Chef, a Milano di scena sette stelle internazionali

Per catapultarsi nei sapori e nelle atmosfere dell’alta cucina internazionale può bastare una trasferta a Milano. Da gennaio torna infatti al Bulgari Hotel, in zona Montanapoleone, Epicurea, esclusivo festival culinario giunto alla terza edizione, organizzato dall’hotel e dal suo executive Roberto Di Pinto e ormai diventato un appuntamento fisso della scena gastronomica.

Sette famosi chef, selezionati dal food curator Andrea Petrini, si succederanno ai fornelli per un viaggio tra i sapori e le fragranze delle migliori cucine del mondo.

David Thompson del Nahm di Bangkok
David Thompson del Nahm di Bangkok

Si comincia il 12 e 13 gennaio con David Thompson del Nahm di Bangkok, chef australiano maestro della cucina Thai che ha portato il ristorante al settimo posto della classifica degli Asia’s top 50. Il 16 e 17 febbraio arriva il giovane portoghese Leonardo Pereira, dall’Arejas do Seixto vicino a Lisbona, cresciuto alla scuola di Redzepi e in procinto di aprire un proprio locale a Oporto. A marzo (15 e 16) è la volta di Dominique Crenn (Atelier Crenn, San Francisco) la prima chef donna ad aver ottenuto due stelle Michelin negli Stati Uniti, capace di combinare i sapori intensi della cucina francese con le suggestioni della West Coast.

Si sale ancor di più in graduatoria con le tre stelle di Yannick Alleno dal Pavillon Ledoyen di Parigi (il 26 e 27 aprile), mentre il 17 e 18 maggio tocca ad un altro discepolo di Redzepi, Matt Orlando che da New York si è trasferito a Copenhagen e al ristorante Amass si è guadagnato una stella. Ci sarà spazio anche per chi in Australia ha tratto ispirazione dalla cucina aborigena per dare vita ad una filosofia e ad uno stile unici, lo scozzese Jock Zonfrillo dell’Orana di Adelaide, in programma il 14 e 15 giugno. La chiusura, ad ottobre, sarà affidata a Luca Fantin del Bulgari Restaurant di Tokio, una stella Michelin e miglior che italiano nel mondo per il 2015 secondo Identità Golose.




Artisan Café, il locale fatto in casa che punta su tapas e drink

Concept moderno, mobili d’ artigianato, drink originali preparati con mestiere, tapas, bevande e piatti vegani e uno spazio per eventi, riunioni, meeting, cene aziendali, corsi, ma soprattutto per laboratori destinati ai bambini. Stefano De Gaspari e la moglie Martina Mafezzoni, in via San Bernardino 53, a Bergamo hanno creato un locale all’avanguardia in tutti i sensi, che punta a tutto tondo sul “fatto in casa”.

Non a caso l’hanno chiamato Artisan Cafè, dove artisan sta per artigiano. Insieme hanno studiato e realizzato gli arredi, impiegando legni riciclati, bancali, ferro e cemento, recuperando divani e poltrone vintage in sala e stoviglie e bicchieri nei mercatini d’antiquariato. Stefano ha portato nel nuovo locale la sua passione per i mobili di design (particolarissime le sedie anni Settanta rivestite con manicotti antincendio o cinture di sicurezza e le lampade lavorate con tubi idraulici zincati a forma di omini e dinosauri) e il risultato è un bar bello, intimo e accogliente, un po’ nordico.

«Volevamo creare un nuovo concetto di locale – dice Stefano – un bar diurno dove gustare la colazione o il pranzo in compagnia in un ambiente caldo, ma anche uno spazio polifunzionale per ospitare feste e attività, e la sera un luogo per degustare cocktail particolari e di tendenza accompagnati da tapas».

A poche settimane dall’apertura, il locale, che ha preso il posto del Caffè Letterario, è già conosciuto e apprezzato da una clientela composta per lo più da professionisti e persone di passaggio in cerca di una pausa diversa e di qualità. Malgrado l’età, 39 anni lui, 36 lei, Stefano e Martina sono veterani del settore: nel 2004 hanno aperto lo Tsunami, primo sushi-bar della città, e nel 2008 la Cafeteria di Treviolo, ristorante e lounge bar molto frequentato dagli studenti.

Il loro nuovo locale è articolato in 97 metri quadrati di bar e 200 metri quadrati polivalenti. L’offerta food&beverage copre tutto il giorno ma si caratterizza soprattutto per la pausa aperitivo: cocktail anni Trenta rivisitati, infusi alcolici di gin, bitter e sciroppi aromatizzati preparati da loro. «I più richiesti – dice Martina – sono il Montegani a base di gin, bitter al cardamomo, sciroppo allo zenzero e spremuta di pompelmo; l’Honeyescape, brandy, sciroppo al miele, spremuta di arancia e bitter alla cannella; e il White Spritz rivisitazione personale dello Spritz, preparato con Biancosarti, Saint Germain, sciroppo al rosmarino e vino bianco». In accompagnamento, le tapas che spaziano dai sapori italiani alle novità dello street food e sono tutte preparate al momento. «Non ci piace il concetto dell’apericena – spiega Martina – l’aperitivo deve essere un aperitivo, inoltre odiamo gli sprechi. Abbiamo applicato il concetto di eticità al nostro cibo e proponiamo piattini diversi così le persone possono scegliere cosa e quanto mangiare e come e quanto spendere. Perché le tapas? Secondo noi, sono il giusto mezzo dell’aperitivo».

Il progetto Artisan non si ferma qui. Nel 2016 verranno inaugurati uno shop d’artigianato e un pagina di shopping online.

 




Birrai emergenti, l’Hop Skin di Curno in lizza per il titolo

bittificio Hop Skin - Curno - Gioia Ravasio e Paolo Algeri - rit

Il Birrificio Hop Skin di Curno, dei giovani imprenditori Paolo Algeri e Gioia Ravasio, è tra i finalisti della settima edizione del premio nazionale “Birraio dell’Anno”, il riconoscimento che premia i migliori artigiani della birra italiana. L’evento, ideato e organizzato da Fermento Birra con la sponsorizzazione di VDGlass, si terrà a Firenze, da venerdì 15 a domenica 17 gennaio al teatro Obihall.

Il birrificio bergamasco figura tra i 5 candidati al titolo di Birraio Emergente 2015, che viene riconosciuto ai produttori con meno di due anni di esperienza, selezionati interpellando oltre 80 esperti del settore.

La kermesse fiorentina si annuncia come un vero e proprio tributo alla birra artigianale italiana, nell’anno dei festeggiamenti dei 20 anni dalle prime aperture, grazie ad un’offerta ultra-selezionata composta da 100 birre artigianali alla spina, prodotte dai migliori 20 birrifici artigianali e dai 5 migliori birrifici emergenti, servite e raccontate dai birrai stessi o dal personale qualificato di Fermento Birra.

L’appuntamento sarà accompagnato da street food di qualità, degustazioni-show e da incontri di approfondimento nell’area dedicata. I vincitori saranno proclamati dal noto degustatore Lorenzo “Kuaska” Dabove.

I candidati al titolo di Birraio dell’Anno 2015

Agostino Arioli del Birrificio Italiano di Limido Comasco (CO)
Alessio Selvaggio del birrificio Croce di Malto di Trecate (NO)
Bruno Carilli del Birrificio Toccalmatto di Fidenza (PR)
Donato Di Palma del birrificio Birranova di Triggianello (BA)
Emanuele Longo del Birrificio Lariano di Dolzago (LC)
Fabio Brocca del Birrificio Lambrate di Milano
Francesco Mancini del Birrificio del Forte di Pietrasanta (LU)
Gino Perissutti, birrificio Foglie d’Erba di Forni di Sotto (UD)
Giovanni Campari del Birrificio del Ducato di Roncole Verdi di Busseto (PR)
Jurij Ferri del birrificio Almond ’22 di Loreto Aprutino (PE)
Leonardo di Vincenzo del Birrificio Birra del Borgo (RI)
Lorenzo Guarino del Birrificio Rurale di Desio (MB)
Luigi “Schigi” D’Amelio del birrificio Extraomnes di Marnate (VA)
Marcello Ceresa del birrificio Retorto di Podenzano (PC)
Nicola Perra del birrificio Barley di Maracalagonis (CA)
Pietro di Pilato del birrificio Brewfist di Codogno (LO)
Pietro Fontana del Birrificio Birra del Carrobiolo (MB)
Riccardo Franzosi del Birrificio Montegioco di Montegioco (AL)
Simone Dal Cortivo del birrificio Birrone di Isola Vicentina (VI)
Valter Loverier del birrificio Loverbeer di Marentino (TO)

e quelli al titolo di Birraio Emergente 2015

Andrea dell’Olmo del birrificio Vento Forte di Bracciano (Roma)
Josif Vezzoli del birrificio Birra Elvo di Graglia (Biella)
Matteo Pomposini e Cecilia Scisciani del birrificio MC 77 di Serrapetrona (Macerata)
Paolo Algeri e Gioia Ravasio del Birrificio Hop Skin di Curno (Bergamo)
Stefano di Stefano del birrificio Argo di Lemignano (Parma)




Dopo le Feste due chili in più. Ecco cosa mangiare per tornare in forma

frutta-e-verdura-di-stagione-febbraioI banchetti ed i brindisi delle Feste hanno regalato agli italiani due chili in più secondo la Coldiretti, che rileva come ad aggravare la situazione abbiano contribuito la sospensione delle attività sportive e la maggiore sedentarietà per le lunghe soste a tavola.

Passata l’Epifania, comincia quindi la stagione in cui si cerca di di rimettersi in forma e l’associazione degli agricoltori stila quindi una lista dei prodotti le cui proprietà terapeutiche e nutrizionali sono utili per disintossicare l’organismo e per accompagnare il rientro in salute alla normalità dopo gli stress dei viaggi e delle mangiate natalizie.

Tra la frutta da non dimenticare ci sono arance, mele, pere e kiwi, mentre per quanto riguarda le verdure quelle particolarmente indicate sono spinaci, cicoria, radicchio, zucche, insalata, finocchi e carote. Tutte le insalate e le verdure vanno condite – sottolinea la Coldiretti – con olio d’oliva, ricco di tocoferolo, un antiossidante che combatte l’invecchiamento dell’organismo e favorisce l’eliminazione delle scorie metaboliche, e abbondante succo di limone che purifica l’organismo dalle tossine, fluidifica e pulisce il sangue, è un ottimo astringente e cura l’iperacidità gastrica.

Le arance – informa la Coldiretti – sono una notevole fonte di vitamina C che migliora il sistema immunitario e aiuta a fronteggiare l’influenza, favorisce la circolazione, ossigena i tessuti e combatte i radicali liberi. Le mele per il loro modesto apporto calorico e per la prevalenza del potassio sul sodio sono capaci di svolgere un’azione antidiarroica e di regolare la colesterolemia. Ancora, le pere che oltre ad avere un buon potere saziante, contenendo zuccheri semplici come il fruttosio, fibra, molta acqua e poche calorie, sono adatte per chi soffre di intestino pigro. I kiwi ricchi di vitamina C, fosforo e potassio sono particolarmente indicati per migliorare il funzionamento dell’intestino, i semini neri in esso contenuti, infatti, ne stimolano le contrazioni.

Tutta la verdura a foglie verde scuro come spinaci e cicoria – continua la Coldiretti – contiene acido folico, vitamine del gruppo B, essenziale nella formazione dei globuli rossi del sangue per la sua azione sul midollo osseo. L’insalata conferisce volume e potere saziante con un apporto calorico estremamente limitato ed assicura anche un certo contributo di vitamine, calcio, fosforo e potassio. Le carote sono ricche di vitamina A, indispensabile per la salute degli occhi e della pelle, i finocchi risultano ottimi per combattere la nausea, la digestione difficile e la stitichezza.

Nella dieta non vanno trascurati piatti a base di legumi (fagioli, ceci, piselli e lenticchie) perché contengono ferro e sono ricchi di fibre che aiutano l’organismo a smaltire i sovraccarichi migliorando le funzionalità intestinali ma – conclude la Coldiretti – sono anche una notevole fonte di carboidrati a lento assorbimento, che forniscono energia che aiuta a combattere il freddo.




Barbecue “estremo”, in gara anche due team bergamaschi

Non è la “solita” grigliata. Quella del barbecue è un’arte che prevede strumenti appositi, cotture lente, tagli, marinature e salse specifici. Un vero e proprio rito della cucina statunitense che sta velocemente guadagnando appassionati anche in Italia, pronti non solo a sperimentare ricette e scambiarsi consigli, ma anche a cimentarsi in vere e proprie competizioni.

Dal 15 al 17 gennaio a Riva di Tures, in Alto Adige, le braci si accendono per W.E.S.T. 2016, seconda edizione del Winter Extreme South Tyrol BBQ Contest, gara definita estrema per il ghiaccio, il freddo e l’altitudine in cui si svolge.

Tra i 30 team iscritti, provenienti da tutta Europa, due sono bergamaschi, Smoke’n’Fire BBQ Team e Griller Unchained, a testimonianza di una passione che sta prendendo piede anche nella nostra provincia.

Smoke’n’Fire BBQ Team

barbecue - Smoke'n'fire Team ritQuesto team di appassionati del BBQ è il più longevo tra quelli bergamaschi. È composto da Eduard Marchesi di Romano di Lombardia, Massimo Facchi di Calcio e Davide Forni da Eupilio, in provincia di Como. «Ci siamo conosciuti nel 2014 – spiega Davide – in occasione di un corso organizzato dal KCBS per diventare giudici durante le competizioni. In particolare, abbiamo fatto una simulazione di gara e casualmente eravamo in team insieme. Ci siamo trovati talmente bene che abbiamo deciso di partecipare insieme nel giugno 2014 al campionato di BBQ di Perugia». Da qui vi sono state tutta una serie di competizioni a cui il team ha partecipato, con buoni piazzamenti.

La preparazione di un team alla gara non è cosa banale e scontata, mesi e mesi di prove delle ricette, della presentazione e della preparazione delle salse. Anche se il BBQ non è solo competizione. «Per me è un’importante occasione di socializzazione, con il resto del team, ma anche quando lo si prepara – spiega ancora Davide -. Una volta messa in cottura la carne c’è solo da controllare e aspettare, generando così delle belle occasioni di convivialità. È un modo anche per utilizzare le parti meno costose e meno nobili che, grazie alla cottura lenta e a bassa temperatura, si valorizzano e regalano sorprendenti occasioni di piacere».

piatto american bbq - smoke'n'fire

Griller Unchained

Il sodalizio è composto da Ettore Fanciulli e Giorgio Pagani, il primo di Roma e il secondo bergamasco, di Grumello del Monte. Per Giorgio è stata una passione nata da un’esigenza: «Io e mia moglie Antonia – racconta – andavamo a ballare latino americano, facendo anche delle competizioni. Poi è nato il nostro bimbo, Eros, e quindi molte cose sono cambiate. Mi sono guardato attorno e, dal momento che non ho mai avuto il pollice verde, ho riscoperto nel mio giardino un attrezzo che possedevo da tempo, il barbecue».

Ettore Fanciulli e Giorgio Pagani di Griller UnchainedUna folgorazione per Giorgio che subito capisce di poter coltivare questa passione da casa, senza trascurare la sua famiglia. Quindi si appresta a cercare informazioni online e inizia la sperimentazione anche, e soprattutto, attraverso la consultazione del forum BBQ4All. «All’inizio molte delle cose che cucinavo erano letteralmente da buttare via, soprattutto le salse, ma dopo numerose prove ho iniziato a trovare la strada e ad ottenere risultati sempre più soddisfacenti. Ho ancora molto da imparare». Giorgio è giudice di gara. La sua prima esperienza l’ha avuta a Perugia, al Campionato Italiano di BBQ.

Poi è arrivato Ettore, classe 1987, con una laurea specialistica in economia e un lavoro a Milano. «I miei amici sono rimasti a Roma – spiega Ettore – e ho sentito la necessità di ricrearmi relazioni e interazioni. Ho sempre preparato grigliate, ma non avevo mai approcciato al BBQ in questo modo. Come molte persone mi interrogavo sull’utilità del coperchio che vendono insieme a questi attrezzi. E così ho iniziato nel 2015 a cercare informazioni in rete, ho trovato le ricette, le informazioni sulle cotture indirette. E così ho trovato anche il coraggio di preparare le costine (ribs) perché servono circa 6 ore di cottura». Durante le ricerche Ettore si è imbattuto in Giorgio che cercava persone per creare un team. Detto fatto, si sono incontrati ed è partita questa grande avventura. Il loro obbiettivo? Partecipare a competizioni nazionali e internazionali, finanziando le attività di “allenamento” e i costi di partecipazione con la preparazione di piccoli barbecue per eventi, feste o serate a tema.hamburger - Griller Unchained

 




Il signor Carrara e il supplizio del polpettino

Il polpettino realizzato secondo la ricetta pubblicata nel “Libro de arte coquinaria” di Martino da Como

Seppur spogliato della pensione d’anzianità dai giacobini, la cui ferrea propensione ai tagli – al tempo non schiva di quelli di teste – pare essere tornata in auge ai nostri giorni, fa sfoggio di inossidabili estro e sagacia l’ottuagenario Carlo Goldoni che nel 1787 dà alle stampe a Parigi le proprie memorie. Nell’autobiografia l’impareggiabile commediografo fornisce prova di non comune lucidità ripercorrendo nei più minuti dettagli un florilegio di ormai remote rimembranze. Tra queste spicca il resoconto di una scampagnata di oltre cinquant’anni prima nell’agro circostante Milano, effettuata in compagnia di un amico bergamasco dal tutt’altro che imprevedibile cognome di Carrara.

È un giorno d’estate del 1733, e la coppia di bighelloni, varcata quella Porta Tosa che oggi si troverebbe all’altezza di piazza Cinque Giornate, si incammina in aperta campagna alla volta delll’Osteria della Cazzuola per una frugale merenda. Già all’epoca la metropoli – nota il drammaturgo veneziano – ha fama di ville gourmande, tant’è che i suoi abitanti sono soprannominati lupi lombardi dai più sobri fiorentini. “Non si fanno in Milano passeggiate, ne’ si mette insieme divertimento di qualunque sorte sia, in cui non si discorra di mangiare: agli spettacoli, alle conversazioni di giuoco, a quelle di famiglia, siano esse di cerimonia o di complimento, alle corse, alle processioni, alle conferenze spirituali inclusive, sempre si mangia.”

Carlo Goldoni
Carlo Goldoni

Giunti a destinazione, i due gitanti comandano uno spuntino a base di gamberi, uccelletti e polpettino. Dalle vivande settecentesche della storica osteria, in contrapposizione alle più tarde e moderniste lusinghe del risotto allo zafferano e della costoletta impanata, promana un nostrale sentore d’arcaico. I crostacei sono quelli d’acqua dolce dei quali già nel tredicesimo secolo, a dar retta a Bonvesin de la Riva, in riva ai Navigli si divoravano più di sette moggi al giorno. La cacciagione minuta, che in abbinamento alla polenta rappresenta un’irrefutabile icona gastronomica del circondario di Bergamo, tra XVII e XVIII secolo pare altresì una voce regolarmente impressa anche sui menù delle taverne milanesi – quella dei Trì Merla aveva particolare rinomanza per i suoi passaritt.

Quanto al polpettino, è del tutto ingannevole lo scontato rimando ad una pallottola di carne trita che la denominazione parrebbe sottendere. Si tratta invece di un involtino la cui ricetta, di sicure origini padane, è riportata per la prima volta nel quattrocentesco Libro de arte coquinaria di Martino da Como: una fettina di vitello, cosparsa di semi di finocchio e velata di un battuto di lardo ed erbe, viene arrotolata su sé stessa e quindi arrostita allo spiedo. Ad una pietanza affine doveva forse alludere un paio di secoli prima lo stesso Bonvesin de la Riva, quando menzionava un ripieno a base di noci, uova, cacio e pepe con cui i suoi concittadini solevano farcire le carni nel periodo invernale.

Metropoli delle polpette – definiva Milano il medico-poeta Giovanni Raiberti. Ed all’ombra della Madonnina morfologia e terminologia del morsello di carne hanno inevitabilmente finito per distinguersi da quelle della consuetudine. Se polpettino sta per saltimbocca, è con la voce mondeghili che vengono invece designate quelle che altrove si chiamano polpette. Il dualismo, di marchio squisitamente lombardo, è attestato anche dal ricettario del Cocho Bergamasco, che a fine seicento distingue rispettivamente tra polpette di carne cruda – simili a quelle di Martino da Como – e quelle di carne trita cotta, a propria volta affini ai mondeghili.

Questi ultimi, il cui appellativo deriva dalla storpiatura meneghina dell’ispanico albondeguillas, rappresentano in apparenza uno dei plurimi imprestiti iberici alla cucina milanese. In realtà l’apparentamento è d’ordine più lessicale che gastronomico. Non si è certo dovuto attendere l’arrivo in Italia degli aragonesi per apprendere a cucinar polpette: già nel ricettario latino di Apicio fanno infatti comparsa numerose preparazioni (isicia) in guisa di trito appallottolato di carne o di pesce, variamente aromatizzate. Una delle basi predilette dagli antichi romani per la preparazione della pietanza era peraltro rappresentata dal fegato di porco. E non è certo casuale che, tra gli ingredienti dei mondeghili, baleni l’arcaicizzante richiamo della mortadella di fegato.

Ma torniamo alla scampagnata di Carlo Goldoni e dell’ineffabile Carrara. Il loro spuntino all’Osteria della Cazzuola viene troncato sul nascere dall’estemporanea apparizione di un’avvenente giovinetta in lacrime. Il veneziano, incorreggibile donnaiolo, appura che la fanciulla – per singolare combinazione sua concittadina – è fresca reduce da una disavventura di seduzione ed abbandono, e si fa in quattro per rincuorarla. Il compare, da buon bergamasco, pare invece persuaso che le lusinghe della galanteria non debbano in alcun modo venir anteposte a quelle della tavola – o che comunque non sia opportuno indulgervi a stomaco vuoto -, e scalpita perché si dia senza indugi inizio alla merenda. Ma Goldoni, del tutto incurante delle rimostranze dell’amico, seguita imperterrito a blandire la giovane. Alla fine si addiviene ad un compromesso, e l’agognato pasto è servito negli alloggi della donna ponendo termine al tantalico supplizio cui è sottoposto il povero Carrara.

L’epilogo della vicenda è, assai prevedibilmente, del tutto teatrale. Il commediografo lascia discretamente intendere di essere riuscito ad intessere con l’affascinante concittadina una tenera amicizia, che si protrae per qualche mese. L’idillio è tuttavia falciato dai cannoni dei Savoiardi agli ordini di Carlo Emanuele III, che nel dicembre del 1733 cingono d’assedio il capoluogo lombardo. Goldoni, che in quel mentre svolge le funzioni di attaché del Console della Serenissima presso il Granducato di Milano, è costretto a riparare a Crema al seguito del diplomatico. La giovane amante resta invece in città, ed i due finiscono perdersi di vista – apparentemente senza eccessivi struggimenti. Ed il vorace Carrara? Rimedia un posto da corrispondente della Repubblica di Venezia su raccomandazione dello stesso Goldoni. Anche tra i marosi del burrascoso secolo dei lumi, è dunque e comunque bene tutto quel che finisce bene.




Arriva il bollino Ue che tutela i veri formaggi Dop e Igp

formaggioBuone notizie in arrivo per gli amanti del formaggio e per i produttori delle tante specialità casearie made in Italy a denominazione. Dal 4 gennaio scartare i prodotti tarocchi’ e riconoscere gli autentici formaggi italiani tutelati dalla Dop, denominazione di origine protetta, e dall’Igp (Indicazioni geografica protetta) sarà più semplice perché a guidare gli acquisti sarà un bollino comunitario in etichetta. Per l’Italia significa un ulteriore logo anticontraffazione a garanzia delle 52 eccellenze casearie. I loghi Ue affiancheranno quelli dei Consorzi di tutela già presenti nei prodotti a denominazione. Per Assolatte si tratta di una ”garanzia in più per i consumatori che aiuta a fare una spesa informata”. In parallelo all’arrivo dei nuovi loghi comunitari, è anche partita la campagna istituzionale avviata dal ministero delle Politiche Agricole per aumentare la conoscenza dei prodotti Dop e Igp attraverso spot televisivi e radiofonici e iniziative nei punti vendita della Gdo, grande distribuzione organizzata. Intanto, è tempo di bilanci per i formaggi Dop e Igp italiani, che, dalle analisi di Assolatte, archiviano un 2015 doppiamente anomalo. In primo luogo, si registra un calo delle quotazioni all’ingrosso che, per la maggior parte dei formaggi, sono rimaste inferiori a quelli degli anni precedenti, anche per effetto della stagnazione dei consumi interni. Il secondo aspetto peculiare del 2015 sono state le forti variazioni mensili nella produzione delle singole Dop e Igp. Mostrando grande dinamismo, le aziende produttrici sono intervenute “in tempo reale” per aumentare o diminuire i volumi in funzione della richiesta di mercato. Queste fluttuazioni mensili si sono collocate all’interno di un bilancio complessivo che si è chiuso con una produzione sostanzialmente stabile, con l’eccezione di alcuni formaggi (come Pecorino Romano Dop, Mozzarella di Bufala Campana Dop, Piave Dop) che si affacciano al 2016 con volumi record.




Treviglio, l’ex bancario che alleva lumache

GiamPrimo Riva- allevatore lumache  TreviglioPer i francesi, le escargot sono un vanto della loro raffinata cucina. Noi italiani le abbiamo considerate per anni una leccornia, mentre oggi le lumache sembrano essere un cibo meno gradito. Ciononostante, nella Bergamasca c’è chi ha puntato sull’elicicoltura, o allevamento a ciclo biologico completo dei molluschi da terra. A Treviglio, infatti, a febbraio dello scorso anno è nata la Lumacheria del Cerreto, ideata dallo spirito imprenditoriale di GianPrimo Riva, bancario in pensione e buongustaio doc.

«La mia intenzione è portare nel piatto un’eccellenza, un prodotto controllato e non importato dall’Est Europa e dal Maghreb, come spesso accade nei mercati», spiega il neo agricoltore che offre un prodotto selezionato per la gastronomia e completo di etichettatura.

Riva possiede un ettaro di terreno in via Canonica, accanto alla Cascina Pelesa. Di questi, tremila metri sono stati destinati alla sua nuova attività e suddivisi in sette recinti: cinque per la riproduzione e due per l’ingrasso delle chiocciole. La varietà è la Helix Aspersa, detta Vignaiola, dal guscio solido e screziato. Dai 15mila esemplari iniziali si è arrivati ad allevarne 300mila nella covata. Da adulte, le lumache arrivano a pesare dai 12 ai 14 grammi ciascuna, 9 asciugate. Ora hanno trovato riparo sotto la terra per il letargo e la raccolta, stagionale da maggio a settembre, si attesta sui 20 quintali. La differenza con le sorelle selvatiche, la cui caccia è vietata in Lombardia dal primo marzo al 30 settembre, sta nella qualità dell’alimentazione. «Una lumaca in libertà può mangiare di tutto, dalle erbe amare che si riflettono nel suo sapore ad altre per noi velenose», spiega Riva. I suoi molluschi si nutrono di insalata, cavolo cavaliere, bietola da taglio, girasole. Ma sono anche ghiotti di verdure e frutta zuccherine come carote e mele e, d’estate, anguria e melone. L’agricoltore deve fare i conti con la moria della specie, pari al 20% del totale. I nemici principali, in inverno, sono i topolini che faticano a trovare cibo e lo stafilino, un insetto che entra nel guscio e le consuma.

allevamento lumache - TreviglioPrima di essere vendute, le lumache vengono riposte nelle cassette dove sono fatte spurgare e asciugare per quindici giorni. A richiederle sono privati, ristoranti e organizzatori di feste patronali. Le ricette sono moltissime: ci sono gli spiedini di lumache lessate alternate a scalogno e salvia, possono prestarsi come ingrediente principale per fondute, frittate, primi come spaghetti o risotti. C’è chi le gusta fritte, trifolate, in salsa verde, in zimino o in gelatina, meglio se accompagnate da vino bianco secco o rosato, come per il pesce. La Lumacheria del Cerreto conferisce parte del suo prodotto all’industria di lavorazione di Cherasco nel Cuneense per ottenere vasetti al pomodoro, al naturale o con spinaci e speck.




Stezzano, le merende “floreali” di Fiammetta e Roberto

Fiori a merenda - Stezzano - Fiammetta Dose e Roberto CarissoniI coniugi Fiammetta Dose e Roberto Carissoni non volevano aprire un bar tradizionale e amavano le sfide. Così sei anni fa hanno dato vita, a Stezzano, a “Fiori a merenda”, un laboratorio-bottega floreale (fiori, al piano di sotto) e un raffinato salotto caffè/merenda (al piano superiore). Il locale è una piccola chicca nel mondo dei pubblici esercizi della provincia di Bergamo e una sorpresa inaspettata per chi ci capita. «Abbiamo aperto nel periodo peggiore degli ultimi vent’anni anni – dice Fiammetta -. Io vengo dalla capitale e ho viaggiato molto, ho capito che la specializzazione è fondamentale. Aprire la stessa cosa che è presente nelle vicinanze non ha nessun senso».

Fiammetta amava i fori e aveva fatto dei corsi per conoscerli, suo marito Roberto aveva lavorato nella ristorazione e gestito con altri soci un bar, così pensarono di unire queste due passioni. «I clienti da noi trovano le stesse cose che trovano negli altri bar ma ricevono qualcosa in più, una coccola. Siamo una sorta di spa del buonumore – spiega Fiammetta -. All’inizio i clienti rimangono spiazzati, ma poi capiscono che queste attenzioni hanno un senso e ritornano. Non è più il momento di prendere in giro le persone, soprattutto se c’è da spendere qualche euro in più».

La cura per i dettagli e la ricerca della qualità si colgono nel modo in cui Fiammetta e Roberto scelgono e presentano le loro piante, nell’arredo retrò della sala da tè e nella raffinatissima proposta al bar. Oltre alla caffetteria più classica, si trova un’ampia scelta di tè e tisane, da quelle più classiche e immancabili, ai tè aromatizzati: il tè verde al cocco, all’ananas, allo zenzero, e il tè alle violette, un cult per i frequentatori del locale. Tutti sono serviti in tazze floreali, una diversa dall’altra, e con una camera di vetro dove il liquido rimane sospeso. Da provare anche il cappuccio al tè verde matcha giapponese. Fiammetta prepara i croissant e le torte nel laboratorio durante la pausa pranzo (dalle 12.30 alle 15.30 il bar è chiuso), con gli ingredienti di stagione: da non perdere, la caprese al cioccolato con fave di mandorle, la cheesecake, la torta con i semi di papavero e variegato al ribes rosso e i biscotti (anche bio e senza glutine).

fiori a merendaNon manca una proposta di vini e cocktail per la pausa aperitivo. «Prima di proporre nuovi prodotti ai clienti assaggiamo sempre noi – dice -. Non darei mai qualcosa che non mi piace o di scarsa qualità. Quando porto al tavolino il tè spiego sempre da dove viene, come è fatto e lo stesso faccio con le torte».

Il bar è lontanissimo dal sembrarlo: appare più come l’elegante salotto di una nonna nobile. «Desideriamo che i nostri clienti si sentano accolti come se fossero a casa e che trascorrano un momento di tranquillità circondati da cose belle e attenzioni. Anche solo per un caffè, si possono spendere cinque minuti e sedersi al tavolo. La fretta è una nemica».

Il locale è frequentato prevalentemente da una clientela femminile ma non mancano le famiglie con i bambini e i “forestieri” di soggiorno a Bergamo per lavoro. «Lavoriamo per lo più con clienti che vengono dalla città e dai paesi vicini, qui rimaniamo un po’ delle mosche bianche – confida Fiammetta -. Tanti ci chiedono perché abbiamo deciso di aprire questa attività in un paese e non in una città. Abbiamo due bambini piccoli, la famiglia di mio marito abita qui e andiamo al lavoro a piedi o in bicicletta. Avere una vita tranquilla non ha prezzo».




Sommelier Ais, il tesserato numero uno si racconta

jean valenti - ritA Jean Valenti sono servite 76 pagine di un elegante libretto per scrivere l’autobiografia. Difficile quindi condensare la fitta serie di aneddoti, episodi, avventure persino, oltre che l’intensa storia professionale. Ma ci si può provare, cominciando dalla presentazione, che può sembrare ad effetto e invece altro non è che la semplice realtà: Jean Valenti è il numero uno dei sommelier. Sua infatti è la tessera numero uno dell’Ais, l’Associazione Italiana Sommelier, di cui è stato cofondatore a Milano insieme a Giancarlo Botti, al commercialista Leonardo Gerra ed al sommelier Ernesto Rossi. «Era il 7 luglio del 1965 – racconta Valenti con estrema lucidità dall’alto dei suoi 93 anni compiuti – ed avevamo lavorato più di un anno per dare il nome all’associazione. C’era stato chi aveva suggerito coppieri, chi aveva proposto cantinieri e poi il vocabolo sommelier ha finito per convincere di più, per la sua valenza internazionale. Il primo congresso dell’Ais si svolse nel 1967 e fu l’evento che segnò l’affermazione definitiva dell’associazione».

tessera Ais - n.1Ma a livello istituzionale l’attività di Jean Valenti non si è fermata qui. Nel 1969 infatti, raccogliendo l’invito del marchese d’Aulan, rampollo di una nobile famiglia proprietaria dello Champagne Piper-Heidsieck, è stato tra i cofondatori de l’Association de la Sommellerie International (Asi) nata a Reims il 4 giugno. «In quanto segretario generale dell’Ais ero anche delegato ai rapporti internazionali – ricorda – ed ebbi modo di incontrare sommelier francesi, inglesi, portoghesi e belgi. L’Asi si proponeva di consigliare ed aiutare gli altri Paesi di entrare a far parte della sommellerie internazionale fornendo adeguati supporti, soprattutto ai giovani».

La vita e la professione l’hanno portato in giro per il mondo, ma questo pioniere dell’associazionismo enoico, che oggi risiede in Brianza, ha anche un legame speciale con Bergamo. «Sono nato a Casazza per caso, il 25 aprile del 1922, ma la stirpe è bergamasca», precisa. Il papà Francesco, originario di Casazza appunto, era emigrato nell’hinterland parigino e per un lungo periodo aveva avuto un’azienda di coltivazione di funghi champignon che funzionava bene ed aveva una ventina di dipendenti, quasi tutti bergamaschi. La mamma, Josephine Zinetti, anch’ella di origini italo-francesi, quando era in attesa del piccolo Jean era stata consigliata di recarsi a Casazza, dove risiedevano ancora dei parenti, per riposarsi. Ma Jean aveva fretta e nacque prima del previsto.

Un socio acquisito da poco fece poi fallire l’attività paterna e questo cambiò, in senso professionale, il destino di Jean che i genitori vedevano già nelle vesti di avvocato. All’età di 17 anni la necessità di mettersi al lavoro gli offre il primo contatto con il vino. In realtà non si trattava di un lavoro molto qualificato: cavista o cantiniere si potrebbe tradurre. Il ristorante era il Grand Veneur a Barbizon nei pressi della foresta di Fontainebleau, luogo di caccia dei reali francesi. Il compito di Jean era quello di lavare, etichettare di nuovo e tappare le bottiglie che venivano riempite con vino prelevato dalle barrique che provenivano da quasi tutte le regioni francesi. Solo i grandi Borgogna, Bordeaux e Champagne venivano venduti già imbottigliati. Per quanto umile fosse la professione, Jean impara a conservare le bottiglie, a distinguere pregi e difetti del vino e a scegliere i tappi di sughero giusti.

Ed è a questo punto che le vicende della seconda guerra mondiale si intersecano con la sua vita, con elementi di grande drammaticità: la campagna di Russia negli Alpini, il ferimento, la prigionia in un campo di concentramento a Tambov, vicino a monti Urali. Alla fine della guerra Jean ritorna in famiglia e riprende da dove aveva lasciato. Al Grand Veneur viene promosso aiuto sommelier in sala. L’avventura nel mondo del vino stavolta comincia davvero, ma per questioni politiche gli italiani non erano molto ben visti in Francia nel ’47 e quindi, di fatto, è costretto ad emigrare. La meta questa volta è l’Inghilterra: un posto al Savoy Hotel di Londra dove Whiston Churchill aveva il suo angolo per fumare il sigaro, seguono poi Baden Baden (la capitale termale europea per eccellenza) e Saint Moritz, nel ’56, con un posto di sommelier al Palace Hotel e poi ancora in un paio di ristoranti in Europa sempre della medesima proprietà.

I fondatori dell'Ais
I fondatori dell’Ais

Il Savini, in galleria a Milano, rimane il centro nel quale si concretizzano tutta la sua esperienza e meticolosità nel conoscere i vini e sul modo in cui servirli e abbinarli. «Sono arrivato al Savini nel ’56, su richiesta specifica del patron, il commendator Angelo Pozzi, e ci sono rimasto per dodici anni. All’inizio erano i tempi in cui il cliente chiedeva bianco o rosso oppure domandava che cosa era quel posacenere che portavamo appeso al collo (il tastevin, ndr.). Le richieste prevalenti riguardavano vini francesi ma siamo riusciti nel tempo a far apprezzare anche i prodotti italiani. C’era sempre un po’ di magia quando si versava il vino nel decanter e si aspettava riprendesse vita. Clienti famosi? Il Savini aveva una clientela anche internazionale di alto livello. Ho servito da bere a cinque presidenti della Repubblica: Segni, Leone, Saragat, Pertini e Cossiga, al commendator Bialetti, l’inventore della moka, a Edoardo De Filippo, a John Waine, che però beveva solo whisky, a Jacqueline Kennedy, a Maria Callas e all’armatore Onassis del quale ricordo un curioso aneddoto. Una banconota di 100 dollari fatta scivolare discretamente nelle mie mani in occasione del saluto e la raccomandazione che anche agli uomini della sua scorta non mancasse da bere». E chissà quanto è lungo ancora questo elenco.

L’avventura al Savini finisce nel 1972 quando Alberto Alemagna gli propone un’offerta economicamente rilevante per passare al ristorante Gourmet in piazza Duomo. Qui vi rimane fino al ’76 poi il ristorante chiude e si riapre una parentesi internazionale. Quattordici mesi in a Tokio e nel sud Corea per far conoscere e spiegare i vini piemontesi in quella parte di mondo per conto di un consorzio di vini coordinato dalle cantine Bersano e poi, nell’84, tre mesi a Los Angeles in occasione delle Olimpiadi. E proprio in California il figlio Duilio ha aperto un ristorante, vicino a San Francisco, che si chiama Valenti and Co.

Fino all’età di 85 anni ha continuato la sua attività di consulenza in Italia e in Francia cercando di trasmettere nel miglior modo possibile la sua grande esperienza. Ora, con il traguardo dei 94 anni poco distante, segue ancora con attenzione i movimenti delle diverse associazioni di sommelier, poi proliferate, con il cuore chiaramente legato alla sua creatura e cioè l’Ais. Accento francese, grande presenza ed eleganza, occhio vigile e massima attenzione, non ha di certo perso la sua professionalità, al punto di esprimere un giudizio tecnico calibrato quando in occasione del nostro incontro avvenuto all’Enoteca al Ponte di Ponte San Pietro il patron Luca Castelletti ha voluto aprire in suo onore una bottiglia di Rioja del 1922, l’anno appunto di nascita di Jean Valenti.