorno».

Per capire gli obiettivi forse è meglio rifarsi al passato dei nostri protagonisti. Matteo proviene da un altro settore mentre David e Monica hanno sempre lavorato nelle pizzerie d’asporto. «Ho iniziato come pony pizza – interviene David – e con gli anni sono arrivato sino al forno maturando una buona esperienza. Anche Monica ha una robusta esperienza alle spalle, è lei la nostra pizzaiola principale». Se ne deduce che il cavallo di battaglia della Nuova Brasserie è la pizza, ma c’è un denominatore comune che caratterizza il lavoro sia della cucina sia della pizzeria e cioè la valorizzazione dei prodotti locali.

La carta propone sette pizze a chilometro zero ma anche i taglieri di salumi e formaggi sono locali e l’impasto della pizza contiene anche mais Spinato di Gandino. La cucina si fa rispettare con una carta sobria che segue le linee fondamentali di una proposta classica molto curata. Ecco quindi che chi ama i prodotti di terra può confezionarsi un buon menù con un tagliere di salumi, gli immancabili casoncelli alla bergamasca e una tagliata, ad esempio. Si possono trovare anche una tagliata di pecora o degli gnocchetti speciali sempre con ingredienti locali.

albino - la nuova brasserie - piattoTra i piatti di pesce si possono scegliere un tris fumè di tonno, spada e salmone, gli spaghetti allo scoglio o ancora del pesce spada o la piovra tiepida. La maggior parte dei dessert è fatta in casa e la lista viene completata con prodotti artigianali di pasticceria e gelateria.

«Dal punto di vista delle materie prime – conclude Matteo – ci rivolgiamo maggiormente ad aziende piccole e locali cercando di far conoscere e diffondere i loro prodotti. Proponiamo anche delle serate a tema. Recentemente ne abbiamo realizzata una che abbiamo definito “Cinquanta sfumature di ovino” con la carne proveniente da un’azienda agricola di Clusone. Per quanto riguarda la clientela, visto il tipo di locale, abbiamo una frequentazione giovane ma ci rivolgiamo in particolare alle famiglie che possono trascorrere una serata in pizzeria diversa, per la qualità della pizza e l’ambiente raffinato e tranquillo».

Nuova Brasserie Pizzeria Ristorante

via Provinciale, 94
Albino
tel. 035 752923
chiuso il martedì



Fudbox, ecco il regno degli hamburger

Sono andati fino in America per apprendere i segreti dell’hamburger perfetto, ma poi sono tornati in patria per tradurre quella ricetta con le migliori materie prime della tradizione italiana: così è nato FudBox, fenomeno che sta prendendo piede tra i giovani e non solo, di Bergamo.

L’hamburgeria di piazzale Oberdan, intesa come chiosco da strada e non come locale (la filosofia è molto diversa) nasce nel 2014 come punto d’incontro di una coppia diversissima eppure affiatata: da un lato Andrea Cologni, diplomato geometra con la passionaccia per la cucina, ma soprattutto preciso e organizzato, e dall’altra Ylenia Agate, creativa e scompigliata food designer. Coppia nella vita e nel lavoro hanno saputo unire conoscenza, creatività e… “gavetta” prima di trasformare il sogno in realtà, con la trasferta a San Francisco che ha fruttato loro un bagaglio di esperienza inestimabile sul fronte food.

Andrea Cologni e Ylenia Agate
Andrea Cologni e Ylenia Agate

«Degli americani – spiega Andrea – c’è sicuramente da apprezzare la rapidità d’esecuzione e la grande organizzazione in cucina, oltre alla capacità di marketing anche su piccola scala: di questi aspetti abbiamo sicuramente fatto tesoro, anche se sul fronte delle materie prime le nostre restano decisamente superiori. Io ho lavorato nel quartiere finanziario di “Frisco” in una caffetteria italiana e devo dire che gli americani hanno un vero e proprio culto per i prodotti italiani. Per questo ci siamo resi conto di avere un grande potenziale che poi avremmo sfruttato, tornando in patria».

«A San Francisco – aggiunge Ylenia – ci ritroviamo a sfatare un mito: la scarsa qualità degli hamburger. Mangiamo spesso in piccoli localini dove ci vengono serviti hamburger qualitativamente superiori con ingredienti freschi, così decidiamo quale sarà la nostra strada: ricercare l’eccellenza nel burger. Torniamo in Italia con un’idea fissa: aprire un locale tutto nostro dove sperimentare e condividere. E così è stato».

Il posto giusto per realizzare il loro sogno? «Un caratteristico chiosco direttamente in strada – spiegano loro -, come in Europa, in pratica in braccio alla città. Lo trasformiamo completamente, lavoriamo con colori e grafiche tutto fatto da noi, in tre settimane un chiosco di kebab diventa Fudbox, la nostra magica scatola di cibo».

hamburger - fudboxSi comincia con uno stuolo di ragazzini che divorano cheeseburger (o cisburger come lo chiamano loro) semplici e doppi e hot dog, due classici dello street food che non mancano mai, per poi scoprire che, a distanza di settimane e poi di mesi, l’età media della clientela continua ad alzarsi: c’è il liceale, l’universitario, persino qualche professionista, fino al passo strategicamente decisivo: la conquista dell’intera famiglia. «Dopo qualche tempo dall’apertura sono cominciati ad arrivare interi nuclei familiari – ricorda la coppia -, significa che avevamo passato la prova qualità, che i genitori si fidavano di noi e addirittura mangiavano il cibo prediletto dai loro figli perché lo ritenevano anche qualitativamente appagante».

Da allora la premiata ditta Fudbox non si è più fermata: ha sfornato decine di burger creativi, alternando sempre materie prime d’eccezione. «Il nostro segreto? Facciamo la spesa per il locale, dove ci riforniamo anche per noi: abbiamo il macellaio di fiducia per la carne, verduriere doc e panettiere che ci fa il pane su misura di vari formati, perché anche il pane di qualità è una componente fondamentale nella nostra offerta».

Una delle provocazioni di Andrea è l’hamburger senza… carne. «Era da tempo che studiavamo un panino vegetariano – spiega Cologni –, dopo diversi tentativi alla fine è nato il “Vege Burgher”, con melanzane, Salva cremasco, pomodori confit e pesto di basilico e pomodoro. Non è il classico Veggie Burgher di soia o di ceci ma un impasto di melanzane cotte alla piastra. In città non si trova un hamburger vegetale artigianale, ma noi abbiamo accettato la sfida. Vista l’ottima accoglienza, per noi questa è la dimostrazione che la qualità vince, con la soddisfazione di esserci fatti nuovi clienti anche tra i vegetariani che di solito se ne stanno alla larga dalle hamburgerie».

Andrea e Ylenia si stanno strutturando anche per il servizio catering, ma accanto ai banchetti tradizionali, con eventi già realizzati per banche e società, hanno varato la formula “fudbox a casa tua”, per feste di compleanno dei ragazzi, seguendo la nuova scia molto gettonata degli chef che cucinano live nelle case private: «Anche in questo caso il lavoro non manca – dicono loro – anche perché ai ragazzi che sono piaciuti i nostri burger, basta un attimo, con sms e WhatsApp, a mettere in circolo un passaparola formidabile».




Formaggi, il prezzo (alto) è quello giusto

A volte il prezzo è caro, ma può essere quello giusto. Nel senso che, per molti addetti ai lavori, l’unica speranza di sopravvivenza per alcune produzioni casearie di qualità sarà adeguare certi prezzi alla media europea. Con una fascia sempre più estesa di consumatori che, pur di avere l’eccellenza sulle proprie tavole, è disposta a pagare anche qualcosa in più. Ne è un convinto assertore Roberto Rubino, dirigente e ricercatore presso l’Unità di Ricerca per la Zootecnia Estensiva di Bella (Potenza), grande conoscitore di tutto il patrimonio caseario italiano e presidente di Anfosc, l’Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo, nata nel 1995 per tutelare e valorizzare i formaggi prodotti esclusivamente con il latte di animali allevati al pascolo. Un purista dei grandi Cru, quindi, Rubino, la cui opinione è molto ascoltata sia dagli addetti ai lavori che dai consumatori, perché disinteressata e non legata a singoli interessi di bottega.

Roberto Rubino - presidente AnfoscPresidente Rubino, a volte i consumatori restano sorpresi per il prezzo molto elevato di alcuni formaggi d’eccellenza: ma forse questa è l’unica arma che ha la filiera per poter sopravvivere, viste le soglie minime pagate per il prezzo del latte….

«Salvo rarissime eccezioni, i prezzi dei formaggi sono tutti livellati verso il basso. Possiamo trovare bottiglie di vino da un euro e da 4.000 euro. Invece nei banchi dei supermercati i prezzi dei formaggi sono quasi identici, molto vicini uno all’altro. E, secondo me, questo è il vero problema del settore….».

A volte però dei prezzi anche alti, o forse è meglio dire giusti, vista la qualità, si avvantaggia solo l’ultimo tratto della filiera casearia, quella della distribuzione: c’è un modo per riequilibrare l’intero sistema?

«Con i prezzi bassi non si avvantaggia nessuno. Anzi è proprio la distribuzione a risentirne perché non è in grado di offrire un’ampia gamma di prodotti a prezzi differenti».

Lei conosce benissimo tutti i formaggi italiani, a livello di prezzi, ma anche sul fronte della qualità. Ci può fare qualche esempio di formaggio sottovalutato, che meriterebbe più attenzione da parte dei consumatori e del mercato? E ci sono invece formaggi sopravvalutati?

«Gran parte dei formaggi al pascolo sono sottovalutati. A volte in maniera vergognosa. Esempio classico è il Ragusano: pascolo obbligatorio, latte crudo, siero-innesto, tini di legno, locali di stagionatura naturale. Eppure gli allevatori prendono solo due centesimi in più rispetto al latte industriale. E che dire del Montasio d’alpeggio, dei Nostrani trentini o della Fresa sarda. Non credo invece che vi siano formaggi sopravvalutati, perché c’è troppo appiattimento verso il basso».

In riferimento ai formaggi, lei ha anche creato un suo modello di classi di qualità: può dirci brevemente in cosa consiste?

«Sappiamo che il latte non è tutto uguale e sappiamo anche che la grande differenza la fa il pascolo e i concentrati. La qualità aromatica e nutrizionale del latte dipende essenzialmente dalla quantità di erba che l’animale mangia e soprattutto dal numero di erbe diverse contenute nella razione. Perché ogni erba apporta un patrimonio di molecole diverse. I concentrati hanno lo stesso effetto dell’acqua nel vino. Ne aumentano il volume ma ne diluiscono sapore e aroma. Il settore si salva se riusciamo a dare “a ciascuno il suo” prezzo».

Già, ma come?

«L’ideale sarebbe utilizzare lo stesso metodo in uso nel mondo del vino: ogni bottiglia ha il suo prezzo a prescindere dal nome del vino e anche se è una Doc. Però il mondo del vino è troppo distante. Ecco perché ho pensato alle classi di qualità, un po’ come si fa con gli elettrodomestici o il baccalà. Le classi sono sei (tre per i sistemi al pascolo e tre per quelli alla stalla) e si basano essenzialmente sulla razione alimentare e sul ruolo dei concentrati. Insomma, meglio mangia l’animale è più il latte e il formaggio saranno “di classe superiore”».

Lei si è sempre battuto contro l’omologazione del latte, che non può essere tutto uguale, ma va valorizzato, specie se italiano di qualità: le recenti misure varate dal ministro bergamasco Martina vanno in questa direzione o c’è ancora molto da fare?

«Non mi risulta che vi siano ancora misure che vanno nella direzione da me auspicata. Noi dobbiamo uscire dalla logica che il latte è tutto uguale, che il prezzo deve essere unico, che dobbiamo mangiare italiano. Noi produciamo molto meno di quello che consumiamo. E non tutto il latte italiano è uguale. Quindi il prezzo deve essere diverso, altrimenti chiude l’azienda che produce il miglior latte».

Secondo lei quale sarà il futuro del formaggio italiano? Riuscirà a contrastare adeguatamente il mercato mondiale delle imitazioni che, a forza di tonnellate di Parmesan e affini, sta minando la nostra credibilità?

«Il problema non sono le imitazioni o le importazioni di latte. Insisto, il problema è l’omologazione, il prezzo unico. Fra poco compreremo formaggi a prezzi stracciati perché la produzione di latte è in eccesso e perché non si tiene conto della qualità. Dobbiamo legare il prezzo alla qualità reale, non quella che ci raccontano (grasso, proteine, cellule somatiche e carica batterica)».

Formai de Mut dell'Alta Valle BrembanaFra i formaggi bergamaschi quale apprezza di più? Ci sono secondo lei, prospettive per allargare il mercato dei formaggi orobici anche all’estero in futuro?

«Il Formai de Mut è il mio preferito. A volta esprime una complessità delicata e fine che raramente si ritrova in altri formaggi. Per i formaggi bergamaschi ci potrebbero essere grandi prospettive. Dovremmo diversificare, ampliare l’offerta e esaltare al massimo la qualità con una cura maniacale dei dettagli. Ripeto: se si vendono vini a 4.000 euro, prosciutti a 1.000 euro, perché non si può vendere un formaggio a 1.000 euro? Questo è lo sforzo che dobbiamo fare: allargare la forbice fra il formaggio meno caro e quello più caro per permettere a tutti di gustare e ritrovare il proprio prodotto».




Baioni 45, elogio della trattoria

Dino Sartirani e Adriana Gadda
Dino Sartirani e Adriana Gadda

Una vita in trattoria. Probabilmente non poteva andare diversamente la storia di Dino Sartirani, 61 anni, originario di Ponte San Pietro, cresciuto nelle trattorie gestite dalle due nonne e dalla mamma e poi con ulteriori significative esperienze professionali, tra le quali l’incarico di aprire due catene di ristoranti di cucina italiana in Israele, dove è stato, a più riprese, dal 1994 al 2007. Tornato in Italia ha diretto alcuni ristoranti sino a quando non si è presentata l’occasione per mettersi in proprio.

Nel febbraio del 2014 Sartirani, con la socia Adriana Gadda, ha aperto in città la Trattoria Baioni 45, che si trova appunto al numero 45 di via Baioni, riavviando un’attività che negli anni precedenti era andata avanti alternando diverse fortune.

«Il locale mi è piaciuto subito – racconta Dino – perché è della dimensione giusta per le nostre esigenze. Cinquanta coperti, e sinceramente preferisco anche quando non è strapieno, ti danno la possibilità di conoscere i clienti, di dialogare con loro e di presentare al meglio i piatti».

Trattoria Baioni - La salaIl locale è piacevole, accogliente nella sua semplicità. Dino si autodefinisce tuttofare e si destreggia in cucina, in sala e nell’addestramento del personale. «Lo diciamo chiaramente che la nostra vocazione è il pesce – prosegue – ma abbiamo anche una serie di piatti bergamaschi per i quali seguiamo le stagioni. Quindi lumache con polenta, rane, funghi porcini, stracotti e i vari ragù di cinghiale e capriolo senza dimenticare i nostri casoncelli per i quali seguo una ricetta della nonna».

Molto comunicativo ed espressivo, il patron ha adottato una linea ben precisa nel locale, che vuole abbia la schiettezza della trattoria. Afferma che non è un locale per tutti, nel senso che chi vuol spendere molto, o comunque di più, per il pesce dovrebbe dirigersi verso altri ristoranti. «Facciamo dei ricarichi minimi sul pesce – spiega -, acquistiamo in pratica ogni giorno e i prezzi ci sembrano corretti visto che facciamo tutto con semplicità. La nostra cucina? Abbiamo spogliato la ristorazione classica di quanto non era fondamentale, per farla diventare più essenziale e adeguata a una trattoria. “Come era una volta” è un po’ il mio motto anche se non manco di ricercare e sperimentare praticamente ogni giorno nuove soluzioni».

E la scelta paga visto che Trattoria Baioni 45, oltre ad avere degli ottimi giudizi su TripAdvisor si è vista pubblicare una recensione su un periodico di lingua inglese di Hong Kong. Il servizio era di una giornalista cinese che aveva pranzato in cinque ristoranti di Bergamo valutando la Trattoria il migliore.

La carta del locale è abbastanza ricca ma viene completata ogni giorno con un supplemento, secondo le disponibilità. Per quanto riguarda il pesce tengono comunque banco i menù a prezzo fisso, da 25 e 35 euro, che comprendono antipasto, primo, secondo e contorno. Solo vino e acqua sono extra e tenuto conto che c’è uno chardonnay della casa a 10 euro al litro si può veramente contenere la spesa. Il menù da 25 euro comprende impepata di cozze, capesante gratinate e insalata di piovra. Il primo è definito una calamarata risottata e si tratta di paccheri corti fatti in casa. Branzino o orata, un gamberone e calamari costituiscono il secondo piatto. Il menù da 35 varia solo per l’inserimento di tre cruditè mediterranee tra gli antipasti.

LA PROVA

Il menù low cost fa il bis a cena

Trattoria Baioni - casoncelliUn aspetto abbastanza inconsueto del menù a prezzo fisso tradizionalmente proposto per la pausa pranzo del mezzogiorno è che alla Trattoria Baioni 45 viene replicato alle stesse condizioni la sera. Una buona occasione quindi per soddisfare, senza eccessive pretese ma con gusto, le esigenze alimentari della cena con la modica spesa di dieci euro.

Dieci euro che comprendono primo e secondo piatto, contorni, vino, acqua e caffè. E si tratta di piatti non banali. Tra i primi troviamo infatti i casoncelli alla bergamasca fatti in casa, gnocchi al pesto, tortellini al pomodoro, mezze penne alla montanara e i pressoché immancabili spaghetti al ragù. Ampia anche la scelta tra i secondi piatti: spiedini di carne mista, arrosti misti, hamburger di chianina, bistecca di manzo, coppa alla griglia, medaglioni ai porcini e magatello di manzo all’inglese. Per per i contorni c’è una varietà di verdure cotte e crude.

Per il primo seguiamo un po’ l’onda degli altri clienti che sembrano apprezzare i casoncelli alla bergamasca: scelta più che mai azzeccata perché sono realmente fatti in casa con una ricetta particolare e, non da ultimo, si tratta di una porzione abbondante. Anche per il secondo ci facciamo guidare dal flusso e andiamo con il gettonatissimo hamburger di chianina. Una proposta così, come abbiamo già detto, non sfigurerebbe nemmeno per una cenetta e quindi la valutazione è quella di un rapporto qualità prezzo tra i migliori.

Trattoria Baioni 45

via Baioni, 45
Bergamo
tel. 035 4220033
chiuso il lunedi sera
www.trattoriabaioni45.com



Il bocconiano dice addio all’Alta finanza, «meglio “La Polenteria”»

Gabriele Vitali, a destra, con il socio Silvio Vangelisti
Gabriele Vitali, a destra, con il socio Silvio Vangelisti

Da un paio di anni, chi capita nelle strade affollate del quartiere di Soho, a Londra, può vivere l’esperienza di ritrovare i sapori di casa e il gusto tipico bergamasco in un piccolo ristorante chiamato La Polenteria, che, come dice bene il nome, mette in primo piano (e perfino in vetrina) proprio la polenta e in particolar modo quella tutta orobica di Nicoli.

L’idea è venuta a Gabriele Vitali, originario di Pizzino in Val Taleggio, laurea alla Bocconi, il quale, dopo diversi anni trascorsi nella capitale britannica occupandosi di investimenti finanziari in un grande gruppo bancario, insieme all’amico (bresciano) Silvio Vangelisti, che invece era odontotecnico, ha deciso di fare il grande salto nella ristorazione. Ed è subito stato un gran successo. Prima di tutto per la filosofia totalmente “gluten-free” del menù (ed è stato il primo ristorante italiano a proporlo a Londra), poi per l’ambiente raccolto e intimo, da trattoria moderna, e infine per la cucina generosa e ricca, che mette in campo anche altri classici regionali italiani e non solo la polenta. Anche se quest’ultima rimane la vera protagonista, visto che viene proposta negli antipasti con asparagi, scamorza e uova, o nella versione più esotica con una vellutata di menta e la crema di soia. E poi nei piatti principali, con gli Gnocchi di polenta, tartufo e formaggio, e in preparazioni decisamente più azzardate come nel caso degli Gnocchi di polenta con salmone affumicato e crema di avocado o nel Filetto di maiale con salsa di liquerizia e polenta grigliata. E c’è perfino, a fianco della Panna cotta e del Tiramisù, una “Polenta cheesecake” per chi vuole completare il pasto tematico con un dolce.

piatto - la Polenteria - LondraLa polenta rappresenta il 50% del menù, ma non mancano pasta e ravioli fatti in casa con sapori che virano spesso verso un gusto internazionale, anche perché a La Polenteria la clientela italiana rappresenta solo un quinto degli ospiti che si siedono nei 32 coperti del ristorante. I vini in carta sono esclusivamente italiani, con un’attenzione particolare per quelli bresciani (Benaco e Lugana), ma la filosofia vegana e gluten-free che ispira tutta la proposta consiglia anche di sperimentare in accompagnamento i succhi di frutta freschi o, come sembra essere di tendenza negli ultimi tempi, qualche cocktail.

«La scommessa della Polenteria è stata vinta – racconta Gabriele Vitali -, e siamo molto soddisfatti di come sta andando il ristorante. Al punto che potremmo quasi decidere di aprirne un altro in futuro. Gli inglesi, quando siamo arrivati, non conoscevano la polenta ma hanno iniziato ad apprezzarla e ora la richiedono con continuità. All’inizio avevamo solo quella in carta, con pochi riferimenti, ma abbiamo deciso strada facendo di offrire una scelta un po’ più ampia alla nostra clientela, così sono arrivati altri piatti come le Lasagne vegane, la Burrata con rucola, la parmigiana e le Tagliatelle al pesto rosso. Per dare anche qualche tocco della cucina italiana mantenendo fede alla scelta di soddisfare vegani, vegetariani e amanti del senza-glutine».

La Polenteria esterni - Londra




“Sette Terre” cresce e diventa wine partner dei Maestri del Paesaggio

Da sinistra in piedi: Fabio Leoncini (Tellurit), Eligio Magri (Eligio Magri), Cristina Papetti (Sassi della Luna), Simonetta Ferrario (Caminella), Laura Micheli (Valba) e Carlo Ravasio (Sant’ Egidio). Da sinistra accovacciati: Daniel Pennacchio (Cascina Lorenzo) e Antonio Lecchi (Casa Virginia)
Da sinistra in piedi: Fabio Leoncini (Tellurit), Eligio Magri (Eligio Magri), Cristina Papetti (Sassi della Luna), Simonetta Ferrario (Caminella), Laura Micheli (Valba) e Carlo Ravasio (Sant’ Egidio). Da sinistra accovacciati: Daniel Pennacchio (Cascina Lorenzo) e Antonio Lecchi (Casa Virginia)

“Sette Terre” sale a otto, s’appresta a far da portabandiera dei vini bergamaschi in un grande evento internazionale in programma a Bergamo, e, soprattutto, conferma i suoi principi costituenti, in primis il profondo legame con la terra. O meglio, con le terre, la Maiolica, la Marna di Bruntino, la Volpinite, il Sass de Luna, l’Arenaria, il Flysch e le Torbiditi, quell’insieme di sedimenti che caratterizzano l’arco collinare bergamasco e che sono in grado di regalare nettari dalla forte personalità a chi sa coglierne le peculiarità. È da queste “miniere” che nascono i vini degli otto Viticoltori Indipendenti di Bergamo. L’Associazione non ha neanche due anni di vita, eppure cresce e consolida il proprio cammino esaltando il terroir e la massima espressività del vino. «Il tutto – annota il presidente Carlo Ravasio – all’insegna della sostenibilità ambientale e con l’obiettivo di rendere i consumatori bergamaschi nuovamente orgogliosi dei propri prodotti. Abbiamo del resto i mezzi e un ambiente armonioso, dobbiamo solo decidere se fare o meno qualcosa di diverso». «Non siamo in antitesi con nessuno, sia ben chiaro – puntualizza Ravasio -. L’importante è che tutti i produttori portino avanti il territorio, che si faccia distretto, crescita e valore. La terra, aggiunge il presidente – è un passato che insegna. A noi il compito di osservare e trovare la giusta armonia per produrre qualità».

Una linea chiara, sintetizzata al meglio dal motto “La terra, l’ambiente, la qualità, l’anima di Bergamo nel bicchiere”, un insieme di valori che l’Associazione ha “sposato” nel luglio del 2014, al momento della nascita, e che si sta rivelando premiante visto che il numero dei soci è in crescita. Due i nuovi ingressi: Sassi della Luna, azienda agricola di Cenate Sopra guidata da Cristina e Claudio Papetti, e Tellurit di Pontida, nelle mani di Fabio Leoncini, amministratore delegato del Gruppo Innowatio, con sede al Kilometro Rosso e attivo nel settore energetico, che tre anni fa ha rilevato i vigneti dal farmacista Losa. È vero, nel frattempo dalla compagine è uscita l’azienda più grande, “Le Corne” di Grumello del Monte, tra i fondatori del sodalizio, ma trattasi, precisa Ravasio, «non di un disconoscimento dei nostri valori ma di una scelta legata a una fase progettuale dell’azienda».Logo Sette Terre

Ad oggi, pertanto, le aziende che compongono l’associazione sono Caminella di Cenate Sotto, Cascina Lorenzo di Costa Volpino, Eligio Magri di Torre de’ Roveri, Sant’Egidio di Sotto il Monte, Valba e Sassi della Luna di Cenate Sopra, Casa Virginia di Villa d’Almé e Tellurit di Pontida, per un totale di 43 ettari vitati, 200mila bottiglie prodotte e 39 etichette. Altre richieste d’ingresso da parte di produttori bergamaschi sono al vaglio dell’Associazione. «Tuttavia – evidenzia il vicepresidente Antonio Lecchi – avanziamo con cautela perché vogliamo che all’adesione corrisponda anche una fedele condivisione dei nostri principi sia morali che qualitativi, vogliamo che il serio viticoltore dopo le fatiche e l’impegno per la sua migliore produzione, sia premiato dalla scelta del consumatore e che lo stesso diventi orgoglioso di bere e promuovere la qualità della viticoltura della terra bergamasca. Il tempo è passato, le guerre, la mezzadria, la riforma agraria del 1947 hanno portato a fare ai tempi delle scelte soprattutto di autarchia, oggi possiamo permetterci di parlare di ricerca, di valore e soprattutto d’impegno per la migliore qualità».

L’Associazione Sette Terre vuole essere sempre vicina alla cultura, al cibo ed al rispetto dell’ambiente, per questo motivo ha deciso di essere wine partner al grande evento internazionale “I Maestri del Paesaggio” in programma dal 7 al 25 settembre prossimi in Città alta. «È un momento di eccellenza legato alle tematiche del paesaggio – commenta Ravasio – che coinvolge un’intera città. Ci sentiremo orgogliosi portabandiera della qualità del vino bergamasco: speriamo che tanti ristoratori ed enotecari facciano un sforzo, provino a credere al nostro territorio e sentano anche loro il profumo della nostra terra».

 

 




Tellurit, la sfida in cantina di “mister Innowatio”

Fabio Leoncini
Fabio Leoncini

Ha 50 anni, origini argentine e si dichiara innamorato della nostra terra. A Bergamo è approdato nel 1998, direttamente dal Sudamerica, con un ruolo alla TenarisDalmine. Da allora ne ha percorsa di strada Fabio Leoncini. Dagli uffici al Kilometro Rosso, oggi amministra ed è azionista di riferimento di Innowatio, un gruppo energetico paneuropeo di nuova generazione che vanta un fatturato di 1,5 miliardi di euro e più di 230 dipendenti dopo la recente acquisizione della tedesca Clens. È un economista, Leoncini, che a Bergamo ha scoperto anche il potenziale enogastronomico del territorio. E così, da cultore del mondo del vino, ha deciso di fare il grande salto: è diventato anche produttore. La svolta tre anni fa, quando gli è capitata l’occasione di rilevare, a Pontida, in Valmora, i vigneti del farmacista Losa. Quattro ettari e mezzo in tutto dove dimorano Merlot, Chardonnay e Riesling della Bergamasca, reimpiantati all’80%.

La cantina l’ha chiamata “Tellurit” (come il minerale) e oggi – con la collaborazione dell’enologo Angelo Divittini – produce circa 6mila bottiglie: 4.500 di Bergamasca Igt Merlot e 1.500 di Bergamasca Igt Riesling. Quest’ultimo, tra l’altro, ha ricevuto l’attestato di eccellenza all’ultima edizione di Gourmarte. «La sfida è solo alle fasi iniziali – spiega Leoncini -. C’è tanto lavoro ancora da fare, considerato che la produzione potenziale del vigneto è di 20mila bottiglie l’anno». TelluritNei programmi c’è la ristrutturazione della cascina annessa al vigneto per poter vinificare in proprio (oggi Tellurit si appoggia alla vicina Cantina sociale) e il consolidamento del canale commerciale affidato a un uomo d’esperienza come Emilio Baldoni.

“Passione per natura” c’è scritto s ulle etichette. E non è un caso. «Da sempre – ammette Leoncini – ho avuto un marcato interesse per il mondo del vino, per la sua storia. Nel tempo, l’interesse è cresciuto ed è infine sfociato nella decisione di scendere in campo. Mi affascina la nuova sfida, in questo caso con la natura, che ha i suoi ritmi e ti costringe ad affrontare un nuovo modo di misurarti con il tempo».

Passione, in Leoncini, fa rima anche con visione. “Mister Innowatio” è convinto che nella Bergamasca andrebbero create le condizioni per una valorizzazione decisa dei prodotti della terra. «Viviamo in una realtà che può offrire molte opportunità – afferma – con ricadute positive anche sul turismo enogastronomico. È essenziale, però, che si punti alla qualità senza compromessi». Convinzioni che hanno reso naturale l’adesione di Tellurit a Sette Terre. «La condivisione dei valori promossi dall’Associazione dei Viticoltori Indipendenti di Bergamo è totale – afferma Leoncini -. Credo nella scelta di esaltare il terroir. Perché solo così si può raggiungere l’eccellenza e fare la differenza».

www.tellurit.com – f.leoncini@yahoo.com




Dal castello ai grattacieli, la scalata di Christian ai fornelli

Christian Fantoni (2)
Christian Fantoni

La favola di Christian Fantoni iniziò in un castello. Suo padre era giardiniere e guardiano del Palazzo Fogaccia di Clusone mentre sua madre era la cuoca personale del principe Giovanelli. È in quel luogo dall’atmosfera magica, spesso meta ambita di grandi cuochi e professionisti dei fornelli, che questo chef bergamasco maturò una crescente passione per le arti culinarie. Ma, dopo gli studi all’istituto alberghiero e la gavetta in alcuni ristoranti del nord Italia, dovette suo malgrado lasciare la sua Valle Seriana alla volta della Somalia dove lo attendeva il servizio militare nei paracadutisti. Fu un periodo duro che cambiò radicalmente la sua vita. «Tornato in Italia – racconta Cristian – lasciai la mia ragazza dell’epoca e non avevo più vincoli che mi legassero a Bergamo. Così, con l’aiuto del bergamasco Pierangelo Cornaro, decisi di andare a lavorare in America».

Sono trascorsi più di trent’anni da allora. Oggi di esperienza Fantoni ne ha maturata moltissima e non solo come cuoco. A 43 anni ha giù aperto diverse trattorie a Milwaukee, Philadelphia, Washington, Mexico City, Miami, Boston, New Jersey e un grand hotel nell’Aqua building di Chicago. Ha lavorato anche per locali rinomati tra cui il “Bella Blu” di Enrico Proietti, chef trentino molto conosciuto a New York. Da qualche tempo Christian Fantoni è il cuoco di punta di RPM Italian, un raffinato ristorante che promuove con classe e qualità la cucina mediterranea.

Il menù è ricco di specialità, dalle fresche burrate ai toast con pan ciabatta, dalle insalate con il pecorino toscano alle focacce fatte in casa. Per non parlare delle numerose paste fatte a mano, ripiene e non: a piatti più classici come pappardelle alla bolognese, spaghetti alla carbonara, tortelloni in brodo e gnocchi di patate si alternano più sofisticati ravioli di spinaci con astice o caramelle ripiene di salsiccia con impasto bicolore al tartufo nero e salsa di taleggio. C’è poi una sezione dedicata ai piatti senza glutine che, in America, pare siano diventati un vero must sia per gli intolleranti che per i maniaci della linea. E per accontentare tutti gli stranieri e i loro bizzarri stereotipi sulla cucina tricolore, Fantoni è pronto a cucinare anche quelle pietanze che gli americani definiscono, chissà perché, “Italian classics” ovvero spaghetti con le polpette e pollo con il formaggio.

Sebbene gli statunitensi abbiano una visione distorta delle vere specialità italiane, non ci si può permettere di prendere questo mestiere sottogamba, soprattutto in una metropoli interattiva come Chicago dove il passaparola si trasmette a colpi di click: «La ristorazione è diventata molto competitiva – conferma Fantoni – devi essere sempre al 100% perché se sbagli qualcosa ti mettono in croce». Per il momento RPM Italian si difende bene piazzandosi su Tripadvisor al 43esimo posto su 7.359 ristoranti a Chicago.

L’INTERVISTA

«Internet è essenziale, ormai la maggioranza delle prenotazioni arriva da qui»

Quando è arrivata la svolta americana?

«Dopo il servizio militare nei paracadutisti in Somalia e nell’operazione Vespri siciliani, ho voluto partire per nuovi orizzonti. Con l’aiuto del bergamasco Pierangelo Cornaro, mi sono trovato a Los Angeles, nel famosissimo ristorante Rex, frequentato quotidianamente da attori famosi. In quel locale sono stati girati anche parecchi film. Ho cominciato a lavorare con una compagnia americana per la quale ho aperto molte trattorie in giro per gli Usa e anche un grand hotel nell’Aqua building di Chicago, il Radisson Blu, con la supervisione del Food & beverage. Giunto a New York ho lavorato per San Domenico NYC, Le Bernardin (il miglior ristorante di pesce a NY), Le Cirque. Ho aperto locali a Mexico City, Miami, Boston, New Jersey e poi, in società con altri colleghi Italiani, ho aperto il Barbaluc. Ho guidato la cucina al “Fiamma” con il grande Michael White, ho lavorato per il mitico Enrico Proietti al “Bella Blu” e i suoi ristoranti. Poi dopo 13 anni di lavoro nella Grande mela, mi sono trasferito a Chicago dove ora vivo. Ho lavorato al ristorante italiano “Filini” e sono stato l’executive chef per tre anni al 437 Rush di Chicago, un ristorante italiano con influenza di steak house. Ora sono il cuoco di RPM Italian».

RPM Italian - Chicago - chef Christian FantoniIn tutti questi anni è riuscito a far conoscere la cucina bergamasca nel mondo?

«I piatti che piacciono agli americano sono moltissimi. Tra i più conosciuti ci sono i Casoncelli, la polenta, il risotto ai porcini, il brasato, i salumi come la pancetta e il salame».

Quali sono gli aspetti positivi di lavorare all’estero nel settore della ristorazione?

«Gli americani mangiano fuori casa parecchio, quindi per noi cuochi c’è sempre molto lavoro. Inoltre non sei legato alle solite cose, puoi affrontare diversi aspetti della cucina, ti puoi anche permettere di esagerare…».

E quelli negativi?

«La lontananza dei familiari, soprattutto durante le feste, quando non si sta bene, o in certi momenti più particolari».

Caramelle RPMA quali chef si ispira?

«A Pierangelo Cornaro. È sempre stato un idolo per me perché ha fatto cose stupende per la Bergamasca».

Quanto è importante Internet per un ristoratore?

«Internet è diventato essenziale per la ristorazione, abbiamo un sito dove vengono messe foto, eventi e tutto ciò che riguarda il ristorante. Puntiamo soprattutto su Facebook, Instagram e Twitter. Ormai la maggioranza delle prenotazioni arriva da Internet».

Qual è il suo rapporto con le recensioni di Tripadvisor?

«È un sito molto importante. A volte ci sono clienti che non riescono a dirti le cose in faccia e quindi si sfogano su sui siti. Noi cerchiamo di usare tutto ciò per migliorare».

Come sono cambiati la ristorazione e il rapporto con i clienti grazie ai nuovi media?

«È diventato un settore molto competitivo, devi essere sempre al 100% perché se sbagli qualcosa sei crocifisso. Lo stress della cucina è anche dovuto a tutti gli show culinari che trasmettono in tv. Ora tutti pensano di essere chef e vogliono inventare i propri piatti».

Cosa le manca di Bergamo?

«Mi mancano la mia famiglia, la bella cenetta preparata dalla mia mamma, le mie montagne, le escursioni nei boschi in cerca di funghi e le gite al lago».