Tra Venezia e Chiasso brillano le “stelle” bergamasche

I cuochi in erba, sempre più di qualche anno fa, cercano di diversificare le proprie esperienze su vari tipi di cucine e così spesso si concedono trasferte fuori provincia (per non dire al di fuori dall’Italia) per crescere e capire meglio quali sono le opportunità che offre il mondo della ristorazione al giorno d’oggi. Magari giusto come apprendistato per poi lanciarsi in prima persona nell’apertura di un proprio ristorante. Ed è questo un processo naturale che va sicuramente oltre il difficile momento che vive l’economia del Mediterraneo o la volontà di guardare fuori dal proprio orto e che, in realtà è figlio dell’estrema facilità con la quale sempre più si viaggia e si ricercano nuove emozioni, o nuove fonti di ispirazioni diverse da quelle circoscritte a un unico territorio. Ne abbiamo parlato un paio di numeri fa con l’esempio di Francesca Parazzi, sous-chef del Marchal di Copenhagen, che, oltretutto, ha già lasciato il vecchio ristorante per aprire insieme al cuoco Christian Gadient il nuovissimo Spontum, sempre nella capitale danese. Un segnale inequivocabile di come tutto ormai accada più rapidamente e le opportunità per crescere, specie su piazze più dinamiche e meno tradizionaliste, siano all’ordine del giorno. Restando invece più vicini a casa, i bergamaschi d’asporto ai fornelli iniziano a diventare un piccolo e nutrito gruppo. Ma non solo, oltre a farsi le ossa, spesso si fanno notare per la bravura, per la dedizione al lavoro e per le capacità di fare gruppo.

Alba Rizzo (prima a destra) è chef al Venissa
Alba Rizzo (prima a destra) è chef al Venissa

E’ il caso, ad esempio, di Alba Rizzo, ventitreenne originaria di Verdellino che da neanche un mese rappresenta il 25% di un team affiatato e giovane, impegnato in quel di Venezia sull’Isola di Mazzorbo, nella cucina del ristorante Venissa (www.venissa.it). Alba, infatti, si occupa dei primi (soprattutto paste fresche e ripiene) in una brigata di quattro cuochi (caso forse unico al Mondo di un ristorante con un stella Michelin che mette in fila otto mani distribuite su antipasti, primi, secondi e dolci), nell’oasi di quiete creata qualche anno fa da Gianluca Bisol, uno dei più conosciuti produttori di prosecco. Qui ci si trova tra gli orti curati dai pensionati del luogo, circondati da bucolici paesaggi lagunari, con la vicinissima Burano a un tiro di schioppo visto che basta attraversare un ponte per raggiungerla, e la curiosità di una microproduzione di vino che vede qualche migliaio di bottiglie, il relax un po’ contadino oltre a una cucina di ispirazione decisamente local. Alba ha lasciato, almeno per ora, la campagna bergamasca dopo un lustro trascorso tra il Civico 17 a Ponteranica e la Braseria di Luca Brasi a Osio Sotto.

“Ed è stata una scelta meditata” dice ora “perché volevo mettermi alla prova e uscire dal guscio. Certo, questo non è il ristorante classico e turistico di Venezia. Lo si raggiunge con un po’ di fatica in mezz’ora di vaporetto e a Mazzorbo si è sempre un po’ isolati, ma forse è anche un vantaggio quello di non avere troppe distrazioni, almeno per me, così ho il tempo di pensare un po’, di ragionare sui piatti in modo di trovare con la giusta tranquillità la mia strada. Oltretutto sono finita a lavorare in un team giovane e spigliato, con altre due ragazze, una serba e una napoletana, e anche se io sono l’ultima arrivata il feeling è quello giusto. A Venissa mi occupo dei quattro primi, che di solito sono una pasta fresca, una secca, un risotto e uno gnocco, quasi sempre presenti nel menù”. Uno dei primi che Alba prepara è l’ottima pasta Verde Mare, con spaghetti Benedetto Cavalieri in salsa di zucchine e menta, con colatura e alici marinate cui si aggiunge un crumble di pinoli tostati.

Lasciando poi la laguna e avvicinandoci alla nostra provincia, Mauro Boroni invece, altro bergamasco doc, ha scelto la Svizzera, ed è diventato ormai da qualche tempo l’uomo di fiducia di Andrea Bertarini, cuoco stellato del ristorante Conca Bella di Vacallo, una frazione di Chiasso(www.concabella.ch). Forse è proprio questa la miglior cucina che si può incontrare oggi nel Canton Ticino, con i suoi piatti moderni e di grande fascino estetico, ma ricchi di sapore e che sanno affidarsi a un piglio rustico quando questo serve, vedi il caso dei Ravioli ripieni con capretto alle erbe, spugnole, mandorla e aglio nero, o dell’originalissimo Piccione di Bresse in doppia cottura, con rabarbaro e Campari.

Mauro Boroni
Mauro Boroni

Oltretutto approfittando di una cantina di tutto rispetto, riconosciuta come una delle meglio fornite in Svizzera e che, se non bastasse l’ottima cucina, da sola vale il viaggio. Il trentenne Boroni a dire il vero non è alla sua prima esperienza in un grande ristorante, visto che prima di passare al Conca Bella ha frequentato Aimo e Nadia a Milano e prima ancora ha seguito nelle sue scorribande Chicco Coria, sin dall’apertura della sua locanda Salvia e Rosmarino in quel di San Pellegrino Terme. Poi un altro bergamasco, Dario Ranza, altro orobico da esportazione e storico titolare della cucina dell’Hotel Villa Principe Leopoldo di Lugano da qualcosa come un quarto di secolo lo ha introdotto al Conca Bella. Ora, e almeno per i tre mesi estivi, Mauro Boroni ritorna al lago a spadellare sul rooftop del ristorante Panorama ospitato all’interno dello Swiss Diamond Hotel, dove si trasferisce temporaneamente la cucina del Conca Bella approfittando della bella stagione.




“Premiate trattorie italiane”, nel club entra anche la Visconti di Ambivere

Trattoria Visconti
Da sinistra: Alessandro Rota, Roberto e Daniele Caccia, Fiorella Visconti e Giorgio Caccia

La capacità di trasformarsi senza perdere la propria vocazione ha portato qualche settimana fa alla Trattoria Visconti un importante riconoscimento: l’ammissione all’associazione “Premiate trattorie italiane”, un sodalizio di osti dal Friuli alla Puglia legati da una filosofia comune, la salvaguardia delle tradizioni e lo sguardo al futuro. L’associazione è nata nel 2012 e raccoglie otto osti, premiati – di qui il nome – dal tempo, dalla storia e dalla clientela. Insomma, il gotha delle osterie italiane. Dopo essersi ritrovati per anni a incontri e premiazioni, serate gastronomiche e convivi, hanno deciso di dar vita a questa singolare associazione che ha lo scopo di innovare la tradizione e proiettarla nel futuro. La trattoria di Ambivere si aggiunge a insegne come Amerigo 1934 a Savigno (Bologna), Antica Trattoria del Gallo a Gaggiano (Milano), Antichi Sapori a Montegrosso di Andria (Barletta-Andria-Trani), Caffè la Crepa a Isola Dovarese (Cremona), La Brinca a Ne di Valgraveglia (Genova), Locanda Devetak a Savogna di Isonzo (Gorizia) e La Locandiera di Bernalda (Matera). I requisiti per diventare soci sono rigidi: forte identità gastronomica locale, prodotti poveri del posto, ricerca delle materie prime e del modo di lavorare, impegno a far conoscere il proprio territorio ai clienti. Un altro paletto fondamentale è il prezzo: per le Premiate Trattorie Italiane, un menù della tradizione composto da antipasto, primo, secondo, contorno, dolce, acqua e caffè non deve superare i 50 euro a persona. Per festeggiare il nuovo ingresso bergamasco, i premiati osti si riuniranno nell’annuale cena dell’associazione alla Trattoria Visconti. La cena si terrà lunedì 27 giugno e sarà realizzata, come di tradizione, a più mani da tutti i ristoratori del sodalizio. «Siamo molto felici di far parte di questo gruppo perché ci consente uno scambio di conoscenze con gli altri patron – commenta Daniele Caccia -. Spostandoci di pochi chilometri, abbiamo modo di assaggiare dei piatti diversi, modi di cucinare diversi. È un arricchimento prezioso». «Il nostro lavoro – aggiunge – rimane lo stesso di sempre, cucinare i piatti regionali o locali e valorizzare il nostro territorio. Ogni zona ha delle tradizioni uniche, l’importante che si continuino a cucinare e non vadano perse. È la filosofia dell’associazione che tutti noi condividiamo».

La tradizione si racconta anche sul web

Trattoria Visconti, dettagli
Trattoria Visconti, dettagli

Uno si immagina che le trattorie – quelle vere, che puntano sulla filiera e sul rispetto religioso per la cucina locale – siano l’ultimo baluardo/avamposto, il più tenace, delle tradizioni e quindi le realtà più lontane dall’innovazione. Non è così. L’Ascom, nel corso dell’ultima assemblea annuale, tenutasi poche settimane fa a Bergamo, ha scelto proprio un oste come esempio di imprenditore proiettato al futuro, tra tutti i patron di ristoranti del territorio. «La Trattoria Visconti di Ambivere ha dimostrato che anche il ristorante più legato al passato può aprirsi al futuro senza rinnegare la propria anima ha spiegato il direttore Oscar Fusini. La trattoria, aperta nel 1932, ha conservato lo spirito di un tempo, ma ha saputo cogliere le novità del mercato in evoluzione. Fiorella Visconti e Giorgio Caccia insieme ai figli Roberto e Daniele sono riusciti nella sfida, in apparenza impossibile, di conciliare tradizione e cambiamento. «La prima e vera innovazione – dice Daniele Caccia – è stato andare controcorrente nella proposta, preparare le ricette storiche della Bergamasca e della famiglia in risposta all’appiattimento dei sapori».

I piatti della tradizione e le ricette di bisnonna Ida negli ultimi anni sono state affiancate da un menù vegano. La cantina si è allargata dai vini blasonati, alle etichette più nuove sino alle birre. Al ristorante si è aggiunto un orto di erbe. Infine, l’innovazione più grande: la trattoria ha portato la sua tradizione in rete. Tre mesi fa ha fatto debuttare un nuovo sito web (il quinto), facilissimo da gestire. Grazie alla collaborazione con la start up bergamasca Onlime, infatti, le news del sito si aggiornano automaticamente dai post sulla pagina Facebook. Il sito web si propone come una vetrina del ristorante: dà la possibilità di entrare nel locale, pregustare i piatti, conoscere i volti di chi lavora in sala, in cucina, sapere delle novità di stagione, ma anche di prenotare e di regalare un cena con pochi click. «Ci mettiamo la faccia, indichiamo chi siamo e cosa facciamo» dice Caccia che avvisa: «Sul web occorre dare le informazioni che interessano di più, come orari, giorno di chiusura e soprattutto i prezzi. Noi facciamo i casoncelli con la ricetta della bisnonna Ida e diciamo che costano 10,50 euro. Chi va sul sito è contento di sapere quanto sono buoni, ma lo è ancora di più se sa quanto spende». Per ora il sito propone soprattutto testi e immagini ma la trattoria è decisa a puntare sui video «perché sono quelli che funzionano di più». Il filmato della patron Fiorella che prepara i casoncelli e spiega ingredienti e passaggi in dialetto bergamasco, con sottotitoli in italiano ha avuto un successo clamoroso ed è diventato presto virale registrando più di 30mila visualizzazione e 250 condivisioni.

 

 

 




Ebbene sì, siamo polentoni ma anche mangiamaccheroni

BlochCapita sovente che lungo i secoli una vivanda, pur mantenendosi pressoché inalterata nella sua morfologia, finisca per variare di denominazione, o che altresì la medesima voce culinaria passi di epoca in epoca a designare pietanze differenti. La pizza napoletana di cui nel cinquecento Bartolomeo Scappi forniva la ricetta ha per esempio ben poco a che vedere con il disco di pasta di pane spennellato di salsa di pomodoro – ai tempi dell’impareggiabile cuciniere pontificio peraltro ancora sconosciuta – che negli ultimi cento anni ha conquistato un successo planetario.  Si trattava piuttosto di una torta – invero piuttosto greve ai palati contemporanei – a base di frutta passa, mandorle e pinoli.

La più emblematica tra tutte queste trasmigrazioni gastronomico-lessicali è forse quella che ha interessato il maccherone. E’ ben noto che il vocabolo sia da un paio di secoli associato ad un celebre cannello di pasta, eletto a vessillo della cucina partenopea. Ma nei trattati di cucina del quattro/cinquecento, redatti entro gli elitari confini della gastronomia aristocratica, il termine individuava invece i formati che oggi si definirebbero spaghetti o fettuccine. E non sussiste dubbio che la denominazione dell’alimento e l’ispirazione che ne dettò l’ideazione fossero stati attinti da un’ancor più antica minestra asciutta della cucina popolaresca. Ad attestarlo è la testimonianza di una vera e propria autorità in materia – ed altrimenti non potrebbe essere, dato che si parla del massimo esponente del movimento poetico maccheronico del XVI secolo.

Chiosando Teofilo Folengo, il maccherone nelle sue vesti primitive era infatti uno gnocco impastato con sole farina ed acqua, con l’opzionale aggiunta di pangrattato. A rimarcarne i natali plebei, il letterato precisava si trattasse di un cibo grassum – in quanto grondante di burro fuso e generosamente asperso di cacio grattato -, rude et rusticanum. Della pietanza il Merlin Cocai ha persino consegnato ai posteri un’eloquente raffigurazione: una xilografia a corredo delle edizioni cinquecentesche delle Maccheronee ritrae invero il poeta nell’atto di essere imboccato da Zana – una delle strampalate muse dell’opera – con un panciuto boccone di pasta infilzato su uno stecco.

Fu sempre l’eccentrico cantore mantovano a certificare l’identità padana della vivanda, evidenziando gli stretti vincoli che la legavano al più iconico dei cibi del settentrione. Nel trattare del maccus, che dell’arcaico gnocco rappresentava tanto l’irrefutabile radice lessicale quanto la materia prima originaria, Folengo constatava che ai suoi giorni questo fosse ormai una farinata di semola di cereali, e chiaramente non più una pappa a base di fave alla moda degli antichi romani. Tra polenta tardo medievale e maccherone dei primordi corre dunque un distinguibile fil rouge..

Non sorprende che l’antico formato di pasta abbia lasciato profonde tracce nella tradizione culinaria bergamasca, sempre restia a dismettere gli usi del passato remoto. Nella media e nell’alta valle Seriana si preparano ancor oggi gli gnoch in còla, attenendosi pressoché letteralmente al procedimento codificato dal Merlin Cocai. Una singolare reinterpretazione dell’alimento figura inoltre all’alba dell’ottocento ne La nuovissima cucina economica di Vincenzo Agnoletti, celebre per aver ricoperto il ruolo di personal chef di Maria Luigia di Parma. E’ pur vero che i mondiotti alla bergamasca dell’illustre cuoco romano rechino chiaramente impresso, prevedendo l’utilizzo della pâte à choux nell’impasto e della besciamella nel condimento, l’inconfondibile marchio della cucina borghese d’oltralpe – ed oggi verrebbero più propriamente chiamati gnocchi alla parigina. Ciò nondimeno la ricetta non manca di segnalare quanto profondamente radicato fosse nel circondario orobico questo genere di pietanza.

Preme infine ripercorrere i rimbalzi tra differenti genie compiuti attraverso i secoli dall’epiteto di mangiamaccheroni, della cui ricostruzione siamo debitori al grande Emilio Sereni. E’ anzitutto assodato che, a partire dal XVIII secolo, il nomignolo sia di esclusiva spettanza dei napoletani. Ma in una commedia del cinquecento – La vedova (1569) di Giambattista Cini – è altresì un gentiluomo partenopeo a dare del manciamaccaroni ad un soldato siciliano, venendo da quest’ultimo contraccambiato con il titolo di manciafogghia. Ed in effetti proprio in Trinacria ebbe inizio, all’alba del basso medioevo, la produzione industriale di paste alimentari, quando invece Napoli andava famosa per le sue verdure. Grazie a Teofilo Folengo sappiamo comunque che le prime orme di un divoratore di maccheroni siano state quelle lasciate, ancor più anticamente che in Sicilia, da qualche nostro avo sul ferace suolo della valle Padana. Polentoni, certo, ma al tempo stesso pure mangiamaccheroni.




Numero uno al mondo, Bottura: «È la cultura l’ingrediente principale in cucina»

Massimo Bottura durante lo showcooking del settembre scorso a Bergamo
Massimo Bottura durante lo showcoking del settembre scorso a Bergamo

La cucina di Massimo Bottura è la migliore del mondo. Già numero due nella classifica “50 Best Restaurant”, l’Osteria Francescana dello chef modenese è ora salita sulla vetta del prestigioso premio della rivista inglese Restaurant Magazine, arbitro e guida del gusto internazionale al pari delle stelle Michelin. Bottura è stato votato da un panel di oltre mille esperti di gastronomia di tutto il mondo e incoronato vincitore nell’evento in scena questa notte nel lussuoso Cipriani Wall Street di New York. Ha scalzato dal vertice i fratelli Roca di El Celler de Can Roca, di Girona, mentre al terzo posto si è piazzato l’Eleven Madison Park di New York.

Il risultato rilancia ad altissimo livello la cucina italiana, che ha ottenuto anche il 17esimo posto con il ristorante Piazza Duomo di Enrico Crippa ad Alba, il 39simo con Le Calandre degli Alajmo a Rubano e il 46esimo con il Combal Zero di Rivoli, di Davide Scabin, new entry nella graduatoria.

«Il miglior ingrediente per il futuro è la cultura. La cultura porta conoscenza e apre consapevolezza». Queste tra le prime ed emozionate parole del nuovo “numero uno”. Un concetto che gli è caro e che aveva avuto modo di illustrare anche nell’intervista rilasciata ad Affari di Gola nel 2010. Ve la riproponiamo.

 

«È la cultura l’ingrediente principale in cucina»

di Roberta Martinelli (da Affari di Gola, maggio 2010)

È nella top ten dei migliori ristoranti al mondo. Come si sente?

«È una soddisfazione ma anche una grande responsabilità. Quando si vince un premio devi immediatamente pensare al futuro, tornare a casa e reinvestire. Subito provi un sentimento di gioia poi pensi agli eventi che devi fare, ai clienti che fanno centinaia di chilometri per venire da noi e ti rendi conto che dovrai cercare di rimanere al ristorante il più possibile per cucinare, poi salutare, poi ringraziare. Ringraziare è una parola fondamentale per noi chef. Prima bisogna ristorare, poi far passare dei bei momenti agli ospiti».

Come si arriva a un riconoscimento così importante?

«È il risultato di un lavoro di squadra, di un lavoro giorno dopo giorno, testa bassa, tanta umiltà e 10% di talento come diceva Picasso».

Qual è l’ingrediente più importante in cucina?

«Il pensiero, la tua cultura. È l’ingrediente che non puoi comprare. Per la tecnica puoi avere il più grande tagliatore del mondo, per la materia prima il miglior parmigiano ma il tuo pensiero è unico e irripetibile. Cucinare significa trasmettere attraverso la tua passione emozioni. Ai giovani lo dico sempre: studiate, studiate, più studi e più approfondisci i tuoi interessi».

Quali sono i piatti che più la rappresentano?

«Piatti che stiamo pensando e che saranno in carta nel futuro: la patata in attesa di diventare tartufo, l’insalata di pollo che non c’è, la zuppa di rottura di confine tra il dolce e il salato, con piselli e asparagi».

C’è una definizione giusta per la sua cucina?

«È una cucina moderna, attuale, che vive il presente. Una cucina in evoluzione, che prende il meglio della materia prima e la trasforma con grande rispetto».

Cosa significa fare avanguardia in cucina?

«Per fare l’avanguardia non puoi criticare, devi conoscere tutto, dimenticare e creare dal nuovo. I cuochi che non interpretano musica scritta da altri e la suonano loro sono chef d’autore».

C’è un limite a quanto si può far pagare un piatto o una cena?

«Ci sono ristoranti nei quali si spendono 700/800 euro che devono chiudere perché hanno spese troppo alte e altri che hanno prezzi più bassi, 20 coperti e poco personale che fanno altrettanta fatica. Anche chi cerca di tenere prezzi contenuti deve sempre fare i conti con ciò che è il costo del personale: il costo dato dai ragazzi che sacrificano la loro vita, perché credono nell’avanguardia. Poi è logico non esagerare, stare attenti al mondo che sta cambiando».

Dove sta andando la cucina italiana?

«Al massimo del livello. Solo noi in Italia forse non abbiamo capito che questa nuova cucina è formata da un gruppo solido di gente che si rispetta, di cuochi che stanno portando la ristorazione italiana ai vertici assoluti. Dobbiamo solo riuscire a fare sistema, avere appoggio istituzionale».

Conosce la cucina bergamasca? E i nostri ristoratori?

«Apprezzo molto i fratelli Cerea».

Ora che è considerato tra i migliori chef al mondo non si monterà la testa?

«Non credo. Odio l’arroganza. Se mi chiede quale materia prima ho cucinato le rispondo l’arroganza di certi cuochi che abbiamo cucinato e servito».

Cosa c’è nel futuro di Bottura?

«Sempre il futuro».

 

A Bergamo lo chef c’era stato invece nel settembre scorso nella speciale edizione di GourmArte in occasione dell’Expo tra la Domus Bergamo di piazza Dante e il Balzer. Ecco cosa aveva preparato e la galleria dell’evento

 




Funghi dai fondi di caffè, un kit per produrli in casa

FungoBox_kit-fai-da-te-02Altro che basilico, timo e salvia. La cucina si può arricchire anche di funghi fai da te grazie al progetto dell’impresa sociale Upcycle Italia, che ha realizzato un kit che permette di coltivare in casa funghi buoni e sostenibili partendo dai fondi di caffè esausti.

Si chiama Fungo Box ed è un emblema di quell’economia circolare secondo la quale ogni innovazione e produzione deve essere pensata sempre all’interno di un ecosistema in cui gli scarti diventano risorse.

Tutto è iniziato da un cestino che per sei mesi ha raccolto i fondi esausti di migliaia di caffè preparati nel bar Lavazza del Padiglione Italia di Expo: 1.500 kg di fondi di caffè esausti sono stati recuperati da Amsa, portati in Cascina Flora, nel comune milanese di Locate Triulzi, e trasformati dai ragazzi di Upcycle Italia in fertile terriccio, producendo 150 kg di funghi.

Il progetto è stato raccontato all’interno del Sustainability Hub di Lavazza e Novamont presso Cascina Cuccagna, a Milano, riscuotendo un grande interesse di pubblico e stampa e nuovamente alla fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili “Fa’ la cosa giusta”.

Ma come funziona il kit? Una volta aperta la busta sottovuoto contenente il composto di caffè, cellulosa e micelio, basta riporla nuovamente nella confezione in cartone riciclato e inciderla lungo le linee tratteggiate. Si fa riposare Fungo Box una notte in frigorifero, poi lo si annaffia e si aspetta. Dopo circa 2 settimane i primi funghi fatti in casa saranno pronti per essere colti e mangiati.

«Il nostro scopo è quello di aiutare le città e gli individui a coltivare, vivere, pensare in modo più sostenibile e… circolare – spiegano gli ideatori -. Per questo, abbiamo individuato nella polvere di caffè usato un rifiuto molto interessante in quanto particolarmente ricco (contiene ancora il 99,8% dei componenti nutritivi del caffè) e perché l’altissima temperatura dell’acqua delle macchinette lo ha sterilizzato e reso “pulito”. Ogni giorno recuperiamo il caffè usato e lo trasformiamo in terreno di coltura. Abbiamo poi selezionato diverse tipologie di funghi commestibili in grado di crescere su una base di caffè esausto, tra questi i famosi funghi Ostrica, o Pleurotus, che noi commercializziamo sotto forma di kit: Fungo Box. Dopo la produzione e il raccolto dei funghi, il terriccio ciò che resta diventa un eccellente ammendante per il terreno e quindi una nuova risorsa per rigenerare il suolo dell’agricoltura peri-urbana».

I funghi in box sarebbero anche di una qualità migliore rispetto a quelli coltivati secondo metodologie standard ed hanno già strizzato l’occhio a chef e foodblogger.




L’Ais di Bergamo accende i riflettori sui vini austriaci

 

vini austriaciLa delegazione dell’Ais di Bergamo organizza, per il 15 giugno, una serata dedicata ai vini austriaci. Relatore Nicola Bonera. L’appuntamento è fissato per le 20,45 all’hotel Settecento di Presezzo. I Celti furono i primi a coltivare la vite in questa zona nel ‘500 a.C. Poi vi si dedicarono anche i Romani, precisamente, nell’impero di Noricum e Pannonia situati nella zona sud orientale, dell’attuale Austria. Nel Medioevo poi, la fama di questi vini raggiunse livelli inaspettati e questi divennero tra i prodotti più esportati nel mondo allora conosciuto ed organizzato a livello commerciale. Durante le guerre napoleoniche, però, questi vigneti subirono ingenti danni e la viticoltura riprese, a livello qualitativo, solo molti anni dopo. Nel 1860, a Klosterneubourg, venne fondata la prima scuola di viticoltura, enologia, sperimentazione e ricerca botanica. Attualmente in Austria vige un disciplinare di produzione estremamente restrittivo. Anzi, è il disciplinare più restrittivo d’Europa. Le zone vitivinicole – paesaggi di estrema bellezza – sono la Bassa Austria, considerata anche la più importante con i suoi famosissimi distretti Donauland- Carnuntum, Kamptal-Donauland, Thermenregion, Wachau, Weinviertel, dove fra le ripide colline spesso assolate e cullati da brezze perenni, vengono elevati alcuni fra i più grandi vitigni autoctoni al mondo; Grüner Veltliner, Riesling, Welschriesling, Weissburgunder. Uve che danno vini dai sentori terziari, franchi, unici ed infinitamente persistenti. Ancora la terra di Burgeland, famosissima soprattutto per i suoi passiti e per Traminer e Fourmint, oltre ai già citati Welschriesling e Weissburgunder ed altrettanto ancora per il suo lago, attorno alle cui sponde, si elaborano vini di estrema eleganza ed importantissima persistenza; la Stiria, nota per il Morillon, clone dello Chardonnay, il Trainer, ed ancor di più per il grandissimo Sauvignon Blanc qui coltivato. Infine la zona di Vienna, che non solo dell’Austria è la capitale, ma che è anche un importante terra di produzione vitivinicola. Scoprire quale sarà, o meglio, quali saranno le zone ed i vini di rara eleganza e reperibilità degustati, sarà l’obiettivo dei partecipanti, sia per riflettere che eventualmente per permettere future tappe conoscitive sull”Europa vitivinicola centrale. Sei i vini in degustazione e un piatto finale in abbinamento. Il costo è di 55 euro per i soci  e di 68 per i non soci.

Info e prenotazioni: Roberta Agnelli | roberta.agnelli@aislombardia.it – 3477321538; Luigi Mascheretti -| mascherettiluigi@libero.it – 3492676432.

 




Arlecchino, da mezzo secolo protagonista della ristorazione bergamasca

C’è aria di festa al ristorante-pizzeria Arlecchino di Bergamo. Il locale di piazza Sant’Anna, indirizzo storico della ristorazione orobica che ha ospitato generazioni di bergamaschi, domenica spegnerà 49 candeline e segnerà una altra tappa del suo cammino fatto di cibo e ospitalità. L’anniversario è importante due volte perché coincide con la storia della pizza a Bergamo.

Il segreto di tanta longevità sta in una formula che, nonostante sia passato quasi mezzo secolo, non è mai cambiata. Il sorriso che ti accoglie ogni volta che vai, l’accoglienza mai artefatta, il tono famigliare e la cucina semplice e essenziale che si fa valore.

A Bergamo “l’Arlecchino” lo conoscono tutti, ci sono passate generazioni di bergamaschi: ragazzi, famiglie, politici, sportivi, professionisti, attori.

La storia inizia il 12 giugno 1967 quando Franco Previtali, insieme all’amico e collega Orazio Lazzari aprono il loro ristorante. Franco ha 23 anni, è la prima pizzeria gestita da bergamaschi in città e ad aiutarli ci sono le mogli, Emilia e Lucia.

Originario di Bianzano, Franco, classe ’43, energia, simpatia e piglio deciso, ha una preparazione poliedrica: ha imparato il mestiere sul campo, al forno delle pizze, al bar, in cucina, in sala, in gelateria. Prima di aprire il ristorante lavora al Pianone, al Dell’Angelo in via Borgo Santa Caterina e alla Marianna, dove conosce il futuro socio. Sono anni d’oro, quelli, e giorno dopo giorno Franco intreccia la vita con la cucina senza mai perdere di vista l’unica cosa che per lui conta davvero: «far stare bene la gente».

Franco Previtali
Franco Previtali

Altri tempi, anche se l’idea di convivialità è rimasta la stessa. Franco Previtali è stato uno dei primi bergamaschi a credere nelle potenzialità della pizza. L’intuizione di far scoprire ai bergamaschi questo piatto e, anni dopo, la decisione di proporre tra i primi il piatto unico, segna la storia del locale trasformandolo in pochi anni in uno degli indirizzi più apprezzati da chi ama la buona pizza e la buona cucina.

Il sodalizio con Orazio Lazzari dura 29  anni. Dal ‘96, dopo la scomparsa del socio, Franco conduce il ristorante affiancato dalle figlie Enrica, Francesca e Patrizia e dal genero Gianfranco Rotini. Nel 2007, a suggellare l’impegno di 40 anni di attività, arriva il “Riconoscimento al lavoro per il progresso economico” da parte della Camera di Commercio.

Oggi come un tempo l’anima del locale rimane Franco e l’Arlecchino è uno dei punti fermi della ristorazione bergamasca. Un porto sicuro per chi vuole mangiare bene. La simpatia e la professionalità del patron e dei suoi collaboratori sono in parte il segreto del successo dell’Arlecchino. Molti dei dipendenti sono qui da oltre vent’anni, come lo chef Tiziano, il pizzaiolo Domenico detto Baffo e Rosario e Battista, impeccabili in sala.

Il resto lo fanno la semplicità, l’entusiasmo, la volontà oggi come ieri di accogliere al meglio i clienti e i piatti “storici”:  l’insalata esotica, le zuppe, la cassoeula, la ribollita, il fagotto, farcito di mozzarella, prosciutto crudo, pancetta e peperoncino rosso, e le pizze: Arlecchino con carciofi, bresaola, quartirolo, radicchio rosso e mozzarella e Lambada a base bianca con mozzarella, cipolle rosse, peperoncino e pancetta.




Dai “cjarsons” un modello di promozione per il casoncello

CabiaQuella di cui l’amena Sutrio ha da poco ospitato la terza edizione rappresenta, a giudizio di chi scrive, una tra le più riuscite ed originali manifestazioni enogastronomiche dell’intera Penisola. In essa dieci contrade della Carnia propongono annualmente, in una tenzone dall’afflato più propositivo che competitivo, altrettante declinazioni borgherecce dei cjarsons – i celebri tortelli friulani lontanamente imparentati con i nostri casoncelli. Provare a tratteggiare un profilo coerente della pietanza, nella molteplicità delle sue versioni, risulta decisamente arduo: si tratta di un raviolo dal ripieno non carneo, usualmente a base di ricotta o di patate, avviluppato in una sfoglia piuttosto grezza ottenuta impastando sole farina ed acqua.

Tra le note aromatiche della farcia prevalgono quelle della melissa, ed una quasi onnipresente tendenza dolce apportata dalla frutta – tanto fresca (pere, come nel raviolo bergamasco) che secca, candita o in confettura. Le interpretazioni più ardite si spingono sino ad azzardare l’inclusione del cioccolato fondente, del rum e del vermut. Il condimento – quello invece sì – è uguale per tutti: burro fuso ed una grattugiata di scuete fumade (ricotta affumicata). A margine del percorso gastronomico, graduato per impatto gustativo delle pietanze, è proposta una serie di abbinamenti enoici regionali che regalano gemme quali il Friulano di Robert Princic o il Sauvignon di Graziano Specogna. Gli organizzatori preavvisano che si tratta di “assaggi”, ma le dosi, in un circondario dalla proverbiale devozione a Bacco, non sono certo da avvinamento dei calici come in troppe degustazioni d’oggi.

I Cjarsons
I Cjarsons

La manifestazione, che richiama migliaia di appassionati anche d’oltreconfine, ha l’indiscutibile merito di aver contribuito a fissare le variazioni locali sul tema del cjarson preservandole da un altrimenti irrimediabile caduta nell’oblio. Un analogo sforzo andrebbe a mio avviso compiuto con riguardo al tortello bergamasco, prodigo di secolari interpretazioni paesane – se non addirittura familiari – che rischiano di svaporare schiacciate dall’inflessibilità dei disciplinari. Sogno ad occhi aperti di poter un giorno addentare, per le vie di Città Alta, un casoncello alla moda antica – quello, per intenderci, con la farcia a base di pere spadone, amaretti, mandorle e cedro candito –  magari accompagnato ad un calice di Moscato di Scanzo. A quando anche a Bergamo una rassegna come quella di Sutrio?

                                                               




Otus, il birrificio raddoppia e lancia nuove etichette

Da sinistra, Anna Cremonesi, Ruben Agazzi, Alessandro Reali e Ivano Magri
Da sinistra, Anna Cremonesi, Ruben Agazzi, Alessandro Reali e Ivano Magri

Ormai appare chiaro quanto il panorama del settore inerente alla produzione di birra sia mutato nel giro di un decennio e del peso che hanno assunto i birrifici artigianali nel contesto italiano, pur non minacciando in maniera concorrenziale il terreno della produzione industriale, per differenze rilevanti a livello quantitativo e qualitativo, commerciale e distributivo.

La produzione artigianale ha però di fatto conferito un fascino particolare al mondo della birra, apportando creatività e innovazione. Su questo terreno il Birrificio Otus di Seriate si è instradato a partire dal 2015, anno di inizio della produzione, con la chiara scelta di posizionarsi nel mercato di rilievo. 

«Nell’ ambito dei prodotti brassicoli artigianali – afferma Ruben Agazzi, consigliere delegato del birrificio – oggi si incontra un mondo molto variegato, che spesso genera anche confusione. Per il consumatore medio non è certamente semplice riuscire a comprendere e, di conseguenza, a scegliere. Spesso, inoltre, si incorre in prodotti che subiscono variazioni significative. La ricerca della qualità di Otus è invece costante in tutto il processo produttivo, a partire dalle materie prime e dall’uso dell’acqua. La qualità autentica nasce infatti dalle migliori materie prime e dall’artigianalità, che significa tecniche antiche, gesti misurati e un’infinita passione per la creazione di prodotti unici, con ingredienti e procedure naturali».

«Da qui la scelta di collocare il birrificio a Seriate, per riprendere la tradizione della produzione di birra sul territorio, che risale al XIX – aggiunge Anna Cremonesi, vice presidente Otus -. Qui l’acqua, vista la leggerezza, è ideale per la produzione del “pane liquido”. Grazie, poi, alle alleanze strategiche, prendiamo il meglio degli ingredienti per trasformarli in birra artigianale d’eccellenza. La maestria, che l’immagine del gufo sapiente ha fin da subito richiamato, è infine sintetizzata nel lavoro preciso e competente del birraio, Alessandro Reali».

Laureato all’Università di Agraria di Milano, Reali è oggi il cuore pulsante della produzione Otus: «Ho lavorato diversi anni all’estero, potendo provare sul campo la preparazione teorica universitaria e acquisire ulteriormente le competenze specifiche che solo l’esperienza diretta può insegnare. L’intenzione è di creare birre diverse, con forte personalità ma uguali a se stesse in modo da guidare il consumatore verso una maggiore consapevolezza e conoscenza della varietà sensoriale e gustativa che il modo della birra offre».

otus - pils produzione

Per Otus il 2016 è un anno laborioso dal punto di vista degli investimenti produttivi, verrà infatti più che raddoppiata la capacità di produzione e saranno prodotte tre nuove tipologie. La prima ad essere immessa sul mercato è una lager chiara, mentre a giugno vedrà la luce una birra bianca “Side B” Blanche. Poi la gamma sarà arricchita con una Season. «Pils al quadrato, questo è il nome che abbiamo voluto darle. È una birra a bassa fermentazione – continua Cremonesi – ad ispirazione tedesco-ceca, fatta come sempre a modo nostro con luppoli continentali ed oceanici. I profumi floreali, speziati dei luppoli e i toni dolci dei malti ci preparano a una birra di estrema scorrevolezza e aromaticità. L’acqua povera in sali, il suo taglio secco e una punta di amaro, ne fanno una birra per tutte le occasioni e per tutti i gusti». La Blanche invece abbiamo deciso di chiamarla Side B e sarà la nostra interpretazione di uno stile nato in Belgio: il frumento coltivato a Km zero dona pienezza e una nota acidula mentre le spezie utilizzate donano note floreali, agrumate e fruttate. Il lievito utilizzato completa il bouquet con richiami di vaniglia e frutta. Nonostante la complessità aromatica, la birra che ne deriva è rinfrescante e facilissima da bere. Una birra proprio per la stagione estiva alle porte!».




Kanton, a Capriate il cinese che non t’aspetti

Kanton - Capriate San Gervasio - i titolari Weikun e la moglie Meiling
Weikun Zhu e la moglie Meiling

Tra i tanti ristoranti orientali che ormai propongono una cucina standardizzata, iperscontata (con la formula dell’all you can eat) e con l’utilizzo di materie prime non sempre ineccepibili sotto il profilo qualitativo, capita anche di incontrare degli indirizzi che, invece, è bene segnare sul proprio taccuino. Ed è il caso del Kanton a Capriate San Gervasio (al civico 17 di via Gramsci), a due passi dalla provincia milanese e inaugurato un paio di anni fa sulle ceneri di una pizzeria che aveva lo stesso nome e che a sua volta aveva rimpiazzato un altro ristorante anche esso orientale e chiamato Il Giardino di Giada.

La proprietà, ai tempi, era della famiglia Zhu, originaria della Cina, e lo è ancora oggi, ma vede farsi avanti prepotentemente la nuova generazione di giovani ristoratori, con il trentenne Weikun e la moglie Meiling a gestire un team affabile e ben preparato, capace di dare una svolta definitiva sia all’ambiente che alla cucina. Il locale ha subito un restyling e il Kanton gode ora di una sala moderna e di un arredo che unisce intuizioni zen a un design contemporaneo, ma è soprattutto la proposta al tavolo ad aver spiccato il volo.

Scordatevi sushi e sashimi o piatti che ormai figurano in ogni rappresentazione gastronomica dell’Oriente (vedi gli onnipresenti involtini primavera), perché qui si entra a contatto con la cucina cinese più autentica, che pesca nella tradizione cantonese con qualche deriva nella regione del Sichuan (e le differenze non mancano, visto che nel Sichuan i sapori sono più decisi e speziati), ma sempre attualizzata e vicina allo stile e alle indicazioni della cucina contemporanea. Marinature, affumicature, preparazioni al vapore, l’utilizzo dell’aceto di riso, le acidità che si mescolano a dolcezze.

kanton - salaLa cucina del Kanton è una scoperta e una sfida del palato, perché presuppone un impegno da parte dell’ospite che vuole entrare in contatto con un mondo forse in buona parte ancora sconosciuto. Per fortuna ci pensa il titolare Weikun, che si divide tra sala e cucina (dove i cuochi arrivano tutti dalla Cina) e spiega con dovizia di particolari e in un italiano perfetto (lui è arrivato a Capriate quando aveva 14 anni e non si è più mosso) la filosofia di ogni piatto, i richiami alla tradizione, il giusto abbinamento con un tè o con un vino e indirizza verso i sapori che si stanno per sperimentare in bocca.

Kanton - Capriate San Gervasio - piatto«All’inizio non è stato semplice – dice Weikun – perché la clientela italiana non era abituata a spingersi verso nuove esplorazioni gustative, ma dopo poco tempo ha subito prevalso la curiosità, la voglia di conoscere meglio la millenaria tradizione della cucina cinese e così al Kanton si vedono soprattutto italiani, oltre a qualche orientale di passaggio che vuole sentirsi a casa».

Il menù prevede, tra gli altri, curiosità come la Medusa (proveniente dalla Malesia) con funghi Jinzen e salsa Saoxin, la Mazzancolla scottata e all’aroma fiorito (con una salsa di menta e pugne cinesi), i classici Dim Sum con la Polpetta in crosta di patate e funghi o i Cannelloni sbagliati (preparati con la sfoglia di riso), ma anche il Ramen in brodo di manzo, il Filetto di branzino affumicato, l’Ombrina (arriva dalla Cina, è essiccata e poi viene reidratata come per lo stoccafisso), l’Anatra laccata e il delizioso Pollo croccante con basilico d’Oriente, aceto di Xi-an e olio di sesamo.

Nel futuro, secondo i progetti a lunga scadenza di Weikun, c’è anche l’idea di aprire un secondo indirizzo sul capoluogo lombardo, ma prima ancora la volontà è quella di rendere il menù del ristorante a Capriate sempre più dinamico e vario.

Kanton - Capriate San Gervasio - lo staffKanton Chinese Restaurant

via Gramsci, 17
Capriate San Gervasio
tel. 02 90962671
chiuso il lunedì
www.kantonrestaurant.it