Milano, alla prima del “Salon” persino gli abiti sono di cioccolato

Tre giorni di degustazioni, eventi, esposizioni ed un unico grande protagonista: il cioccolato. Arriva a Milano, dal 13 al 15 febbraio a The Mall, lo spazio polifunzionale nel nuovo Business District di Porta Nuova Varesine, il Salon Du Chocolat, evento nato a Parigi nel 1994 e oggi presente in 30 città su quattro continenti per una media di 20 manifestazioni all’anno.

Gli organizzatori Roberto Silva Coronel e Pietro Cerretani raccontano così le motivazioni che li hanno convinti ad “importare” in Italia il format espositivo parigino: «In Italia, negli anni passati, abbiamo sempre avuto un certo timore reverenziale nei confronti dei cugini francesi in tema food in generale, e cioccolato nello specifico. Salvo poi accorgerci che i nostri maîtres chocolatier non erano secondi a nessuno, anzi vincevano premi in Francia, così come i produttori italiani – dal Piemonte alla Sicilia – sono di assoluta eccellenza. Nel nostro Paese il cioccolato vale 3 miliardi di dollari, le nostre esportazioni continuano a crescere e ad oggi hanno raggiunto un valore complessivo di 665 milioni di euro (siamo i primi sul mercato cinese). L’altra motivazione, forse la più importante, è che il pubblico italiano è attento e colto, sa riconoscere la qualità e richiede food experience all’altezza. Per questo faremo di tutto per stupire i visitatori».

abito cioccolato 2

Cinque sono i temi che connotano il salone milanese. Il primo è il connubio tra cioccolato e fashion: l’evento “Chocolate Fashion Show celebrerà il talento creativo di giovani stilisti del Naba Fashion Lab di Milano. Gli studenti in collaborazione con i dieci maitres chocolatier di Ampi – Accademia Maestri Pasticceri Italiani (nello specifico: Davide Comaschi vincitore del World Chocolate Masters di Parigi 2013, Giancarlo Cortinovis, Alessandro Dalmasso, Denis Dianin, Francesco Elmi, Fabrizio Galla, Gianluca Mannori, Pasquale Marigliano, Roberto Rinaldini, Alessandro Servida) progetteranno dieci abiti realizzati con il cioccolato che animeranno la serata di gala del 12 febbraio sempre al The Mall. La sfilata verrà replicata sabato e domenica mentre gli abiti verranno esposti durante i tre giorni di apertura al pubblico.

Il secondo filone è la sensorialità della chocolate experience, sintetizzato nell’hashtag #ChocoSense. Gli ospiti potranno vivere degustazioni sensoriali legate al cioccolato e ai suoi migliori abbinamenti grazie alla collaborazione della Compagnia del Cioccolato presieduta da Gilberto Mora, dell’Istituto Internazionale Chocolier guidato da Luigi Odello.

Con #Chocoshow si vuole invece raccontare il tema legato alle esibizioni e masterclass dei grandi maîtres chocolatier italiani, internazionali. Un ruolo decisivo l’avranno sia i maestri dell’Accademia Maestri Pasticceri Italiani, capitanati da Iginio Massari e da Gino Fabbri sia altri noti pastry chef italiani e internazionali che si esibiranno in sorprendenti showcooking a base di cioccolato.

Il quarto cluster è #Chocofamily, giochi e attività per bambini e famiglie per conoscere, giocare, sperimentare e degustare. I professionisti di Kikolle Lab gestiranno i laboratori a tema e intrattenimento, in un’ambientazione che richiamerà il celeberrimo mondo di Willy Wonka, liberamente ispirata al romanzo di Roald Dahl. Nei giorni di San Valentino, non potranno mancare anche iniziative ad hoc per gli innamorati.

Infine #Chocoshopping è la grande area dedicata allo shopping del cioccolato. Chi visiterà il Salon du Chocolat Milano potrà portare a casa il meglio della produzione nazionale e internazionali delle grandi pasticcerie del mondo.

Il Salon du Chocolat Milano sarà un evento per il pubblico e per gli operatori del settore. La giornata di lunedì 15 febbraio sarà anche dedicata agli operatori: buyer, pasticceri, esperti e professionisti potranno incontrare le aziende espositrici, seguire workshop tematici e formativi.

 




Quella volta che Caravaggio quasi accoppò un garzone d’osteria

CARAVAGGIO-AUTORITRATTO“Faccio un salto al bar”. È nozione comune che tale pronunciamento di intenti, oggidì del tutto innocente, non manchi di essere accolto dalle più arcigne tra madri e consorti con almeno un’occhiataccia di riprovazione. Ciò di cui coniugi e genitrici non sono forse al corrente è che le ragioni dell’anacronistico biasimo sono ormai vecchie di un paio di millenni. Ancor ai nostri giorni i locali dove prendere un cicchetto o un caffè pagano infatti lo scotto della pessima fama che, invero non senza fondamento, all’epoca della Roma imperiale bollava le tabernae.

A quei tempi, a dar retta a Giovenale, le frequentazioni delle bettole di cui traboccavano i bassifondi della Città Eterna erano tutto fuorché raccomandabili: malfattori, marinai, schiavi fuggitivi, boia e – sic – fabbricanti di catafalchi. Una siffatta ghenga di avventori finiva inevitabilmente per attirare anche qualche entraîneuse, spesso appartenente alla più stretta cerchia familiare del titolare della mescita. Alle lucciole della casa il diritto latino accordava peraltro singolari liberatorie professionali: ancora nel VII secolo, secondo i disposti della Lex Romana Curiensis, appartarsi con la moglie del tabernario non costituiva infatti adulterio. Non sorprende dunque che ai membri della casta senatoriale fosse elevato divieto di convolare a nozze con le figlie degli osti.

Se nelle bottiglierie più malfamate libagioni smodate e meretricio la facevano da padrone, non mancavano altresì locali di profilo meno ambiguo nei quali il vino era accompagnato da una più ortodossa offerta di cibo ed alloggio. Questa bipartizione tra taverne di equivoca nomea e più rispettabili hostarie venne di fatto mantenuta anche nel corso del medioevo, nel quadro di un generale impulso a regolamentare e moralizzare l’attività dei pubblici esercizi. Risale ad esempio al 1270 il bando con il quale la Repubblica di Venezia vietava ai locandieri di fornire ospitalità a donne di malaffare, inibendo inoltre la vendita di bevande che non fossero distribuite dai grossisti incaricati dall’amministrazione.

Le frodi alla mescita erano in effetti tutt’altro che inusuali, perpetrate soprattutto somministrando intrugli ottenuti dalla rifermentazione di vinacce esauste, o brode in via di acetificazione. A copertura dei raggiri, i gestori solevano confondere la bocca della clientela addolcendola con spicchi di finocchio offerti a guisa di amuse-guele. Da tale malvezzo è derivata la singolare voce “infinocchiare”, ancor oggi in uso per designare l’adozione di condotte levantine. Un ulteriore filone di imbroglio atteneva inevitabilmente ai quantitativi serviti. Ecco dunque che lo scarno corpo degli statuti cinquecenteschi della valle di Scalve, nel disciplinare il complesso dominio delle vettovaglie, aveva come unica previsione l’assoggettamento delle vinerie all’obbligo di avvalersi esclusivamente dei boccali bollati dalle autorità, per evitare che, nello spillare dalle botti, gli osti finissero per essere di mano troppo parca.

Che le libagioni propinate nelle bettole non potessero certo essere ascritte alla categoria dei grandi cru risulta evidente da innumerevoli testimonianze. Spicca in particolare il celebre sonetto di Cecco Angiolieri – amico di Dante Alighieri ed impenitente cantore degli ozi da taverna – nel quale il poeta giungeva ad affermare che persino la sua consorte in preda all’ira gli facesse meno uggia del vino servito nelle fiaschetterie. Emblematica è poi la sentenza di Alvise da Cà da Mosto, esploratore veneziano che verso la metà del quattrocento guidò un paio di spedizioni lungo le coste atlantiche dell’Africa: al succo delle patrie uve il pioniere della Serenissima dichiarava di preferire addirittura la linfa fermentata stillata dalle palme dai selvaggi del Senegal.

Se truffe e sofisticazioni erano all’ordine del giorno, non mancano comunque le attestazioni d’esistenza di locali condotti con perizia e probità. Colpisce in special modo quella di Jacques La Saige, mercante di seta della Fiandra francese che il 12 aprile del 1518, sulla via verso la Terrasanta, si trovava alle porte di Torino. Fermatosi per rifocillarsi all’Osteria della Croce Bianca di Rivoli, nei suoi appunti di viaggio il pellegrino riporta con stupore che, in abbinamento all’ottimo pasto, gli venne proposta una selezione di ben dieci diversi vini alla mescita, tutti di eccellente livello.

Un altro paio di aneddoti, stavolta di più chiaro marchio bergamasco, contribuisce infine a far luce sulle condizioni di lavoro nelle locande del XVI secolo. Del primo, invero a tinte piuttosto fosche, siamo debitori alla penna dell’infaticabile zibaldonista Donato Calvi. Nell’Effemeride si narra infatti di un cruento incidente consumatosi il 14 ottobre 1583 presso l’Osteria delle Due Ganasse, ubicata lungo l’attuale via XX Settembre. Nell’esercizio prestava opera un giovane garzone meneghino – all’epoca il nostro capoluogo era in assai più floride condizioni di Milano –  di nome Gasparo Gariboldi. L’inserviente, giunto prima dell’alba a riassettare i locali dal servizio della sera precedente, dopo aver compiuto le proprie incombenze si era appisolato su una sedia accanto al focolare. Per colmo della sventura, proprio sopra il suo capo erano appesi degli spiedi utilizzati per arrostire carni ed uccelletti. D’improvviso la fibbia che reggeva una delle acuminate aste si allentò, e quest’ultima nel cadere trafisse il collo del malcapitato trapassandolo da lato a lato. Richiamati dalle urla del poveretto – appunta laconicamente il cronista – i maldestri soccorritori, “volendoli strappare il ferro dalla gola, li strapparono in vero l’anima dal corpo”.

Il secondo episodio, ancorché di ambientazione romana, ha come protagonista nientemeno che Michelangelo Merisi da Caravaggio. Lo stizzoso artista, già nelle peste con la giustizia papalina per innumerevoli precedenti, si ficcò vieppiù nei guai malmenando e tentando addirittura di uccidere un povero cameriere dell’Osteria del Moro, reo di non aver saputo rispondere se i carciofi che stava servendo al pittore fossero stati cucinati nell’olio anziché nel burro. Tra arnesi di cucina che si trasformavano in armi letali ed avventori pronti a sguainare la sciabola per delle quisquilie, è dunque arduo definire quanto dura potesse essere la vita di uno sguattero di cinque secoli fa.




Musica, massaggi, docce: la dolce vita delle mucche della cascina Guardiola

Azienda agricola Ciocca - Treviglio - Antonio Ciocca e la moglie Antonella ViolaNella Bassa bergamasca un’azienda agricola ha scoperto il “segreto” per produrre formaggio, burro e yogurt eccellenti: il latte di mucche coccolate da spazzolatrici, allevate con un’alimentazione naturale ascolta
ndo musica in sottofondo e senza stress da super mungitura. Il caseificio è nella cascina Guardiola alla Geromina, frazione di Treviglio, dove c’è anche uno spaccio con i prodotti di altri agricoltori a chilometro zero, gestito da marito e moglie, Antonio Ciocca e Antonella Viola.

Ma non si può considerare l’attività casearia senza aver prima visitato l’azienda agricola in via del Bosco, in aperta campagna, avviata nel 1965 dal padre di Luigi, Antonio. Fin da allora l’allevamento rispettava i cicli della natura e i bovini erano solo 25. Nel 1992 è avvenuto il passaggio al figlio. Oggi i capi sono 110 e continuano a vivere in una condizione di cura invidiabile con tanto spazio e comfort a loro disposizione. Le mucche hanno un loro nome e sono parte preziosa di un’attività a carattere familiare, come dimostra il loro trattamento: si pretende che producano “solo” 25 litri di latte in media al giorno, sono nutrite con erba e fieno, partoriscono fino a otto volte e quando invecchiano sono messe in un’area più tranquilla. Nella stalla c’è anche una grossa spazzolatrice verde elettrica: gli animali autonomamente ci mettono sotto la testa e si fanno massaggiare collo e orecchie. Se il macchinario non si aziona, richiamano l’attenzione dell’addetto. Le mucche si coricano su morbidi materassini in gomma. E, d’estate, sopra le mangiatoie, ci sono docce nebulizzatrici che grazie ai ventilatori rinfrescando l’aria e le invogliano a mangiare.

azienda ciocca mucca che si spazzola da sola«Vuole sapere quale sarà il mio prossimo passo? Vorrei creare il pascolo, lasciarle libere, ci ho già provato ma non è facile, sono animali intelligenti – è il afferma Ciocca -. Un giorno, mentre stavo rifacendo il pavimento della stalla, avevo messo le bovine in un’area recintata, ma due vacche hanno spinto contro una loro compagna, riuscendo così a scavalcare l’ostacolo».

Ci sono anche stati alti e bassi, superati con costanza e dedizione al lavoro. «Avevo 400 capi, di cui 180 da mungitura, ho investito, assunto dipendenti e iniziato a vendere latte alle industrie, entrando in un circolo vizioso – spiega Ciocca – perché poi sei costretto a produrre sempre di più dal momento che il prezzo viene abbassato e non riesci più a far fronte alle spese. Gli animali, negli allevamenti intensivi, sono portati a fornire fino a sessanta litri di latte al giorno e così sfiancati, dopo un paio di parti, finiscono al macello».

Nel 2001 una malattia contagiosa gli ha imposto l’abbattimento di tutti i capi. Ma il trevigliese si è rimboccato le maniche e ha ricomposto la mandria, aprendo nel 2008 i distributori di latte crudo a Cavenago, Capriate, Suisio e Bellusco. Tuttavia, dopo il successo iniziale, il progetto non ha suscitato più il forte interesse iniziale. «Se non fai altro, non campi», si è detto l’allevatore che ha cambiato rotta, decidendo di dedicarsi alla trasformazione del suo latte. Chi si reca in cascina è attratto dal gusto unico di due formaggi speciali che, già nel nome delle due frazioni, sono un omaggio al territorio: Cerreto, compatto e dolce, realizzato da latte intero, stagionato da un mese e mezzo a tre mesi, che può somigliare alla fontina, e Geromina, a pasta morbida, con almeno otto mesi di stagionatura, prodotto da latte spannato in forme che raggiungono i nove chili.

I prodotti sono finiti anche in vetrina per tutta la durata di Expo nel padiglione allestito vicino all’albero della vita. Le varietà casearie sono tante: c’è il mucchino, che piace ai bambini, simile al caprino, ma prodotto con latte vaccino, e i freschissimi come mozzarella, ricotta, crescenza e primo sale. Nelle formagelle, stagionate per due mesi, si spazia con i sapori: possono essere al peperoncino, al pistacchio, alla cannella, alle olive, all’erba cipollina, al finocchio e ai capperi. Il latte è conferito all’Associazione produttori latte della Pianura Padana e a Copagri per il progetto “Buono e onesto”, che consiste nel confezionamento diretto dagli allevatori. Il suo simbolo, presente sulle confezioni in tutta Europa, è la mucca Onestina colorata con la bandiera del Paese di origine. Con questo latte, i soci producono il Sovrano, un formaggio a pasta dura stagionato 25 mesi, con latte vaccino all’80% e di bufala al 20, Fattorie Bresciane con caglio vegetale e meno sale, stagionato 12 mesi, il Supremo, a 15 mesi, con solo latte vaccino. Ci sono anche la Guardiola, spalmabile, e il Pronto pentola, una miscela macinata perfetta per mantecare risotti o pasta. Lo yogurt è, oggi, solo bianco. «Non utilizzo nient’altro che prodotti di stagione, pertanto non essendoci fragole, more o mirtilli che mi rifornisce la Cascina Pelesa, preferisco non aggiungere frutta che non conosco», conclude Ciocca.

formagelle azienda ciocca




La giornata del mais, lunedì il punto su coltivazione e mercato

generica mais ritLunedì 8 febbraio, dalle 9.30, alla Sala Mosaico della Camera di commercio di Bergamo si terrà la Giornata del Mais organizzata dal Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria CREA – Unità di ricerca per la maiscoltura di Bergamo, diretta da Carlotta Balconi, con la collaborazione della Regione Lombardia. Quest’anno il tema affrontato è “Il mais: opportunità di mercato, coltivazione e reddito”. Durante il convegno si tratteranno anche i seguenti argomenti: il mercato del mais: prospettive per il 2016 (Dario Friso), linee guida per il controllo delle micotossine (Amedeo Reyneri), le nuove vie del miglioramento genetico (Gianni Barcaccia), monitoraggio dell’areale maidicolo mediante telerilevamento (Alberto Crema). A seguire una tavola rotonda moderata da Lorenzo Andreotti dal titolo “Mais italiano: che mercato ci aspetta?”. Interverranno Coldiretti Bergamo, Confagricoltura Bergamo, MiPAAF, Associazione Granaria di Milano, Assosementi, Ami, Aires, Assalzoo, Confai, Roquette Group.

Nella sessione pomeridiana saranno presentati i risultati delle attività di sperimentazione agronomica realizzate nel corso della campagna maidicola 2015 da CREA, Unità di Ricerca per la Maiscoltura di Bergamo, in collaborazione con altre istituzioni di ricerca. Gli interventi saranno dedicati alle reti nazionali di sperimentazione agronomica (Gianfranco Mazzinelli), alla performance agronomico-qualitativa degli ibridi da trinciato (Michela Alfieri), all’attività di sperimentazione del Registro nazionale delle varietà (Anna Giulini, Giovanni Corsi) e all’attività di miglioramento genetico (Fabio Introzzi, Luigi Degano). Un contributo sarà dedicato alle micotossine e al livello di contaminazione nelle produzioni maidicole italiane, rilevato tramite la rete di monitoraggio nell’ambito del Progetto Rete Qualità Mais finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (Sabrina Locatelli). Infine una prospettiva di valorizzazione nutrizionale del mais per l’alimentazione umana (Elisabetta Lupotto).




Bocuse d’Or Italia, la vittoria al bergamasco Marco Acquaroli

marco acquaroli - la stampa
(foto – La Stampa)

Sarà ancora un bergamasco a rappresentare l’Italia al Bocuse d’Or, il più prestigioso concorso di cucina al mondo, voluto dal mitico chef Paul Bocuse.

Dopo Aberto Zanoletti, vincitore delle selezioni nel 2010, svoltesi alla fiera di Bergamo, è stato Marco Acquaroli, originario di Sarnico, ad imporsi al Teatro sociale di Alba nella sfida nazionale che ha visto in gara – nelle giornate del 31 gennaio e del primo febbraio – 12 concorrenti.

Poco più che trentenne, Acquaroli lavora attualmente in Svizzera al Four Seasons Des Bergues di Ginevra. Prima di questo ha collezionato altre esperienze in alcuni Four Seasons in giro per il mondo, al Geranium di Copenaghen e a Piazza Duomo ad Alba. Per accedere alla finale mondiale, in programma a Lione nel gennaio del 2017, dovrà superare lo scoglio degli Europei, in programma il 10 e 11 maggio prossimi a Budapest, con 20 nazioni partecipanti.

La nostra cucina ha brillato al concorso anche grazie all’altro bergamasco in competizione, Francesco Gotti, che si è aggiudicato il premio per il miglior piatto di carne (il tema era il cervo). Miglior piatto di pesce (storione e caviale) quello di Debora Fantini, unica donna in gara.




La birra artigianale prende il volo. A Orio il primo pub monomarca, firmato Elav

Da una parte un aeroporto che scala le classifiche nazionali. Dall’altra un birrificio che di idee e progetti ne sforna a raffica. È così che per la prima volta in un aeroporto italiano apre un pub momonarchio di birra artigianale.

Succede nell’area imbarchi di Orio al Serio ad opera del Birrificio Indipendente Elav di Comun Nuovo, che ha siglato una partnership con la società che gestisce l’area per allestire e fornire lo spazio con le proprie birre e tutti i prodotti a marchio. Si tratta di  un pub tutto italiano dove i passeggeri in partenza potranno rilassarsi in attesa del proprio volo. Dieci spine offrono le birre cult del birrificio e a rotazione le speciali e stagionali, mentre sugli scaffali si trovano tutte le altre etichette Elav in bottiglia, da acquistare e portare anche in volo. In più i gadget Elav e tutti i prodotti dolciari della linea “Dissonanze di Elav”.

birrificio elav in aerporto orio al serio 2Forte di un incremento del 18,6% nel 2105, che ha portato a superare la quota dei 10 milioni di passeggeri (10.404.625), lo scalo bergamasco è impegnato a sostenere le potenzialità di traffico e a garantire al contempo la qualità dei servizi all’utenza, alle compagnie aree e agli operatori. Tra le azioni di adeguamento delle infrastrutture dedicate ai passeggeri, l’apertura di nuove attività nell’area imbarchi e da qui la possibilità di creare uno spazio unico nel suo genere con il primo pub di birra artigianale italiana a marchio.

«Un’importante novità che inaugura una nuova tendenza – spiega il Birrificio Elav -. Se infatti all’interno degli aeroporti siamo stati abituati a trovare prodotti di qualità e prestigio, perché così succede a moda e accessori e sempre più anche in riferimento al food&beverage, per il prodotto birra l’offerta si era fino ad ora limitata quasi esclusivamente a marchi industriali. Da parte sua la birra artigianale italiana ha raggiunto in questi ultimi anni livelli di qualità importanti, nonché un’ottima reputazione anche in ambito internazionale. Il posizionamento di Elav all’aeroporto di Orio risulta in questo senso come una naturale conseguenza di questo doppio movimento verso la qualità ed offrirà la possibilità al pubblico internazionale in transito ad Orio di godersi un’ottima birra artigianale Elav, sia prima che durante un volo. Oltre infatti a poter scegliere tra una vasta gamma di prodotti alla spina da godersi per ingannare l’attesa e l’ansia del volo, sarà anche possibile acquistare le bottiglie dallo scaffale o le stesse birre alla spina spillate con uno speciale sistema a pressione in bottiglie sigillate take-away da 1 litro».




Bambini al ristorante, «il divieto è legittimo»

cibo-bambini-coloriL’ultimo in ordine di tempo a salire alla ribalta della cronaca è stato un ristoratore romano – titolare de “La Fraschetta del Pesce” in zona Casalbertone – che con un eloquente cartello all’entrata dichiara: «A causa di episodi spiacevoli dovuti alla mancanza di educazione, in questo locale non è gradita la presenza di bambini minori di 5 anni, nonché l’ingresso di passeggini e/o seggioloni per motivi di spazio».

Il tema dei bambini al ristorante e delle limitazioni al loro accesso si ripresenta ciclicamente (qualche anno fa, ad esempio, la discussione era partita per il divieto ai pargoli dopo le 21 di una pizzeria nel bresciano) e così la Fipe, la Federazione dei pubblici esercizi del sistema Confcommercio, ha colto l’occasione per fare il punto sulla possibilità di un titolare di pubblico esercizio di selezionare la clientela.

La fonte normativa è nell’articolo 187 del regolamento di esecuzione del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, che risale al 1940 e che recita: «Salvo quanto dispongono gli articoli 689 e 691 del codice penale (divieto di servire alcoolici a minori ed ubriachi), gli esercenti non possono, senza legittimo motivo, rifiutare le prestazioni a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo».

«Per fornire una interpretazione esatta occorre identificare i legittimi motivi che possono consentire ad un esercente di rifiutare la prestazione – spiega la Federazione -. Sicuramente non possono essere addotte motivazioni di carattere sessuale, politico, religioso e razziale, in quanto in contrasto con disposizioni di ordine pubblico. Ciò premesso, si deve ritenere come, in assenza di una specifica giurisprudenza, eventuali limitazioni (ad esempio sul modo di vestire) debbano essere, in ogni caso, oggettive e predeterminate e portate preventivamente a conoscenza della clientela».

Sono pertanto ritenute legittime prescrizioni concernenti l’abbigliamento (richiesta di giacca e cravatta, ad esempio) o l’obbligo di prenotazione del tavolo.

Per quanto riguarda l’accesso di minori (ferme restando le limitazioni connesse ad una eventuale attività in contrasto con la loro presenza ed imposte per legge o per atto della Pubblica Amministrazione, come topless bar, lap dance), la Federazione ritiene «legittimo l’operato di chi nel proprio locale limita l’accesso di bambini che si possono, con tutte le probabilità, rivelare fastidiosi ed indisponenti per il resto della clientela anch’essa meritevole di tutela, sulla base dell’assioma per il quale il proprio diritto finisce dove inizia quello dell’altro». «Obiettivamente esistono, inoltre, motivazioni connesse alla sicurezza degli stessi bambini che consigliano di evitarne la presenza in locali dove vi sono apparecchiature o altre occasioni di pericolo che sfuggono alla sorveglianza dei genitori».




Il locale che va controcorrente: dalla pizzeria di montagna alla cucina gourmet

Quando tanti suoi colleghi hanno aggiunto la pizza nel loro menù, Paolo Cortinovis, 39 anni, a Selvino ha compiuto un gesto controtendenza e coraggioso: si è sbarazzato del forno e ha votato il suo ristorante alla cucina gourmet. Dal ’69 il Sorriso era un ristorante-pizzeria. Lo gestiva il papà Emilio, lì conosciuto come Nani. Nel 2004 Paolo e la moglie Michela sono subentrati nella conduzione del locale. «Abbiamo cercato da subito di portare sempre più avanti il ristorante, poi l’hanno scorso abbiamo fatto una scelta radicale e deciso di fare solo ristorante».  «I clienti sono rimasti spiazzati. Da un giorno all’altro si sono trovati senza pizza – racconta Paolo -. Per me non è stata una scelta difficile. La mia cucina era già ricercata, ho solo seguito la mia linea». «All’inizio mi dicevano “tu sei pazzo” ma la pizzeria portava avanti solo i numeri, con la qualità che avevo in mente io non c’entrava niente.  Mio papà, che era il pizzaiolo, è stato d’accordo, era stanco di lavorare al forno».

Paolo Cortinovis e la moglie Michela
Paolo Cortinovis e la moglie Michela

A cambiare del tutto il locale Paolo ci pensava già dal 2009, poi si è deciso: gli affari andavano bene, i piatti piacevano, così a gennaio lui e Michela hanno chiuso per due mesi e hanno ribaltato tutto, dalla cucina alla sala. Ora il ristorante non ha più niente dello stile di montagna che aveva prima. Gli ambienti sono raffinatissimi, in linea con la proposta in carta. In menù si possono trovare piatti di pesce, paste fresche fatte in casa, carni e dolci al piatto, che cambiano secondo la stagionalità e sono frutto di una ricerca attenta degli ingredienti e di una cura precisa nella presentazione.

I piatti della tradizione sono proposti in chiave moderna e con abbinamenti particolari. In questo periodo si possono trovare i casoncelli di Paolo, piatto irrinunciabile per i clienti, il piccione in doppia cottura servito con patate affumicate e la trilogia di castagne: castagnaccio, marron glacè e castagne al vapore e rum con panna montata.

La cantina ha più di 100 etichette con una buona rappresentanza di vini del territorio ed è in crescita. In sala i posti, che prima erano 60, sono scesi a 35, sempre per una logica di qualità e c’è un grazioso giardino. «Tanti clienti mi hanno detto che finalmente il ristorante rispecchia la mia cucina, era quello che desideravo. Ora le tavolate non le faccio più, ma sono soddisfatto della mia scelta».




Cuochi, i primi Campionati della cucina italiana di scena a Montichiari

Dal 18 al 21 marzo prossimi alla Fiera di Montichiari (Bs), la Federazione italiana cuochi organizza i primi Campionati della cucina italiana.

Su un’area di 1.500 mq, le strutture della Fic ospiteranno le più svariate discipline internazionali da concorso di cucina e pasticceria, offrendo la più estesa e completa competizione italiana per le categorie in gara. In programma ci sono infatti ben 10 sfide, quelle di cucina calda (sia a squadre sia per singoli), cucina fredda (a squadre e singoli), pasticceria da ristorazione (singoli), la combinata a squadre (cucina calda + fredda), due competizioni artistiche (settore salato e dolce) e due contest (le selezioni italiane per la “Catering Cup” di Lione e la finale italiana del concorso per il miglior allievo degli Istituti alberghieri).

Il concorsi sono aperti a cuochi e professionisti iscritti alla Fic, operanti in Italia e all’estero. La competizione è riconosciuta dall’Associazione mondiale Cuochi Wacs.

Lo spazio della Federazione è all’interno del padiglione “Origine”, salone nazionale dedicato ai prodotti agroalimentari tipici ed alle produzioni d’eccellenza. Per l’occasione, sul palco dell’associazione si farà spazio a testimonianze inedite di produttori d’eccellenza, seminari formativi e cooking show di grandi professionisti ad integrare quattro giorni di iniziative e confronto.




Gelati, al Sigep c’è anche quello al caprino bergamasco

Al Sigep di Rimini, palcoscenico delle novità e delle tendenze di tutto il mondo in tema di gelateria e pasticceria di scena dal 23 al 27 gennaio, Bergamo non manca di dare la propria impronta. Sia con le aziende espositrici, ben 32, sia con gli artigiani del gelato, sempre pronti a mettere a punto gusti speciali e intriganti.

Quest’anno, nell’ambito delle iniziative dei Maestri della Gelateria Italiana (pad. C1, stand 021), i due Maestri orobici Candida Pelizzoli e Ronald Tellini si cimenteranno rispettivamente nella preparazione in diretta in un gelato al caprino bergamasco (sabato 23 gennaio) e del nuovo gusto Campos (lunedì 25).

Il tema sviluppato in questa edizione dall’Associazione – che ha sede presso l’Università dei Sapori di Perugia – è “Gusti e Colori della Natura” e prosegue nel percorso già avviato di valorizzazione dei gelati attenti alla salute e all’apporto calorico che non dimenticano, però, il piacere del palato. Sono coinvolti 16 Maestri della Gelateria, ognuno chiamato a presentare la propria proposta, giocando tra identità territoriale ed artistica.

candida pelizzoli - gelateria Oasi - Badalasco«La scelta di fare un gelato al caprino – racconta Candida Pelizzoli, della gelateria Oasi di Fara Gera d’Adda, che è anche vicepresidente dell’associazione – risponde al tema del gelato funzionale e salutistico, ma diventa anche occasione per promuovere il prodotti del territorio. Proprio qui a Badalasco, a una manciata di chilometri dalla gelateria, ci sono ben tre aziende che producono latte e formaggi di capra, non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di utilizzare prodotti freschi e locali». Il gelato al caprino è fatto con pochissimi ingredienti: latte di capra, formaggio caprino e un po’ di zucchero. «È quindi indicato per chi ha intolleranze al latte vaccino, come me – spiega Candida -, in più ha poche calorie e pochi grassi. Al palato è fresco e cremoso e ricorda la piacevolezza del formaggio, cosa che lo rende indicato anche per abbinamenti diversi, ad esempio con insalate e piatti freddi».

ronald tellinij.pgHa pescato in casa anche Ronald Tellini, titolare della gelateria Pandizucchero di Almè, ma il risultato è più “esotico”. Il suo gelato, Campos, prende infatti il nome dal suo collaboratore brasiliano, Diego Campos e da sua padre, che gli ha fatto scoprire la varietà di cacao utilizzata, che si unisce alle nocciole per dare vita al gusto gianduia, variegato con lamponi poché e croccante feuillettine. «Il risultato – dice Tellini – è un gelato con un indice glicemico più basso di circa il 20% rispetto alla media», ma sicuramente prezioso e goloso a giudicare dagli ingredienti.

Come Candida Pelizzoli anche Tellini caratterizza la propria attività per la ricerca continua. «Credo che sia ciò che permette di distinguersi e di continuare a sopravvivere – evidenzia, dall’alto dei suoi 26 anni di esperienza e la passione per i semifreddi -. In questo periodo, ad esempio, sto mettendo a punto dei frollini a base di farina di castagne, nocciole e cioccolato, e anche per carnevale non farò le solite chiacchiere, ma delle lattughe mantovane dalla sfoglia sottilissima. Lavorare in questo modo significa prove su prove, selezione delle materie prime e, ovviamente, anche prezzi un po’ più alti, ma è l’unico modo per differenziarsi».