Cari lettori, ecco il rimedio per sconfiggere il doppiopesismo

Roberto Benigni
Roberto Benigni

Oggi vi voglio parlare di una cosa quasi rapsodica: di una peculiarità autoctona, che si chiama doppiopesismo. Da un punto di vista storico, ho ragione di ritenere che si tratti di un portato, sia pure alquanto muffoso, della cara vecchia guerra civile, origine e matriarca di tutti i mali italici. Stabilito che fu negli anni della guerra civile, e in quelli immediatamente successivi, che la verità, da una parte come dall’altra, venne ritenuta più un orpello luccicante che la materia essenziale della storia, ne deriva che il nostro bravo doppiopesismo altro non sia che l’ipocrisia storica trasferita nella realtà fenomenica, ovvero la sua applicazione tangibile. Mi spiego: in Italia esiste una percezione delle cose, di quelle materiali quanto di quelle spirituali, che, in determinate circostanze, trascura serenamente tanto il dato fisico che quello metafisico. A seconda di chi sia l’autore di un’azione, ad esempio, questa azione non solo diviene buona o cattiva, ma perfino vera o falsa, trascurabile o essenziale: insomma, non solamente le umane cose, qui da noi, appaiono relative, ma financo il loro baricentro, perfino lo Schwerpunkt. Prendiamo uno dei vati del pensiero democratico nazionale, che, essendo noi un Paese di giullari, non può che essere un comico: mi riferisco al miliardario comunista Roberto Benigni. Lo so che miliardario comunista è un po’una contraddizione in termini, un ossimoro, ma non stiamo tanto a sottilizzare.

Benigni, dicevo, qualche anno fa, ma nemmeno tanti, sosteneva che la nostra Costituzione è la più bella del mondo, e che nessuno può pensare di metterci impunemente mano. Ora, che la nostra Costituzione sia la più bella del mondo, mi pare un filino esagerato, date le evidenti pecche della Carta: ma diamogliela per buona, postulando che conosca le leggi superprimarie come conosce la Divina Commedia, ossia per annasamento, più che per studio. Quel che colpisce è che, quando l’attentatore costituzionale era Berlusconi, ossia, per Benigni, l’incarnazione del nemico, la sua attenzione in difesa della Costituzione era assolutamente vigile: oggi, che la medesima Costituzione viene modificata di brutto da uno che, peraltro, è stato scelto da un Parlamento dichiarato incostituzionale dalla Consulta, senza nemmeno il lasciapassare di un’elezione vinta, tutto va bene, Madame la Marquise.

Benigni, intanto, pisola e sonnecchia, nel suo dorato buen retiro, con la foto di Che Guevara e quella di Paperon de’ Paperoni: i suoi due modelli. Facciamo un altro esempio: parliamo di malaffare. Quando il malaffare pertiene ad una certa parte politica, si tratta di inquinamento mafioso, di tangentopoli 2, di dimissioni richieste a gran voce dall’altra parte politica. Quando sono i moralizzatori a finire nel mirino dei giudici, quelli che, fino ad un attimo prima erano i cattivi, impugnano la spada del diritto e reclamano le dimissioni di questi altri. Con una differenza di fondo: che quelli di centrodestra rubano e basta, mentre quelli di centrosinistra, oltre a rubare, ci tengono anche dei sermoncini sull’etica politica, da cui si evince che loro sono quelli bravi ed onesti, anche se li beccano con le mani nella marmellata. Doppiopesismo.

Sono doppiopesisti i politici, lo sono i giornalisti, lo sono perfino i giudici che, se sei un maschietto, in una causa di divorzio, ti danno torto quasi per presupposto; che, se sei uno straniero, ti fanno uscire di galera, ammesso che ci sia mai entrato, in tempi rapidissimi rispetto ad un Italiano. Alla fine, la gente si abitua al doppiopesismo, come si è abituata all’euro e, prima ancora, al passaggio dalle pertiche e dalle brente ai metri e ai litri: perché la gente si abitua a tutto. E su questo giocano proprio i doppiopesisti: una cosa, a forza di dirla, diventa vera: una regola, a forza di applicarla, diventa giusta. Dunque, non siamo più capaci di dubitare e, per conseguenza, di valutare: accettiamo le scempiaggini politichesi dei comici e delle soubrettes, come ne accettiamo gli svarioni ermeneutici in materia dantesca o gli errori di refilling delle labbra. E questo lo dobbiamo, in parte, proprio al doppiopesismo: all’idea che ciò che provenga dalla parte che percepiamo come ostile sia il male assoluto, l’errore, la volgarità. Mentre tutto ciò che porta la nostra targa è buono, bello, utile.

Questo, cari lettori, è l’esatto contrario della capacità critica: è l’acriticità faziosa. E su questo contano quelli che ci vogliono rimbambire, per poterci dare in pasto qualunque scemenza, senza che storciamo la bocca schifati. Il rimedio? Il rimedio è uno solo: la cultura. Contro la jattanza del settarismo culturale, ritornare alle origini: reimparare a leggere e a scrivere, per così dire. Capisco, tuttavia, che non è mica facile. Tutto rema contro: dalla scuola, che è una sentina di relativismo delirante, per cui se sbagli accenti ed apostrofi, ma esprimi due idee che collimino con quelle dell’insegnante, tutto va bene, per arrivare alla società civile, che raggiunge gradi di inciviltà inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Oppure, c’è un’altra soluzione al doppiopesismo: eliminare i pesi. A cominciare dal Parlamento. Ma come si fa?




Bene i nuovi parcheggi in stazione, ma ora pensiamo al resto della città

strisceA nessuno piace fare la figura del pirla: a quelli che scrivono sui giornali e che, anche se pubblicano i propri borborigmi sul bollettino parrocchiale, si credono latori di una verità rivelata, piace ancor meno. Invece, io vi confesso che, una volta tanto, sono contento di avere fatto la figura del fesso: di avere scritto, denunciato, pontificato, e di essere stato clamorosamente smentito dai fatti. Avevo scritto un pezzullo sulla faccenda delle multe ai motorini, fuori dalla stazione ferroviaria: uno dei soliti anatemi cimmineschi, in cui argomentavo, accusavo, giustificavo, concludendo l’epifonema con l’augurio che, anziché i vigili, l’amministrazione mandasse i pittori a dipingere le strisce di nuovi parcheggi (sottintendendo che ciò non sarebbe mai avvenuto). Invece, proprio mentre io, tutto tronfio e soddisfatto del mio capolavoro, lo stavo inviando al mio direttore, gli imbianchini comunali stavano dipingendo dei nuovi posti per le moto, accanto alla stazione. Come dire: l’era mei fa sito!

Che aggiungere? Mi sono sbagliato e faccio pubblica ammenda. Avevo la convinzione che quella dei giorni scorsi fosse stata un’operazione di bassa macelleria, per fare cassa a spese dei pendolari e, invece, si trattava di una manovra orchestrata, per rimettere un po’ le cose a posto: da una parte ti bastono se sgarri e, dall’altra, ti do l’occasione di non sgarrare. Almeno, spero che sia così, e che questa lettura, tardiva e penitenziale, non sia un altro clamoroso errore d’interpretazione: ossia che tutta la faccenda non sia solo fumo negli occhi. Gori uno Cimmino zero, comme d’habitude. Intendiamoci, alcune delle considerazioni che avevo scritto nell’articoletto incriminato le riscriverei seduta stante: un po’ perché sono un rompiballe recidivo e un po’ perché il problema rimane, nonostante la lodevole operazione pittorica.

I tifosi dell’Atalanta, i frettolosi di via Nullo e le sciurette della Montessori continuano a parcheggiare dove, come e quando non dovrebbero, sanzionati poco o nulla. E l’organico dei vigili rimane troppo basso per una città come Bergamo, specie quando c’è la calata dalle valli: troppo basso e male organizzato, certe volte. Insomma, la questione dei parcheggi è una di quelle sistemiche, centrali, enormi, per la nostra ridente cittadina: però, non si può pretendere che la si risolva in un colpo, come per la solerte pingitura dei nuovi spazi per i motorini alla stazione. Ci vuole un impegno costante e faticoso, nel trovare nuovi metodi e nuovi strumenti, nel potenziare ciclabili e navette: le prime, oggi come oggi, hanno un andamento psichiatrico e le seconde sono un tantino sottodimensionate per le reali esigenze. Ma, se, soltanto qualche ora fa, avrei concluso dicendo: ecco, quella delle multe ai pendolari è solo la punta di un iceberg che si chiama disinteresse nei confronti dei bergamaschi alle prese coi parcheggi, oggi mi viene, piuttosto da dire che è un primo, sia pur esile, segnale di attenzione.

In fondo, da qualche parte si deve cominciare. Così, rinuncio serenamente al mio amor proprio di articolista da operetta, vulnerato dall’incalzare degli eventi e dalla smentita del mondo fenomenico nei confronti delle mie proprie e personalissime accidie, per applaudire, serenamente, ad un atto di civiltà e di premura, nei confronti di una delle categorie più bastonate del, pur bastonatissimo, panorama orobico. Adesso, non rimane che proseguire con la stessa solerzia nei confronti dei moltissimi snodi critici del parcheggio cittadino: organizzare meglio e potenziare la polizia locale, multare salatissimamente chi contravviene con dolo e clamorosamente, soprattutto i recidivi, cui non basta una multa per decidere che non conviene contravvenire, ma ce ne vuole una bella batteria. E, poi, un passino alla volta, creare le cerniere tra i vari monconi di ciclabili, acquistare navette elettriche, distribuirle oculatamente sul territorio, stabilire orari ragionevoli.

Insomma, fare quello che si fa nei paesi civili. Siccome una sola scottatura a me, a differenza dei superuomini del parcheggio selvaggio, basta ed avanza, per capire l’antifona, mi asterrò da critiche sataniche e da corsivi avvelenati: darò tempo al tempo e fiducia a questa amministrazione, sul versante dei parcheggi. Aspetterò di vedere se questa rondinella pellegrina avrà fatto o meno primavera. E, mi sento di dire che, insieme a me aspetteranno, con la meravigliosa pazienza che li contraddistingue, anche i Bergamaschi. Ocio, però, che pazienza non vuol dire letargo: adesso che i pittori ci hanno fatto la mano, vediamo di farli trottare a dipingere righe bianche qua e là. Bianche eh, mica azzurre o gialle. Bianche. Perché va bene fare la figura da pirla una volta, e chiedere scusa ai lettori: ma non è che mi sia completamente pecorizzato. Iterum rudit leo…




Pezzoni si ritiene indispensabile e a Treviglio il clima s’avvelena

Giuseppe Pezzoni
Giuseppe Pezzoni

Bontà sua, il sindaco con laurea falsa Giuseppe Pezzoni ha annunciato che il 25 novembre lascerà il Comune di Treviglio. Prima, ha tenuto a far sapere, vuole far approvare l’assestamento di bilancio, in modo che il commissario che subentrerà fino alle elezioni della primavera prossima avrà la strada già tracciata. Forze politiche con un minimo di senso dell’etica e di rispetto delle istituzioni avrebbero dovuto imporgli di sparire al più presto. Ma tant’è, hanno preferito cercare di tenere in piedi l’altarino, del tutto incuranti del discredito che questa vicenda ha gettato e continuerà a gettare sull’immagine dell’ente pubblico. Non a caso Matteo Salvini, che forse non sa elaborare alte strategie politiche ma è dotato di innegabile fiuto, a specifica domanda ha risposto: “Pezzoni se ne deve andare”. Eppure, a Treviglio i leghisti per primi vogliono eccedere in realismo e così l’agonia continuerà.

In quale clima di tutti contro tutti è lì da vedere. Hanno fatto scalpore, per esempio, le dure parole usate contro la cittadina della Bassa (“è la vergogna d’Italia, è tutta un’orditura d’intrighi da cui la gente perbene si tiene alla larga”) nella lettera di dimissioni dall’architetto Daniela Lubreto, che proprio il Beppe de ‘noantri aveva messo a capo di “Treviglio unica”, la società che dovrà realizzare il parcheggio sotterraneo di piazza Setti. Naturalmente, tutti o quasi si sono scandalizzati per il giudizio forse ingeneroso ma non del tutto fuori luogo nei confronti della città, evitando così di entrare nel merito su due aspetti ben più rilevanti. Anzitutto, chi ha scelto la professionista che ora sputa nel piatto? E se è vero che c’erano già contrasti da diverse settimane tra lei e il Comune, perché è stato messo tutto a tacere? E qui veniamo al secondo punto: Daniela Lubreto nella sua lettera denuncia comportamenti quantomeno disinvolti (chissà se non c’è anche qualche rilievo penale…) nella procedura per l’assegnazione dell’incarico per il progetto preliminare di piazza Setti. Non è il caso di chiarire se si tratta di accuse infondate? I cittadini di Treviglio hanno il diritto di sapere la verità. E se anche l’architetto avesse raccontato un sacco di bugie, ritornerebbe la prima domanda sul modo in cui sono state valutate le sue capacità.

Dopo l’inchiesta sul caso Blister, con il sindaco Pezzoni e quattro assessori accusati di abuso d’ufficio, ecco quindi un’altra tegola. Non siamo sicuri sarà l’ultima perché l’esperienza insegna che quando la terra ha preso a tremare (politicamente parlando, s’intende) le scosse di assestamento si susseguono. I calcinacci possono cadere in testa a chiunque.

Ecco perché sarebbe stato meglio, di sicuro più responsabile, fare tutti un passo indietro, lasciando nelle mani di un commissario una doverosa fase di decantazione prima di gettarsi, ognuno con i propri argomenti e i candidati migliori, nella accesissima campagna elettorale che si scatenerà l’anno prossimo. Ma come dimostra il caso, pur diversissimo, del sindaco di Roma Ignazio Marino, sulla razionalità prevale sempre un senso di onnipotenza che fa sì che ci si ritenga indispensabili a prescindere. Con il risultato che quella che poteva essere un’uscita di scena dignitosa si riduce ad una ritirata tra i fischi e gli insulti.




Cari imbrattatori di fontane, la guerra è finita da 70 anni

Fontana LocatelliQuanto vale un eroe: quanto vale un vigliacco? Difficile dire: si tratta di due concetti plastici, per nulla identificabili con uno stato esistenziale, quanto, piuttosto, con uno stato dell’animo, che, come è noto, è ondivago nei sensi e nei sentimenti. Insomma, per farla corta, eroi o vigliacchi non si nasce e, forse, neppure si diventa: dipende dalle circostanze, dall’epoca in cui vivi, dall’educazione che ti impartiscono, dalle prove cui vieni sottoposto, dall’età, dal momento, da come ti sei alzato al mattino. Questo, in genere. Esistono, poi, persone o, meglio, personaggi, dotati di una maggior vocazione, eroica o vigliacca, degli altri: sono, in un certo senso, dei predestinati, per indole e per genetica. Antonio Locatelli era uno che, ad un certo punto della sua esistenza, dopo una vita tutto sommato comune, fatta di studio, di lavoro e di camminate in montagna, si è messo a fare l’eroe, e l’ha fatto per tutta la vita: fino a morirne, di eroismo. Cosa lo mosse non so dire: partito da via Paglia, che allora non si chiamava ancora così, approdò alla ricognizione aerea, e divenne il più bravo di tutti. Fece il podestà di Bergamo, ma lo silurarono, perché, già allora, se pestavi qualche callo importante, duravi pochino su quella cadrega.

Trasvolò le Ande, fece il deputato. Poi, venne la guerra d’Abissinia e il nostro, ormai in età da mettere la testa a posto, andò volontario: bombardò gli Abissini, cercando di accopparne il più possibile, come fa un qualunque soldato in qualunque guerra e, negli ultimi scampoli di una ribellione fuori tempo massimo, atterrò in territorio ostile e ci lasciò le penne. Detto così, sembrerebbe l’apoteosi dell’andarsela a cercare. Ma cosa ne sappiamo di come funziona un eroe? Cosa possiamo dire di uno che, dopo aver perso il carissimo fratello sulle groppe del Presena ed aver svolazzato per mezzo mondo, aveva ancora voglia di mettersi in gioco, a quarant’anni suonati, ed è andato a farsi ammazzare in Africa orientale? Magari, da bravi borghesi, potremmo anche fare spallucce e chiuderla lì: ma il Locatelli è anche il militare italiano più decorato d’oro che ci sia. Tre medaglie d’oro: Luigi Rizzo, l’affondatore della Vienna e della Santo Stefano, se n’ebbe due, si fa per dire, soltanto. E, allora, hai poco da fare spallucce, caro borghese: giù il cappello e alè!

Oggi, c’è il suo busto nella torre dei caduti, c’è una strada intitolata al suo nome, c’è una fontana che sembra un po’ un cifone di marmo, ci sono parchi, lapidi: c’è perfino il suo aeroplano, restaurato così e così, e conservato ad Almenno, mercè la sensibilità del museo del falegname “Tino Sana” (si vede che a Bergamo di gente sensibile ce n’era troppo poca!). Locatelli, da un po’ di tempo in qua, ossia da quando il solito organetto di Barberìa dell’antifascismo e della Resistenza si è un tantino sfiatato, un po’ per l’oggettiva senescenza dei suoi suonatori, un po’ per l’altrettanto oggettiva indigestione collettiva, che ha reso un filo inappetente il pubblico, è diventato il nuovo oggetto di culto delle vestali antifasciste. Va detto che queste vestali sono sempre alla cerca di qualche vulnere alla democrazia e che, come cani da trifola, si gettano con rara bramosia su qualunque soggetto possa prestarsi alle loro geremiadi o alla loro indignazione. In fondo vanno capite: leva loro l’indignazione e cosa ti resta? Qualche camicia dal colletto un po’ al limite, dei pantaloni di velluto a coste, due o tre libri che nessuno mai leggerà e un’autentica miniera di materiale d’archivio, composta, perloppiù, da indignazioni precedenti. Roba buona da conservare ad una posterità che, con perfetta nonchalance, al momento opportuno, adibirà alla ruera tutto il malloppo indignativo, unitamente alle camicie lise e a tutti i maledetti velluti. Eppure, nonostante l’incombere del bargnìf ed il mutar dei tempi, questi malmostosi professionali trovano sempre qualche battaglia da combattere, qualche trincea da difendere: in senso figurato, ovvìa, giacchè sono tutti rigorosamente antimilitaristi, obiettori o riformati alla leva. E si sono inventati l’antilocatellismo, nella parata di antiquesto ed antiquello su cui hanno costruito le proprie fortune: Locatelli era un fascista, la sua memoria è indegna di un paese civile! Eggià che era fascista: come lo erano quasi tutti gli Italiani di allora. Come lo era Eugenio Scalfari, che si pavoneggiava in divisa della GUF, come lo era Dario Fo, volontario della Rsi, come lo erano Bobbio, Bocca, il recentemente defunto Ingrao e via discorrendo. E così, care le mie vestali?

L’Italia era fascista, durante il fascismo: fatevene una ragione. Così come è diventata antifascista subito dopo. Volete sradicare le memorie del fascismo? Benissimo: faremo a meno delle Poste, del Lussana, della Borsa: cosa volete che sia? E andiamo, care le mie vestali: fatela finita! Pensate al futuro, anziché crogiolarvi in una guerra che è terminata da settant’anni: voi e i ragazzini che ascoltano le vostre bambocciate come fossero vangelo, e poi imbrattano fontane e monumenti. Tra non molto, sarete di fronte al Padreterno: e lì non sarà questione di fascismo o antifascismo, ma di umanità ed inumanità. Pensateci.




Il “mistero” Sorte, fenomeno o sovraeccitato dalla poltrona?

L'assessore Alessandro Sorte
L’assessore Alessandro Sorte

L’assessore regionale alle Infrastrutture Alessandro Sorte è un giovanotto che aborre la normalità. Lavorare in silenzio, con umiltà, per cercare di portare a casa i risultati è cosa che non fa per lui. Troppo banale e scontato. Non in sintonia con questi tempi in cui basta sparacchiare dichiarazioni ad effetto, magari senza alcun contatto con la realtà, per guadagnarsi ampi spazi sui giornali. L’ultimo esempio è di pochi giorni fa e per il ragazzo di Brignano è stato un vero trionfo. Roba da stomaci forti. Per chi non avesse avuto la ventura di imbattersi nella strabiliante performance, provvediamo noi ad un breve riassunto, con l’avvertenza di tenersi le mascelle per non slogarsele nella sganasciata che inevitabile si scatenerà alla lettura delle parole del prode assessore. In un sol botto, infatti, Sorte ha annunciato che ha trovato i 15 milioni che mancano per portare a termine la ormai leggendaria variante di Zogno (con tipico umorismo da paese il Nostro ha detto che non può diventare “la Salerno-Reggio Calabria in salsa orobica”…); che la Regione è pronta a comprare le azioni di Sacbo che la Provincia vuole vendere (ma subito il presidente Matteo Rossi ha precisato che non ci pensa nemmeno…) e che comunque il Pirellone vuole fare da regista del sistema aeroportuale lombardo (senza nessun potere normativo e magari con una piccola quota? Davvero una min… colossale); e infine che arriveranno tre nuovi treni sulla linea Bergamo-Milano (ennesimo annuncio di una serie che pare non avere mai fine mentre le condizioni in cui viaggiano i pendolari, e chi scrive lo constata di persona ogni giorno, sono indegne di un paese civile). Ora, delle due l’una: o Alessandro Sorte è un fenomeno, uno statista in sedicesimo destinato a diventare un padre della Patria vista la capacità rabdomantica di trovare una soluzione per ogni problema; oppure, siamo in presenza di un caso di sovraeccitazione da poltrona che rischia di provocare da un lato profonde delusioni in chi (incautamente) dovesse fidarsi di tante facili promesse e dall’altro un senso di prostrazione in chi un giorno, guardandosi allo specchio, potrebbe rendersi conto di aver abusato sia della propria intelligenza che della pazienza altrui. E’ già capitato in passato di occuparsi in maniera critica delle gesta dell’assessore. Qualche servo sciocco vi ha visto antipatia personale o pregiudizi. Nulla di tutto ciò. Semmai, visto che il rinnovamento (che passa anche dal ringiovanimento, pur se non limitato alla carta d’identità) della classe politica è quanto mai auspicato, si vorrebbe evitare che l’eccessivo ardore o l’inevitabile mancanza di esperienza possano indurre a commettere grossolani errori. Tali da spingere, come è già capitato, a dover rimpiangere che “si stava meglio quando si stava peggio”. Poiché Sorte ama circondarsi di vecchi cacicchi della Prima Repubblica ha a portata di mano l’occasione per farsi spiegare come e qualmente una classe politica che pure, complessivamente intesa sia chiaro, aveva saputo far crescere e sviluppare il Paese si è autodissolta fra scandali, malgoverno, promesse non mantenute. Un breve ripasso di storia, buono anche a impedire per qualche giorno altre sparate propagandistiche, al nostro assessore non potrà che fare bene.




Chi se ne importa di padania o fanfaluche identitarie. Voglio strade senza buche!

buche-cartelli-rovinati-e-strade-dissestate_18La politica si nutre di uno striminzito vocabolario: qualche slogan da quattro soldi, due o tre ipotiposi che evochino, a seconda, serenità o rabbia, e un mazzetto di concetti buoni per tutte le stagioni. Salvini, oggi, usa un linguaggio “aderenziale”: gli hanno spiegato che enumerare le cose, contando sulla punta delle dita, fa molto pragmatico (e anche un tantino sensale di bestiame, il che non guasta), e lui conta, anche quando non c’è nulla da contare. Renzi e tutta la sua congrega, giù giù, fino agli assessori comunali, applica sistematicamente l’otomercanzia, ossia il fare orecchie da mercante quando gli si sottopone una questione: il loro vocabolario si fonda su termini anfibolici, mimetici, insomma insaponati al punto da essere inafferrabili. Vero è, però, che i preoccupanti scricchiolii della cadrega hanno indotto perfino i più mielosi ed imbelli a mettersi l’elmetto e scendere in battaglia: Marino, che è uno cui potresti fregare l’automobile mentre la sta guidando, ha riscoperto gli slogan grevi dell’antifascismo militante, mentre Renzi sintetizza le sottili differenze ideologiche tra PD e Lega paragonandole a quelle che separano gli uomini dalle bestie. Ma sono saldi di fine stagione: vedrete che le omelie ritorneranno, insieme alle rondini, a primavera. Ogni politica ha le sue parolette magiche: ogni politico ha un suo sistema, ed uno soltanto, per affrontare quella partita di briscola chiamata, che è l’amministrazione dell’Italia. Poi, c’è la gente. Alla gente non importa nulla delle parole che usi, se, alla fine, non combini una cippa.

Che tu sia un disutile che declama martelliani o che tace come un ghiozzo, per il popolo non cambia nulla: è la disutilità il dato sensibile, se rendo l’idea. Così, la gente ascolta e guarda: e, quasi mai, ciò che ci dicono le nostre orecchie coincide con ciò che ci mostrano i nostri occhi. Prendiamo, ad esempio, il problema dei problemi: il federalismo. Oggi, i più improbabili tiratori a campare hanno riscoperto le autonomie, mentre di federalismo non parla più nessuno: ieri, sembrava il pensiero dominante di tutti quanti. Cosa voglia dire federalismo si può scoprire in due modi diversi: il primo, che è il meno efficace e il più complicato, è quello di prendere un dizionario e cercarsi il lemma. Il secondo, enormemente più semplice ed istruttivo, consiste nel prendere l’automobile e andare a farsi un giretto. Percorrete la Valsugana, per esempio: a Caldonazzo, seguite le indicazioni per gli altipiani e godetevi serenamente il bel panorama. Ad un certo punto, la vostra attenzione sarà attirata da due diversi e contemporanei fenomeni: il primo sarà la comparsa di un cartello, che vi comunica che state lasciando il Trentino per entrare in Veneto; il secondo sarà un progressivo aumento del rollio e del beccheggio della vostra vettura. Perché, incredibile ma vero, un metro dopo il cartello confinario, cominceranno le buche: la strada sarà una specie di groviera.

Ripetete l’operazione a Ponte Caffaro, in Vallagarina, nel Primiero: il fenomeno si ripeterà con spaventosa esattezza. Ecco, questa è l’autonomia: questo sarebbe il federalismo, se a qualcuno venisse in mente di federarci. Di là, una strada liscia come un biliardo: di qui, un percorso di guerra. Ovviamente, il dato si potrebbe estendere a quasi tutti gli aspetti della vita pubblica: dai marciapiedi ai gerani sui balconi, dai finanziamenti per chi ristruttura agli investimenti nell’istruzione. Se si trattasse di fare un paragone tra Sudtirolesi e Siciliani, capirei qualche remora di ordine antropologico: regioni autonome, stessi vantaggi, due mondi contrapposti. Merano e Messina si somigliano come Lucerna e Katmandu. Ma qui stiamo parlando di una società del tutto affine: di popolazioni provenienti da una cultura affatto identica. La differenza sta nei soldi: nell’autonomia, appunto. Quell’autonomia che crea una sperequazione talmente clamorosa da saltare all’occhio, appena, in macchina, varchi quella linea immaginaria che separa la PAT dalla provincia di Belluno, di Verona o di Brescia.

E, dunque? Dunque, credo che, se la Lombardia o il Veneto godessero degli stessi privilegi di autonomia del Trentino, le strade venete e lombarde sarebbero come quelle trentine: non ci vedo grosse difficoltà. E i gerani, i marciapiedi, le scuole e le ristrutturazioni andrebbero di pari passo. Le regioni autonome, a mio modesto parere, sono un’ingiustizia intollerabile: non perché sia contrario all’autonomia, quanto perché sono favorevole all’autonomia di tutti e non solo di qualche privilegiato: id est il federalismo. Così, per me, che politico non sono, la parola ‘federalismo’ significa, essenzialmente, strade senza buche, e via discorrendo: non mi importa nulla di fanfaluche identitarie, di celthia, di padania o di brembania. Tanto, ormai, siamo una pasta e fagioli globale: che identità dovremmo difendere? Io parlo di privilegi, che, una volta estesi anche a noialtri, figli della serva, cesserebbero di essere tali. E si convertirebbero in denaro sonante. Quando Cappelluzzo propose un referendum per rendere Bergamo provincia autonoma, noi versavamo allo Stato, ogni anno, 1.900 miliardi di lire, e ce ne tornavano 90: provate a fare un paio di conticini. Con 1 miliardo di euro all’anno, immagino che qualche buca si potrebbe riempire: perfino se la si riempisse di banconote…




Il funerale show di Casamonica? La quintessenza dello spirito nazionale

Roma, funerali di Vittorio CasamonicaL’Italia funziona così: a scandali fittizi. Uno scandalo serve a far dimenticare lo scandalo precedente, in un gioco di scatole cinesi. Tutti fingono di scandalizzarsi, ma è sempre una tempesta in un bicchier d’acqua: alla fine, nessuno fa nulla, segno inequivocabile di come lo status quo, in fondo vada bene a tutti. O, almeno, a tutti quelli che, sopra l’acqua del bicchiere, sono capaci di galleggiare con sugherea leggerezza. Prendiamo quest’ultima faccenda del funerale di Casamonica a Roma. Cosa c’è da scandalizzarsi? In un’Italia pacchiana all’inverosimile, tatuata, con le zeppe e le frasi d’amore sgrammaticate sbombolettate sui muri, un matrimonio con carrozza e cavalli, elicottero che lancia petali rossi, manifestoni sulla chiesa e con la banda di paese che suona l’aria de “Il Padrino”, in fondo, è solo la quintessenza dello spirito nazionale. Voi mi direte: ma quello è stato un segnale inequivocabile del fatto che, a Roma, la mafia fa quello che vuole!

Ma veramente? E chi l’avrebbe detto: in una città in cui ti chiedono il pizzo per i biglietti della metro, in cui metà dei negozi sono centrali di riciclaggio, in cui ogni cosa funziona a mazzette, che la mafia faccia quello che vuole mi pare il minimo. Il punto non è la mafia: il punto siamo noi. Che stiamo sprofondando un poco alla volta, credo che sia un dato sotto gli occhi di tutti: proviamo un po’ anche a chiederci perché stiamo sprofondando. E torniamo al funerale del boss. Dunque: muore un signore che tutti quanti sanno essere in odore di mafia. Uno che viene proclamato “Re di Roma” dallo stesso clan parentale. I consanguinei, presumibilmente affranti, si rivolgono ad una serie di istituzioni, per dare seguito alle esequie. Innanzi tutto, vanno dal prete: il parroco della parrocchia in cui si svolgeranno i funerali. E gli dicono: buongiorno, siamo i parenti del tal dei tali, vorremmo fare un funerale così e cosà, appendere sulla facciata della chiesa un bel manifestone tre metri per quattro, far suonare la banda dei picciotti e così via. Siamo a Roma: vescovo è quel tale che maledice chi non accoglie i migranti e che lancia anatemi contro i mafiosi. Il buon prevosto, però, non se ne dà per inteso, e accorda piena libertà d’azione a decoratori e musicanti. Poi, il parentado si reca in Comune, per i permessi: occupazione di suolo pubblico, manifestazione musicale, sì, insomma, avete presente. Di nuovo, non ci vanno mica in incognito: danno nome e cognome. Come se, a Corleone, chiedessero il nome del defunto e gli rispondessero: Riina, Salvatore, detto Totò.

Il municipio responsabile, senza batter ciglio, concede permessi, annota decessi, permette accessi. Infine, il colpo di genio: l’elicottero. Ci sarà bene un aeroporto da cui lo si faccia decollare, ci sarà pure un permesso speciale per sganciare materiale su di un centro urbano, esisterà un piano di volo, avranno domandato all’aviazione civile…Quando tutto è a posto, con le cartebolle bene in vista, la kermesse può andare in scena: hai conquistato Roma, tarazum zum zum. E scoppia lo scandalo: apriti cielo! Il Sindaco, ossia lo stesso da cui dipende il municipio dei permessi a gogo, lancia la sua intemerata, facendoci la solita figura del fesso che non sa cosa succede sotto il suo tavolo. La chiesa difende il parroco, poi no, poi sì: anche lì, nessuno sapeva con chi avevano a che fare. Tutte le autorità, che prima facevano il nesci, adesso insorgono: i mezzibusti strombettano indignazione da tutti i pori e le reti unificate condannano la provocazione. Avvenuta a Roma, poi: la capitale! Ma capitale de che? Del malaffare, senza dubbio, vista la trafila di cui sopra, che si ripete, invariata, dai parcheggiatori abusivi su su fino al traffico di esseri umani.

E i mezzi di comunicazione, che sono il vero scandalo degli scandali, sentite un po’ come la danno, questa sconvolgente notizia del funerale del boss. Prima di tutto, si aprono dibattiti sul fatto che questa mafia sia romana-romana e non d’importazione: seguono analisi sociali, disamine legislative, aria fritta. A nessuno passa per la testa di dire che il clan in questione è composto da cingani: divieto assoluto di associare a questa brutta faccenda gli zingari. La correttezza politica viene prima di qualunque cosa. Dunque, a Roma esiste una mafia indigena e gli indigeni sono zingari, ma guai a dirlo: la gente potrebbe cominciare ad associare gli zingari alla delinquenza, pensa un po’! Subito dopo, si passa a Mafia-Capitale, dove la colpa di tutto è di Carminati, il neofascista neomafioso, capo dei capi. Tanto capo dei capi che si fa blindare dopo cinque minuti da quattro carabinieri: sveglio, come capo dei capi! Nessuno che dica una sillaba sulle decine e decine di politici filogovernativi implicati: non un fiato sul marciume che trabocca dal Campidoglio e che puzza lontano un miglio di Pd. Infine, promesse di iniziative, minacce di azioni, sogni di giustizia e libertà. E voi vi stupite se un boss si fa seppellire in pompa magna? Datemi retta, andiamo a farci un bel bagnetto nei laghetti della Trucca: nei giorni scorsi è piovuto e la risorgiva promette scintille. A buon intenditor….

 




Ci dovrebbero interdire per quanto siamo irresponsabili!

Sosta vietataQual è il principale problema dell’Italia? Se me lo chiedessero, eviterei di indicare questioni pratiche, come l’immigrazione selvaggia o lo spread: quelle sono contingenze, cose che capitano e che, poi, non capitano più, come le invasioni barbariche o le epidemie di peste. Basta saper aspettare dieci o venti generazioni e chi si ricorderà più dello spread o dei barconi? Tanto, fra dieci anni l’Italia sparirà, secondo qualche economista inglese. Dunque, perché prendersela tanto? Perciò, parliamo di caratteri: di indole nazionale, se preferite. Io amo i massimi sistemi: “De minimis non curat historicus” è il mio motto. Mi vien da dire che, per quanto concerne l’indole nazionale, il principale problema dell’Italia sia l’assoluta, endemica, ineluttabile assenza di responsabilità. Fateci caso: tutto, alla fine, dipende da quello. Dalla totale mancanza di responsabilità, tanto individuale quanto collettiva. Perché un economista può permettersi di assumere la guida del Paese e catastrofizzarlo con le sue teorie surreali, se non per il fatto che, alla fine, nessuno mai gli presenterà il conto?

Perché un giudice può emettere sentenze paradossali, demenziali, criminali, se non per il motivo che, per quanto disastrosi siano gli effetti dei suoi svarioni, a nessuno verrà mai in mente di chiedergliene ragione? E lo stesso dicasi per gli insegnanti, i postini, i tifosi del football, i vigili, le infermiere, i primari, i giornalisti, l’esercito: non c’è nessuno, e dico nessuno, che si assuma fino in fondo le proprie responsabilità. Lo scaricabarile è lo sport nazionale: in quello surclasseremmo il Brasile e la Germania ad ogni campionato mondiale.

Ognuno, qui da noi, si sente libero di fare quel che gli pare: tanto, deve dirsi l’interessato, cosa mi può capitare? Ponzio Pilato e non Giulio Cesare è l’antico romano cui tutti facciamo riferimento. Mai un politicante che si dimetta, ad esempio: li inquisiscono, li condannano, li sputtanano, ma quelli, serenamente, continuano ad ammorbarci con le loro vanitosissime idiozie, proprio come se niente fosse. E non succede mai che un assassino che falcia una famiglia sulle strisce vada in prigione per più di due giorni, non capita mai che ti puniscano in modo esemplare.

Ma, pensate per un attimo a come sarebbe l’Italia, se vi regnasse il concetto della responsabilità! Immaginatevi gli impiegati agli sportelli, che galoppano come purosangue, che analizzano con la massima attenzione il vostro caso, perché, altrimenti, la responsabilità della vostra insoddisfazione sarebbe solo ed esclusivamente loro: non del coordinatore, non del funzionario, non del dirigente, ma loro. Pensate a come funzionerebbero gli uffici, i laboratori di analisi, i centralinisti dei call center: tra l’altro, sparirebbero quelle musichine sceme, che vi fanno tanto incazzare quando gli operatori sono momentaneamente occupati. Provate ad immaginarvi come cambierebbero le vostre relazioni con gli amministratori, tanto quelli pubblici quanto quelli condominiali, se ognuno fosse responsabile delle proprie azioni, delle proprie parole o delle proprie negligenze: saremmo un Paese del tutto diverso.

Parcheggi al posto dei disabili? Sequestrata l’auto per sei mesi: e poi vediamo quanti ci parcheggeranno ancora! Hai sbagliato una sentenza, favorendo un delinquente? Dieci stipendi in meno: garantito che, la prossima volta, starai più attento coi codici! Hai spiegato ai tuoi alunni che la radice quadrata è una forma particolare di vegetale? Sei retrocesso al ruolo di scopacessi: questo è il secchio e quello è lo straccio! E non dovete credere che questo regime draconiano dovrebbe andare avanti all’infinito: basterebbe qualche annetto, tanto per abituare gli Italiani ad assumersi la propria responsabilità.

Una volta avviata, la macchina si alimenterebbe da sola, perché la gente, dopo che ha imparato a rispettare e a farsi rispettare, ben difficilmente ritorna a comportarsi come una mandria di buoi. File ordinate, lavori ben fatti, strade pulite, notti sicure e silenziose: il paese di Bengodi, insomma. E tutto questo, semplicemente grazie a questa paroletta magica: responsabilità. Il che è precisamente il punto da cui siamo partiti: ciò che ci vorrebbe è precisamente ciò che più manca, la cosa più complessa da ottenere da un popolo come il nostro. Forse, perché, psicologicamente, siamo abituati a tifare per Pulcinella: ci sono simpatici i ladri più che le guardie e i furbi più che gli onesti. Oppure, perché siamo passati da una servitù nazionale ad una servitù politica: una volta c’erano gli Spagnoli, i Francesi, gli Austriaci, che ci mungevano. E noi muti: non contavano nulla. Adesso, ci mungiamo tra noi: e chi non sta dalla parte giusta, conta nulla, tale e quale. Sia come sia, siamo un popolo a responsabilità limitata: esprimiamo una sorta di incapacità civile. Dovremmo essere interdetti, probabilmente. Ma chi se ne assumerebbe la responsabilità?




Belli i display, ma senza indirizzi è una caccia al tesoro

Parcheggi displayDicono che grazie a quei cartelli per gli automobilisti sarà un giochetto da ragazzi sapere in tempo reale in quale parcheggio della città sarà possibile lasciare la macchina, evitando inutili e inquinanti giri a vuoto. Ottimo investimento, quindi, quello fatto da Atb. E pazienza se per vederlo realizzato, mentre in diverse città italiane (a partire da Bolzano fino a Siena e Perugia) è realtà da tempo, ci sono voluti suppergiù dieci anni. L’importante è che quei 40 display ora ci siano e funzionino come garantito. Purtroppo, però, i complimenti non possono essere pieni e carichi di quel superficiale entusiasmo che ha caratterizzato la cronaca della pomposa conferenza stampa che ha visto protagonista il sindaco Giorgio Gori, l’assessore alla Mobilità Stefano Zenoni e i vertici dell’azienda di trasporto pubblico. Perché se si passa dalla teoria alla pratica ci si imbatte immediatamente in un difetto, non lieve, del sistema.

Alcune delle indicazioni dei parcheggi, infatti, sono incomprensibili. Alzi la mano, per esempio, chi sa dire dove sia il silos che viene indicato come “car service fly”. E un premio in gettoni d’oro lo garantiamo a chi sa dare le coordinate geografiche precise del “Preda parking” (e chi sa la risposta esatta, non si confonda con il parcheggio “palasport”). Ma non è nemmeno di comune e facile soluzione scoprire che il frequentatissimo silos di via Paleocapa sui nuovi cartelli viene indicato come “Central parking”. Che dire, infine, del parcheggio genericamente definito “Del centro”? No, davvero, anche senza aver voglia di trovare per forza qualcosa di negativo, il difetto è troppo grande per essere taciuto.

A naso, si capisce che le indicazioni fornite si riferiscono alla denominazione sociale dei singoli parcheggi, ma se così è viene da chiedersi come questa possa essere un’informazione alla portata degli automobilisti. Difficilmente lo possono sapere quelli di città, figuriamoci quelli che vengono da fuori (per i quali, in teoria, il servizio sarebbe pensato). Sembra quasi banale dirlo ma i cartelli, di qualunque genere, hanno l’elementare funzione di far capire immediatamente il loro contenuto, specie se questo serve a orientare delle scelte. Molti di quelli posizionati in queste settimane sono adatti agli appassionati della Settimana Enigmistica più che agli utenti della strada.

Che l’annotazione non sia né peregrina né frutto di pregiudizi nei confronti di chi lavora per la collettività, lo confermano le parole che gli stessi Gori e Zenoni hanno pronunciato in sede di presentazione. Il sindaco ha detto: “Sarebbe interessante indicare sul display anche l’indirizzo del parcheggio in modo che l’automobilista possa programmare il navigatore”. E l’assessore ha aggiunto: “Le indicazioni potranno un domani essere ancora più precise e puntuali, ma per ora era importante far partire il progetto”. Ecco trovata la spiegazione: per l’Amministrazione era fondamentale avviare l’intervento, il resto son particolari che si sistemeranno. Un errore madornale, tanto più grave se, come detto, da parte del Comune c’era la perfetta consapevolezza che con quel tipo di indicazioni non si fornisce un servizio efficiente.

Quel che ha detto Gori è elementare: sul cartello doveva essere messa la via. Quanti sanno, per fare un altro esempio, in quale zone precisa si trova “Il Triangolo”? Con la via, che si ricorra al navigatore o al passante, forse sarebbe più facile per chiunque arrivare a destinazione. Converrà provvedere ad una correzione (si è aspettato tanto, non si poteva pensarci prima?) perché al di là del difetto i display possono svolgere veramente una funzione utile. Così come va apprezzata la sperimentazione su Città Alta. Lì, più che altrove, è importante trovare il modo, con un pacchetto di interventi su vari fronti, di evitare che continui il selvaggio assalto al colle. Come nel caso dei display, non c’è granché da inventare, ci sono città simili alla nostra che hanno individuato soluzioni efficaci. Avanti con forza, allora, se possibile con un pizzico di attenzione in più oltre che alla forma anche al contenuto.




Alleanza con Sea, per Sacbo è il momento di aprire il recinto

aeroporto-di-Orio-al-Serio-2013-129Per Sacbo potrebbe essere arrivato il momento di decidere cosa fare da grande. Più o meno quello che capitò, agli inizi degli anni Duemila, alla Bergamo Ambiente e Servizi (Bas). Fondersi con una pari grado (allora il partner prescelto era l’Acsm di Como, salvo che il Consiglio comunale sconfessò clamorosamente il sindaco Cesare Veneziani) oppure entrare in un soggetto più grande (l’Asm di Brescia, come avvenne, oggi A2A) per competere sui mercati nazionali e internazionali sempre più consolidati? Anche l’aeroporto di Orio al Serio è arrivato ad un punto di svolta. Lo sviluppo in loco non è più possibile, si è detto, occorre spostare buona parte del traffico merci, sia per alleviare i problemi ambientali che per creare spazio a nuovi voli passeggeri. E la soluzione che sembrava più a portata di mano, anche se non necessariamente la migliore, era l’utilizzo delle potenzialità inespresse di Montichiari. Sull’asse Bergamo-Verona-Venezia (cui fa capo lo scalo bresciano) era stato imbandito un bel banchetto nuziale, ma sul più bello i promessi sposi hanno litigato e son volati i piatti. Risultato? I veneti han deciso di far tutto da sé, i bergamaschi hanno cominciato a comprendere che lo sbocco immaginato fino a quel punto non era per nulla scontato né esclusivo. Perché, come è stato scritto anche su queste colonne in tempi non sospetti mentre il solito coro superficiale dei politici pret à porter che governano Comune e Provincia esaltava l’ipotesi in campo senza peritarsi di valutare eventuali alternative, se si guarda ad ovest anziché ad est c’è un sistema, quello milanese, che ha necessità e potenzialità che possono perfettamente integrarsi con quelle di casa nostra. Di qui la decisione, presa nei giorni scorsi, di affidare al rettore dell’Università, Stefano Paleari, l’incarico di “valutare la possibilità della costituzione di un unico soggetto a cui afferiscano, anche indirettamente, le gestioni degli aeroporti di Malpensa, Linate e Orio al Serio”.

Certo, il rapporto in questo caso non sarebbe alla pari. Sea è molto più grande di Sacbo. Proprio come Asm lo era rispetto alla Bas. Ma qui si tratta di capire che cosa si vuole. Mettiamola in termini calcistici, così forse ci spieghiamo: meglio essere titolari nell’Atalanta, società nobile ma perennemente condannata ad evitare di retrocedere in serie B, oppure fare i rincalzi nella Juventus, club che lotta per conquistare scudetti e Champions League? Ogni scelta è legittima e, come ovvia, presenta sia aspetti positivi che negativi. Il lavoro che si appresta a svolgere il rettore sarà importante perché li metterà tutti sul tavolo e forse per la prima volta si potrà sviluppare un ragionamento compiuto, radicato su numeri e analisi tecniche, su quale possa essere il migliore sviluppo di Orio.

Sul tavolo, inutile che ce lo nascondiamo, c’è l’ipotesi di una fusione. Quando fu prospettata per la prima volta qualche anno fa, certo in maniera un po’ improvvida e unilaterale da parte dell’allora dirigenza di Sea, scatenò una virulenta levata di scudi da parte dei soci di Sacbo. Si sa, da queste parti, a dispetto di un mondo in cui le frontiere sono state spazzate via, continua a permanere un discreto culto della “bergamaschità”. A prescindere. Forse è arrivato davvero il momento di aprire il recinto, di giocarsi la partita in campo aperto, senza presunzione ma nemmeno riverenze. Da cittadini vogliamo solo augurarci, visto che l’aeroporto appartiene al patrimonio collettivo, che soprattutto i soci pubblici (ma non solo, evidentemente) si aprano al confronto con la massima trasparenza. La sfida è difficile e non priva di insidie. Se qualcuno pensasse di giocarla in un salotto commetterebbe un clamoroso errore.