Sanità e arresti: caro Maroni, troppo facile fare gli arrabbiati

Fabio Rizzi e RobertoMaroni
Fabio Rizzi e RobertoMaroni

Ma guarda un po’. Roberto Maroni è arrabbiato. Anzi, nell’aula del Consiglio regionale ha usato un’espressione meno istituzionale. “Sono incazzato” ha tuonato nel commentare l’arresto per tangenti del consigliere leghista (e padre della legge di riforma del sistema sanitario) Fabio Rizzi. Certo, come no? Ma che devono dire i cittadini. E soprattutto, cosa devono pensare i leghisti che forse hanno ancora impressa nella memoria l’immagine di quella sera del 10 aprile 2012 alla Fiera di Bergamo? La “notte delle scope”, come non ricordarla. “E’ ora di ripulire il pollaio” stava scritto sulle magliette indossate dagli allora barbari sognanti (Rizzi era tra i più esagitati) mentre sul palco, con un Umberto Bossi costretto all’umiliazione delle scuse di fronte ai militanti, Roberto Maroni agitava la ramazza. Parole al vento, promesse largamente disattese. Perché lasciata la guida della Lega (portata ai minimi termini e risollevata solo da Matteo Salvini) ed eletto al vertice della Regione, l’ex ministro degli Interni si deve essere distratto. O forse dall’ultimo piano del Pirellone ha perso di vista il pollaio, dove mentre lui si dedicava a lanciare inutili referendum o ad usare il palazzo per campagne propagandistiche contro il disegno di legge sul riconoscimento delle unioni civili tra le galline ruspanti del Carroccio evidentemente si sono intrufolati anche galletti spregiudicati e aggressivi. Ma, soprattutto, affamati di becchime.

Le scope sono rimaste nello sgabuzzino e, anzi, il presidente della Regione che si era proposto come moralizzatore ha lasciato che avessero campo libero, tanto più sul terreno più fertile (quello sanitario), personaggi spregiudicati, come l’assessore forzista Mario Mantovani, finito in manette pochi mesi fa, e appunto Fabio Rizzi, a cui Maroni ha concesso l’esclusiva di scrivere, con la collaborazione compiaciuta del consigliere regionale bergamasco Angelo Capelli (che ora si mostra contrito per non avere capito chi gli stava a fianco…), nientemeno che la riforma della sanità lombarda. Dove, vedi un po’, è stato dato un impulso al riconoscimento pubblico delle cure odontoiatriche, quelle in cui operava la zarina Paola Canegrati in società con la compagna del medesimo Rizzi.

Ora fa scena mostrarsi arrabbiati (e ti credo…) e chiedere che chi ha sbagliato paghi. Ma è troppo facile liquidare tutto come una responsabilità “di singoli”. E no, cari Maroni, Capelli, Salvini e via cantando. La responsabilità penale è personale, ovvio. Quella politica no, invece. Quella vi compete in pieno. Da almeno due punti di vista. Anzitutto, per non avere introdotto quella discontinuità nei metodi di governo della sanità pubblica che in passato avevano già provocato guasti e scandali (il sistema Formigoni ce lo siamo dimenticati?). Quando la politica decide il destino delle carriere professionali dei manager e determina le sorti delle aziende che vivono di appalti pone le condizioni perché si infiltrino i poco di buoni e i furbetti.

La seconda responsabilità riguarda la selezione della classe dirigente. Per limitarci agli ultimi due casi, i disinvolti intrecci societari di Mario Mantovani prima e le discutibili frequentazioni di Fabio Rizzi poi dovevano mettere in allarme chi ha la responsabilità di guidare la baracca e consigliarlo a provvedere di conseguenze, specie se si è fatto sfoggio di sensibilità anti-malaffare. Inutile star qui a cercare di capire se Maroni non sia intervenuto per ragioni di opportunità politica, di equilibri di potere o perché, più semplicemente, non ha mai sentito puzza di bruciato. Ognuno dia la risposta che preferisce. Di certo, visto quel che è successo e la vergogna che ha investito la Regione, forse sarebbe più opportuno lasciare il Pirellone e ritirarsi in campagna. Magari a curare un pollaio. Vero, stavolta.




Se il consumatore fa i conti col picco dell’eccesso

iphone ipadI consumatori stanno perdendo il gusto di fare acquisti. L‘appetito del consumatore, che si pensava insaziabile, sta prendendosi una pausa, forse di riflessione. Non lo dico io, ma giganti come Apple e Ikea, che rappresentano il pinnacolo del consumismo degli ultimi dieci anni. Oggetti belli, utili e a cui ambire nel caso di Apple, accessibili e democratici nel caso di Ikea. Guardando agli ultimi risultati pubblicati qualche settimina fa dal gigante di Cupertino, le vendite di Iphone sono stagnanti, mentre quelle di Ipad, sono passate dai 21 milioni del 2014 ai 16 milioni del 2015.  Ikea, che ci ha venduto candele e accessori per la casa, quando invece volevamo comperare solo un paio di mensole, lo ha capito prima degli altri. Sa che le nostre case, probabilmente più piccole di quelle in cui abitavano i nostri genitori, sono ormai piene di candele, tappeti e appendiabiti, magari proprio targati Ikea. Sanno che, per continuare a venderci nuove librerie Billy e divani letto con nomi di tennisti svedesi, ci devono aiutare a disfarci di quelle precedenti. E visto che  un mobile Ikea non sopravvive ai traslochi, e soprattutto, una volta montato, non può essere smontato e rimontato in una nuova casa (e qui parlo per esperienza personale), ha pensato di offrire un servizio di riciclo, che verrà presto lanciato nel nostro continente.

Ormai sembra che solo i paesi in via di sviluppo vogliano comperare ai ritmi serrati con cui compravamo venti o trent‘anni fa. I migliori capitalisti hanno sempre saputo che le società inique non sono un terreno fertile dove fare affari e crescere, per questo Henry Ford decise di pagare bene, e di gran lunga al di sopra della media, i suoi operai. Da questa settimana Walmart, la catena di supermercati più grande degli Stati Uniti, ha iniziato a pagare un minimo salariale di dieci dollari all´ora ai suoi 1.4 milioni di dipendenti. In termini economici, si tratta di un passaggio degli introiti dal capitale alla forza lavoro. Visto che Walmart si trova sulla stessa barca di Ikea e Apple, con i consumi stagnati e, per certi prodotti, con il segno meno, ha quindi deciso di dare un incentivo ai propri dipendenti, rendendoli più motivati, e probabilmente felici. Con questa mossa, fa inoltre capire ai propri clienti, milioni e milioni in tutta America, che le loro spese quotidiane non vanno ad arricchire soltanto gli azionisti, ma servono a migliorare la vita di chi riempie gli scaffali e sta alle casse.  Quando le società occidentali erano povere, rispetto ad adesso, gli economisti si concentravano su come stimolare i consumi e come produrre maggiori quantità di beni. Oggi la domanda che i consumatori si fanno davanti ad un acquisto è spesso: “mi renderà felice?”. Molti di noi hanno lavori che non rendono soddisfatti, che servono a comperare il nuovo tablet o pagare le vacanze. Oggetti o esperienze che hanno lo scopo di rendere sopportabile la nostra esistenza, non certo di migliorarla o di farci, magicamente, fare cose interessanti sul lavoro, o avere un impatto positivo sugli altri.

 




Milano, largo ai manager. E la politica muore

Giuseppe Sala, candidato sindaco per il centrosinistra
Giuseppe Sala, candidato sindaco per il centrosinistra

Politica l’è morta. A Milano, Italia. Beppe Sala, Stefano Parisi e Corrado Passera: tre manager candidati sindaco. Uno per il centrosinistra, uno per il centrodestra e l’altro per il centro e basta. Ma, che abbia un po’ di sale o che sia insaporita con le spezie, la minestra sembra più o meno la stessa. Vince la cosiddetta società civile, seppur in una declinazione tecnocratica, esce pesantemente sconfitta la politica. Le ragioni e i modi in cui si è arrivati alla scelta degli aspiranti successori di Giuliano Pisapia possono essere diversi, ma resta il dato di fondo sconsolante che accomuna gli schieramenti: i partiti non sono stati in grado, o non hanno saputo (per incapacità o viltà conta poco), individuare al loro interno una figura in grado di partecipare alla corsa alla poltrona più importante di Palazzo Marino. E se Milano, come dice qualcuno, anticipa quel che poi si vedrà su ampia scala in futuro, beh, non c’è di chi esserne troppo contenti.

Certo, gli anticasta e i populisti in servizio permanente effettivo saranno lieti. Via i politici, finalmente, mettiamo alla guida delle nostre città chi ha saputo farsi valere nel settore privato (seppur Sala e Parisi vantino una non trascurabile esperienza anche nel pubblico, come ex city manager del Comune di Milano, ma non solo). Se non fosse che l’amministrazione della cosa pubblica è tutt’altro rispetto alla logica dei bilanci aziendali. Occuparsi di strade, di servizi sociali, di infanzia, di istruzione è ben diverso che studiare business plan o varare investimenti pluriennali. Così come rispondere agli azionisti o ad un consiglio di amministrazione è altra cosa rispetto a dover rendere conto, anche quotidianamente per strada, ai cittadini o al consiglio comunale.
Anche se a taluno parrà un’iperbole, il mestieraccio del sindaco, specie di una grande città, è terribilmente più complicato di quello di un amministratore delegato. Non è questione di dimensioni economiche né di rischi da assumere. C’è un tema di sensibilità, di valori, di interessi da contemperare nell’ambito di una società che esprime necessità ed esigenze non sempre conciliabili. E che, proprio per questo, richiedono un’attenzione e un equilibrio che il pur bravo manager non sempre possiede.

Sarà interessante capire, nell’ormai prossima campagna elettorale, come Sala e Parisi sapranno proporre un profilo programmatico in linea con la sensibilità dei rispettivi elettorati di riferimento. Impresa non facile se, dicono i pubblicitari, “sono due candidati di fatto intercambiabili e omologhi a livello di immagine. Nello specifico caratterizzati da una similare `awareness´, ovvero la percezione del pubblico sul piano  quantitativo e valoriale”.
In attesa di conoscere il verdetto degli elettori, chi ne esce peggio è il Partito democratico. Beppe Sala, voluto cinicamente da Renzi, ha vinto ma, come hanno sottolineato in molti, non ha affatto convinto. Il sostegno di tanti poteri forti e dei giornaloni gli è valso meno della metà (42 per cento) dei voti delle primarie. Non proprio un successone. Per altro verso, la sinistra dem, vittima dell’antico vizio della divisione intestina, pur forte di una maggioranza potenziale di quasi il 60 per cento, è riuscita a non trovare la quadra tra la vicesindaco uscente Francesca Balzani e l’assessore Pierfrancesco Majorino. Bastava poco perché da Milano, in caso di sconfitta di Sala, partisse un violento ceffone a Renzi e al suo spericolato progetto politico neocentrista. Ma ancora una volta, paradossalmente ma non troppo, è stata la sinistra del suo partito a offrirgli il successo su un vassoio d’oro zecchino.

Per il centrodestra il discorso è in parte diverso. Parisi è un sottoprodotto della tradizione dei Gabriele Albertini e delle Letizia Moratti (imprenditori, non manager, e non è una sottigliezza). E tuttavia, continuare a pescare nel laghetto della società civile rischia di diventare la certificazione della difficoltà a far crescere una propria classe dirigente. Quasi che i consiglieri comunali, quelli regionali, i parlamentari, i sindaci di area moderata non siano all’altezza. Pare impossibile. Forse è mancanza di coraggio. Una sola domanda: era così fuori luogo per Matteo Salvini tentare la sfida milanese per trovare sul campo una vera e propria consacrazione?
Infine, di Corrado Passera non occorre aggiungere molto perché la sua impresa è a dir poco temeraria. Coraggiosa, ma al limite del patetico. Resta il Movimento 5 Stelle. Ma di fronte alla grande occasione di sfruttare la partita fotocopia di centrosinistra e centrodestra i grillini finora non stati capaci che di scegliere una candidata, Patrizia Bedori, che non convince nemmeno i fondatori. Forse è proprio vero, politica l’è morta.




La cabinovia Orio-Bergamo? Un’idea semplicemente ridicola

cabinovia OrioEra ora. Finalmente Giuseppe Anghileri, dopo quasi trent’anni, può cedere il testimone del titolo di autore della proposta più balzana per la città. Il già consigliere comunale democristiano (e poi indipendente) soprannominato “sindaco di Borgo Santa Caterina” era convinto che uno dei modi migliori per superare il problema del traffico in ingresso-uscita da Bergamo fosse la realizzazione di un mega tunnel sotto Città Alta. Un traforo del Monte Bianco in sedicesimo, insomma, in barba alla delicatezza del borgo soprastante. La proposta era talmente ardita, per tacer dei costi, che, giustamente, fu lasciata in bacheca. Qualche anno dopo ci pensò l’allora sindaco Cesare Veneziani a lanciarsi in qualcosa di meno fantasioso ma non meno discutibile: il minimetrò dalla stazione ferroviaria alla funicolare. Ci volle poco a capire che per poche centinaia di metri investire decine di milioni di euro sarebbe stato un azzardo imperdonabile.
Ora, nell’anno domini 2016, riesumando e aggiornando un’idea lanciata dall’ex deputato di Forza Italia Gianantonio Arnoldi, ecco che due giovani virgulti azzurri, il consigliere comunale Stefano Benigni e il consigliere provinciale Jonathan Lobati, mettono sul tavolo nientepopodimenoche la cabinovia che dovrebbe collegare l’aeroporto con il centro di Bergamo. Con ampio spiegamento di mezzi, fra rendering, foto e video, l’ardimentosa coppia ha spiegato al colto e all’inclita le straordinarie mirabilie dell’impianto a fune. Non un semplice mezzo di trasporto, hanno tenuto a spiegare ai più superficiali, ma addirittura una attrazione turistica. A riprova, caso mai ce ne fosse bisogno, che a volte il confine tra il dramma e la farsa è davvero sottile.

Perché se anziché giocare al Lego chi fa politica, o almeno presume di farlo, resta ancorato alla concretezza, e soprattutto al buon senso, non può che rendersi conto che quell’idea è semplicemente ridicola. Per più ragioni, alcune talmente elementari che possono essere comprese anche dai più faciloni. Anzitutto, c’è un problema di sicurezza visto che le cabine dovrebbero sorvolare i parcheggi dell’aeroporto, l’asse interurbano e le cliniche Gavazzeni. “Ma si può sempre mettere un ponte di protezione” ha obiettato Lobati. Che, da buon sindaco di Lenna, forse non ha del tutto chiara la distinzione tra un paesello di montagna e una città. Soprattutto, e qui veniamo al secondo aspetto, dal punto di vista dell’impatto ambientale. Bisogna avere gran poco rispetto della storia di Bergamo per immaginare di impiantare piloni e cabine con sullo sfondo le Mura venete e tutte le bellezze del territorio. Altro che, come sostiene la coppia Benigni&Lobati, “attrazione turistica”. La cabinovia sarebbe un pugno nello stomaco, una macchia nera al centro di un quadro di struggente bellezza. Ma come si fa a non capirlo? Possibile che oggi i canoni estetici siano mutuati dal modello Disneyland?

Ma i giovanotti di Forza Italia mostrano di non conoscere (la gavetta in politica non esiste più, si nasce già imparati) le dinamiche del trasporto. Dicono che la cabinovia rispetto al treno avrebbe il vantaggio di poter rappresentare un motivo in più per convincere chi sbarca a Bergamo a fare tappa in città. Ma benedetti figlioli, chi arriva allo scalo ha già deciso prima di partire cosa intende fare e dove vuole andare. Nessuno arriva in aeroporto e sol perché c’è una cabinovia butta all’aria i suoi programmi. I viaggi sono organizzati nel dettaglio. E non è il mezzo di trasporto che orienta la scelta. Semmai, proprio contrariamente a quel che sostengono Benigni&Lobati (con il sostegno alle loro spalle dell’assessore regionale ai Trasporti che, in barba all’incarico ricoperto, dice di ragionare “da bergamasco”…), l’utilizzo del treno, o di un tram, consente al viaggiatore di muoversi in tempi ristretti anche su distanze medio-lunghe, senza faticosi e dispendiosi interscambi, ottimizzando la visita. E magari guadagnando anche il tempo per un fuori programma, altrimenti impossibile.

Stupisce che due politici così giovani ragionino ancora con logiche da piccolo borgo antico, che non colgano come Bergamo debba smetterla di considerarsi un brutto anatroccolo abbandonato a se stesso per inserirsi invece a pieno titolo in un sistema (culturale, economico e quindi anche strutturale) più ampio. Quantomeno, se non oltre, di scala regionale. L’aeroporto è di questo livello. E come succede in tutta Europa, ha bisogno di essere servito da una infrastruttura moderna: quasi sempre una metropolitana, talvolta dal treno. Chi pensa di collegare Orio al resto del mondo con una cabinovia forse è bene che si prenda un periodo di vacanza per un viaggio di studio. Non sarebbe tempo sprecato.




Gori punta alla Regione, ma occhio ai passi falsi

Giorgio Gori
Giorgio Gori

Da qualche mese il sindaco di Bergamo Giorgio Gori mostra un insolito attivismo. Abbandonato il low profile dell’inizio mandato, quando prudentemente si è dedicato allo studio dei principali dossier ereditati dal predecessore Tentorio, piano piano, ma in maniera sempre più decisa ed evidente, ha preso da un lato ad intessere rapporti al di fuori della città (per esempio con i sindaci di Brescia e Mantova) e dall’altro ad intervenire pubblicamente su temi di carattere politico o comunque non strettamente legati al suo ruolo di amministratore comunale. Al punto da far sorgere la spontanea domanda: allora sono vere le voci che lo danno interessato a candidarsi alla presidenza della Regione nel 2018, quando terminerà il primo mandato di Roberto Maroni?
Se si dovesse dare retta a quel che si dice negli ambienti del Pd la risposta è scontata: certo che sì. Sul cammino ci sarebbero, sulla carta, due possibili concorrenti. Anzitutto, l’attuale segretario regionale del Pd, Alessandro Alfieri, e poi, il miglior fico del bigoncio piddino orobico, il ministro Maurizio Martina. Ma il primo, pur persona seria ed impegnata, non ha esattamente il carisma del trascinatore di folle, mentre per il secondo, ormai lanciato come leader nazionale della corrente interna “Sinistra è cambiamento” (versione riveduta e corretta dei pontieri di democristiana memoria), un ruolo regionale rischierebbe di apparire un declassamento.

Per Gori, insomma, la strada potrebbe rivelarsi, se non spianata, almeno un pochino in discesa.
E tuttavia, ci sono almeno un paio di nodi da sciogliere. Il primo chiama in causa l’impegno che l’ex produttore tv ha preso con i cittadini che nel 2014 lo hanno eletto perché guidasse per cinque anni (almeno) Bergamo. Se davvero si dovesse candidare alle Regionali, il sindaco sarebbe costretto a dimettersi con un anno di anticipo (così fecero l’ultima volta Silvana Saita a Seriate e Roberto Anelli ad Alzano). Non sarebbe proprio un bel gesto, diciamo così. Intanto perché lascerebbe a metà il lavoro iniziato e in secondo luogo perché finirebbe con il legittimare i maliziosi sospetti di chi, e non sono pochi, ha sempre pensato che per Gori, vista svanire la candidatura a parlamentare alle primarie, l’impegno a Palazzo Frizzoni è stato solo un ripiego (affrontato con la massima serietà, sia chiaro) in attesa di traguardi migliori.

Resta poi da verificare, in seconda battuta, se il sindaco abbia la stoffa per ambire al Pirellone. La risposta, sulla carta, è senz’altro positiva, perché l’uomo è intelligente, preparato, dotato di determinazione e capacità di intessere relazioni con i mondi che contano, oltre ad una consolidata maestria nel gestire la comunicazione. Ma il suo attivismo degli ultimi mesi ha anche messo in luce una certa “impoliticità'” che in un contesto regionale rischia di rivelarsi un handicap. Alcune uscite, come quella sulla proposta di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini o l’ultima che lo ha visto bacchettare polemicamente le categorie economiche per la loro supposta incapacità a marciare d’amore e d’accordo, non gli hanno fatto guadagnare consensi. Nel primo caso si è esposto senza peritarsi di informare almeno il proprio partito, nel secondo si è reso protagonista di una invasione di campo con toni che hanno provocato reazioni risentite.
Nulla di clamoroso, intendiamoci. Possono essere semplici incidenti di percorso. Ma sarebbe sbagliato sottovalutarli. La politica non s’improvvisa. Come dimostrano illustri esempi, aver avuto successo in altri campi non conferisce automaticamente la patente per guidare qualsiasi mezzo. Forse andrebbe sfruttata meglio, e fino in fondo, l’esperienza a Palazzo Frizzoni. Imboccare scorciatoie a volte permette di raggiungere l’obiettivo in anticipo. Ma qualche volta si finisce fuori strada.




Tutti contro tutti, così declina la politica bergamasca

Il palazzo comunale di Treviglio
Il palazzo comunale di Treviglio

Che i partiti non siano messi bene a livello nazionale è di tutta evidenza. Ma la crisi, di capacità strategiche e di selezione della classe dirigente, ormai si è estesa anche alla periferia. Come risulta chiaro se solo ci si sofferma a guardare a quel che sta succedendo, in casa nostra, in alcune realtà che saranno chiamate al voto nella tarda primavera prossima.
Il caso più eclatante, sull’onda di una tradizione storica che ne ha fatto un modello di personalismi e contraddizioni politiche, è quello di Treviglio dove entrambi gli schieramenti (dei grillini quasi non c’è traccia…) sono vittime di spaccature e tensioni intestine. Da un lato, c’è un Partito democratico che prima commissiona un sondaggio per capire quale potrebbe essere il miglior candidato e poi inizia una tiritera di confronti con tre possibili aspiranti sindaci, poi ridotti a due, senza arrivare, dopo mesi di discussioni, a cavare un ragno dal buco. Niente di più che il frutto di due debolezze. Quelle dei candidati, che non hanno l’umiltà di capire di non essere evidentemente all’altezza del ruolo (se uno non riesce a conquistare un largo consenso nemmeno nel proprio partito, dovrebbe avere il buon gusto di cedere il passo), e quelle di una segreteria provinciale che, sull’altare di un supposto “ruolo del territorio” abdica ad un ruolo di regia e non è neppure in grado di esercitare quel minimo di moral suasion che in questi casi basterebbe e avanzerebbe per superare l’impasse. Ma evidentemente nel Pd, dove tutti i maggiorenti si sono accaparrati una comoda poltrona (ciascuno nel proprio ambito), di giganti della politica non ce n’è.

Chi sta dall’altra parte non è che se la passa meglio, anzi. Qui, a provocare imbarazzo e tensione è la figura di Giuseppe Pezzoni, il sindaco uscente costretto ad abbandonare il palazzo di Piazza Manara dopo essere stato pizzicato a vantare una falsa laurea. La Lega, immemore di tante battaglie sull’onestà e la trasparenza, per mero calcolo elettorale, vuole continuare a sfruttare il consenso che l’ex preside dei Salesiani (che gli hanno rifilato due denunce) mantiene in città. Anche se, questo il singolare distinguo del segretario provinciale Daniele Belotti (sempre più lontano dal castigamatti duro e puro degli esordi), “siamo pronti a candidarlo come consigliere, non come sindaco”. Per questo ruolo i leghisti sponsorizzano il loro Juri Imeri, vicesindaco uscente. Una scelta che non piace per nulla dalle parti di Forza Italia dove si muove, con impolitica irruenza, il fantasioso assessore regionale ai Trasporti Alessandro Sorte. Il quale, motu proprio, ha da tempo candidato a sindaco Gianluca Pignatelli, indicato come volto del rinnovamento malgrado la pluridecennale presenza sugli scranni del palazzo. Risultato? Rottura totale, scambi di parole forti e scintille continue. Manna per il centrosinistra, se non fosse per lo stato catatonico del Pd.

Ma il quadro è in fibrillazione in altre realtà. Il partito del premier Renzi ha enormi difficoltà a trovare una candidatura condivisa anche a Ponte S. Pietro (un altro dei 39 Comuni chiamati al voto a giugno), dove le rivalità e le gelosie personali fanno premio su tutto il resto. E che dire di Alzano Lombardo? Qui l’Amministrazione guidata da Annalisa Nowak è durata 600 giorni. Il matrimonio tra una lista civica e il Pd è stato un totale fallimento. L’impoliticità del sindaco abbinata alla prepotenza di chi si sentiva investito da un superiore consenso popolare ha prodotto un cocktail micidiale che otterrà l’unico risultato di riconsegnare al centrodestra la cittadina che il centrosinistra aveva conquistato dopo vent’anni di inutili tentativi. Davvero un capolavoro.
Infine, per tornare nell’altro campo, resta da dire di Caravaggio (quest’anno per la prima volta al voto con il doppio turno). La Lega ha scelto di puntare su Ettore Pirovano, non proprio un debuttante, mentre Forza Italia, sempre per volontà del fantasioso Sorte, ha annunciato di voler sostenere Augusto Baruffi. Peccato che costui, fino ad oggi, sia assessore e tesserato della Lega. E così, apriti cielo, botte da orbi (verbali, per carità) e ciascuno per conto proprio, lasciando spazio agli avversari del centrosinistra che a Caravaggio da vent’anni non toccano palla.
Descritte le situazioni, resterebbero da tirare le fila. Come si vede, nessuno sta bene. La debolezza è generale. Sono venute meno anche le regole elementari. Non c’è quasi più la capacità di misurare il consenso tra la gente e tantomeno quella di costruirlo laddove non sia sufficiente. C’è una autoreferenzialità diffusa, al centro come in periferia, che pensa di poter bypassare i faticosi ma consolidati passaggi democratici. L’idea di un passo indietro è vissuto più come un atto di viltà che di saggezza. E così, nel tutti contro tutti da consegnare al lavacro elettorale, la qualità del nostro vivere civile (di cui la politica e l’amministrazione sono tanta parte) si abbassa sempre di più.




Quarto, il “gioco” pericoloso dei moralisti anti-grillini

Mamma mia quanto fa paura il Movimento 5 Stelle. Da una settimana non si parla d’altro che di Quarto, del sindaco grillino Rosa Capuozzo e delle pressioni subite (ma non denunciate) dalla camorra, della purezza di un soggetto politico che è nato in contrapposizione al sistema partitico vigente sulla base di un supposto dna inattaccabile da virus. Su un caso oggettivamente minore, relativo ad un paese importante ma non certo una metropoli, si sono esercitati plotoni di politici e fior di commentatori, compresa la star vindice di tutte le mafie Roberto Saviano con una delle sue sentenze preprocessuali. A quasi tutti non è parso vero prendere in castagna Grillo e i suoi adepti, per dimostrare che non sono esenti da nequizie come tutti gli altri, che la loro democrazia dal basso non esenta dall’imbattersi in poco di buono, che il loro concetto di democrazia subordina un sindaco al buon nome del movimento.

Rosa Capuozzo
Rosa Capuozzo

Quante belle parole, che delizia di ragionamenti, quanta accigliata riprovazione. Uno spettacolo davvero gustoso. Se non fosse che, anche o soprattutto a chi al Movimento 5 Stelle non concederebbe mai il voto nemmeno sotto tortura, fa ribrezzo vedere nella parte degli accusatori partiti ed esponenti politici che di tutto possono essere modello tranne che di moralità.
E’ stato facile osservare, per esempio, che il Partito democratico vanta la bellezza di 84 amministratori indagati per le più svariate tipologie di reato, compresi uomini vicini al premier Matteo Renzi (il quale, a differenza della descamisada Pina Picierno, una virago della politica da baraccone attuale, non ha affatto invocato le dimissioni del sindaco di Quarto). Ed è altrettanto semplice rammentare che pure dalle parti di Lega (le scope sono già state rimesse dell’armadio) e Forza Italia gli indagati non si contino proprio sulle dita di una mano. Ma Lorsignori, dopo aver ricevuto dal guitto barbuto a cinque stelle contumelie di ogni tipo, non possono certo lasciarsi sfuggire l’occasione per cercare di dimostrare che “anche loro”, gli odiati grillini, sono come tutti gli altri.

Ecco, questa soddisfazione, del sistema dei partiti con il concerto dei grandi giornali, nell’infrangere il presunto mito della purezza, a cui solo i beoti potevano e possono credere, è quel che più deve preoccupare. Una volta dimostrato che “così fan tutti” si pensa forse di aver ripulito le proprie vergogne? O si pensa che aumentare la velocità del ventilatore che spara fango ovunque porti ad una omologazione che tutto confonde e tutto cancella? Cercare di cavalcare il caso Quarto, con tutte le sue ambiguità ancora non chiarite, per sgambettare il Movimento 5 Stelle significa imboccare una scorciatoia per l’inferno. Perché la strumentalità è tanto forte da potersi rivelare, agli occhi di molti italiani, un vero e proprio boomerang.

Qui non è il caso di ricordare la faccenda della prima pietra o della pagliuzza e della trave. Riferimenti troppo aulici. Basta solo osservare che Grillo e amici possono essere combattuti e battuti “semplicemente” ingaggiando la battaglia sul piano politico, lasciando perdere quella morale e affidando le eventuali compromissioni penali alla magistratura. Il Movimento 5 Stelle non ha un’idea di Europa, combatte la moneta unica, è attraversato da contraddizioni enormi e soprattutto ha un personale politico naif che si è raccolto attorno ad un leader più per essere contro qualcosa che per un modello di società diversa. A molti, moltissimi italiani piace il luccichio delle 5 stelle. Al netto delle riserve, alcune battaglie (come quella agli stipendi dei parlamentari) sono sacrosante e meritorie. Uno scossone salutare al sistema italiano Grillo e il guru Casaleggio lo hanno dato. Ma se gli avversari pensano di poter ridurre la contesa ad una sorta di “Quarto  grado” moralistico-giudiziario non si rendono conto che rischiano di scavarsi la fossa da soli.




Il baldanzoso Renzi non scordi la lezione di Craxi

Matteo Renzi
Matteo Renzi

Povero Matteo Renzi. Voleva inaugurare l’anno mettendo il cappello sulla fiammante Ferrari al suo debutto in Borsa. E invece, ha tenuto a battesimo una settimana semplicemente disastrosa per il mercato azionario, mondiale e nazionale. Fino a far sorgere un pernicioso dubbio: vuoi vedere che a furia di parlare e straparlare di gufi e civette si sta trasformando a sua volta in un uccello del malaugurio? Quasi un “chi la fa, l’aspetti”, se non fosse che si sta parlando di materia stramaledettamente seria, con milioni e milioni di euro di risparmi che vanno in fumo da un giorno all’altro a causa di un’economia mondiale piena di guai e soprattutto insensibile ai retorici e autoreferenziali motti di ottimismo ad uso propagandistico.

Fossimo in Renzi, così attento ai segnali, diciamo così, empirici, non trascureremmo il campanello d’allarme che sta suonando in questi giorni sul fronte economico. Per il premier il 2016 sarà un anno assai complicato. Senza dar retta agli esperti di oroscopi che leggono nei pianeti una difficile congiuntura per il Giovin Signore di Firenze, i prossimi dodici mesi sono ricchi di passaggi che metteranno a dura prova l’esuberanza del presidente del Consiglio. Già a fine gennaio arriverà al pettine il nodo del riconoscimento delle unioni civili e bisognerà fare i conti con il fuoco di sbarramento di Alfano, a capo di un partito al limite dell’insignificanza politica ma assai abile nel far valere il manipolo di voti rappresentati in Parlamento.

Ma la vera sfida dell’anno è quella delle elezioni amministrative. Si vota in grandi città come Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli. Il Pd di Renzi non si presenta in condizioni smaglianti anche se il segretario premier, non a caso soprannominato il Bomba, fa sempre sfoggio di sicurezza. Nella Capitale si preannuncia una batosta di dimensioni epocali, a vantaggio dei grillini, giusta condanna per chi ha dimostrato un dilettantismo assoluto nel gestire la pratica Ignazio Marino. A Torino il sindaco uscente Piero Fassino è alle prese con una violenta spaccatura a sinistra e, rispetto a cinque anni fa, dovrà cercare di sfangarla al ballottaggio, stando attento a non farsi infilare dall’intraprendente candidata del Movimento 5 Stelle, Chiara Appendino, dai sondaggi ufficiosi accreditata come possibile clamorosa sorpresa. A Napoli, perfino un Masaniello tutto “ammuina” come Luigi de Magistris è in condizione di poter essere riconfermato rispetto al deserto di un Pd che per avere qualche velleità di competizione deve subire, perché Renzi non lo vuole (specie dopo aver suo malgrado accettato Vincenzo De Luca alla Regione Campania), il ritorno in scena di un vecchio cacicco come Antonio Bassolino.

Per consolarsi il segretario democratico deve guardare a Bologna (ma sai che sforzo…) e, soprattutto, a Milano. Dove, tuttavia, le chance di vittoria sono affidate ad una figura come quella di Giuseppe Sala, un manager che, sostenuto da salotti e giornaloni, si è improvvisamente scoperto “uomo di sinistra” pur avendo una storia professionale e una cultura (basta sentirlo parlare) da moderato. Per mantenere la poltrona oggi di Giuliano Pisapia, insomma, sta per andare in scena il più classico dei matrimoni d’interesse. Che certifica, ammesso che sia bagnato dal successo, una solare sconfitta politica per il Pd, certificando l’incapacità di trovare al proprio interno una figura all’altezza della sfida. Di questo un segretario di partito dovrebbe preoccuparsi, e tanto più lo dovrebbe fare Renzi che è tanto forte al centro quanto debole nei territori.

La baldanza del premier rischia di uscire ridimensionata in caso di sconfitta a Roma, Napoli e, come detto, a Torino. Ed è proprio per questo che il Bomba ha spostato tutte le sue attenzioni sul referendum confermativo sulle riforme costituzionali che si terrà in autunno. Renzi conta su due fattori: l’assenza di un quorum e la voglia di sbaraccare tutto degli italiani (il ridimensionamento del Senato, altra cosa comunque dall’abolizione tout court, va in questo senso). Ma basterà? Ricordiamoci del precedente infausto per Berlusconi e la sua Devolution, che pure era una riforma molto più avanzata di quella renziana. Gli italiani la rispedirono al mittente. E non trascuriamo l’effetto di trascinamento che potrebbero giocare le elezioni amministrative.
Renzi potrebbe arrivare all’appuntamento con il fiato corto. Soprattutto se continuerà, come sta facendo da qualche settimana a questa parte, ad inseguire le questioni rifugiandosi nelle rodomontate dialettiche anziché gestire i dossier con la serena pacatezza dell’uomo di governo.
Come già sulla Buona scuola lo scorso anno, ora il premier deve stare attento a non giocarsi la fiducia degli italiani sulla gestione dei fallimenti delle banche. Servono comportamenti lineari e scelte trasparenti. E basta svillaneggiare i critici o gli oppositori. Anche la buonanima di Bettino Craxi a suo tempo minacciava le vecchie volpi che non lo assecondavano di farle finire in pellicceria. Ma alla resa dei conti in disgrazia ci finì lui prima degli altri…




Quella nostra sicurezza ormai appesa a un filo

furto-dautoTo be thus is nothing, but to be safely thus. Così e non altramente scriveva il Bardo, nella più cupa delle sue tragedie britanniche. E così, a un dipresso, dovremmo ragionare noi pure, gente di cazzuola e di conto corrente, dieci secoli dopo il sire scozzese, dalle mani lorde di sangue. Ciò che importa è la sicurezza: sicurezza dell’oggi e del domani. Invece, pare che proprio sul versante della sicurezza, sia pure attraverso le trame, non sempre limpidamente realistiche, dell’algoritmo, noialtri lasciamo a desiderare. O, meglio, una parte di noialtri dia il patema all’altra parte.

Io, lo premetto, non mi dedico granchè a strologare sulle statistiche: la storia trilussiana del mezzo pollo ce l’ho sempre ben presente. Però, la visione della solita classifica delle città vivibili ed invivibili, stilata da Il Sole 24 ore da un quarto di secolo a questa parte, in questo caso mi pare piuttosto veritiera: collima, insomma, con le mie riflessioni, come, rade volte, il meteo collima con le mie ginocchia giacomette. Certo, si tratta di statistica: non di un fotogramma di vera vita: però, è verosimile come statistica e, d’altra parte, Renzo e Lucia mica parlano il dialetto secentesco di Calolzio, eppure il romanzetto funziona che è una meraviglia. Ciò detto, mi sembra che ci siano validi motivi per essere soddisfatti di questo 2015 all’insegna della goricrazia: lunga amicizia mi lega al sindaco, ma questo non mi ha mai impedito di mandarlo al diavolo, laddove ne sentissi la necessità. In alcuni campi, Gori e la sua squadretta di volonterosi mi pare abbia bene operato: nella cura dell’ambiente e del paesaggio urbano, nei servizi, fatti salvi anagrafe e stato civile, catastrofizzati dalla più demenziale delle riforme, e, in generale, negli aspetti gestionali ed amministrativi, voci per cui ci piazziamo abbastanza in alto nella classifica solare.

Come sapete, a me duole il dente per la straziante gestione della cultura, però, non esistendo una voce statistica per la ricaduta culturale, ma solo quella per le presenze alle mostre, le amene sembianze prevalgono, ed io mi arrendo. La nota più che dolente dell’analisi de Il Sole 24 ore, però, è quella legata alla sicurezza, per cui la classifica ci vede precipitare fino all’ottantesima posizione su 110 territori valutati. Ottantesimi, in effetti, non è che sia questo gran risultato: soprattutto se pensiamo che, a cinquanta chilometri da noi, c’è il Paese con meno criminalità al mondo. E poi dicono che le frontiere esistono solo nella mente degli uomini: sì, vaglielo a dire a quelli di Pontresina! Certo, anche questo dato va analizzato ed inserito in un quadro generale: non è che a Bergamo ci siano i mafiosi con la coppola e la lupara, come farnetica qualche rimbambito su Facebook. Però, la sensazione diffusa è quella di una sicurezza appesa ad un filo: furtarelli, magari, scippettini, piccoli ladrocinii tra amici. Però, quando la bicicletta la rubano a te, quando la casa svaligiata è la tua, il furtarello diventa una tragedia e tu diventi una belva.

Quando ti spaccano il parabrize per rubarti una borsicina con dentro tre euro frusti e un cellulare vecchio, dentro di te si risveglia l’ispettore Callaghan che dorme in ognuno di noi: e stringi i pugni, con un ghigno bestiale, immaginando di avere tra le mani il ladruncolo, come a stritolarlo. Solo che, tra le mani, non ce l’hai e, con ogni probabilità, non ce l’avrai mai: perché è su quella che viene definita, stupidamente, microcriminalità, che il sistema fa più acqua. Contro i grandi racket, contro i più pericolosi boss, sovente si segnano vittorie: è contro la pletora di piccole violenze contro di noi ed i nostri beni che la polizia e, soprattutto, la magistratura sono pressochè inerti. E qui Gori c’entra poco.

Io, ad esempio, ho querelato due anni fa un pazzo scatenato, che mi aveva pesantissimamente insultato e minacciato su internet, diffondendo perfino il mio indirizzo ed additandomi al pubblico linciaggio: dopo due anni, nonostante la mia individuazione come parte offesa ed infiniti solleciti del mio avvocato, il magistrato bergamasco che ha in mano la faccenda non ha ancora ordinato di chiudere il blog incriminato. Due anni! Non oso pensare che ne sia dei vetri spaccati, delle serrande forzate, delle biciclette ablate dal loro palo lucchettato. Da questo deriva il dato sull’insicurezza: che non è panico, né sindrome da giustizieri della notte, ma è perdita di fiducia in chi dovrebbe proteggerci. E’ assenza dello Stato: per perdonismo cattocomunistoide, per strettezza di mezzi, per ignavia, per italianeria, se volete. Ma il dato vero è che, alla domenica, in giro per il centro non ci sono bergamaschi, ma solo stranieri, dall’aria torva e per nulla indomenicata: Aldous Huxley e non Shakespeare ci viene in soccorso, in clausola, con il suo Brave new world. E, come facilmente immaginerete, quello distopico non è un libro che finisca tanto bene, esattamente come la storia di Macbeth. Quello per cui la sicurezza era la cosa fondamentale. Dimenticavo: buon Natale.




L’arma contro babygang e ladri di bici? Un bel paio di “civette”

Furto bicicletta-3Ormai da tempo, sento alzarsi, qua e là, lamenti per l’insostenibile aumento della microcriminalità a Bergamo, per il senso di insicurezza, per mille piccoli episodi di quotidiana violenza contro i cittadini: furti, risse, scippi, babygang. Insomma, tutto il repertorio già visto a Los Angeles quarant’anni fa, a Londra trent’anni fa, a Parigi vent’anni fa, a Milano dieci anni fa, e adesso, da buoni ultimi, anche a Bergamo. Se c’è una cosa che la storia militare ti insegna è che i generali non sono quasi mai capaci di imparare dai propri errori: viceversa, la pedagogia definisce l’errore un “ambito di apprendimento”.

I pedagogisti, evidentemente, sono molto più ottimisti degli storici. Dunque, fatta la tara a quelli che si accorgono solo adesso della malattia, ma non fecero un tubo per occuparsi dei sintomi, quando era in loro potere farlo, di fronte ad un problema che, obbiettivamente, sta dilagando, vorrei offrire il mio modestissimo contributo. Va da sé che vi sono ragioni profonde per cui, oggi, se percorri il sottopasso della stazione, rischi la rapina: dev’essere per questo che i nostri lungimiranti progenitori hanno tanto esitato ad aprirlo: poca polizia, leggi ultragarantiste, magistrati in vena di paciocconerie, paura di passare per razzisti se si dice che questi furboni sono al 99,99% stranieri e così via. Si è detto fin troppe volte e ve lo risparmierò. Mi limiterò, perciò, a suggerire un sistemino facile facile, per sgominare due tra le più odiose attività seriali che prosperino nel centro del capoluogo: i furti di biciclette e la gang giovanili che molestano coetanei ed adulti.

Proprio la storia militare insegna che, se il nemico è ben asserragliato nel suo fortino oppure gode di indubbi vantaggi logistici, la cosa migliore da fare è attirarlo in un’imboscata: tutto sta nel trovare un’esca che lui non sospetti essere tale. In questo caso, proprio la sensazione di onnipotente immunità che anima questi delinquentelli di terza categoria potrebbe essere la chiave per fregarli: alla sicurezza, al buonismo, al perdonismo totale, corrisponde, per solito, nei beneficati, la rassicurante sensazione di vivere in un mondo di fessi. Di essere gli unici vedenti nel regno dei ciechi di H.G. Wells, tanto per capirci.

E, allora, ecco il semplice sistema per incastrarli, con bassissimo dispendio di forze dell’ordine e soltanto un pochino di pazienza. L’attività dei ladri di biciclette, intorno alla zona della stazione, ad esempio, è palesemente seriale: ci sono dei nullafacenti, appostati dove, di solito, si parcheggiano le bici (in via Mai, dove ci sono le scuole, ad esempio), che segnalano ad un’équipe altamente organizzata la presenza di un velocipede rubabile. Immaginiamo una mamma che va di fretta, perché ha il consiglio di classe del figlio: chiude con un lucchetto normalissimo la sua bici fuori dal “Lussana” ed entra. Oppure uno che deve fare una commissione veloce: non può perdere un’ora a cercare un paletto in zona sicura e chiude la bici dove capita. L’osservatore, che sembra un perdigiorno un po’ rincoglionito, non è affatto un perdigiorno e, soprattutto, non è punto rincoglionito: tira fuori il cellulare, chiama, e in dieci minuti arrivano i soci col tronchese che, senza dare nell’occhio procedono all’ablazione del prezioso velocipede, che, poi, venderanno su e-bay, come se niente fosse.

Succede ogni giorno, più volte al giorno: è una banda, e io ho ragionevoli dubbi che la polizia sappia anche perfettamente di chi si tratta. Li volete acchiappare con le mani nella marmellata? Prendete una signora sui quaranta, elegante quanto basta, con una bella citybike: fatele lasciare la bici, chiusa con un lucchetto da poco, in uno dei luoghi caldi, e aspettate. Mettete quattro cinque apparenti perdigiorno con cellulare a farsi gli apparenti affari loro, tutto attorno: fate, insomma, come fanno i ladri. Si chiama riallineamento di una guerra asimmetrica. Garantisco che, alla seconda o terza volta, beccherete la banda al gran completo: se, poi, qualche magistrato li rimetterà fuori in dieci minuti, questo è un altro discorso, che bisognerebbe affrontare in Parlamento.

Lo stesso dicasi per le babygang: di solito, quattro bulletti incazzatissimi per il fatto di non avere i capelli biondi e gli occhi azzurri. Nemmeno io li ho, ma non per questo vado a pestare la gente, ma sorvoliamo. Mandiamo la solita civetta a passeggiare per i luoghi che i giovani mentecatti considerano loro territorio esclusivo: al terzo passaggio, il nostro ragazzino, con aria un po’ ebete e vestito all’ultima moda, sarà sicuramente agganciato. E, con questo, sarà agganciata anche la temibilissima babygang: saranno scoperti i loro genitori, saranno prese le loro impronte e così via. Penso che, nella maggioranza dei casi, basterà come deterrente il sapere che Bergamo si difende, per evitare che questi, che sono poi ragazzini, non ci ricaschino. Il punto è che Bergamo non si difende, perchè pare poco bello difendersi: in questo mondo rovesciato, difendersi equivale ad aggredire. In ogni caso, io un modo per salvarsi le chiappe senza troppe tragedie ve l’ho suggerito: adesso fate voi.