Ad Alzano torna la festa dello street food

big food festivalIl consiglio degli organizzatori è di arrivare affamati. Già, perché è difficile resistere alla tentazione del buon cibo di strada e se, in un unico luogo, si ritrovano più di venti proposte non si può fare a meno di assaggiarne almeno un po’.

Dopo il successo della prima edizione, lo scorso ottobre, torna allo Spazio Fase di Alzano (via Pesenti, 1), The Big Food Festival, tre giorni (da venerdì 15 a domenica 17 aprile) dedicati allo street food “itinerante”, quello che raggiunge piazze e manifestazioni a bordo di furgoni, ape car e carretti attrezzati, che con le loro forme e colori e con i packaging originali delle pietanze rendono ancora più festosa la degustazione.

L’evento è organizzato da Coffee N television, la squadra che sempre nello speciale contesto post industriale dell’ex Cartiera Pigna realizza con successo il Factory Market, rassegna di artigiani e designer creativi.

La lista dei partecipanti a The Big Food Festival spazia tra specialità regionali, internazionali e green in versione da passeggio per comporre il proprio personale viaggio tra cartocci di fritti, imbottiti golosi, spiedini, piatti tipici, birre e vini, da gustare sedendosi liberamente ai tavoli a disposizione.Le proposte bergamasche sono quelle di Be Typical, Eskimo pastry food truck, Ma prima un caffè, Tassino Eventi, Vaniglia & co. e Vineria Cozzi. Da fuori provincia, sempre in rigoroso ordine alfabetico, arrivano Ape Romeo, Ape Scottadito, Basulon, BBQ Valdichiana, Beestró, Farinel on the Road – Miasse Food Truck, @Family Food, Frittfood &., Il furgoncino, Il Cannolo Eccellenza Siciliana, La Polentina, Las Bravas Morelia, Olive Ascolane Migliori, Mozao – Tigelle e Gnocco fritto, Nina La Roulotte, Pizza & Mortazza, Rock Burger Milano, The Meatball Family, Tigella Bella Pavia.

Nelle giornate di sabato e domenica sarà allestito anche un mercato al coperto dei produttori locali con prodotti di stagione a km0. Ci sarà spazio anche per i birrifici artigianali, oltre che per workshop e per l’area bimbi in collaborazione con Mothern. Saranno allestite, inoltre, un’area con proiezioni tematiche di cortometraggi, documentari e video e un’area esposizione con poster d’annata e contemporanei legati al cibo e allo street-food. L’animazione è affidata a djset, street band e performance.

L’ingresso è gratuito e si mangia tutto il giorno, con orario continuato, il venerdì dalle 18 alle 24, sabato dalle 10 all’una e domenica dalle 10 alle 23.

Info




“Giovane dell’anno”, il premio dei cuochi va a una bergamasca

francesca plebaniAi tempi in cui i giovani scelgono di fare il cuoco per salire su un palcoscenico, Francesca Plebani, ventenne di Caravaggio, si è conquistata un premio per il lavoro dietro le quinte. Alla recente assemblea della Federazione italiana cuochi, a Quinto di Treviso, le è stato assegnato il riconoscimento di “Giovane dell’anno” per l’impegno messo a disposizione dell’associazione. Già, perché mentre i riflettori sono accesi sugli show cooking o le grandi cene, c’è anche chi deve scaricare e sistemare le merci, preparare le attrezzature, stare in cucina, aspetti che spesso si dimenticano ma sono fondamentali per la buona riuscita di un evento gastronomico. Ed è questo che Francesca ha fatto, meritandosi l’applauso dei colleghi e del presidente nazionale Rocco Pozzulo.

Al lavoro come commis da Sassella Ricevimenti di Casirate d’Adda, ha conosciuto la Fic attraverso il suo titolare, Fabrizio Camer, segretario dell’Associazione cuochi bergamaschi, vicepresidente regione e consigliere nazionale. «Mi ha proposto di iscrivermi due anni fa – ricorda – ed ho cominciato a partecipare alle iniziative. In particolare ho lavorato per il congresso di Firenze lo scorso novembre sul Cuoco 3.0 e ai campionati italiani della cucina di Montichiari. Ho fatto un po’ di tutto, come capita in queste occasioni, dal preparare pranzi e cene all’assistenza agli showcooking, al magazzino». «Sono belle esperienze – sottolinea -, perché permettono di lavorare con cuochi di tutta Italia, vedere come si svolgono i concorsi, scoprire piatti nuovi e sono tutti stimoli a fare di più. Ho avuto modo anche di conoscere maestri come Claudio Sadler e Davide Scabin».

Francesca ha scelto la carriera in cucina sulle orme del fratello, Andrea, morto prematuramente in un incidente stradale. «È a lui che voglio dedicare il premio, se faccio questo lavoro è anche nel suo ricordo – dice -. La soddisfazione è stata grande e mi spinge a dare sempre di più nella professione e nell’associazione».

I piatti che ama maggiormente cucinare sono i secondi di pesce e il suo obiettivo, in futuro, è affiancare la sorella Daniela, che invece ha studiato sala e che gestisce da otto anni il ristorante C’est la vie nella zona industriale di Caravaggio. Sa però che la gavetta è necessaria ed è intenzionata a collezionare ancora esperienze che le permettano di crescere.

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Una “Scaletta” che si tuffa nel Mediterraneo

Filippo Coglitore
Filippo Coglitore

A La Scaletta Cafè di Capriate San Gervasio la paella non è né alla catalana né alla valenciana ma di Filippo ed è il piatto più gettonato: quello per il quale il locale è famoso. La specialità spagnola è stata rivisitata da Filippo Coglitore, 57 anni, chef che con la moglie Luisa Barrecchia, 46 anni, in sala, conduce il ristorantepizzeria. Il loro sodalizio lavorativo è iniziato nel 1989. «Non è stato per eccesso di protagonismo – spiega Filippo – ma ormai le varianti sulla base della paella valenciana erano diventate tante e così ho voluto dare un messaggio chiaro, in modo che si capisse che c’era qualcosa di diverso. Ad esempio io ci metto l’astice e poi la serviamo in un contenitore particolare che ne esalta anche l’aspetto. Oltre che buona, insomma, è bella anche a vedersi».

La “storia” di Filippo è come quella di tanti ristoratori partiti dal sud. Nel ’74 ha lasciato la Sicilia con la classica valigia di cartone per fare esperienza nelle piazze turistiche più importanti come Madonna di Campiglio, Portofino, Forte dei Marmi ed infine è approdato a Milano. Sempre in cucina ad apprendere i segreti degli chef più esperti. «Nell’87 ho aperto il mio primo ristorante a Milano in città – racconta – e nel ’95 sono venuto a Capriate alla mia prima Scaletta a poca distanza da quella attuale, mentre qui ci siamo dal 2007. Ho avuto anche altre esperienze perché per due volte ho gestito contemporaneamente due locali, sempre a Capriate la Rosa Verde e a Bergamo la Taverna del Gallo in via San Bernardino».

La Scaletta Cafè è un locale arredato con gusto con la capienza di un centinaio di coperti all’interno. Molto utilizzato però è l’ampio dehors (80 posti) che viene sfruttato sia in inverno, riscaldato, sia in estate rinfrescato da getti di acqua nebulizzata. C’è anche un ampio parcheggio privato. Il costo medio di un pranzo varia tra i 35 e i 40 euro. La struttura è anche bed and breakfast, con tre camere e altre tre in arrivo.

«Che cucina facciamo? Più che descriverla bisognerebbe provarla – suggerisce il titolare – perché trovo difficile rendere con le parole i nostri sapori. Diciamo che si tratta della base di una cucina mediterranea, ampiamente personalizzata. Il riferimento rimangono il pesce e la cucina siciliana. Dedichiamo lo spazio necessario anche ai piatti di terra, tagliate e filetti per quanto riguarda la carne, alcuni risotti e i salumi affettati. Per ogni portata abbiamo anche un piatto vegano».

La scaletta cafè - capriate san gervasioData la lunga presenza, il locale ha consolidato una buona clientela e Filippo e Luisa seguono molto i dettagli, che a volte possono fare la differenza, come le eleganti mise en place ed il pane e le focacce che vengono preparati ogni giorno nel forno della pizzeria. C’è un listino che ricalca il menù principale per il servizio take away e per compagnie si organizzano anche tavolate di giro pizza. Ci sono poi cinque menù fissi, che comprendono dolce, acqua e caffè e che vanno dai 20 ai 35 euro. «Tra questi – afferma il titolare – quello al quale sono più affezionato è quello etneo con il richiamo alla mia terra d’origine. È un bel “viaggio” e fa capire un po’ la filosofia della mia cucina. È composto da una tartare di tonno con salsa agli agrumi, pesto di mandorle e salsa di soia, come antipasto. Per primo piatto sono previsti gli spaghetti con finocchietto selvatico e sarde, poi c’è un involtino di spada alla messinese e si finisce con un cannolo siciliano».

LA PROVA

Due aspetti colpiscono a La Scaletta Cafè di Capriate San Gervasio ancora prima di sedersi a tavola per il menù a prezzo fisso del mezzogiorno: un buffet molto assortito (con arancini e pizza, tra l’altro) e tovagliati in stoffa che ormai si incontrano sempre più raramente. La lista è al centro del tavolo, stampata, con le portate e l’indicazione che nei dieci euro del prezzo sono compresi oltre al primo e al secondo, buffet, servizio, acqua, vino e caffè e poi sono segnalati i costi per gli extra. Tra i primi, lasagne, casoncelli alla bergamasca e pasta al ragù o al pomodoro ci sono tutti i giorni così come tra i secondi l’arrosto al forno, il vitello tonnato, la bistecca ai ferri e l’insalata di mare rappresentano una costante.

Le portate che variano giornalmente vengono invece indicate a voce ed in occasione della nostra visita c’erano gli spaghetti alla caprese, i pizzoccheri, le costine alla brace con purè, le insalatone e il fritto di calamari e sarde fresche. Sul retro della lista ci sono i menù definiti “business special” che vanno dagli 11 euro ai 19 per il filetto di manzo ai ferri sempre tutto compreso. C’è anche un piatto vegano, il cous cous di verdure con salsa allo zafferano e ceci che costa 12 euro.

La nostra scelta non è molto razionale ma le proposte ci stuzzicano e passiamo quindi dal primo piatto di pizzoccheri all’insalata di mare per secondo. Dallo strano abbinamento scaturisce un commento molto positivo per un ottimo rapporto qualità-prezzo.

Ristorante Pizzeria
La Scaletta Cafè
via Bergamo, 38
Capriate San Gervasio
tel. e fax 02 90964826
www.lascalettacafe.it
aperto tutti i giorni



«I casoncelli? Troppo “strani” per i palati australiani»

Riccardo Morlotti - chef Australia Nonostante sia molto legato al piccolo paesino della Val San Martino in cui ha trascorso l’infanzia, Riccardo Morlotti ha viaggiato molto per perfezionare la sua arte culinaria. Per crescere professionalmente ha accettato di buon grado ogni sfida lavorativa, sia in Italia che Oltreoceano. E così, a soli 25 anni, ha già
cucinato per il ristorante Da Castelli di Palazzago, il Cappello d’Oro di via Papa Giovanni XXIII a Bergamo, il Best Western di Monza e Brianza, il Grand Resort Du Lac e Du Parc di Riva del Garda, per poi spingersi fino a Bangkok, dove ha preparato manicaretti in alcune delle più rinomate cucine tailandesi.

Ma la svolta per questo chef di Palazzago è arrivata in Australia. Al ristorante italiano Cafe Bellavista di East Perth ha esercitato per nove mesi come chef de partie. Si è poi trasferito a Mount Hawthorn all’Azure Italian restaurant dove per un anno e mezzo ha rivestito incarichi di crescente responsabilità come chef de partie e sous chef.

In attesa di esprimere al meglio la sua vena creativa in fatto di cucina italiana e orobica, oggi Morlotti lavora come cuoco di punta al Varsity di Nedlands, un sobborgo dell’area metropolitana di Perth. Anche dietro alle succulente costolette di maiale in salsa barbeque o alle insalate di zucca con mandorle tostate che si possono gustare in questo american bar si cela tutta la sua anima versatile e originale. E fare bella figura in un continente dove Internet e i mass media giocano un ruolo più determinante del passaparola è quanto mai essenziale.

Più che per Facebook o Tripadvisor, gli australiani vanno matti per Zomato, la piattaforma web che fornisce informazioni dettagliate, foto e recensioni su oltre un milione di ristoranti in 22 Paesi nel mondo. «Ho avuto esperienze personali negative con le recensioni online – spiega Riccardo –, il mio datore di lavoro controllava ogni singolo giorno le recensioni per leggere i commenti dei clienti e lamentarsi con me se qualcosa non era andato per il verso giusto. Allucinante! Per questo ora non leggo mai i commenti: ognuno è fatto a modo suo, con gusti differenti». In questi mesi trascorsi nell’altro emisfero, Riccardo ha anche capito che tra Bergamo e Perth c’è un abisso culinario che pare incolmabile. Ancora oggi piatti mediterranei, paste fresche fatte in casa o risotti al dente sono un privilegio per pochi selezionati ristoranti in Australia. Ecco perché l’idea di portare laggiù i casoncelli alla bergamasca pare una vera e propria utopia. Eppure Riccardo Morlotti un tentativo l’ha fatto. Con la freschezza e l’apertura mentale di un 25enne desideroso di sperimentare, ha cercato di scalfire le abitudini degli australiani. Ma il risultato non è stato proprio quello sperato. Quelle che da noi sono considerate delle prelibatezze, nell’altro emisfero, proprio non vanno giù: «Ho provato a proporre i casoncelli come piatto speciale in uno dei ristoranti italiani in cui ho lavorato – racconta – ma con molta delusione ho ricevuto solo critiche sul ripieno che per la clientela australiana aveva un sapore strano e troppo ricco di erbe. La cucina bergamasca è complicata da proporre perché usa ingredienti tradizionali molto difficili da trovare all’estero. L’unica cosa che sono riuscito a trovare è la polenta, ma non c’è paragone con quella bergamasca».




È di Trescore il miglior gelato alla frutta

il vincitore - gelateria Lo Chef del Gelato - Trescore Balneario
Lo Chef del Gelato Vito Giammello premiato dal Maestro Pierpaolo Magni

È “Lo Chef del Gelato” di Trescore Balneario ad aver dato la migliore interpretazione dei gusti frutta, tema del quarto concorso di Gelateria artigianale promosso dai Gelatieri bergamaschi aderenti all’Ascom.

L’accostamento tra i gusti lampone al basilico di Riviera e banana allo zenzero con sfoglie di cioccolato fondente del Vietnam di Vito Giammello ha conquistato la giura, che ieri all’istituto alberghiero Serafino Riva di Sarnico ha valutato le creazioni delle 19 gelaterie bergamasche in gara e delle quattro squadre di allievi delle scuole alberghiere.

Il secondo posto è andato alla gelateria L’Oasi di Villongo di Giuseppe Mologni, che ha proposto “Mediterraneo”, ossia mandorla di Puglia aromatizzata agli agrumi di Sicilia e mirto di Sardegna con olio extravergine di Sicilia, mentre in terza posizione si è classificata La Voglia Matta di Zanica, di Daniel Rossi, con “Fusion benessere”, che ha abbinato due emblemi dell’alimentazione salutistica come le bacche di Açai e di Goji al gelato al pesto di pistacchio di Sicilia salato. Nella competizione riservata alle scuole alberghiere la vittoria è andata all’Ipssar di San Pellegrino con gli allievi Cassis, Bielli, Roncelli, Chiofano e Macetti che hanno presentato il gelato alle mandorle Garibaldine, valorizzando una varietà del frutto. In gara anche i “padroni di casa” del Serafino Riva, l’Ipssar Sonzogni di Nembro e il Cfp di Clusone.

La giuria era composta dal Maestro Pierpaolo Magni, fondatore della Coppa del Mondo della Gelateria, in veste di presidente, dagli chef Petronilla Frosio (ristorante Posta di Sant’Omobono), Roberto Proto (Il Saraceno di Cavernago), Alessia Mazzola (Al Gigianca di Bergamo) e dalla giornalista Emanuela Balestrino. I lavori sono stati coordinati da Luciana Poliotti, giornalista e studiosa di storia del gelato artigianale e della gastronomia.

Non nasconde la soddisfazione per il successo il vincitore Vito Giammello, 53 anni, che solo un anno fa ha aperto a Trescore la sua gelateria, nuovo sbocco professionale dopo una carriera nella ristorazione, come racconta l’insegna “Lo Chef del Gelato”. «Banane e lampone? No l’ispirazione non me l’ha data la canzone di Morandi – dice sorridendo – quanto l’abbinamento dei colori, che era uno dei parametri del giudizio. Il resto lo ha fatto il gusto, coltivato in tanti anni al lavoro in cucina. Sono un neofita del settore, ho ancora tanto da imparare – ammette -, e la vittoria mi dà fiducia per continuare su questa nuova strada che ho scelto di intraprendere perché mi dava la possibilità di sviluppare un’iniziativa in proprio. Gelato e gastronomia, del resto, sembrano sempre più spesso destinati a dialogare tra loro e io intendo propormi proprio come punto di incontro».

Giammello ha anche vinto la classifica dedicata al gusto, L’Oasi di Villongo quella dell’aspetto visivo, mentre per l’originalità è stata premiata La Crem di Vertova di Marcello Gusmini, che ha utilizzato pera, ricotta al cioccolato e mostarda cremonese. «Il concorso – commenta il presidente dei Gelatieri bergamaschi Ascom, Massimo Bosio – rappresenta un’occasione prima di tutto per incontrarsi tra colleghi, scambiare idee e informazioni, anche grazie al momento conviviale della cena di gala. Ma è pure uno stimolo importante per mettersi in gioco professionalmente. Ci partecipa, in fondo, vuole fare bene e così sperimenta, crea, approfondisce, ha l’occasione di uscire dalla visione strettamente commerciale del prodotto. Magari i gusti che abbiamo assaggiato non entreranno nelle vetrine dei punti vendita, ma sono comunque cose nuove e interessanti che fanno crescere il settore. La presenza di tre chef in giuria – evidenzia – ha spinto i concorrenti a pensare a qualcosa che possa finire anche in un piatto anziché sul cono ed è un’opportunità in più per le gelaterie, che spesso forniscono anche i ristoranti».

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I vincitori, la giuria e gli organizzatori




La costoletta alla milanese, tra vitelli e bufale

I temi del cibo e della sua storia paiono fornire un impareggiabile campo di tiro per la proverbiale propensione milanese a spararla grossa. Se ne ha evidenza sin dal XIII secolo, quando Bonvesin de la Riva, sbandierando l’opulenza dei consumi alimentari della metropoli lombarda, enumerava la bellezza di 300 forni del pane, 440 botteghe di beccaio ed oltre mille bottiglierie.

Combinazione vuole che in quegli anni a Parigi, le cui mura fornivano asilo ad una popolazione più che doppia di quella residente in riva ai navigli, fosse documentata la presenza di soli 62 panettieri, 42 macellai e 130 osti. Trascorrono poco più di due secoli, ed il repertorio delle frottole gastronomiche meneghine si rimpingua ulteriormente grazie all’eccentrica penna di Ortensio Lando. A quella che è a buon titolo considerata la capostipite delle guide enogastronomiche del Bel Paese, l’eclettico poligrafo allega invero uno scherzoso catalogo de gli inventori delle cose che si mangiano e beveno i cui nomi – superfluo precisarlo – sono dal primo all’ultimo inventati di sana pianta.

Ma le iperboli di Bonvesin e le fantasiose congetture del Lando quasi svaniscono dinnanzi all’alluvione di fanfaluche che negli ultimi 50 anni ha inondato la discussione sulle origini della costoletta alla milanese, e che ancor oggi stenta a rientrare negli argini. Il tema, va riconosciuto, è piuttosto delicato. La pietanza è stata infatti elevata ad emblema culinario del nostro Risorgimento e la questione della sua paternità è divenuta un punto d’orgoglio nazionale. Su un fronte si schiera chi poco patriotticamente insinua che si tratti di un imprestito austriaco, dato che a Vienna si cucina una scaloppa impanata alla quale, checché se ne dica, la vivanda meneghina somiglia parecchio. Dall’altro lato della barricata v’è invece chi ritiene che tali illazioni vadano controbattute con ogni mezzo, senza lesinare il ricorso a colpi bassi.

La sarabanda delle mistificazioni ha inizio nel 1963, anno in cui Felice Cunsolo – pubblicista siciliano autoelettosi paladino della gastronomia padana – dà alle stampe un volumetto celebrativo della tradizione culinaria lombarda. Nel testo si fa menzione di un fantomatico rapporto da Milano del Feldmaresciallo Radetzky a beneficio di tale conte Attems, qualificato come attendente del Kaiser Francesco Giuseppe. Nella relazione, apparentemente conservata all’Archivio di Stato di Vienna, si “informava l’imperial governo che i milanesi sapevano cucinare qualcosa di veramente straordinario, la costoletta di vitello intinta nell’uovo, impanata e fritta nel burro”. Peccato che nella capitale austriaca non vi sia traccia della missiva, ed ancor meno si abbia evidenza di alcun Attems che all’epoca figurasse tra i ruoli di vertice dell’esercito asburgico. D’altronde parrebbe quantomeno singolare che il serioso governatore militare del Lombardo-Veneto osasse addentrarsi in frivole digressioni gastronomiche nel relazionare il proprio quartier generale da uno dei punti più caldi dell’Impero.

Ancorché fabbricata ad arte, la storiella di Radetzky suona comunque apparentemente credibile: il Feldmaresciallo, buona forchetta ed impenitente donnaiolo, non manca di suscitare sottaciute simpatie anche tra gli avversari. Ci casca il Comune di Milano, che presta credito alla bubbola inserendola nella delibera di attribuzione della DE.CO alla ricetta. La bevono persino gli austriaci, i quali, facendo sfoggio di afflato cosmopolita, paiono finanche onorati di attribuire ascendenze d’oltreconfine alla loro schnitzel.

Dalla frottola si lascia abbindolare anche Gianni Brera, ben lieto di poter fare da grancassa alle rivendicazioni milanesi. Non pago, l’ineffabile elzevirista, a propria volta tutt’altro che schivo della boutade, rincara la dose millantando la testimonianza nientemeno che di Stendhal. Secondo Brera il grande scrittore francese, nel resoconto di una scampagnata effettuata nel 1818, avrebbe infatti encomiato la succulenza della fettina impanata degustata nell’agro a nord di Milano. Ma in realtà negli appunti brianzoli di Henri Beyle, tra scurrili allusioni alla facilità di costumi delle donne locali e didascaliche divagazioni sull’architettura delle dimore patrizie, della pietanza non v’è neppure l’ombra.

Screditata proditoriamente la comunque dubbia lectio della paternità asburgica, il fronte nazionale della costoletta deve quindi misurarsi con la ben più problematica assegnazione di un passato remoto alla vivanda. Vi si cimenta tale Romano Bracalini, che tra le pieghe dell’autorevole Storia di Milano di Pietro Verri scova un pranzo monastico del 1148 nel corso del quale furono serviti dei lombulos cum panitio. Ancorché intaccato dalla corruzione maccheronizzante del basso medioevo, è comune consenso che il latinorum dell’inciso ponga la parola fine al dibattito sulle origini. Ma, ancora una volta, le cose non stanno esattamente così.

Se invero sussistono pochi dubbi a riguardo della lombata cui allude il testo – ed ancor meno sulla sua cottura allo spiedo in un unico trancio – la decifrazione di panitio è altresì un rompicapo cui non riesce a fornire una soluzione definitiva neppure lo stesso Verri. L’eminente storico propone diverse glosse: una piuttosto improbabile polentina di panìco – o delle pagnottelle di fior di farina – da accompagnarsi al piatto, o ancora del pangrattato con cui, come illustrato da Martino da Como nel Quattrocento, si spolverizzavano gli arrosti sul finire della cottura. Certo è che, tra le diverse alternative, occorre far esercizio di assai fervida immaginazione anche solo per approssimarsi alla fattispecie di una braciola dorata nel burro.

Sgombrato il campo da forzature ed aperte falsificazioni, viene dunque da interrogarsi su quali siano le effettive radici della vivanda. La più accreditata tra le ricostruzioni provviste di serio fondamento storiografico è quella elaborata da Massimo Alberini, che menziona un celebre trattato del francese Menon – La Science du Maître d’Hôtel cuisinier, pubblicato nel 1749 – nel quale è racchiusa la ricetta delle cotelettes de veau frites. Da Parigi la piccata di vitello impanata sarebbe quindi giunta a Milano sotto il nome di cotoletta rivoluzione francese.

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Bartolomeo Scappi

Il colpo è di quelli che manderebbero al tappeto l’orgoglio gastronomico di un intero paese. Ma il fronte nazionale della costoletta può tirare un sospiro di sollievo: sussiste invero solida evidenza che la tecnica dell’impanatura delle carni sia di irrefutabili origini italiane. La sua prima codificazione è infatti riportata nella cinquecentesca Opera di Bartolomeo Scappi, che la propone per la preparazione di alcune frattaglie bovine. Alcuni decenni più tardi è il magistrato bolognese Vincenzo Tanara ne L’economia del cittadino in villa a ribadirne l’utilizzo per l’accomodamento di rigaglie ed altri tagli.

Tutt’altro che occasionalmente, entrambe le segnalazioni paiono convergere sulla città di San Petronio: se il Tanara spese l’intera esistenza all’ombra delle due torri, anche lo Scappi, prima della sua nomina a cuciniere pontificio, prestò a lungo servizio nel capoluogo emiliano alle dipendenze del Cardinal Campeggio. E combinazione vuole che Bologna sia parimenti patria di una rinomata scaloppa impanata, ancor oggi fritta nello strutto così come raccomandato cinque secoli fa dal cuoco secreto di Pio V. Scampato quindi il pericolo di un’indigesta affiliazione parigina, con ogni verosimiglianza la costoletta alla milanese deve comunque rassegnarsi a veder consegnato in mani forestiere – ancorché non straniere – il proprio titolo di primogenitura.




Nuovi gusti alla frutta, sfida tra venti gelatieri bergamaschi

Venti gelaterie e 8 allievi delle tre scuole alberghiere bergamasche si sfideranno lunedì 4 aprile a colpi di gelato per aggiudicarsi la quarta edizione del Concorso di gelateria Artigianale, promosso dai Gelatieri bergamaschi aderenti ad Ascom.

Il tema scelto per l’edizione 2016 è “La frutta, abbinamenti di sapori e di colori”. Teatro della sfida l’Istituto Alberghiero “I.I.S. Serafino Riva” di Sarnico, dove a partire dalle ore 16 di lunedì prossimo avrà luogo il concorso che terminerà con la cena di gala e le premiazioni.

Il tema di quest’anno è indirizzato, in particolare, allo studio e all’abbinamento di due nuovi gusti di gelato alla frutta, un tema stimolante, che mette in gioco tutta la creatività e la professionalità dei gelatieri.

I nuovi gusti saranno valutati da una giuria qualificata, presieduta dal Maestro Pierpaolo Magni, fondatore della Coppa del Mondo di Gelateria, e composta da Bruno Federico (Ristorante “La Caprese”), Petronilla Frosio (Ristorante “Posta”), Roberto Proto (Ristorante “Il Saraceno”) ed Elio Ghisalberti (giornalista enogastronomico).

La giuria attribuirà un punteggio a seconda del gusto, dell’originalità e dell’armonia degli abbinamenti ma anche della consistenza, dell’aspetto visivo e dei colori naturali.

Queste le gelaterie in gara

1. Fior di Panna – Almenno San Bartolomeo
2. Mamma Mia – Antegnate
3. Selz Cafè – Clusone
4. Sweet Anastasia – Curno
5. Sottosopra – Dalmine
6. Gelatissimo – Darfo Boario Terme
7. Melograno – Madone
8. Bar Commercio – Osio Sotto
9. Dolce Sogno – Roncola San Bernardo
10. La Gatteria – Sarnico
11. San Marco – Sarnico
12. Mej – Sarnico
13. La Gatta – Sarnico
14. Lo chef del gelato – Trescore Balneario
15. Gelatiamo – Treviolo
16. La Crem – Vertova
17. L’Oasi – Villongo
18. Il Gioppino – Zanica
19. La voglia matta – Zanica
20. Artigel – Zanica

e gli studenti

1. I.I.S. Serafino Riva di Sarnico : Alfredo Salvoldi, Lorenzo Salvoldi e Federica Tambini
2. I.P.S.S.A.R San Pellegrino Terme: Miriana Cassis, Michele Bielli e Alessandra Roncelli
3. I.P.S.S.A.R. Alfredo Sonzogni di Nembro: Silvia Traina e Camilla D’Amico




All’Accademia del Gusto arriva lo chef Lopriore. «Ecco come si riconosce una grande cucina »

Paolo Lopriore
Paolo Lopriore

Qualcuno lo indica come il vero genio creativo della cucina italiana contemporanea, altri lo accusano di fare una proposta troppo difficile e incomprensibile.

Allievo prediletto di Gualtiero Marchesi, Paolo Lopriore sarà all’Accademia del Gusto di Osio Sotto lunedì 4 aprile in un incontro – dalle 14 alle 19 – rivolto a chef e ristoratori che darà l’opportunità di conoscere da vicino la sua tecnica, la sua passione e il suo talento.

Spirito libero e carattere riservato, è senza dubbio uno dei personaggi più sorprendenti. Ha saputo scavalcare regole e dogmi della cucina e ha teorizzato un nuovo modo di fare ristorazione che alleggerisce la sacralità che aleggia nelle sale dei grandi ristoranti dando un ruolo da protagonista ai clienti. La sua idea è ritornare alla convivialità a tavola, con i commensali che decidono in prima persona come comporre il piatto, lo porzionano e lo condividono «perché condividere è un gesto che rispecchia l’italiano».

Ma la sua intuizione va oltre. Anche il rapporto tra sala e cucina cambia: immagina un supercameriere, alterego dello chef, un oste 2.0 che spiega i piatti, ma anche il territorio e, più in generale, il pensiero gastronomico.

Alle sue spalle, Lopriore ha un percorso intenso: inizia da Gualtiero Marchesi, ha una breve esperienza all’Enoteca Pinchiorri in Toscana, poi ancora con il maestro nel suo ritiro di Erbusco; quindi, a metà degli anni Novanta, la Francia (prima da Ledoyen poi da Toisgros con Michel Porthos) e la Norvegia alla Bagatelle di Oslo, a cui segue la rentrée all’Albereta, con un’altra stella della cucina italiana, Enrico Crippa, con il quale dà vita al Menù Oggi, una carta che ancora alcuni ricordano per la ricchezza di sensazioni. Dieci anni intensi al Canto della Certosa di Maggiano e i fornelli di Kitchen a Como. Dopo una breve parentesi al Tre Cristi di Milano, a maggio tornerà in pista con un locale tutto suo, ad Appiano Gentile, nella terra natale. «È un progetto ancora in divenire. Quello che posso dire è che sarà la somma delle mie esperienze precedenti: Siena e il lavoro sull’ingrediente, Como e il cambiamento legato al territorio e al clima, Milano e lo studio sulla tavola. Si chiamerà “Il Portico”, come la vecchia cartoleria che c’era prima».

Come ha capito di volere fare il cuoco?

«I miei genitori desideravano che facessi l’Alberghiero. La passione è arrivata dopo. Il merito va a mia madre, una grande appassionata, che mi portava a scuola ogni giorno, e ai miei insegnanti che mi hanno coccolato nel mio percorso e nella mia scelta».

È stato in Francia, in Norvegia e da Marchesi, il guru della cucina italiana. Cosa ha preso da ciascuna di queste esperienze?

«In Francia sono stato in uno dei locali più innovativi. Lì ho preso la parte organizzativa del lavoro; c’era una proporzione ben equilibrata tra lavoro, clienti e staff e questo equilibrio è molto importante. Dalla Norvegia, e parliamo della Norvegia di vent’anni fa, ho imparato la libertà. Non c’era una storia culinaria quindi era possibile fare tutto. Da Marchesi dico sempre che ho preso il gusto, mentre il palato lo devo a mia mamma».

Marchesi ha detto che il vino gli fa schifo e non ne beve da 17 anni. È d’accordo?

«Noto con piacere che il vino non è più un passatempo a tavola, che si beve di meno e più di qualità. Il vino mi piace, ma non mi va l’abuso e non mi piace neppure l’aprire una bottiglia come gesto di prestigio. Il vino deve fare parte della tavola, per me ha il compito di accompagnare i piatti, ma non credo nell’abbinamento».

Alcuni critici gastronomici la considerano un genio assoluto. Marchesi l’ha eletta suo erede e il più dotato dei suoi ex allievi. È stato chiamato visionario, coraggioso, ermetico. Lei come definirebbe la sua cucina?

«Essenziale, non decorativa, concentrata sulla materia e sulla cottura, senza distrazioni e senza obblighi verso la guarnizione del piatto e verso chi mangia. A cottura ultimata sono i clienti a decidere quantità di salse e condimenti da usare per completare il piatto».

A fine gennaio ha partecipato al Congresso internazionale di gastronomia “Madrid Fusion”. Cosa significa fare avanguardia in cucina?

«Significa andare a semplificare i gesti quotidiani, mettere la propria fantasia nella tecnica. Da questo incontro sono nati grandi piatti».

Quale consiglio darebbe a chi vuole aprire oggi un’attività?

«Io mi sto spostando sulla ripetizione degli ingredienti: mi focalizzo su un ingrediente e ruoto le cotture per costruirci intorno un menù. Oggi questa può essere una nuova frontiera: partire da un animale di grossa taglia per i grandi eventi e da polli, galline e conigli per tavoli da due-quattro persone e creare diversi piatti. Non bisogna avere paura di ripetere un ingrediente, in Italia abbiamo un palato che apprezza la monotonia e riconosce le sfumature».

I clienti migliori sono gli italiani o gli stranieri?

«Sicuramente gli italiani, abbiamo un linguaggio comune. La soddisfazione al tavolo è diversa. Far capire allo straniero la nostra identità è più difficile».

C’è un ingrediente che non cucina?

«Mi piace tutto. È la curiosità che porta alla creatività. Non ho paura di sperimentare. Poi magari lo misuro, ma lo uso. Ho fatto anche salse di sangue».

Qual è il piatto più difficile da cucinare?

«Quello che non si sente dentro. Il gesto è una delle cose più importanti. Fa la differenza anche come vengono tagliate le cipolle, come vengono unite al pomodoro, come si versa l’olio. L’insieme di questi gesti».

Cosa pensa di Masterchef?

«Il format non mi appartiene, ma ho grande rispetto per chi lo fa. Sono professionisti, non dicono stupidaggini».

Come si riconosce una grande cucina?

«Dai punti cardine della cucina italiana: cotture ben eseguite, rispetto degli ingredienti, buon bilanciamento di sale, olio, burro. È sempre più difficile daottenere, c’è una crescente spinta a cuocere espresso».

E cosa fa grande un ristorante?

«Ci vorrà ancora qualche anno per arrivare al ristorante perfetto».

Qual è l’errore che un bravo ristoratore non dovrebbe mai fare?

«Pensare che il cliente conosca sempre meno di te, sottovalutarlo. Bisogna renderlo importante perché è venuto a trovarti, è alla tua tavola e ti dà anche dei soldi».

Uno chef tristellato poco tempo fa si è ucciso in Svizzera. Era stato truffato ma comunque era sotto pressione da tempo. Le stelle logorano?

«Possono creare molto stress, dipende da come vengono vissute. Io nel tempo ho subito dei cambiamenti di rotta e li ho sempre vissuti come punti di inizio. Quando si adottano sistemi che non ci appartengono ne soffriamo. La classificazione delle stelle è nata dalla Francia, noi l’abbiamo adottata ma non ci rappresenta, per questo a volte andiamo in confusione. Dovremmo avere una nostra identità ristorativa e su questa essere giudicati».

Crede che il web abbia portato benefici alla ristorazione?

«I social network e le recensioni on line tolgono ossigeno a chi lavora. Ci andiamo sempre a rapportare a un mondo che non ci dà la sua faccia. Non li amo molto. La nostra mente si riempie e non riusciamo più a liberarla».

Conosce chef o ristoranti di Bergamo? Se sì, quali apprezza?

«Il ristorante Da Vittorio della famiglia Cerea».

  • Per informazioni e iscrizioni alla lezione di Lopriore: Accademia del Gusto – tel. 035 4185706-707 – www.ascomfomazione.it



Birra e cucina, un matrimonio di gusto

“Se ami il cibo, ma conosci solo il vino, è come se cercassi di comporre una sinfonia con solo metà delle note e metà orchestra”. Oliver Garrett, il celebre birraio americano della Brooklyn Brewery ne è convinto. Ogni prelibatezza gastronomica può sposarsi alla perfezione non soltanto con un bianco fermo o un buon rosso ma anche con una birra di qualità. Basta scegliere quella giusta.

Ma se in America e nei Paesi nordici questo binomio è ormai un’abitudine consolidata, per una terra più legata al vino come la Bergamasca, e l’Italia intera, si tratta di una tendenza di più recente espansione.

Sono stati i giovani, abituati a viaggiare all’estero e alla costante ricerca di qualcosa di alternativo, i primi ad apprezzare la cultura brassicola, soprattutto durante le sagre e le Oktoberfest. Ed ora questa antica bevanda, le cui origini risalgono alla Mesopotamia, ha letteralmente conquistato un pubblico più maturo, andando ben oltre il banale accostamento con la pizza o i crauti. In molti ristoranti, anche di alta cucina, non è raro trovare accanto alla carta dei vini una ricca gamma di bionde, rosse o stout in grado di esaltare o contrastare ogni sorta di cibo. E c’è chi addirittura mette la birra in tavola durante i pranzi di gala.

Tra i pregi di questa bevanda fermentata a base di acqua, malto, luppolo e lievito spiccano la versatilità, la moderata gradazione alcolica e un prezzo più contenuto rispetto al vino. La tavolozza di profumi e stili offerta dalla birra è ormai tra le più sofisticate. Ecco perché, prima di decidere a quale piatto abbinarla, va assaggiata, a meno che non ci si affidi ai consigli di esperti del settore come il biersommelier. Da quando la birra è stata messa al pari del vino, infatti, in Italia si è andata sempre più affermando questa nuova figura
professionale che in Germania esiste già da tempo.

La regola generale è che la birra deve essere robusta e intensa quanto le pietanze a cui viene accostata: il connubio risulta particolarmente riuscito se c’è qualche sapore o aroma in comune. Birra e formaggio, per esempio, dovrebbero essere entrambi aciduli. Gli ingredienti leggermente amari della birra stimolano l’appetito. E allora perché non iniziare il pasto con una birra leggera per pulire il palato e preparare lo stomaco al cibo? Veniamo poi ai primi. Alle zuppe leggere si accosta una chiara e secca; alle minestre, invece, una maltata come la Scotch Ale. Parlando di secondi, una Ale chiara, caratterizzata dal forte aroma del luppolo, va d’accordo con le insalate verdi, mentre le birre amare sono adatte a quelle condite con aceto. Con bistecca o roastbeef meglio optare per le scure, mentre le birre di luppolo secche contrastano il piccante dei piatti esotici. Via libera, invece, alle chiare per pesce e pizza.
La birra si sposa bene anche con il dolce: una Doppelbock, al delicato gusto di ciliegia, o una Imperial Stout sono perfette con il cioccolato. Per le torte fruttate meglio una Lambic. E per chiudere il pasto si consiglia una birra “pesante” ma dolce che faciliti la digestione.

In Bergamasca oggi ci sono locali specializzati tra i migliori d’Italia e parecchi birrifici riconosciuti su scala nazionale anche da specialisti del settore come la Guida alle Birre d’Italia curata da Slow Food. Tra i più famosi spiccano Endorama di Grassobbio, Hammer di Villa d’Adda, Hopskin di Curno, Sguaraunda di Pagazzano, Maspy di Ponte San Pietro. E poi c’è la Elav di Comun Nuovo che ha lanciato un’originale versione della Vienna Lager preparata con la polenta, sfruttando le croste che restano attaccate al paiolo. Da segnalare anche il birrificio Valcavallina di Endine Gaiano e il Via Priula di San Pellegrino che lo scorso febbraio si sono aggiudicati un secondo e un terzo posto all’11esima edizione del premio Birra dell’anno, promosso dall’associazione Unionbirrai.

A conferma della sempre più marcata attenzione al connubio tra birra artigianale e cibo, è nato il primo concorso internazionale Armonia “Birra nel piatto”, che premia l’utilizzo delle birre in cucina e nella ristorazione.

I locali: «Etichette selezionate danno una marcia in più alla proposta»

Le esperienze di De Gusto, In Croissanteria e Fiore dell’Oste

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Luca Carrara

In un mercato sempre più competitivo, esibire una carta delle birre ricca e dettagliata sta diventando un punto di forza per parecchi locali. Meglio ancora se il ristoratore sa suggerire al cliente il connubio ideale tra cibo e birra. In gioco non c’è la classica pizza abbinata a una bionda ma una vasta gamma di ricette, dall’antipasto al dolce, che ben si sposano con stout e bevande luppolate prodotte artigianalmente. «La sfida è unire la buona birra alla buona cucina, affiancare alla paziente spillatura la preparazione di piatti curati e ricercati, arrivando a creare un locale accogliente e prezioso, laddove il valore è dato dal gusto per ciò che si prepara e si serve», racconta Luca Carrara, 32enne che da agosto 2014 gestisce il De Gusto in via del Lazzaretto all’incrocio con via Baioni, a Bergamo. In meno di due anni questo risto-pub cittadino è balzato in vetta alle preferenze degli internauti su Tripadvisor e non solo. Merito anche dei suoi tre cuochi bergamaschi William Bertocchi, Jonathan Signorelli e Cinzia Mismetti che, dopo gli studi all’alberghiero di Nembro, hanno viaggiato molto per scoprire tutti i segreti della cucina internazionale. Ciò che ne deriva è un menù in costante evoluzione che varia a seconda delle stagioni.

Tra le proposte inserite di recente al De Gusto spiccano il risotto alla valtellinese, il merluzzo con piselli e liquirizia, la selezione di formaggi, il tutto accompagnato da birre alla spina: Canediguerra Bohemian Pilsner, Brown Porter, Rodenbach Grand cru, Hilltop Barry’s bitter, Endorama Buendia, Carrobiolo Triple. «L’obiettivo – afferma Carrara – è riuscire a far apprezzare la birra anche in momenti in cui non è abituale berla, come l’aperitivo e la cena; abbinare la birra a tapas e piatti golosi e stuzzicanti è un modo per valorizzarla al meglio».

in croissanteriaIn linea con la moda del momento Nicolò Vezzoli, titolare della pasticceria In Croissanteria di Carobbio degli Angeli, ha fatto un cambiamento radicale negli ultimi tre mesi. Dopo l’esordio dolce, con vendita di pasticcini e brioche, oggi ha allargato la sua offerta proponendo uno street food di qualità per il pranzo e la cena, il tutto abbinato a una vasta selezione di birre artigianali. E i consensi non tardano ad arrivare: «Pur non essendo una birreria nel vero senso del termine, il nostro giro di clientela sta aumentando – dice Vezzoli –. Abbiamo aperto come pasticceria ma poi abbiamo pensato di aggiungere piatti più strutturati che si avvicinano allo street food, dagli hamburger ai cibi etnici rivisitati, dall’astice canadese alla pizza gourmet, il tutto accompagnato da una delle nostre tre birre artigianali: la bionda, la rossa e la Indian Pale Ale. La prima si adatta bene a cibi leggeri come il nostro hamburger “Italo” con burrata e pesto. La rossa sta bene con piatti più strutturati come l’hamburger con il cheddar, il bacon e l’insalata. La Ipa, invece, è più amarognola, di nicchia, per intenditori, deve piacere. Interessante è anche l’accostamento tra la birra e le quattro pizze gourmet che stiamo inserendo nel menù. Si tratta di pizze alternative che hanno in prezzo dai 15 ai 25 euro perché farcite con ingredienti selezionati: gambero rosso, burrata, pata negra, trancio di tonno scottato, gamberi avvolti nel bacon».

Anche Cristian Borace, titolare del Fiore dell’Oste di Brusaporto, ha deciso di allargare la sua offerta culinaria affiancando al suo consolidato ristorante il “Forno dell’Oste”, uno spazio adibito alla degustazione di birre artigianali e buon cibo. «Il vino la fa sempre da padrone – ammette Cristian – però quando organizziamo le serate di degustazione cibo e birra il riscontro è positivo». E poi c’è un notevole risparmio rispetto al vino: «Si passa dai
20 euro di una buona bottiglia di vino ai 12 euro di una birra da 750 ml – conferma Cristian –. La più leggera è la classica bionda Ale non pastorizzata e non filtrata ad alta fermentazione, con un grado alcolico del 5%. Con il suo aroma maltato leggero, morbido, dal sentore di erbaceo e di miele, si abbina
agli antipasti o alla classica pizza.Le birre doppio malto leggermente dolciastre si sposano coi taglieri di formaggi; quelle più strutturate stanno bene anche con i dolci. Usiamo la birra anche come ingrediente nella preparazione di risotti, stufati, ma anche di pane e torte. Tra i nostri piatti forti spiccano il risotto pancetta e birra rossa, gli gnocchi ceci e birra, le costine di
maiale e lo stinco alla birra. Con la birra ho persino preparato il tiramisù e il caramello».




Giornata europea del gelato, a Bergamo si celebra in 44 gelaterie

Locandina Giornata Europea del Gelato - 2016Sono 44 le gelaterie bergamasche che quest’anno hanno aderito alla Giornata Europea del gelato artigianale. L’appuntamento è giovedì 24 marzo e in provincia di Bergamo è promosso dai gelatieri aderenti all’Ascom.

L’evento è stato istituito nel luglio 2012 dal Parlamento di Strasburgo per promuovere il prodotto artigianale e ricordare le sue qualità. A coordinarlo è Artglace, la Confederazione che riunisce le associazioni nazionali di gelatieri dell’Ue, che ha scelto di valorizzare di anno in anno tipicità dei territori delle nove nazioni aderenti. Questa è l’edizione del Belgio e il gusto che lo rappresenta è “Poire Royale”, gelato di pera, variegato con marmellata di mela e pera e i tipici biscotti speziati, gli speculoos, sbriciolati. Le gelaterie saranno riconoscibili per la vetrofania e la locandina con il nuovo “look” della “Giornata”.

Ecco chi partecipa

In città

Tassino Eventi, Cherubino, Frigidarium.

In provincia

Franca (Albino), Fior di Panna (Almenno San Bartolomeo) e Petite Fleur (Almenno San Salvatore), Rosa (Arcene), Sofia Pasticceria (Boltiere), Nevelatte (Brembate), Willy Wonka (Capriate San Gervaso), Da Giò (Chiuduno), Artigiana Gelati, Selz Cafè (Clusone), Pezzotta (Costa di Mezzate), Gelateria Benghy (Costa Volpino), Sottozero (Curno), Iceberg (Fontanella), Agriall (Grassobbio), N-Ice (Grumello del Monte), Franca (Leffe), Artigiana Gelati (Lovere), Willy Wonka (Medolago), Bar Commercio (Osio Sotto), Gelateria Margot (Palosco), Gelatteria (Pedrengo), Nevelatte (Pontida), Capriccio 84 (Presezzo), Tosseghini Franca, Il Borgo Antico (Romano di Lombardia), Dolce Sogno (Roncola San Bernardo), La Gelateria (San Pellegrino Terme), La Gatta, Mej (Sarnico), Paradiso del Gelato (Seriate), Nonno Mino (Terno d’Isola), Rubis (Torre Boldone), Lo Chef del Gelato (Trescore Balneario), Gelatiamo (Treviolo), Nevelatte (Verdello), La Crem (Vertova), L’Oasi (Villongo), Artigel, Il Gioppino e La Voglia Matta (Zanica).