Gori, la sfida è governare la città non darsi alla politica politicante

Giorgio GoriCome volevasi dimostrare: il presidente della Regione Roberto Maroni non ha alcuna intenzione di andare a trattare con il Governo maggiori spazi di autonomia e, cogliendo al volo un pretesto, si è lanciato a corpo morto verso il referendum. Un’operazione propagandistica, dal costo tutt’altro che trascurabile per le casse pubbliche (30 milioni), alla quale l’estate scorsa si erano incautamente accodati il presidente della Provincia Matteo Rossi e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Proprio quest’ultimo negli ultimi giorni ha alzato il tiro nei confronti del governatore lombardo, accusato (seppur non in termini così espliciti) di mala fede. Alla buon’ora, verrebbe da dire, visto che questo epilogo era ampiamente prevedibile, come risulta evidente da un commento sul tema pubblicato su La Rassegna il 3 settembre scorso.
Per Maroni, come per la Lega, il tema dell’autonomia è una bandiera da sventolare davanti agli occhi dei gonzi che si ostinano a volerci credere. E’ demagogia allo stato puro, altrimenti tanti anni al governo, sia nazionale che regionale, avrebbero prodotto ben altri risultati. E invece, dal federalismo alla macroregione passando per la devolution, è stato tutto un unico, colossale, bluff.

Come abbia potuto il Pd accodarsi all’iniziativa maroniana è uno di quei segni che mostrano il livello sottoterra della classe dirigente del partito che al momento ha l’onore-onere di guidare il Paese. Anche in casa nostra c’è di che riflettere. Meglio, il sindaco Gori ha di che riflettere perché questo passo falso sul referendum (anche se la sua colpa è di aver assecondato Rossi più che di aver preso l’iniziativa) fa il paio con l’altra battuta a vuoto accusata quando è uscito pubblicamente, senza concordare la posizione con il partito e la stessa maggioranza, per bocciare la richiesta di revoca della cittadinanza onoraria concessa nel 1924 a Benito Mussolini.
Non basta certo per tranciare giudizi, ma si ha come l’impressione, o forse qualcosa in più, che a Gori si attagli più la dimensione amministrativa che quella politica. Sul primo piano, anche chi non ha mai nascosto le sue riserve non può non osservare che la Giunta sta mettendo sul tavolo una serie di progetti (alcuni ereditati, altri di iniziativa in parte privata) destinati a lasciare un segno profondo sulla Bergamo del futuro: recupero e rilancio di ex Montelungo ed ex Riuniti, ristrutturazione del Donizetti, vendita dello stadio, nuovo palaghiaccio, il parcheggio all’ex gasometro. Se davvero riuscirà ad avviare (o realizzare) questi interventi, Gori potrà a pieno titolo considerarsi meritevole della fiducia che i bergamaschi gli hanno tributato. Le premesse ci sono, i soldi in buona parte anche (e qui c’è anche un po’ di fortuna perché proprio ora si stanno allentando i vincoli di bilancio). Ora si tratta di dar corpo al suo rinomato pragmatismo manageriale.

Forse, a questo fine, gli converrebbe lasciar perdere il movimentismo politico che l’ha tarantolato negli ultimi mesi. C’è chi dice che l’uomo è ambizioso e che fatica a vestire solo i panni del sindaco. Può darsi. Ma visto che è ancora relativamente giovane, specie sul piano politico, sarebbe saggio se si dedicasse anima e corpo alla sua città. Quella è la sfida che ha lanciato un anno e mezzo fa, su quella si deve concentrare, lasciando da parte la politica politicante.  Questa la lasci pure a chi, per darsi un ruolo che non ha, riveste con i panni del “patto costituente” un volgare inciucio mirato solo a gestire il potere e a spartire poltrone.




Niente simboli cristiani a scuola, l’integralismo “suicida” di certi presidi

presidi cristianesimoIl passaggio dall’integrazione alla disgregazione, dal sincretismo al sincretinismo, talvolta può avvenire impercettibilmente: basta che dai vertici si lancino segnali contraddittori, si indichino strade male illuminate, e il rischio di trovare qualcuno un tantino svantaggiato dal punto di vista cognitivo o spirituale, che, per eccesso di zelo o per smania di protagonismo, faccia il proverbiale disastrino, appare proprio dietro l’angolo. E’ il caso di questi presidi preoccupati di offendere la sensibilità dei non cristiani con simboli ed oggetti di origine cristiana: questi zelanti zeloti che hanno introiettato in maniera acritica alcune indicazioni lanciate dal mondo della scuola e della cultura europee, già di per sé imbarazzanti, e le hanno trasformate in decreto. In altre parole, si sono dimostrati degli integralisti, al pari dei Wahabiti, aliter Salafiti, che vedono il Corano come un testo ininterpretabile, ma da applicarsi letteralmente. Integralisti del niente, si potrebbe chiosare: perché, perlomeno, i Salafiti adottano, senza chiosarlo, un testo sacro.

Questi centurioni di una presunta e malintesa correttezza politica, per il desiderio, proprio di ogni gregario privo di fantasia, di mostrarsi più realisti del re, si fanno interpreti dogmatici del nulla, del più assoluto e sconfortante nichilismo. La storia dell’umanità è piena di fenomeni di assimilazione ed integrazione. Noi, la nostra civiltà e la nostra inciviltà, siamo figli di infiniti intrecci: genetici, linguistici, religiosi e culturali. Talvolta questo è avvenuto in modo relativamente pacifico ed altre in modo relativamente sanguinoso, ma, alla fine, il risultato è sempre stato buono o, perlomeno, accettabile: senza troppe parole, senza scomodare chissà quali teorie epistemologiche o antropologiche.

L’uomo cammina su questo pianeta da qualche milione di anni: l’antropologia ha centocinquant’anni di vita e non è che prima di Morgan e Tylor le culture non fossero in grado di integrarsi. Un solo dato è certo: questi sincretismi hanno sempre funzionato per accumulazione e mai per cancellazione. La tragedia greca, che di un sincretismo religioso è la monumentale allegoria, rappresenta egregiamente questo fenomeno: le preindoeuropee Furie, che perseguitano Oreste, macchiatosi di un delitto di sangue, per la mediazione delle divinità olimpiche indoeuropee, ossia Atena, e delle leggi della città, ossia Atene, si trasformano in Eumenidi e proteggono i cittadini.

Mi sento di poter dire che, probabilmente, sarebbe meglio che questi presidi, anziché imparare a menadito le direttive emanate da qualche grigio burocrate del MIUR, andassero a leggersi Eschilo: ne guadagnerebbero in equilibrio e in transaminasi. Non si può pensare che il modo di integrare i non cristiani in una società di origine cristiana, culturalmente creatasi grazie al cristianesimo, sia eliminare ogni afflato tradizionale, ogni identità: così non si fa integrazione, ma si produce un deserto. Anche un bambino capirebbe che cancellare ogni simbolo di qualsiasi tradizione è una scellerata operazione iconoclasta e non un’illuminata azione di accoglienza: un bambino sì, ma, probabilmente, un automa no. E così, vorrebbe che diventassimo questo sistema disumano di intendere l’integrazione e la multiculturalità: macchine, cellule, udarniki o apparatchnik privi di coscienza, di idee, di fantasia, come in un incubo staliniano. O, magari, più semplicemente, siamo governati da degli stupidi: si tratta solo di peggiocrazia che, dai vertici ministeriali, giù giù, a cascata, arriva fino agli istituti comprensivi di periferia.

Stupidi al cubo, perché, in circostanze particolari, quando la capacità di affrontare i problemi viene a galla, offrono ai nostri ragazzi soluzioni che non tamponerebbero una puntura di spillo: dopo la strage di Parigi, la risposta della scuola non è stata organizzare incontri, spiegazioni, confronti, ma stabilire un minuto di silenzio. Una scuola che organizza ogni tre per due workshop e giornate per questo e per quello, dal femminicidio all’educazione alla legalità, dal veganesimo all’omofobia, non è stata capace di radunare gli studenti nelle aule e negli auditorium per spiegare loro la differenza tra un salafita ed un sufista, tra un terrorista ed un fedele. Poi, si vorrebbe combattere il terrorismo con la cultura? La cultura è una cosa viva, che si costruisce e si alimenta un giorno dopo l’altro: e che si nutre di confronti e di continue integrazioni. Non c’è mai stata né mai ci sarà una cultura dell’appiattimento, dell’azzeramento delle specificità, dell’eliminazione dei caratteri individuali: la civiltà del domani dev’essere multiculturale, multireligiosa, multietnica, nel rispetto di tutti. Non incolta, atea, deetnicizzata, nel disprezzo di tutti. Altrimenti, nelle nostre cattedrali avremmo dovuto sostituire gli affreschi con una mano di intonaco: e poi sarebbe stata dura sceglierne il colore, visto che il bianco, per l’Islam è il colore del lutto. Festeggiamo il Natale, le feste islamiche, quelle maori: tutte le feste del mondo: con gioia e con comune rispetto e, fra cento anni, avremo creato un nuovo sincretismo e una nuova cultura. Cancelliamo la nostra identità e, fra cento anni, avremo semplicemente cessato di esistere. Che, dal punto di vista di qualche preside, è comunque una soluzione, immagino.




Caro Gori, ci faccia la grazia! Cambi le regole alle benemerenze

Giorgio Gori
Giorgio Gori

Caro sindaco Gori,

lei che si è posto, e poi imposto, come innovatore, ci faccia la grazia. No, niente di ultraterreno. Ci accontentiamo di molto meno, di qualcosa che è alla portata di una persona pragmatica e di buon senso come lei. Ma ci faccia ‘sta grazia laica: modifichi radicalmente le modalità con cui ogni anno, sul far del Natale, vengono assegnate le cosiddette benemerenze civiche. Qui non si discute delle persone o degli enti e associazioni che vengono premiati. Ma, come diceva il poeta, è il modo che “ancor m’offende”.

Non c’è edizione che non preveda una polemica su questo o quel personaggio escluso o incluso nell’elenco. Non c’è anno che se la Giunta è di centrosinistra la parte avversa non accusi di faziosità chi decide e viceversa quando alla guida della città c’è il centrodestra. E ogni volta i cronisti son costretti a riportare le proporzioni. Per dire: quest’anno 9 riconoscimenti sono stati attribuiti su indicazione della maggioranza che lei governa e 3 della minoranza. L’esatto contrario succedeva fino a poco fa, quando a Palazzo Frizzoni regnava Franco Tentorio.

Non ci vuol molto a comprendere che questo modo di procedere non è serio né corretto né tantomeno in linea con quel valore civico (quindi al di sopra delle parti) a cui ci si richiama. Ma non può che finire così, caro sindaco, fintanto che il compito di decidere a chi assegnare le benemerenze e le medaglie d’oro è la Giunta. Succede a Bergamo come a Milano, dove l’assegnazione degli Ambrogini d’oro si risolve ogni volta in un volgare, per quanto metropolitano, mercato delle vacche.

Chi ha avuto la ventura di seguire le vicende comunali nell’ultimo ventennio ha visto di tutto tra i premiati. Non stiamo qui a rivangare nomi e cognomi per non mancare di rispetto alle persone anche se sono stati assegnati riconoscimenti che gridano vendetta, a destra come a manca. Così come, ci permetta ancora caro sindaco, ci pare davvero un malvezzo, fatte le debite eccezioni, l’assegnare benemerenze a gogò alla memoria. Anche qui, non è che i destinatari non siano degni, ma forse il valore di un riconoscimento è tale se dato in vita, come esempio per i cittadini e insieme gratificazione civica per chi lo riceve. Troppo spesso, invece, le persone di valore vengono riconosciute solo quando passano a miglior vita. Quasi fosse un risarcimento postumo.

No, forse si può cambiare. Ecco perché il richiamo all’innovazione. Non si tratta di cancellare (come pure fece la buonanima del sindaco Gian Pietro Galizzi all’inizio degli anni Novanta) ma di cambiare. Non ci vuole molto. Per non limitarci ad un auspicio, suggeriamo due modifiche. Anzitutto, la scelta dei benemeriti venga affidata ad un comitato di saggi. Tre, o al massimo cinque, non di più, scelti per riconosciuti valori morali, professionali e civici. Lei, sindaco, è uomo di mondo di larghe vedute. Non dovrebbe esserle difficile pescare personalità indiscusse in grado a loro volta di fare scelte che non assumano colorazioni partitiche o personalistiche.

In secondo luogo, riduciamo drasticamente i riconoscimenti. Il regolamento consente fino a cinque medaglie d’oro e dieci benemerenze. Salvo eccezioni (come quest’anno perché le medaglie saranno solo 2), si è sempre toccato il tetto massimo, così da dare ampia soddisfazione al manuale Cencelli. Ma perché, per dare davvero un valore straordinario alla scelta, non limitarsi a 5 in tutto?

Si deve premiare la vera eccellenza, il valore straordinario, quel qualcosa in più che va al di là di aver onorevolmente, e magari ammirevolmente, fatto il proprio dovere, aver ottenuto successo nella professione o dedicato tempo prezioso alla collettività. Solo così si può volare alto, lasciare a terra le meschine polemiche politiche, e consentire alla città e ai cittadini di tributare il giusto omaggio alle sue espressioni, personali o organizzative, migliori.




Contro il terrorismo servono neuroni più che muscoli

terrorismo parigiUna domanda che ricorre di questi tempi e che, talvolta, assume i toni tra il lamentoso e il disperato è: come ci si difende dal terrorismo? Dal terrorismo non ci si difende, gentilissimi lettori: o, perlomeno, non ci si difende come comunemente è inteso questo concetto. Non esiste un sistema antiterroristico abbastanza esteso ed efficace, non ci sono contromisure sufficientemente sicure, nessuna forma di intelligence è tanto evoluta da dare ragionevoli garanzie di successo. Dal terrorismo non ci si difende con la prevenzione a breve termine: il meccanismo stesso dell’operazione terroristica si basa sulla sua imprevedibilità. Perché il terrorismo, in un certo senso, funziona come il diabete o la distrofia: sappiamo che si tratta di malattie che non guariscono, ma di cui possiamo diminuire, fino quasi ad annullarli, i sintomi. Nel caso del terrorismo, i sintomi e la malattia coincidono: e, come per le malattie, un’arma molto efficace per combatterlo sono la profilassi e lo stile di vita, mentre, per i sintomi, possediamo cure che possono ridurne tanto l’incidenza quanto le conseguenze. La causa e l’effetto, per così dire.

Non illudiamoci: il terrorismo è un’arma della modernità, e, finché si manterranno vivi i suoi presupposti, sociali, politici, religiosi, esso continuerà ad esistere. E’ l’arma del debole contro il forte, del povero contro il ricco: dalle bombe dei nichilisti ottocenteschi fino ai kamikaze in nome di Allah, il terrorismo è una guerra asimmetrica, non tanto nelle modalità quanto nei belligeranti. Non voglio arrivare a dire che, finché ci sarà una minoranza che sfrutta senza scrupoli una maggioranza, il terrorismo continuerà a prosperare, ma, per certo, è in quel contesto che esso si è sempre sviluppato, se escludiamo i bombardieri del commodoro Harris ed i loro più recenti succedanei statunitensi. Ma con questo tipo di ragionamenti storico-politici, rischiamo di perderci: vorrei, invece, limitarmi ad indicare alcuni possibili palliativi al terrore, posto che, come ho detto, di cure vere e proprie non ce n’è.

Innanzi tutto, parliamo dell’eventualità di un attacco terroristico, postulando che esso non avvenga in un sito davvero inaspettato, ma contro un bersaglio, diciamo così, più prevedibile, come una stazione, una manifestazione, un luogo d’incontro. La prima arma di difesa non sono le forze dell’ordine, che sono poche, spesso male armate e non addestrate alla bisogna e che, comunque, non possono certamente coprire l’intero spettro dei possibili bersagli: la prima arma siamo noi. Il nostro panico, la nostra incapacità reattiva, il nostro disordine sono un amplificatore degli effetti di un attacco terrorista. Dobbiamo imparare ad essere più ordinati, composti, il più possibile adeguati al difficilissimo compito di affrontare un’esperienza così terribile.

I morti di Parigi, in larga parte, si sono fatti ammazzare come agnelli sacrificali: l’attentatore sul “Thalys” Amsterdam-Parigi, disarmato da quattro comuni cittadini, avrebbe potuto fare una strage. Invece, l’hanno bloccato. Alcuni di questi cittadini erano militari: avevano, se non un addestramento specifico, una certa forma mentis. Ecco, dobbiamo sviluppare questa forma mentis: non girare armati fino ai denti, ma sapere affrontare un pericolo con un po’ più di decisione. Non è mica facile, lo so, ma questo può salvare molte vite. Così come abituarsi a muoversi meno caoticamente, a pazientare, a fare la fila. Di più, come singoli e pacifici cittadini, non possiamo fare.

Invece, a livello profilattico, si può fare molto: lavorare sia sui musulmani per nulla aggressivi, che sono la maggioranza, sia nelle attività di infiltrazione ed intelligence. Perché il terrorismo si batte soltanto con armi non convenzionali: isolando, ad esempio, i buoni dai cattivi. Le brigate rosse furono sconfitte quando la sinistra le isolò: furono i comunisti buoni a sconfiggere quelli cattivi, se mi è concesso. Così deve avvenire per questi integralisti: da una parte, ridurre il loro bacino di arruolamento, dall’altra aumentare la reciproca conoscenza, il dialogo, la comprensione tra le loro possibili vittime. Che, vi ricordo, sono in larga misura musulmane. E questo vuol dire, insieme, controllare e fidarsi, reprimere ed integrare. Insomma, distinguere il grano dal loglio, il che è precisamente ciò che le politiche d’accoglienza e di integrazione praticate dall’Italia hanno evitato accuratamente di fare. Certo, aumentare dotazione ed organico delle forze di polizia serve: ma il terrorista sceglie un bersaglio anche in base al grado di sorveglianza che vi può trovare.

Semmai, bisogna cercare di penetrare il sistema: di infiltrare finti affiliati, di selezionare informatori, di individuare i vivai del terrorismo. E, a più lungo respiro, si deve lavorare su altri presupposti: eliminare, ad esempio, le ragioni profonde per cui un giovane europeo possa avvertire il fascino di certi radicalismi, restituendogli dei valori forti ed un’identità comune. Lo so, sono tante cose insieme, e ci vorrebbe molto più spazio di questa mia rubrichetta. Una cosa, però, vorrei vi fosse chiara del mio pensiero: non è bombardando civili innocenti che si salveranno altri civili innocenti. Qui non occorrono muscoli, quanto neuroni.




Ecco perché sull’occupazione il mercato non sempre ha ragione

lavoroIl mercato non ha sempre ragione. Come si interviene con le norme Antitrust per difendere il supremo interesse per la concorrenza, dato che il mercato per sua natura tenderebbe ad eliminare per arrivare alle distorsioni del monopolio, qualcosa servirebbe anche a difesa dell’occupazione.

Con la concezione sempre più diffusa nelle aziende che quello del lavoro sia un costo da comprimere, esattamente come quello delle altre materie prime, e quindi, con un’estremizzazione, tendenzialmente da ridurre fino all’azzeramento, si mettono a rischio alcuni fondamenti del nostro sistema socioeconomico. La nostra società è basata sui consumi e, nell’impossibilità che tutti siano imprenditori, il costo del lavoro visto, dall’altra parte, rappresenta anche la capacità di acquisto. La difficoltà di avere un reddito fisso, sempre perché essere lavoratore autonomo non è per tutti, complica inoltre la possibilità dei giovani di essere indipendenti e magari crearsi una famiglia, per un più equilibrato demografico. E analogamente la tenuta del sistema previdenziale, ben lontano dall’essere contributivo, è messa a dura prova dal fatto che si riducono le entrate da parte dei lavoratori in attività, mentre aumentano le uscite per le pensioni.

Trovare una soluzione non è facile perché l’interesse collettivo verso la piena occupazione si scontra con la necessità delle singole aziende di essere maggiormente competitive sui costi, incluso quello del lavoro. Qualcosa da un punto di vista politico si può fare: ad esempio rendere sempre più neutra, se non agevolata (ma in maniera strutturale), dal punto di vista fiscale, la componente occupazionale. Ma prima di tutto sarebbe necessaria una condivisione sociale sul fatto che l’intervento sul personale sia considerato come l’ultima opzione, dopo che sono state tentate le altre strade. Cosa che invece non avviene, sia perché il mercato finanziario – nel caso delle aziende quotate in Borsa – generalmente apprezza queste operazioni, sia per la “facilità” di tagliare certi costi rispetto ad altri.

Emblematico è il caso del piano industriale delle Poste, che prevede una riduzione di 22.500 posti entro il 2019, parzialmente compensato da 1.600 assunzioni all’anno, che porterà in ogni caso a un organico in calo da 145 mila a 131 mila persone. Il risultato di tutto questo in realtà non è tanto una riduzione dei costi quanto un loro non aumento dato che alla fine gli oneri del personale, con 14 mila persone in meno, passerebbero dagli attuali 6,2 miliardi a 6,1 miliardi nel 2020. Ma ne vale la pena? Non c’erano altri strumenti per arrivare a questo risultato?




Testimone dell’orrore a Parigi, ma anche dell’abisso tra Francia e Italia

parigiSei a Parigi per una breve vacanza e scoppia il finimondo. Mentre passeggi con la tua famiglia tra i mercatini natalizi degli Champs Elysées, in altri quartieri della città, ma nemmeno troppo lontani, lo scoppio delle bombe e il crepitio dei fucili irrompe con il suo straordinario carico di terrore e violenza nella vivace frenesia del venerdì sera. Lì per lì nemmeno ti rendi conto dell’enormità che sta succedendo e che solo per un disegno del destino (poche ore prima eri passato proprio dalle strade segnate dal sangue) ti ha risparmiato. Ma poi arriva l’onda emotiva degli sms e delle telefonate di parenti, amici e colleghi. Le immagini della TV, le parole dei testimoni, le lacrime per le vittime. E gli sguardi, quegli occhi persi nel vuoto, le teste rivolte al cielo. “C’est la guerre” sussurra guardando le immagini che scorrono sul televisore una addetta di un albergo la mattina dopo. È il primo segno di una Parigi smarrita ma consapevole di essere ormai diventata la nuova frontiera del terrorismo. C’è il dolore, la paura, la rabbia, certo. Ma anche la dignità, la determinazione a non farsi piegare dall’orrore, la forza di stringersi in un abbraccio collettivo per cercare di rispondere alla minaccia terroristica senza distinzioni ne’ divisioni. Si prova un profondo rispetto, un senso di ammirazione che trova ulteriore conforto nel vedere come tutte le forze politiche francesi, di governo come di opposizione, evitano qualsiasi commento, lasciando che parli solo lo Stato. Nelle stesse ore, lo vedi prima via satellite e poi dal salotto di casa, nei programmi televisivi italiani sulla strage parigina va in scena uno spettacolo fra il penoso e il vergognoso. In prima serata, sul canale principale, dallo studio del talk show più famoso rimbalzano le urla scomposte di un agitato segretario di partito contro il ministro dell’Interno che a sua volta non riesce ad andare al di là di una spocchiosa autodifesa del proprio operato. Seguono le dichiarazioni di questo e quell’altro leader, tutti impegnati a trattare il terrorismo alla stregua di una baruffa da cortile. E il giorno dopo, l’abbuffata è completa. C’è il conduttore invasato, reduce da un surreale e criticato viaggio in Iraq, che chiede ad un rappresentante di comunità islamica un’abiura in diretta. La collega esperta in sceneggiate che ripete compulsivamente “basta guerre, basta guerre” e poi spruzza benzina sugli ospiti scelti ad hoc per scatenare guerre (solo verbali, per carità). Il direttore di giornale che prende a capocchia un versetto del Corano, quello che gli è più funzionale per trasformare l’Islam in una ideologia della violenza (come se il cattolicesimo nei secoli avesse sempre solo dispensato ramoscelli d’ulivo…). Il presidente di una associazione umanitaria, un uomo coraggioso beninteso, che demolisce tutte le analisi degli interlocutori con un inappellabile “non avete capito niente”. E dalla strage non sono trascorse nemmeno 48 ore. L’abisso è profondissimo. È morale e culturale insieme, di costumi e usi politici ma anche giornalistici. Francia e Italia, così vicine e così lontane. Il cuore è a Parigi, la mente guarda a questo squallido spettacolo e non può respingere lo sconforto. Prima o poi, inutile illudersi, pagheremo il nostro tributo. Nessuno può dire dove, come e quando, ma va messo in conto. I francesi oggi in ginocchio ci stanno dando una grande lezione. Vogliamo provare a comprenderla, e se possibile a farla nostra, o dobbiamo per forza aspettare di contare i morti per mostrare un sussulto di dignità?




Processo Yara, se il giornalismo diventa uno scontro tra tifoserie

Forse era inevitabile. Dopo quel che si è visto per i casi di Perugia e Avetrana, probabilmente era illusorio pensare che il teutonico contesto bergamasco potesse evitare, attorno al processo per l’omicidio di Yara, il ripetersi di protagonismi e di esibizionismi già ammannitoci in precedenza. E infatti, piano piano, insieme alla inevitabile spettacolarizzazione che innesca una vicenda così drammatica e così sentita dall’opinione pubblica, è arrivato il carico degenerato dello scontro tra opposte tifoserie giornalistiche. Una partita che non è nemmeno più, come pur sarebbe comprensibile, tra colpevolisti e innocentisti (tutti i grandi processi italiani sono stati fonte di vivaci contrapposizioni, è fisiologico), ma tra vendicatori della verità, o supposta tale, e moralisti, magari con qualche scheletro nell’armadio.

Quel che è certo è che, limitandosi a mettere a confronto le cronache delle udienze che si stanno susseguendo dentro l’angusta aula di via Borfuro (il processo assolve ad una funzione pubblica e il presidente del Tribunale dovrebbe facilitare, anziché ostacolare, il lavoro degli operatori dell’informazione), sembra di assistere a film diversi. Ci sono risposte dei testimoni che qualcuno riporta ed altri no, atti che taluno giudica fondamentali e talaltro nemmeno considera, ricostruzioni che impegnano paginate intere e altrove non meritano nemmeno mezza riga. Da lettori, non avendo la possibilità di verificare direttamente quel che avviene nel dibattimento, si rimane straniti e spiazzati. E con il sospetto, o qualcosa di più conoscendo certe umane derive della professione (nessuno ne è immune), che alle diverse interpretazioni diano un fattivo contributo fattori che poco hanno a che vedere con le regole del mestiere.

Ci sono quelli che pensano di guadagnare spazio (copie o ascolti in tv) raccontando il contrario di quel che è la narrazione maggioritaria, magari mescolando elementi veri sottovalutati colpevolmente da altri e suggestioni oniriche. Ci sono quegli altri che, abituati a frequentare il palazzo che fornisce loro spunti di lavoro quotidianamente, magari anche in modo inconsapevole attribuiscono maggiore credibilità e peso all’interlocutore consueto piuttosto che a quello che viene da fuori (e magari, come l’avvocato di Bossetti, usa toni e modi censurabili). E quegli altri ancora che scoprono improvvisamente certi cattivi usi, soprattutto televisivi ma non estranei pure alla carta stampata come quelli di pagare le cosiddette interviste esclusive, e s’ergono ad implacabili vendicatori incuranti di confondere vittima e carnefici.

Sappiamo, così scrivendo, di andare a toccare il nervo scoperto della suscettibilità della corporazione a cui apparteniamo a pieno titolo, ma ciò detto, si può provare a interrogarsi sulla piega che ha preso questa vicenda? Ci si può chiedere se la passione, diciamo così, non abbia in qualche caso sconfitto la ragione e tirato i fatti e le situazioni per la giacchetta? Si può – se si è tutti d’accordo nel ritenere che vadano rispettate le persone (presunti colpevoli e familiari sicuramente incolpevoli compresi) – provare a ritornare alle vecchie e care cronache giudiziarie? Quelle magari un po’ barbose ma inchiodate ai fatti. Quelle che hanno fatto la storia del giornalismo italiano. Le opinioni, invece, anche le più fantasiose, sono sempre lecite. E sono pure utili spesso, perché aiutano a ragionare, al di là che le si condivida o no. Ma teniamole separate dal racconto. Alla ricerca della verità bastano e avanzano i giudici. Sempre ammesso che, almeno loro, ci riescano.




Se Bergamo finanzia chi è fuori dalla “normalità sociale”

Il sabotaggio dell'Alta Velocità a Bologna
Il sabotaggio dell’Alta Velocità a Bologna

Un tempo, c’erano i nazionalismi: erano il modo di sentirsi vivi, di appartenere a qualcosa, degli europei del primo Novecento. Non erano soltanto questo, intendiamoci: i nazionalismi si declinavano in molti modi, dall’irredentismo di chi si sentiva parte di una Nazione cui non corrispondeva uno Stato, fino allo sciovinismo di quelli che pensavano di essere migliori degli altri, solo perché erano Tedeschi oppure Francesi o Italiani. Questa visione del mondo partorì la prima guerra mondiale, con quel che ne consegue. Finita la guerra e cicatrizzate, almeno in parte, le ferite del mondo, la cosiddetta dottrina Briand-Kellog postulò che la guerra non fosse un modo di risolvere le controversie internazionali: era il 1928, e dieci anni dopo eravamo ancora alla vigilia di un conflitto planetario. Questa volta, a determinarlo non furono i nazionalismi quanto le ideologie: partiti-stato che sacrificarono la propria popolazione sull’altare di visioni aberranti di nuovi ordini mondiali, tanto fascisti quanto comunisti. Ne uscimmo ancora più martoriati di quanto non lo fossimo stati nel 1918 e, per di più, senza avere cancellato il virus ideologico che, anzi, mantenne il mondo in uno stato di semi-guerra permanente, per decenni.

Se, grazie al cielo, questo scontro ideologico non sfociò mai in una guerra mondiale, ma, al massimo, in conflitti periferici, come nel caso della Corea o del Vietnam, tuttavia esso scatenò in Italia una piccola guerra generazionale: una stagione di ribellismi e di ribellioni che, oggi, definiamo semplicemente “Sessantotto”, ma che si protrasse a lungo, con una scia di violenze e di morti che, se pure incomparabilmente minori per numero rispetto ad una guerra tradizionale, pure segnarono profondamente l’unità nazionale e il tasso di umanità del nostro Paese. Poi, come per la fine di un incubo, anche la stagione delle ideologie si esaurì: il sogno delirante del comunismo sovietico si infranse contro la realtà dell’economia globale, costringendo i leader comunisti ad ammettere il proprio fallimento e ad avviarsi ad una progressiva regressione del totalitarismo, mentre la formidabile impostura degli opposti estremismi, un poco alla volta, smise di essere di stretta attualità, per consegnarsi alla storia.

Eppure, oggi, una parte di quest’odio, qualche scampolo di disumanità, tracce minuscole dei lager e dei gulag continuano ad esistere: il mondo democratico a qualcuno dà ancora fastidio, incredibilmente. Per questo, io giungo a sostenere che, alla luce della mia esperienza di storico e di uomo, vi sono atteggiamenti che qualcuno si ostina a definire politici e che, viceversa, sono semplicemente delle patologie: delle vere e proprie malattie mentali. Intendiamoci, gli estremismi sono sempre esistiti, nell’età moderna: io non sto parlando di posizioni estreme, sia sul versante reazionario che su quello anarco-libertario. Io parlo di una forma di demenza di quelle che necessitano di una cura specifica in regime di TSO. Perché non saprei in quale altro contesto collocare, ad esempio, l’atteggiamento di un sedicente democratico che, in nome della democrazia, pretenderebbe che avessero diritto di parola in pubblici consessi solo ed esclusivamente coloro i quali la pensino come lui o facciano pubblica dichiarazione di condividere la sua visione del mondo e della storia, se non in quello delle aberrazioni psichiche.

Eppure è capitato a me di imbattermi in questo signore, a Bergamo, nell’anno di grazia 2015. Farò un altro esempio: come catalogare quei signori che, inneggiando ad un mondo democratico ed antirazzista, interrompono una linea ferroviaria per danneggiare una manifestazione pubblica, autorizzata, di gente che non la pensa come loro, se non antidemocratici e razzisti? Razzisti ideologici, razzisti etici, ma cosa cambia, se il risultato è identico: non permettere al diverso di esprimersi? Alla faccia delle citazioni a vanvera di Voltaire e di Rousseau! Credo che si debba prendere atto che vi sono, nella nostra società, alcune frange politiche, alcune sensibilità ideologiche, che, in realtà, sono soltanto una forma molto particolare di psicosi: una malattia mentale mascherata da ideologia, insomma. Altrimenti non si spiega: qualunque cretino capirebbe che non si può difendere la libertà negandola a qualcuno e che non può esistere una democrazia oligarchica, in cui soltanto pochi e politicamente selezionati possano esprimere liberamente il proprio pensiero.

Qui non è questione di opinioni: è questione di sistema nervoso, di meccanismi mentali, di semplicissima capacità logica. La conclusione che ne traggo è che questi individui o questi gruppi di persone siano insani di mente e vadano trattati come tali: si debbano ricondurre nell’alveo della normalità sociale. Come? Bella domanda: lobotomizzarli non si può, anche se, forse, sarebbe una soluzione ottimale. Magari, circoscrivendone l’azione, isolandoli, levando loro la possibilità di nuocere. E non finanziandoli coi soldi dei cittadini, come succede a Bergamo, tanto per dire…




Contante, il limite a 3mila euro e i comportamenti dei consumatori

eurosito.jpgCi si è creati un falso problema. Innalzare il tetto all’uso del contante va nella direzione dell’abbandono della lotta all’evasione oppure in quella di uno stimolo ai consumi? Forse verso entrambi, ma questo non deve dare scandalo, perché un po’ di “nero” è fisiologico e può essere da stimolo anche ad un’economia sana. Il problema insorge semmai quando un’economia si basa sul “nero” come fattore concorrenziale, ma su questo l’innalzamento del limite al contante da mille a tremila euro non incide più di tanto. La lotta al contante che sta dietro lo sviluppo della tracciabilità si fa forza del fatto che nei Paesi basati su economie sommerse è maggiore l’utilizzo di soldi liquidi, che, come si dice, non hanno odore. Ma se anche ci fosse la tracciabilità totale, con memoria anche dell’acquisto più insignificante, e quindi con la scomparsa totale del contante, al di là dei problemi tecnici dell’operazione, il “nero” troverebbe comunque il modo per ritornare. Ad esempio, con una valuta straniera, i bitcoin o qualche altra forma di economia parallela.

Se la tracciabilità parziale degli acquisti ha comunque effetti parziali nella lotta all’evasione, almeno fino a quando sono numerosi gli acquisti esclusi dal controllo, di certo ha un effetto deprimente negli acquisti sia da parte di chi ha contanti a vario titolo “irregolari”, sia da parte di chi per diffidenza preferisce tenersi sotto il materasso soldi regolari come provenienza e nel rapporto con il fisco, sia da parte di chi è infastidito dal sentirsi sotto controllo “perché non si sa mai”.

In ogni caso, come i negozianti possono testimoniare, da quando c’è il redditometro, che si abbina alla tracciabilità degli acquisti, c’è stato un calo in particolare negli acquisti “impegnativi”. E se si tiene per buono il report sulla fedeltà fiscale che calcola il “nero” in Europa come il 15% sul Pil – e in Italia al 17%, come media tra il 13% del Nord (la Germania è al 12%), il 16% del Centro e il 27% del Sud -, si può pensare che la flessione negli acquisti, con la riemersione anche ai fini tributari, attraverso l’Iva, del denaro circolato in “nero”, faccia sì che il gioco non valga la candela.

La sindrome da Grande fratello per la quale in Italia l’uso della carta di credito (anche perché poco stimolata dal fatto che è un costo più che un vantaggio) è poco utilizzata va oltre la diffusione del “nero”. Complici le frodi e i furti d’identità, in Italia c’è più diffidenza per una carta di credito che per una banconota in contante (che una volta, quando c’era la lira aveva anche scritto esplicitamente “pagabile a vista al portatore”) mentre negli Stati Uniti avviene il contrario e chi paga cash, anche un pacchetto di chewing gum, è visto come un probabile riciclatore.

 

Da questo punto di vista, alzare il tetto della tracciabilità a un livello che non viene considerato opprimente, quello dove in ogni caso non si utilizzano i contanti, ma gli assegni, elimina un disincentivo agli acquisti da parte di chi ha l’idiosincrasia del controllo. Può sembrare irrazionale la scelta di rinunciare ad un acquisto solo per non farsi notare, anche se non c’è niente di irregolare, ma è solo uno dei tanti aspetti poco razionali nei comportamenti dei consumatori. E la politica fa bene a tenerne conto.




Altro che Marino! Da cambiare ci sono soprattutto i romani

Ignazio Marino
Ignazio Marino

Naturalmente, è finita all’italiana: cioè in caciara campanilistica. L’affondo del presidente dell’Autorità anticorruzione (“Milano è la nuova capitale morale, Roma non ha gli anticorpi necessari”) ha dato il la ad una stucchevole competizione tra tifoserie che si sono date battaglia a suon di luoghi comuni, del tutto incuranti di approfondire il tema sollevato dal magistrato. In qualche modo è stata colpa anche di Raffaele Cantone, perché fare raffronti del genere è improprio, specie se l’autore rappresenta una istituzione. E ancor di più, suona surreale assegnare la palma di modello di virtù ad una città in cui le inchieste e gli scandali non si sono certo esauriti ai tempi ormai lontani di Mani Pulite (è ancora fresco l’arresto del vicepresidente della Regione Mario Mantovani).

Ciò detto, lasciando che i milanesi smaltiscano l’euforia per il successo (di numeri più che di contenuti) di Expo, è però utile prendere un verso della provocazione cantoniana per qualche riflessione sul caso Roma. Dove da mesi è finito nel tritacarne, delle forze politiche come dei commentatori, il sindaco Ignazio Marino. Anche qui molto italicamente, pare che il primo cittadino sia la sentina di tutti i mali. Decenni di malgoverno e di degrado gli sono stati addebitati con gli interessi. Tutto ciò che non funziona è per sua responsabilità. La città è sporca? Colpa di Marino. La metropolitana va in tilt? Colpa di Marino. Gli autisti degli autobus fanno flanella? Colpa di Marino. I vigili si danno malati in massa? Colpa di Marino.

E’ un crucifige che fa comodo a molti. Di sicuro alle opposizioni di centrodestra che devono far dimenticare i disastri e le vergogne della Giunta Alemanno, ma anche al Partito democratico che vuol evitare che si ricordi come Marino è stato utilizzato come foglia di fico per celare lo stato penoso (come ha denunciato l’ex ministro Fabrizio Barca) del partito e della sua classe dirigente locale. Così come fa comodo ai tanti autorevoli editorialisti che cercano di rifarsi una verginità dopo anni di dolce vita nei salotti gomito a gomito con quelli che hanno sgovernato la Capitale.
E i cittadini? Anche per i romani è un comodissimo alibi scaraventare addosso al sindaco ogni nefandezza. Così non devono rispondere delle loro responsabilità. Quelle di chi si rifiuta di pagare il biglietto dell’autobus o della metro, quelle di chi getta in strada ogni genere di rifiuto, quelle di chi veste i panni del dipendente pubblico e fa l’assenteista. Inutile star qui a stabilire se ci siano o meno gli anticorpi, quel che è certo è che il marcio non sta solo nella testa del pesce ma anche nella coda. Ed è questa la consapevolezza che manca.

Alla fine, seppur con grande fatica, si riuscirà a far saltare Marino (che pure le sue sciocchezze le ha fatte). Ma fino a che non vi sarà una piena assunzione di responsabilità da parte di tutti, a partire dai cittadini romani che devono aumentare il tasso di rispetto delle regole di convivenza civile, sostituire un sindaco con un altro sarà solo l’ennesimo remake del Gattopardo (cambiare tutto per non cambiare nulla).