Il Censis: «Il consumo di carne è minacciato da falsi miti»

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«Il consumo di carne in Italia non è eccessivo». A dirlo non sono gli allevatori, i macellai o i maestri della bistecca, ma il Censis.

L’autorevole istituto di ricerca ha effettuato nel settembre-ottobre 2016 lo studio “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando”, utilizzando i dati sulla dieta come chiave per raccontare i cambiamenti in atto nella società.

Ne è emerso un vero e proprio allarme sul rischio che l’equilibrio nutrizionale delle famiglie italiane («quella dieta da sempre considerata nel mondo un modello a cui ispirarsi») possa essere compromesso dalla riduzione del consumo di alimenti come carne, pesce, frutta e verdura. Un fenomeno dettato in primo luogo dalla crisi, ma anche dalle «leggende metropolitane proliferanti sul web che demonizzano alcuni suoi alimenti di base (con la carne in testa)».

Tanto per cominciare, il Censis precisa che «i consumi “reali” di carne sono di gran lunga inferiori a quelli “apparenti”, che includono impropriamente anche le parti non edibili dell’animale e sui quali si basano le statistiche ufficiali. Studi scientifici hanno permesso di calcolare il valore reale di consumo stornando il peso delle parti non edibili: nel caso del bovino, tale valore corrisponde a poco più della metà (il 55%) del valore apparente, per un consumo reale pro-capite in Italia che si attesta tra i 10 e gli 11 kg ogni anno, ovvero circa due porzioni alla settimana, una quantità in linea con le raccomandazioni di medici e nutrizionisti».

L’Italia, inoltre, è nella posizione bassa della graduatoria per consumo di carne tra i principali paesi Ue, con 79,1 kg pro-capite all’anno: solo Grecia e Regno Unito, con un consumo rispettivamente di 72,6 e 76,6 kg pro-capite all’anno, si posizionano al di sotto del nostro Paese.

«Mangiare carne – prosegue la ricerca – non è contro la buona nutrizione. Un moderato consumo di carne è previsto dalla dieta mediterranea, considerata la più efficace per migliorare la qualità della vita e prevenire le principali patologie. Le proprietà nutritive della carne sono uniche nel loro genere: contiene proteine nobili, vitamine (tra cui la B12), ferro altamente disponibile. Inoltre, è un alimento ad alta efficienza nutrizionale: a parità di nutrienti, apporta meno calorie rispetto ad altri, riducendo il rischio di sovrappeso».

Mentre viene ridimensionata la pericolosità sulla salute. «Le patologie del benessere – si spiega -, aumentate negli ultimi venticinque anni (sovrappeso e obesità +26,3%, ipertensione +92,9%, diabete +180,3%), spesso sono state erroneamente associate al consumo di carne rossa, il cui consumo negli stessi anni è, invece, diminuito (-29,4%). Rispetto all’allarme lanciato nel 2015 dallo Iarc sulla cancerogenicità della carne rossa, va detto che lo studio si esprime in termini di probabilità, non di certezza, fa riferimento a quantità medie di consumo di carne molto al di sopra delle quantità effettivamente consumate in Italia e si riferisce principalmente a carne e prodotti per composizione (grasso, ingredienti, ecc.) differenti da quelli regolarmente consumati nel nostro Paese. Infine, lega il consumo eccessivo di carne rossa non alla possibilità di sviluppare il cancro, ma al possibile aumento del rischio relativo di ogni individuo di svilupparlo (rischio legato a una molteplicità di fattori individuali, comportamentali e ambientali, quindi non solo ad un unico fattore)».

MACELLAISenza dimenticare che la carne italiana è controllata. «Il modello italiano di controllo e di tracciabilità delle carni è un’eccellenza a livello mondiale – ricorda il documento – e garantisce ai livelli massimi possibili l’assenza nelle carni di residui di sostanze vietate o oltre i limiti consentiti, come testimoniano i periodici controlli ministeriali che attestano una presenza di residui nelle carni pari ad appena lo 0,2% (Piano Nazionale Residui)».

Sfatata anche l’idea che la carne sia un alimento grasso, quindi con conseguenze negative sulla salute, «poiché, grazie a tecniche di allevamento, selezione della specie e dieta degli animali, si è nel tempo modificata la sua composizione lipidica, riducendo il grasso totale fino al 50% e la percentuale di acidi grassi saturi».

E rispedite al mittente pure le obiezioni sui costi ambientali troppo alti. «La filiera della carne in Italia è estremamente efficiente e virtuosa: incarna un modello di economia circolare, con riciclo e minimizzazione di scarti e rifiuti, che sono più che dimezzati rispetto alla filiera di frutta e verdura e quasi la metà di quella dei cereali.
Evidenze scientifiche mostrano che l’impatto sull’ambiente della produzione di carne, se calcolato sulla base della frequenza di consumo secondo le raccomandazioni, è allineato con quello di altri alimenti, consumati con maggiore frequenza e in maggiori quantità. Se assunti nelle giuste quantità, le varie categorie alimentari hanno, quindi, un peso ambientale molto simile. L’Italia, oltretutto, grazie alla combinazione di allevamenti estensivi e intensivi, ha una produzione di carne bovina a più basso impatto sul consumo di acqua (11.500 litri necessari per kg) rispetto alla media mondiale (15.400 litri): per la maggior parte (10.000 litri) si tratta di acqua piovana, fonte rinnovabile e sostenibile».




Riva del Garda e Rimini, per i cuochi è tempo di concorsi

Closeup mid section of a chef garnishing food

Giusto il tempo per riprendersi dal superlavoro delle festività e per i cuochi – ma anche gli allievi – desiderosi di mettersi alla prova arrivano i concorsi nazionali promossi dalla Federazione italiana cuochi. Tre gli appuntamenti organizzati nell’ambito di Expo Riva Hotel, salone dell’ospitalità e della ristorazione professionale in programma a Riva del Garda dal 5 all’8 febbraio per la 41esima edizione. 

Jam Cup 2107 è una gara per allievi a tema latte e derivati, organizzata dal compartimento Giovani Fic. È rivolta a tutti i giovani tra i 16 e i 25 anni iscritti alla Federazione nell’anno 2016 e mette in palio il titolo “The Best Jam 2017”, dove Jam sta per Junior Assistant Master. Premierà il miglior piatto realizzato con l’utilizzo come ingrediente principale di latte vaccino o altri tipi di latte di origine animale e/o formaggi e latticini (Il regolamento).

A squadre è invece il concorso dedicato allo streetfood, durante il quale team formati da tre componenti (un caposquadra e due aiuti, tutti tesserati almeno nell’anno 2016) dovranno preparare in loco minimo 150 porzioni di cibi da strada, ovvero facili da consumare in piedi, fatti con ingredienti tipici, in maniera artigianale con un occhio al rapporto qualità/prezzo e all’apporto calorico (Il regolamento).

Riso in Rosa, infine, è il concorso organizzato dal compartimento Lady Chef della Federazione, dedicato alle donne chef, chiamate a cimentarsi sulle innumerevoli possibilità offerte dal riso. La gara prevede 10 concorrenti al giorno per quattro giorni (Il regolamento).

A Rimini dal 18 al 21 febbraio toccherà invece ai Campionati della Cucina italiana, con ben nove categorie, tra concorsi individuali e a squadre, dalla cucina calda e fredda alla pasticceria alle realizzazioni artistiche.

 




Formaggi bergamaschi, chi è in… forma e chi un po’ meno

Tempo di bilanci per il mondo caseario, massima espressione economica a livello provinciale. Sulla soglia, infatti, di un anno decisivo (si spera) per il salto di qualità dell’agroalimentare bergamasco, con il Progetto Erg 2017 che renderà il nostro territorio (insieme ad altri tre della Lombardia Orientale: Brescia, Cremona e Mantova) il baricentro europeo della gastronomia, è bene capire lo stato di forma di alcuni dei nostri “campioni”, anche tenendo presente che uno dei biglietti da visita più autorevoli che presenteremo al Vecchio Continente sarà proprio l’invidiabile primato nazionale delle Dop casearie (ben nove). Forniamo quindi qualche valutazione dei prodotti, ma anche dei personaggi, locali e iniziative che più si sono messe in mostra nel 2016 appena concluso.

Taleggio

taleggioLa corazzata avanza, anche se dal punto di vista dei numeri (qualcosa in meno sul fronte vendite rispetto al passato) e promozionale c’è stata qualche battuta a vuoto unita all’inspiegabile congedo dello storico direttore Vittorio Emanuele Pisani, protagonista, insieme ad altri, del trend positivo degli ultimi anni e soprattutto della crescita d’immagine verso i giovani, anche attraverso efficaci campagne sui social network, come quella dei “Taleggiatori” che ha avuto protagonisti Elio e le storie tese.

Strachitunt

strachituntL’anno di “castigo” è finito: in estate dall’Europa è arrivato il via libera per tornare a marchiare Dop il “nonno” del gorgonzola, dopo la brutta avventura legata alle misure non corrette riscontrate in alcune forme. Peraltro durante l’anno di “limbo”, il formaggio, che continuava ad essere venduto come “Stracchino di montagna a due paste” non ha perso i suoi estimatori, anche se il danno d’immagine fatalmente c’è stato: ora si riparte.

Bitto storico

biitto-storicoDestino amaro per un Cru venduto nel mondo a prezzi stellari (anche 250 euro al chilo), rimasto fedele alla sua storia, eppure costretto a cambiare denominazione per non incorrere in multe europee: siamo curiosi di capire come il mercato accoglierà la nuova parabola dello “Storico ribelle”, nato per distinguersi dal Bitto Dop, e figlio di una delle più annose dispute casearie, peraltro numerose a questi latitudine (vedi anche Strachiunt e soprattutto Branzi). Le premesse per rialzarsi ci sono.

Branzi

branzi-ftb-180-gg-branzi-ftb-frescoResta un formaggio meraviglioso se fatto invecchiare al punto giusto (fresco invece è piuttosto anonimo), ma anche un grande incompiuto sul fronte della mancata Dop, dopo che in passato la nascita e soprattutto la contrapposizione di due Consorzi di tutela aveva portato a un unico risultato: neutralizzare gli sforzi di entrambi. Nonostante ciò, continua ad essere “il formaggio dei bergamaschi”, dalla grande popolarità e dal grande utilizzo in cucina come ingrediente principe di tante ricette.

Agrì

agri-3È un momento di grande crescita per il “bon bon” di Valtorta, che piace a grandi e piccini e che comincia a sfondare anche sui mercati esteri, pur con i limiti legati ai numeri (sempre esigui) della produzione e ai problemi di conservazione per un formaggio che dà il suo meglio quando viene mangiato freschissimo. Il 2017 può diventare l’anno della definitiva consacrazione, anche grazie al supporto sempre crescente del presidio Slowfood.

Formai de Mut

formai-de-mutBuona produzione e alcuni giovani leve compensano la “mezza scivolata” degli organizzatori della Fiera di San Matteo, che avevano imposto la vendita del solo Dop brembano durante l’evento, lasciando al box altri caci blasonati come lo stesso Branzi, per giunta in casa sua. Ma noi crediamo che il Formai sia più forte anche degli incidenti di percorso.

Zola Spalmabile

Quella degli spalmabili è un “amore di ritorno”, nel senso che fin dagli anni Settanta erano noti formaggi più freschi anche a livello industriale (vedi Dover) messi sul mercato solo per essere spalmati sul pane. Oggi in tanti, da Arrigoni di Pagazzano a CasArrigoni hanno riscoperto questo filone, proponendo zola dolci al cucchiaio di grande qualità che stanno incontrando un gradimento crescente.

L’iniziativa finanziaria

Formaggio nero della NonaIl crowdfunding anche per un formaggio? Perché no? Uno dei più antichi della Val di Scalve, il formaggio Nero de la Nona (datato 1753) ha puntato forte su questa forma di raccolta fondi finanziaria dal basso, solitamente dedicata alle start up più innovative, per rilanciare immagine e produzione: primo step 15mila euro con la caccia ai sostenitori aperta fin da settembre ricercando adesioni su Eppela, la principale piattaforma italiana di crowdfunding. Le “azioni”? In forme o anche solo in spicchi del cacio prodotto con latte intero di mucche di Bruna Alpina.

Il manager caseario

Gialuigi Zenti è un manager bergamasco (nativo di Zù di Riva di Solto) noto soprattutto per avere prima sviluppato il mercato americano per il gruppo Barilla (ha anche gestito per Barilla l’Academia di Parma). Ora sta cercando di sviluppare un progetto ad ampio raggio per Bergamo, partendo dai prodotti della Cooperativa di Vigolo (Monte Bronzone in primis), per poi ampliare il suo raggio d’azione verso altre realtà importanti dell’agroalimentare e il successivo coinvolgimento di attività turistiche e di accoglienza. Idea affascinante e coraggiosa che merita attenzione.

Il superpremio

arrigoni_gorgonzola-dolce-dopMeno male che qualcuno diceva che Bergamo per il Gorgonzola era ai confini dell’impero. Il terzo posto assoluto a livello mondiale del “dolce” Dop di Arrigoni di Pagazzano, alla finalissima della 29esima edizione dei World Cheese Awards di San Sebastian, dimostra al Consorzio di Tutela novarese che anche in terra d’Orobie, il principe degli erborinati viene fatto a regola d’arte. Lo certifica uno dei pochi premi internazionali “seri”, quest’anno tenutosi in terra basca, a cui hanno partecipato 3.000 caci in rappresentanza di 30 Paesi.

L’exploit in casa dei rivali francesi: Taddei & Gritti

Massimo e Camilla Taddei
Massimo e Camilla Taddei

Lasciare a bocca aperta i francesi con un serie di chicche made in Italy non è da tutti. Invece recentemente Massimo e Camilla Taddei di Fornovo e i fratelli Alfio e Bruno Gritti del caseificio Quattro Portoni di Cologno al Serio, hanno riscosso grande successo al Mercato internazionale di Rungis (Parigi), la più grande e importante vetrina agroalimentare di prodotti freschi del mondo, praticamente la Disneyland degli appassionati del fromage, guadagnando ordini anche tra i grossisti d’Oltralpe.

Il Locale: il cheese bar BBù - cheese bar Bergamo (3)ù

Finale non per un prodotto ma per un locale. Che il creato da Francesco Maroni e soci in un solo di anno di vita sia già diventato un punto di riferimento nazionale dei locali legati alla proposta casearia, con tanto di riconoscimento del “guru” Marcomini, non è cosa da poco…




Al Gigianca, l’osteria in città

Anche se non ci sono le classiche tovaglie a quadretti bianchi e rossi e tavoli e sedie di arte povera, ad imitare i locali del passato, l’Osteria Al Gigianca, col sottotitolo di “premiata officina gastronomica”, si propone come autentica osteria in città, rispettando, debitamente aggiornati ai tempi, lo spirito e la cucina di questa tradizione. Un carattere riconosciuto anche dall’ultima edizione della guida Osterie d’Italia di Slow Food, dove è presente, unica segnalazione nel perimetro cittadino, dal 2014 e dove ha mantenuto il simbolo della bottiglia, a sottolineare la particolare attenzione alla carta dei vini.

Alessia Mazzola e Gigi Pesenti
Alessia Mazzola e Gigi Pesenti

Luigi “Gigi” Pesenti, 40 anni, e la moglie Alessia Mazzola, 38, hanno iniziato questa attività nel 2010 a Bergamo in via Broseta al numero 113, in una saletta luminosa, arredata con gusto, che può ospitare al massimo 40 coperti. Una dimensione che già di per sé suggerisce il loro orientamento verso un rapporto molto stretto con la clientela: la qualità, insomma, piuttosto che i numeri. A chiarire ulteriormente gli obiettivi c’è l’adesione al progetto SlowCooking, una rete di ristoranti lombardi che si riconoscono nei concetti di semplicità, valorizzazione delle materie prime, rispetto pragmatico per coloro che lavorano la terra, amore verso il proprio territorio.

«Alessia ed io venivamo da esperienze diverse – racconta Gigi Pesenti –. Io facevo il promoter di eventi anche musicali mentre lei è laureata in Scienze dell’educazione e per pagarsi gli studi lavorava in una pizzeria da asporto. All’inizio abbiamo avuto a disposizione uno chef professionista, che per sette mesi ha insegnato ad Alessia a gestire la cucina, poi abbiamo camminato con le nostre gambe. Visto che nella mia precedente attività ero parecchio in viaggio, nell’impostare la nostra linea mi sono rifatto a quello che mi piaceva trovare come cliente».

La carta di Al Gigianca è abbastanza contenuta ma di certo stuzzicante. Si tratta di una cucina che prende spunto dal territorio, da alcune ricette della tradizione magari con qualche variante, ma fondamentale è il riferimento al bacino per il reperimento delle materie prime. «Siamo molto legati alla stagionalità – prosegue Pesenti -. Per le verdure abbiamo il nostro orto a Locate, che viene coltivato dal papà di Alessia, e poi ci riforniamo da una cooperativa bio. In carta abbiamo solo pesce di lago mentre per il menù di mezzogiorno usiamo pesce azzurro nel rispetto della sostenibilità. Anche per le carni siamo attenti ai metodi di allevamento e produzione, vogliamo che gli animali siano rispettati, che si tratti di allevamenti etici».

al-gigianca-pecora-gigante-bergamasca-con-crema-di-patate-e-chutney-di-barbabietolaQuesti principi si concretizzano in una serie di piatti tra i quali spiccano il baccalà mantecato con crostini di polenta o la Caesar Salad con pecora gigante bergamasca tra gli antipasti, il risotto ai peperoni e patè di missoltino oltre agli immancabili casoncelli alla bergamasca tra i primi, mentre tra i secondi sono particolarmente gettonati il coniglio alla bergamasca con polenta, le lumache trifolate, la pecora gigante bergamasca con crema di patate e chutney di barbabietola e il filetto di lavarello del Sebino. I prezzi vanno dai 10-12 euro di antipasti e primi, ai 13-17 dei secondi, mentre per i dolci si spendono in media 6 euro.

al-gigianca-orto-autunno-2015«Abbiamo due menù degustazione (da 32 o 35 euro ndr.) – ricorda il patron – ed i clienti che vengono da fuori ci chiedono prevalentemente i casoncelli, la pecora bergamasca, il coniglio e il baccalà. Quanto ai vini, sono un appassionato e per questo ne abbiamo una buona selezione sia di italiani sia di altre nazioni come Francia, Germania, Austria, Slovenia, Spagna e Ungheria. Particolare riguardo dedichiamo anche ai formaggi, sempre di produzione locale, con la presenza di presìdi Slow Food».

E se Gigi si muove bene in sala, ai fornelli c’è Alessia, una passione per la cucina. «Passione e cuore sono i primi ingredienti – afferma convinta –. Io li ho ereditati da mia mamma Sandra che ha fatto la cuoca nelle mense scolastiche e le mamme dei bambini andavano a chiederle come mai a scuola mangiassero i broccoli e a casa no!». «Personalmente – spiega – seguo la tradizione e sono poco propensa ad innovare per forza, l’ispirazione mi viene da quello che vedo, da quello che trovo dai fornitori e da ciò che offre la stagione. Adesso, ad esempio, stiamo proponendo la tagliata di pecora gigante bergamasca, è ancora fuori dalla carta perché è un piatto che si esaurisce in fretta. La carne ce la porta la moglie del pastore, Danilo Agostini di Bolgare, che praticamente è in perenne transumanza. È un animale che mi dà grande sicurezza anche per il modo in cui viene allevato e poi pure della pecora non si butta via niente. Tolti i tagli nobili, con il resto si fanno il ragù e le polpette e con le ossa si fa il fondo». A dimostrare che anche il titolo di premiata officina gastronomica è pienamente meritato.

LA PROVA

Come d’abitudine assaggiamo la proposta per la colazione di lavoro. Al Gigianca il menù è inserito nella carta stessa ed è graficamente ben curato, soprattutto molto chiaro: un piatto 11 euro, due piatti 16 euro, due piatti più il dolce del giorno 19 euro. Coperto, acqua, un bicchiere di vino della casa e caffè sono compresi.

La scelta non è molto ampia in termini numerici ma è l’originalità dei piatti, non banali e nemmeno ricorrenti nei menù a prezzo fisso, a fare la differenza in senso positivo.

Crema di carote e zenzero con calamari e crostini alle erbe, maccheroncini ai broccoli e salsiccia, orecchiette alle cozze e fagioli sono le opzioni tra i primi piatti. Costine di maiale con verza e polenta e pesce del giorno (nell’occasione la trota), invece, le proposte per i secondi. Tutti piatti, soprattutto i primi, che stimolano la curiosità oltre all’appetito. Qualche attimo di indecisione e poi puntiamo sulle orecchiette alle cozze e fagioli e sulle classiche costine di maiale con verza e polenta che contenevano anche del buon cotechino.

Due piatti decisamente apprezzabili per scelta e preparazione che unitamente al servizio impeccabile e alla raffinatezza, non appariscente ma piacevole, del locale rendono il rapporto prezzo-qualità ottimo.

algigianca-salaOsteria Al Gigianca

via Broseta 113
Bergamo
tel. 035 5684928
chiuso la domenica tutto il giorno e il lunedi a pranzo



Enrico Bertolino: «Se v’invito a cena non chiedetemi cosa si mangia»

Enrico Bertolino è comico, conduttore televisivo, cabarettista ed esperto di comunicazione (è laureato in Economia alla Bocconi ed è manager nelle risorse umane). Da 30 anni è uno dei protagonisti dell’umorismo italiano. Il 31 dicembre si esibirà al Teatro Creberg di Bergamo nello spettacolo “Buon 2042! La festa di Capodanno”, un monologo sul meglio e il peggio dell’anno appena trascorso. Qui ci racconta il suo amore per il cibo fatto a mano, la sua curiosità per le cucine etniche e la sua amicizia con gli chef Berton e Oldani.

Che rapporto ha con il cibo?

«Di sudditanza psicologica, sono sempre in lotta con i regimi alimentari. Mi piace mangiare bene, le cose buone, anche sperimentare le cucine etniche».

Trattoria o ristorante stellato?

«Entrambi. Non amo il ristorante stellato perché è stellato ma quando ha una cucina curiosa. Come quella di Oldani e Berton, che sono amici e con i quali facciamo anche iniziative di solidarietà. In queste occasioni faccio l’assistente di cucina. E a Bergamo mi piace molto Da Vittorio anche perché lo conoscevo, non sono mai rimasto deluso dai suoi ravioli. Ma non disdegno la trattoria. Nella zona dove abito a Milano ne stanno aprendo diverse. Quando posso, le sperimento».

Dolce o salato?

«Adesso salato. Prima molto dolce».

Cosa non può mancare nella sua dispensa?

«L’amore per come si fanno le cose, le pietanze fatte a mano. Ora limito il sale e mi piace mettere lo zenzero, lo scalogno, i condimenti nuovi. Con l’età si diventa saggi».

Ai fornelli, cuoco esperto o piccolo disastro?

«Ai fornelli sono più bravi i ragazzi della scuola di Oldani. Ma a casa quando posso cucino. La nostra è una famiglia italo-brasiliana, mia figlia ama i piatti brasiliani».

Qual è il suo piatto preferito?

«Il vitello tonnato, è una combinazione irresistibile per me ed è un piatto che cucinava mia mamma. Ora che non cucina più glielo prepariamo noi. In generale mi piacciono i piatti tradizionali ma anche la cucina etnica. Ad esempio il churrasco. Deluderò qualcuno, ma sono tutto tranne che vegano».

Cosa mangia dopo uno spettacolo?

«Un primo o un secondo e poi chiudo con la sambuca. Sono entrato nel tunnel della sambuca. Prima di uno spettacolo invece non mangio mai, devo stare leggero. Un tempo si mangiava molto. Addirittura si facevano le tournée per poter andare a mangiare, nelle Marche ricordo dei ristoranti molto buoni. Adesso dopo cena è molto difficile trovare una cucina aperta, c’è poca cultura del dopo spettacolo. Possiamo contare su qualche ristoratore disponibile che tiene aperto, sono serate che non dimentichiamo».

La sua cena più bizzarra.

«È quella che non ho ancora fatto. Anche se Oldani mi ha stimolato molto con la sua cipolla caramellata. Sono rimasto dieci minuti a guardarla. Da allora non rifiuto più gli abbinamenti insoliti. Per me bizzarro è mangiare i prodotti del posto, la filiera corta, l’amatriciana ad Amatrice, in Sicilia i piatti siciliani. Credo che bisogna adattarsi».

Chi inviterebbe a cena a casa sua e perché?

«Persone accomodanti, come il sindaco di Milano Sala, che è un amico. Non apprezzo quelli che chiedono “cosa c’è da mangiare stasera?”. Mangi quel che c’è e apri la tua testa all’innovazione».

Vino o birra?

«In Brasile la birra, il vino non è competitivo ed è molto caro. Altrimenti vino. Sono stato di recente in un paesino in Francia a un mercatino. Abbiamo comprato olive farcite in tutti i modi e vino francese. Di più non si poteva chiedere».




Bar e specialità alimentari, ad Antegnate un nuovo scrigno di sapori

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C’è una bella storia di famiglia e di impresa dentro al Dolcefreddo Cafè, locale aperto dallo scorso 27 settembre nella zona artigianale di Antegnate, in via Meucci 2. La storia di un’azienda attiva da quasi trent’anni nella distribuzione all’ingrosso e al dettaglio di surgelati, che ha fatto proprie le parole d’ordine di questi tempi: rinnovarsi e diversificare. E la scelta di Alessia, assistente di volo sui jet privati, di mettere la propria esperienza nella selezione di piatti e prodotti per i vip internazionali al servizio della nuova iniziativa di famiglia.

«La crisi ci ha spinto a reinventarci – racconta Maria Guida Rubini, che ha fondato nell’89 con il marito Gian Paolo Bandera la Dolcefreddo -. Il settore del freddo è stato particolarmente colpito, perché i costi di gestione sono alti, e molti dei venditori porta a porta che servivamo hanno chiuso. Così abbiamo deciso di concentrarci sulle forniture per le feste estive e di dedicarci anche all’acquisto e vendita di attrezzature usate per pasticcerie, panifici, bar e negozi di alimentari. Abbiamo anche aperto un locale, dove, accanto alla caffetteria, ai pranzi veloci e agli aperitivi, si possono trovare vini e specialità alimentari accuratamente scelti in tutti questi anni di attività nelle forniture».

cesti-natale-dolcefreddo-cafe-7Natale è il momento migliore per farsi confezionare un cesto regalo, personalizzato nel contenuto e nella forma, o trovare un buon prodotto da portare in tavola. Ci sono i panettoni griffati Flamigni, Scar Pier, Muzzi, il cioccolato di Babbi, ma anche parmigiano, salumi, come il salame di Montisola o la coppa di un produttore locale, e poi i vini, Franciacorta e toscani soprattutto.

«Lavorando sui jet privati ho avuto la conferma di quanto valga il made in Italy», spiega la figlia Alessia, 26 anni, dall’età di 21 impegnata come assistente di volo (dalle Svalbard allo Zambia, da Kabul a Baghdad) per questa fascia esclusiva di viaggiatori. «Oltre a curare l’ospitalità a bordo ci si occupa del catering e non abbiamo idea di quanto sia apprezzata una mozzarella di bufala o una cotoletta – prosegue -. Da qui siamo partiti con l’idea del locale, dal valorizzare ciò che di semplice e buono ci invidia tutto il mondo».

Alessia, a sinstra, e Federica Bandera
Alessia, a sinstra, e Federica Bandera

Tra i piatti per la pausa pranzo si può trovare, ad esempio, quello con stracciatella, alici e pomodori secchi, oppure insalate ricche. L’obiettivo è caratterizzarsi per gli aperitivi e i taglieri con salumi, come quelli di cinghiale e cervo, e formaggi accompagnati ad un buon calice di vino. «Non abbiamo la cucina – dice Alessia, che nel locale è affiancata dalla sorella Federica, 28 anni -, ma ci stiamo organizzando per servire i taglieri con una scodella di polenta fumante. Piace a tutti, è appagante, credo che possa essere un’idea per uno spuntino o un aperitivo diverso dai soliti buffet o dalle classiche patatine e noccioline». Insomma Dolcefreddo Cafè vuole diventare un posto di piccoli piaceri per il palato.

«Continuo a lavorare sui jet come freelance, se sto un mese senza volare mi manca la terra sotto i piedi! – confessa Alessia -. Intanto ho però scelto di dare una mano alla mia famiglia in questo nuovo capitolo della nostra storia aziendale».

dolcefreddo-cafe-3Dolcefreddo Cafè

via Meucci, 2
Antegnate
tel. 0363 914240



Zuppe, due classici per le Feste

Le Feste sono qui ma c’è ancora chi non ha deciso cosa cucinare. Gli impegni sono tanti e trovare una ricetta che accontenti tutti è un’impresa quasi impossibile. Un piatto che può salvare è la zuppa. Sfiziosa, gustosa, facile da preparare, da qualche tempo è ritornata sulla tavola dei grandi chef come pietanza raffinata ed è di grande tendenza.

Le ricette sono infinite, da quelle classiche con le verdure, i legumi e i cereali come l’orzo e il farro, fino a quelle di pesce e carne o di tradizione orientale.

Per il menù di Natale o di capodanno noi vi proponiamo la zuppa di lenticchie e quella di pesce, perché sono buonissime e piacciono a (quasi) tutti. In pochi passaggi vi spieghiamo come realizzarle in modo impeccabile.

La Zuppa di lenticchie

zuppa-lenticchieLe lenticchie, simbolo di denaro e prosperità per l’anno in arrivo, sono un must nel menù delle Feste. La zuppa può essere proposta come primo piatto oppure come aperitivo: basta fare delle mini porzioni al bicchiere e il buffet sarà perfetto.

Si può scegliere tra le lenticchie grandi e quelle piccolissime, rosse, nere, verdi, ce n’è per tutti i gusti. Vista l’occasione importante, evitate le scorciatoie – pur utilissime – offerte dalle lenticchie già lessate e confezionate in barattoli che si trovano nei supermercati e dedicate al piatto un po’ di tempo e cura in più. Noi vi consigliamo le lenticchie di Castelluccio ma anche quelle di Altamaura e del Fucino sono buonissime.

Quale che sia la vostra scelta, ecco i procedimenti giusti per cucinarla.

L’ammollo

Le lenticchie hanno una buccia dura. Per ammorbidirle, il consiglio è di lasciarle in ammollo nell’acqua una notte intera. Questa operazione permetterà anche di eliminare le lenticchie non buone (le riconoscerete perché verranno a galla) ed eventuali impurità. Quando si mettono in ammollo aggiungere all’acqua un pezzetto di alga kombu, le lenticchie saranno più digeribili. Usata anche in cottura renderà la zuppa più saporita.

La cottura

Il giorno dopo, le lenticchie vanno lavate sotto acqua corrente e scolate molto bene. In una pentola di terracotta si fa un soffritto con un filo di olio, aglio, alloro e sedano e si aggiungono le lenticchie. Dopo pochi minuti si procede a bagnare con il brodo caldo facendo cuocere a fuoco basso per un’ora circa o comunque fino a che la cottura è perfetta e dalla zuppa emana un profumo intenso: alla vista la zuppa non deve apparire cremosa e le lenticchie devono essere integre. Quando è cotta va lasciata riposare per 10 minuti lontana dal fornello.

Attenzione a non salare subito l’acqua, perché il sale rende le lenticchie più dure. Il sale si aggiunge a pochi minuti dalla fine della cottura.

La presentazione

La zuppa si serve in ciotole di terracotta con extravergine d’oliva e delle fette di pane tostato. Attenzione: l’olio va aggiunto sempre a cottura ultimata e fornello spento. Se si è preparata la zuppa di lenticchie in anticipo, conviene prima riscaldarla, aggiungendo un mestolino di acqua, e condire solo dopo con sale ed olio.

L’abbinamento

Ideale un buon Frascati o il Malbec oppure una birra Ale.

La zuppa di pesce

zuppa-di-pesce-2Pur nella sua semplicità, la zuppa di pesce è uno dei piatti italiani più apprezzati nel mondo. Le ricette sono tantissime: c’è la versione toscana (cacciucco), quella adriatica (brodetto), quella delle regioni meridionali, quella ligure (buridda). Variano i nomi e le specie ittiche impiegate, ma il procedimento è più o meno lo stesso. Un mix di pesci di mare serviti su una fetta di pane imbevuta con salsa di pomodoro leggermente piccante e agliata. Per un’ottima zuppa di pesce occorrono aromi (aglio e peperoncino, anche in quantità moderata, sono assolutamente necessari), pomodoro e tante varietà di pesce: scorfano, gallinella, rana pescatrice, triglie, moscardini, seppie, gamberi, vongole e scampi. Il primo consiglio quando si è davanti al banco del pescivendolo è di non darsi alle spese pazze: il risultato della zuppa è eccellente anche con i cosiddetti pesci poveri.

La preparazione del pesce

Anche se il procedimento richiede più tempo, tutto il pesce va pulito, eviscerato e sfilettato. Se non si ha tempo o voglia, si può chiedere al pescivendolo di fare queste operazioni, ricordandosi però di farsi dare testa e lische. I molluschi vanno fatti aprire a parte, in una pentola senza condimenti. Poi si filtra l’acqua che rilasceranno e la si aggiunge al brodo, per arricchirne il sapore. Anche gli scarti scarti del pesce non vanno buttati ma utilizzati per preparare il brodo, che va passato e aggiunto poi al soffritto di cipolle, carote e sedano per far cuocere il pesce.

La cottura

La pentola perfetta per cucinare la zuppa di pesce è quella in coccio. Il pesce va cotto per pochi minuti e inserito nella zuppa in momenti diversi, mai insieme: prima quelli con carni più solide, poi quelli più teneri e delicati, per evitare che si sfaldino durante la cottura. Quindi, prima seppie e moscardini, dopo qualche minuto gallinella, scorfano e rana pescatrice. Poi triglie, molluschi e per ultimo crostacei. Basta avere pazienza e aggiungere il pesce in base ai tempi di cottura, per non ritrovarsi con un polpettone stracotto nel piatto (se siete al ristorante o ospiti da amici è il pesce è ridotto in poltiglia significa che la zuppa è stata riscaldata).
Lasciate cuocere il pesce nel suo vapore senza mai usare il mestolo. Fate attenzione a sfumare bene il vino, in modo che non resti un eccesso di acidità sul palato. Il soffritto si fa con aglio, carota, cipolla e sedano tritati con un filo d’olio extravergine.

La presentazione

Le zuppe si servono sempre calde con una spruzzata di prezzemolo fresco e del pane casereccio, anche raffermo. Per un sapore più deciso, dopo aver fatto scaldare il pane in forno lo si può sfregare con con dell’aglio. Per preparare i crostini si fa a pezzettini o listarelle il pane e si mette in forno per 10 minuti (si possono anche friggere ma la zuppa così diventa più calorica). Attenzione, il pane dev’essere abbrustolito molto bene per evitare che si spappoli subito a contatto con la parte liquida della zuppa. I crostini vanno posti sul fondo del piatto (come prevede la ricetta classica), in questo modo rendono la zuppa ancora più buona. Oppure serviti in una ciotola a parte.

L’abbinamento

Il vino ideale da abbinare alla zuppa di pesce è il Sauvignon. In alternativa una birra Porter o una Kolsch.

I segreti di una buona zuppa

Al di là delle singole ricette, ci sono consigli che valgono per tutte le zuppe. Perché – attenzione – la zuppa è un piatto semplice da cucinare, ma nasconde insidie ed è un attimo commettere errori che ne compromettono la bontà. Per realizzare una zuppa impeccabile basta seguire poche regole. Primo segreto il brodo, ma anche la selezione degli ingredienti è decisiva.

Fare il brodo in casa

Un brodo di buona qualità è il primo segreto e l’ingrediente indispensabile per fare una buona zuppa e senza dubbio quello fatto in casa è il migliore. A seconda degli ingredienti, si può preparare con la carne, con il pesce o con le verdure. In questo caso il consiglio è di arrostire prima per qualche minuto le verdure al forno, renderanno la zuppa più saporita.

Non introdurre tutti gli ingredienti nello stesso momento

Gli ingredienti di una zuppa richiedono diversi tempi di cottura. Le lenticchie, devono essere aggiunte all’inizio, mentre il pesce a seconda della varieta e consistenza.

Insaporire con le spezie

Utilizzando spezie, erbe aromatiche, concentrato di pomodoro si può ridurre la quantità di sale. Attenzione però a non esagerare con il piccante. Se avete messo troppe spezie, per attenuare l’eccesso di piccante, aggiungete una sostanza acida che ne annulli l’effetto come il limone, lo yogurt, l’ananas o l’aceto.

Non farla bollire

La zuppa non va fatta bollire, ma solo lentamente e cautamente sobbollire. Non è una pignoleria, solo con il controllo della temperatura si consente di rilasciare i sapori degli ingredienti, il che garantisce un ottimo risultato. Potete scegliere di lasciarla più liscia o renderla più corposa frullandone una parte a fine cottura.

Preparare brodo in abbondanza

Una zuppa troppo fitta è impresentabile. Cucinando una zuppa, gli ingredienti tenderanno ad assorbire il brodo, alcuni più di altri, quindi è consigliabile prepararne un po’ di più rispetto a quello preventivato.

zuppa-genericaSalare solo alla fine

Aspettate la fine della cottura, assaggiando prima e valutando il sapore. Se salate all’inizio della cottura, la zuppa risulterà troppo salata. Questo perché il brodo e gli altri ingredienti tendono a rilasciare i sali minerali e interpretano già il ruolo di “insaporitori”.

Attenzione alla temperatura dell’olio

Preparare gli ingredienti prima di aver messo l’olio in padella per evitare che l’olio si scaldi troppo. Se fuma significa che si è scaldato troppo con il risultato che avrà un sapore sgradevole e che può essere dannoso per la salute.

Il tocco finale

L’olio extravergine di oliva va sempre messo a freddo per completare il piatto.




A Medjugorje l’hotel che parla e cucina bergamasco

Venanzio Poloni
Venanzio Poloni

A Medjugorje, in una zona tranquilla immersa nel verde, c’è da qualche mese un hotel in cui si parla bergamasco. Si chiama Stella Maris e a gestirlo c’è un seriano che in fatto di ristorazione la sa lunga. Classe 1956, Venanzio Poloni è albergatore da oltre 30 anni ed è titolare dell’albergo Centrale di Fino del Monte. Negli ultimi 20 anni ha accompagnato tantissimi pullman di pellegrini come capogruppo in vari santuari mariani. Di qui l’idea di lasciare la Valle Seriana per la Bosnia Erzegovina, per stare più vicino alla Madonna e trasmettere agli altri, anche attraverso il lavoro di ristoratore, la sua testimonianza cristiana.

È alla guida dell’hotel Stella Maris a Medjugorje dallo scorso primo aprile e sta già riscuotendo parecchi consensi tra i clienti, non solo per la qualità delle camere ma anche per l’ottimo servizio di ristorazione. Qui Poloni offre infatti molti piatti tipici della tradizione orobica, dai Casoncelli fatti in casa al capù con carne trita e verza. C’è poi la trippa bergamasca, che all’albergo Centrale di Fino del Monte è un classico da gustare in ogni periodo dell’anno e così a Poloni è venuta naturale l’idea di proporla anche a Medjugorje. «È stata una bella sfida ma i clienti apprezzano – rileva -. Nel menù ho tante specialità della mia terra d’origine capaci di dare conforto non solo agli italiani ma anche a inglesi, tedeschi, francesi, spagnoli, portoghesi».

hotel-stella-maris MedjugorjeQuella di Venanzio è una storia di fede, viaggi e cucina che parte da lontano. La sua è una famiglia di albergatori e fin da bambino è cresciuto respirando il profumo confortante dei sughi, degli intingoli e dei ripieni preparati tra le mura domestiche. Ancora adolescente, ha iniziato ad accumulare esperienze in giro per il mondo. Dopo aver studiato l’inglese a Cambridge, è diventato prima cameriere di bordo a Montecarlo e poi caposala sulle navi da crociera americane con destinazione Polinesia, Alaska, Caraibi. Tornato a casa, è diventato titolare dell’albergo storico di famiglia nel cuore di Fino del Monte ma la devozione alla Vergine Maria è da sempre il suo primo pensiero. Così è nato il progetto di aprire un luogo di sosta e ristoro per i pellegrini di Medjugorje. Nell’ampia sala da pranzo dell’hotel, si vedono ogni giorno gruppi di fedeli che pranzano spensierati, condividendo lunghi tavoloni imbanditi di specialità.

pranzo-preghiera- hotel - stella-maris - medjugorjeL’atmosfera è calda, accogliente. Spesso qualcuno prende la chitarra e intona una canzone per rendere omaggio a Gesù, trasformando un momento conviviale in una vera e propria festa. «A Medjugorje senti proprio la presenza soprannaturale della Madonna che poi ti dà la forza di andare avanti nella tua quotidianità», spiega Poloni. La conversione di fede di quest’uomo semplice e spontaneo ha colpito anche la scrittrice clusonese Angela Grignani Scainelli che nel 2013 ha raccolto la testimonianza di Venanzio e l’ha trasformata in un libro dal titolo “A Medjugorje Dio ha Parlato al Mio Cuore” (Edizioni Paoline). In questo testo vivido e profondo trapela tutta la devozione di Poloni che ogni giorno, attraverso il suo lavoro e la sua fede, ama donare tempo e risorse al prossimo.




Paolo Riva, il creativo dei dolci

paolo-riva-prodotti-3Una décolleté rossa, l’intramontabile bauletto di Louis Vuitton custoditi in una teca trasparente. I capi che fanno impazzire le donne sono trasformati in dolci al cioccolato dalla creatività di Paolo Riva.

Sono passati tre anni dall’inaugurazione della pasticceria a Treviglio, raffinata per i colori provenzali ripresi nel marchio e familiare dagli inebrianti profumi che ti avvolgono. Oggi non è solo il locale preferito dai golosi ma, con i suoi dipendenti, passati da una decina a 24, si conferma un’azienda florida. Durante le feste continua la produzione, a ritmo serrato, dei panettoni: dal laboratorio artigianale ne escono tremila l’anno. Le varietà sono tredici: classico, cioccolato e noci, cioccolato e pere, cioccolato, marron glacé, albicocca, uvetta, frutti di bosco, veneziana, pandoro, vuoto, mandorlata e una prelibatezza, mela e scorze di limone candite che ricorda nell’aroma la torta della nonna.

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«A contare più di tutto è la materia prima – ci tiene a precisare Riva -. Da noi non si trova la pralineria industriale, ma prodotti con una durata più breve proprio perché contengono ingredienti freschissimi come la polpa di frutta, più gustosi e salutari perché senza oli raffinati, dunque con il 60-70 per cento di grassi in meno». A colpire la vista sono capolavori in formato mignon come i pasticcini, oltre a marmellate, gelato e 18 tipi di brioche, dalla sacher con marmellata di lamponi a quella al pistacchio.

paolo-riva-prodotti-1Anche se la passione di Paolo Riva è il cacao. Portano la sua firma i cioccolatini al caramello, rosmarino e nocciola, le “Paolline”, sfere di cioccolato bianco ripiene allo zabaione oppure le “Nocciole alla Paolo” tostate e caramellate con una spruzzata di cioccolato bianco e lampone essiccato, il pasticcino con marzapane, fondente e noce, le barrette di fondente fermentato con il frutto della passione o la banana.
Il biscotto più gettonato è il macaron, un amaretto morbido dentro, dalla crosta croccante. Per realizzarlo al meglio, l’imprenditore è volato in Francia per seguire un corso e oggi ne sforna di ogni gusto e colore. In bella mostra le torte: ci sono le bavaresi al cioccolato fondente, alle arachidi e cioccolato morbido, al frutto della passione, al lampone, la gelée di fragole ai frutti di bosco con due strati di savoiardo, la mousse ai tre cioccolati senza farina, “Alba” con le tipiche nocciole, la panna cotta al cioccolato biondo.

paolo-riva-prodotti-2«Il segreto consiste nell’essere caparbi, umili e nel saper rischiare, spesso le difficoltà sono la molla più grande – dice il maestro pasticcere -. Oggi c’è un’esigenza di apparire, meglio essere defilati, esprimendosi solo quando c’è un vero bisogno. E lavorare sodo: fino a pochi anni fa era da “sfigato” fare il pasticcere, oggi, complice la tv, c’è la fila di aspiranti». Nel locale si può anche pranzare con sfizi gastronomici, insalate, panini, focacce, oltre ad acquistare conserve, spalmabili e l’ottimo caffè della sua torrefazione. E assaggiare l’ultima nata, la torta “Neve”, dal nome della bambina di Riva e della compagna Elena: una base di biscotto morbido alle nocciole croccanti, con strati di mandorle, pere e cioccolato, cremoso al mascarpone e crema ganache montata al cioccolato biscotto.

Pasticceria Paolo Riva

viale De Gasperi, 14/E,
Treviglio
tel. 0363 305162
www.pasticceriapaoloriva.com



Trippa in barattolo, il take away nostrano della trattoria Moro

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Gianluigi Moro

Niente scatole di cartone, ma comodi vasetti di vetro da tenere in frigo. Sono gli originali contenitori scelti dalla trattoria Moro da Gigi di Albino per il proprio take away dal sapore nostrano.

Qui infatti piatti prelibati come gnocchi, sottaceti, casoncelli e biscotti non si gustano solo al tavolo ma si possono anche portare a casa. E da qualche tempo il titolare Gianluigi Moro ha pensato di travasare in barattolo persino la trippa per realizzarne una versione da asporto: «Da ottobre a maggio la trippa viene spesso inserita nel menù del giorno – spiega Moro –. La cottura e la preparazione sono lunghe e non sempre il piatto è di largo consumo. E così un paio di anni fa ho pensato di pastorizzarla e di travasarla in barattoli di vetro da portarsi a casa. Ogni vasetto contiene 7,5 etti di zuppa. Con soli 6 euro si ha una trippa in brodo per due persone. Tra gli ingredienti ci sono anche fagioli e carote che possono fermentare, quindi per conservare la trippa al meglio ho pensato di pastorizzarla. In questo modo può essere conservata in frigo per tre mesi. Tanti clienti la acquistano per avere la cena pronta, altri la regalano ai genitori anziani che magari non hanno occasione di venire al ristorante ma che hanno voglia di ritrovare i sapori antichi della loro giovinezza».

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