Infrastrutture, se Bergamo sceglie di non scegliere

Variante ZognoE’ sempre una questione di priorità. Lo è ancora di più quando ci trova di fronte a risorse scarse. Dovrebbe essere il fine ultimo della politica quello di incasellare le istanze verso il pubblico interesse e il bene comune. Invece ci si perde in mille rivoli non sempre condivisi.

A livello nazionale, le priorità sembrano essere rivolte a temi politici importanti, ma scollegati dalla quotidianità. Italicum, patto del Nazareno, modifica del titolo V della Costituzione non sono sicuramente in testa alle richieste della maggioranza degli italiani, che, più che riforme o annunci di riforme, vorrebbe fatti concreti. L’esito non brillante della coalizione di governo alle recenti amministrative potrebbe essere collegato anche a questa divergenza di priorità.

Scendendo a livello locale, si ha un ulteriore esempio di strani comportamenti della politica. Quando si presenta un elenco di priorità il buon senso richiede che questo abbia un ordine a scalare.

L’atteggiamento pragmatico punta a realizzare i progetti e non lasciarli incompiuti. Con i soldi disponibili si inizia a realizzare quello che è in cima alla lista. Accantonata la prima somma, se ci sono altre disponibilità si destina quanto avanza alla seconda in graduatoria. E poi si passa alla terza e alla quarta, così via fino ad arrivare in fondo alla lista. Ma questo richiede una scelta. E una scelta vuol dire accontentare qualcuno e scontentare qualcun altro. Un’eresia per i politici che non vogliono perdere consenso. Allora si fa un calderone unico. Altro che gattopardo: volere fare tutto è il miglior modo per non fare niente, dato che un’opera non finita – un esempio, a caso, la variante di Zogno – è inutile, è come non averla.

La politica, specialmente quella di piccolo cabotaggio, resta legata al mito delle opere di regime e alla posa della prima pietra a tutti i costi. Ognuno vuole aprire il suo cantiere, considerato una miniera di voti, anche se non si sa se quanto questo sia ancora vero. Ecco allora il teatrino che si è creato per la corsa all’aggiornamento del Documento di economia e finanza che sarà presentato dal ministero dopo le ferie, per ottenere finanziamenti su opere immediatamente cantierabili. Un’opportunità rara, vista la carenza di risorse a livello territoriale, che però viene trasformata nel solito irrealizzabile libro dei sogni. Un’inedita alleanza tra Regione (l’assessore Alessandro Sorte, di Forza Italia) e Provincia (il presidente Matteo Rossi del Pd) ha individuato come priorità per la Bergamasca il completamento della variante di Zogno. E questo appare ragionevole e condiviso in maniera pressoché unanime perché, senza entrare nel merito di come sono lievitati i costi, in questo modo si rende finalmente utilizzabile un investimento altrimenti perso. Ma poi vanno oltre e iniziano a spendere i soldi degli altri (in questo caso il ministero e Rfi) per quella che ritengono la successiva priorità, l’investimento di 3 milioni per una fermata ferroviaria all’ora, dalle 9 alle 17, all’ospedale.

Una certa area di pensiero per la quale la vita si limita a girare intorno alla malattia e ai funerali è entusiasta. Ma fortunatamente non è maggioritaria. L’idea in sé, anche se si può discutere sulla sostenibilità economica, non è da scartare. Potendo, andrebbe sicuramente fatta, anche potenziata, come tante altre cose, come una galleria con parcheggi sotto Città Alta. Ma i soldi sono pochi e quindi bisognerebbe decidere quali sono le priorità. Il sindaco Giorgio Gori ha ricordato che prioritario sarebbe il collegamento ferroviario con l’aeroporto. Altri suggeriscono il raddoppio della linea Ponte San Pietro-Montello. Alberto Bombassei spinge per infrastrutture adeguate alle esigenze di una provincia industriale. Ma ci sono anche le varianti di Cisano, di Trescore e di Comun Nuovo, e la linea due del tram Bergamo-Ponteranica (fa niente se la prima non riesce ad avere conti in equilibrio senza il supporto dei contributi pubblici).

Senza dimenticare poi l’interconnessione Pedemontana-Brebemi e l’interporto, priorità degli anni passati ancora nel limbo. E meno male che qualcuno non ha riesumato l’autostrada della Valle Seriana per il collegamento Milano-Monaco, in fondo anche questa utile e potendo necessaria, ma non indispensabile.

Questa però è una lista della spesa, non un elenco di priorità. Qual è la differenza, in particolare quando ci sono poche risorse? Quello di non avere il coraggio di decidere. Che vuol dire anche scontentare qualcuno. Una maggioranza che cerca di non tagliare fuori la minoranza è democrazia, ma è anche un diritto (e un dovere) che si assuma la responsabilità del ruolo, senza tavoli per cercare apparentemente di coinvolgere tutti, ma alla fine un alibi per non combinare nulla. In effetti i migliori alleati di politici senza soldi e senza il coraggio delle decisioni sono i comitati anti opere. “Noi avremmo fatto, ma loro ce l’hanno impedito”: uno slogan pronto per le prossime elezioni.




Esami di Stato / Errori e strafalcioni, l’ennesima figuraccia del Miur

maturita_materie2Degli esami di Stato e della suprema vergogna. Non voglio parlare di Resistenza: di immarcescibile, iperinvasiva, asfissiante mitologia di questa benedetta Resistenza: lo so che nella scuola cercano di farne sopravvivere il culto idolatra, con tutti i trucchetti possibili ed immaginabili, dai finti temi su Calvino agli interventi obbligatori di bassaridi (che immagino ormai decrepite) della gloriosa epopea. Non voglio parlarne: sono stufo di vivere in un Paese che non si libera dai propri odi, in una città in cui ancora si concede la ribalta a pagliacci travestiti da studiosi, che sbraitano e ragliano contro tutto e contro tutti, perché non possono prendersela con il trascorrere del tempo, che, inesorabile, li condanna. Che gli esami di Stato siano, in realtà, gli esami di uno Stato, inflitti ai giovanissimi cittadini di uno Stato diverso, è di pubblico dominio da decenni: ma non di questo voglio dire. Non è questa la vergogna finale: si tratta di una vergogna perfino più miseranda, fatta di pressapochismo, di ignoranza, dell’arroganza di chi crede di potersi permettere di trascurare perfino la nozione più basica, in virtù della propria immagine di boiardo ministeriale.

Oggi, i boiardi hanno varcato il segno e superato il punto di non ritorno: di questa congerie di incapaci io voglio i nomi, voglio sapere chi ringraziare. E dovreste volerlo anche voi, padri, madri, fratelli degli esaminandi: voi che, con le vostre tasse, pagate le prebende di ogni disutile che affligga la nostra pubblica istruzione. Domenica sera, al telegiornale ho dovuto assistere all’autocelebrazione di un esperto del MIUR incravattato a festa, che faceva la ruota come un pavone: centinaia di addetti – si vantava – decine di superesperti, sei mesi di lavoro, una selezione finale accuratissima per i titoli dei temi. E il risultato è questa imbarazzante porcheria? Ma chi sono questi esperti: dove li hanno pescati, quanto li hanno pagati? Per raccogliere delle prove come quelle proposte quest’anno ai candidati bastavano quattro maestrine di terza elementare: l’adolescenza, la Resistenza, i ponti anziché i muri, i social network che fanno bene, male e anche così e così.

Ma per mettere insieme degli strafalcioni come quelli radunati nelle sei paginette delle consegne d’esame, non sarebbe bastato un asinificio al completo: non sarebbe stato sufficiente prendere dei ripetenti di terza media e far scrivere loro i temi. Ci volevano dozzine di superincapaci per estrudere perle di tale grandezza.

“La lettrice in bianco e giallo” di Matisse che diventa “La lettrice in viola”, con buona pace dei daltonici: il 1919 che diventa il 1898, con buona pace degli storici dell’arte. E la minaccia dell’integralismo che diventa una minaccia all’integralismo: immagino i poveri studenti, preoccupatissimi per i loro amici integralisti, così rudemente minacciati! Chissà che salti mortali retorici avranno dovuto affrontare, per abbracciare la delirante teoria di un integralismo minacciato da noi, anziché viceversa: non avranno osato immaginare che tutte le loro difficoltà potessero discendere da un cretino che ha sbagliato una preposizione. Da un superesperto talmente sicuro di sé da evitare perfino la più banale delle operazioni: la rilettura di quello che ha scritto. E, infine, perla assoluta, il Colbricon, notissimo sito della prima guerra mondiale, vicino a Passo Rolle, diventato, nelle menti bacate dei boiardi, che, evidentemente, la storia l’hanno studiata su Topolino, il “Col Briccon”. La collina dei bricconcelli! Immagino che lo zio Agostino, che sul Colbricon si beccò una medaglia d’argento, lasciandoci le penne, abbia gradito il lavoro di questa formidabile équipe di analfabeti professionali: questa è l’Italia per cui si è fatto accoppare. Tanto valeva restare a casa a giocare a pepatencia! Insomma, questi esperti presuntuosi, designati non si sa da chi, ma pagati, per certo, con i nostri soldi, sono riusciti ad infilare una serie di topiche da fare impallidire Pierino, Richetto e Franti messi assieme. E, poi, pretenderemmo precisione, attenzione, serietà, dagli studenti, quando al vertice di questo cumulo di macerie che ci ostiniamo a chiamare scuola (e qualcuno, anzi, “buonascuola”) ci sono personaggi del genere? Exempla trahunt, scrivevano i nostri antenati, ed è verissimo. Solo che gli esperti ministeriali, probabilmente, pensano che sia una frase in inglese e che voglia dire “divieto di transito”.

 




Migranti, le quattro verità che vanno dette

migrantiQui, fra teste che rotolano e braccia che volano, fra gente che pensa di vivere asserragliata nella “Ridotta Lombardia” e sventatelli che garriscono per ogni infornata di disperati che arriva in Italia, forse forse è il caso di fare un po’ d’ordine e di cercare di mettere in fila due ragionamenti. Quando devo spiegare agli studenti un fenomeno storico di vasta portata, durativo, incidente, importante, la prima cosa che dico loro è che ogni grande evento è, per definizione, molto complesso e, per solito, controverso: la tentazione di risolverlo con una spiegazione facile è forte, ma è estremamente fuorviante. Lo stesso vale per questa terribile contingenza, che qualche burlone definisce “emergenza immigrazione”, ma che, in realtà, è un insieme di elementi che formano un fenomeno epocale. Partiamo dalle idiozie.

Idiozia numero uno: la fuga dall’Africa è una conseguenza del colonialismo. Sciocchezze: il colonialismo, senz’altro riprovevole come la schiavitù sul piano morale, semmai tenne a freno conflitti etnici e migrazioni selvagge. E’ la decolonizzazione senza regole, messa in atto con la tecnica dell’ “adesso arrangiatevi!”, che ha permesso l’insorgere di regimi nazional-sociali, in epoca di guerra fredda e, in seguito, di stati confessionali. Al colonialismo, da quando la guerra fredda non c’è più, si è sostituita la gendarmeria globale americana, che ha abbattuto e creato dittatori e capi carismatici, a seconda delle proprie esigenze, coi bei risultati che vediamo oggi.

Idiozia numero due: i migranti fuggono da guerre, carestie e dittature. Certo, una parte di loro fugge senz’altro da scenari di guerra: sono quelli che fanno come faremmo anche noi, ossia caricano moglie e figli su di un carretto e scappano via. Chi fugge da una guerra si porta dietro ciò che ha di più caro, ossia la propria famiglia. Altro è chi fugga da una vita di povertà, disperazione, disoccupazione, fame: costoro, esattamente come i nostri emigranti di cent’anni fa, partono da soli, leggeri, disponibili ad arrangiarsi, a rischiare e a tentare la sorte. La maggioranza dei poveracci che stanno sbarcando sulle nostre coste risponde a questo identikit: maschio africano, giovane, in forze, desideroso di migliorare la propria condizione economica. Del tutto lecito, intendiamoci, ma non parliamo di profughi, perché sarebbe come paragonare “Dagli Appennini alle Ande” al diario di Anna Frank.

Idiozia numero tre: stabilire basi di selezione e di accoglienza in Africa è impossibile, perché c’è la guerra e non esistono interlocutori certi cui rivolgersi. Amici belli, se c’è una guerra e non ci sono dei governi con cui fare accordi, si assuma l’egida dell’Onu, la stessa Onu che protegge i rifugiati e le stesse forze che hanno fatto il diavolo a quattro in mezzo mondo, senza che nessuno ci trovasse da ridire: si crea una zona di sicurezza sulle coste libiche e si sbarca. Credete davvero che, di fronte ad uno spiegamento di forze militari, anche dieci volte inferiori a quelle utilizzate per abbattere Saddam o Gheddafi, con tutte le conseguenze del caso, non si riuscirebbe a garantire un corridoio sanitario per i profughi? Suvvia, creduloni: i combattenti libici, ribelli o antiribelli che siano, sono quattro gatti, armati da far ridere: alla vista di cento carri Abrams o di venti elicotteri Apache correrebbero ad intrunarsi nella sabbia. E poi, miei ingenui amici, gli F35 cosa li compreremmo a fare: per farli scontrare in volo nelle manifestazioni aeronautiche?

Idiozia numero quattro: la situazione è sotto controllo. In Italia non è sotto controllo un bel nulla, e la gente lo sa perfettamente. Non basta proclamare che quest’anno diventeremo tutti ricchi e felici: ad un certo punto, bisogna pure fare i conti con la realtà. Dirò di più: tanti disperati scelgono l’Italia proprio perché in Italia nulla è sotto controllo. Ormai la cosa è di dominio universale: si passano parola dicendo che, da noi, ognuno può fare quello che vuole e nessuno la paga mai. Siamo il paese di Bengodi, la pattumiera dell’umanità, altro che sotto controllo! I nostri governanti non hanno la più pallida idea di quanti siano i clandestini in giro per le nostre strade: figuriamoci se sanno come arginare il fenomeno. Fanno come fa qualunque irresponsabile: si affidano al caso, finché la barca va lasciala andare.. E mentono per la gola, tutti i giorni, dalle televisioni, dai giornali: mentono sapendo di mentire. E la confusione aumenta, insieme al disagio: non si distingue più, come sarebbe doveroso e utile, tra immigrato ed immigrato, fra provenienza e provenienza, diritti e doveri, cultura e cultura. O si amano tutti, fideisticamente, oppure si odiano tutti, esattamente con la stessa caparbia ottusità.

Invece, come scrivevo all’inizio, distinguere è fondamentale: un bravo lavoratore, una casalinga, una persona perbene è una ricchezza per il nostro Paese, sia che provenga da Clusone sia che arrivi dalle Isole Vergini. Un delinquente, un tagliagole, un mendicante, un incivile, sono una jattura, quale che sia la loro origine. Lo so che è più semplice risolverla con gli slogan, ma non è così che se ne esce: bisogna usare il cervello, non la pancia. E distinguere, sempre, faticosamente, caso per caso: esattamente ciò che i nostri politicanti non sono capaci di fare. Basta, vi ho indicato qualche idiozia: la prossima volta cercherò di proporre qualche soluzione. Alla buona, certo: ma sempre meglio che niente.




Fisco, quando pagare diventa una corsa a ostacoli

fiscoTra Imu, Ires, Irpef, Irap, Ires e Cedolare secca entro martedì 16 giugno gli italiani sono chiamati a pagare al fisco più di 45 miliardi di euro. Ogni anno è così, ma ogni anno è sempre diverso. Sembra impossibile, ma quello che, con la morte, è ritenuto secondo l’aforisma attribuito a Benjamin Franklin, una delle poche certezze della vita, il pagamento delle imposte, in realtà è quanto di più impreciso ci sia. Almeno in Italia.

C’è sempre qualche cambiamento che complica l’operazione, tanto che anche la data non è mai del tutto sicura, di fronte a inevitabili prospettive di proroga, sulla quale è meglio non contare, ma che contribuisce a creare confusione. Non si sa esattamente quando pagare (un caso per tutto è quello della revisione delle aliquote Tasi che richiede la ricerca della aliquota e della delibera comunale, in genere non ancora emanata), a volte non si capisce se bisogna pagare (basti pensare all’intreccio tra Tasi e Imu), spesso non si sa come pagare. Le due novità che avrebbero dovuto semplificare la vita ai contribuenti, il 730 precompilato e il bollettino Tasi consegnato a casa pronto per essere pagato sono diventate fonte di ulteriore complicazione. Con il 730 precompilato, ma lacunoso (mancano ad esempio le detrazioni per spese sanitarie) ci si è trasformati in correttori di bozze perché, ad esperienza dei commercialisti, più di due terzi dei modelli non sono completi: dovrebbe essere solo il problema dell’esordio e di un sistema non rodato, per cui si può confidare che l’anno prossimo il problema verrà risolto, ma intanto adesso tocca arrangiarsi. Come sempre. Sul bollettino Tasi che sarebbe dovuto arrivare a casa – ma c’è chi aspetta ancora quello annunciato l’anno scorso e mai visto – non si sa se dare la colpa al servizio comunale o a quello postale. Più probabile che si sia persa ancora una volta qualche controcomunicazione. Le amministrazioni hanno annunciato a gran voce, tanto per avere un titolo positivo da mettere nella rassegna stampa, che avrebbero fatto arrivare ai contribuenti i bollettini, ma poi sottovoce si sono smentiti – complice, sembra, il costo dell’operazione – e hanno annunciato che il servizio è stato annullato. Inutile quindi chiedersi perché il bollettino Tasi poteva arrivare a casa e quello dell’Imu no: tanto, nella maggior parte dei comuni, non si avrà né uno, né l’altro. Una confusione che rende velleitario anche lo sforzo delle poche amministrazioni virtuose che hanno deciso di mandarlo: la maggior parte dei contribuenti nel dubbio che arrivi o meno stanno provvedendo da soli. Anche in questo caso, come sempre.

Eppure è proprio la mancata semplificazione che diventa ulteriore complicazione che rende ancora più oneroso il pagamento delle tasse, al di là dei 45 miliardi che verranno pagati nei prossimi giorni e di una pressione fiscale che nel 2014 è salita di un altro decimale, raggiungendo il 43,5%. Ma la percentuale lieviterebbe se si inserissero i costi aggiuntivi legati al rispetto delle scadenze fiscali: ulteriori spese, tempo perso, ansia da compilazione, preoccupazioni per errori involontari. Uno studio del Sole 24 Ore ha recentemente stimato in oltre 17 miliardi di euro il costo annuo dei principali adempimenti, tra dichiarazioni, comunicazioni e versamenti. Sono piccole cose, ma dover pagare anche la posta o la banca per poter pagare le imposte dà la sensazione spiacevole di doversi piegare a una tassa sulla tassa. In ogni caso 173 milioni di operazioni fiscali richiedono a professionisti e Caf, secondo il quotidiano economico, oltre 19 milioni di giornate di lavoro. Un dato che fa pensare che il fisco complicato sia un’idea perversa per combattere la disoccupazione. La predisposizione dei documenti e l’onorario al professionista in alternativa al tempo richiesto per studiare la normativa, sempre ammesso che sia possibile, sono operazioni che in buona parte potrebbero essere risparmiate a molti contribuenti – e questo era lo spirito del 730 precompilato – non solo sulla dichiarazione dei redditi, ma sulla quasi totalità delle imposte. La tracciabilità delle operazioni dovrebbe dare una mano non solo sui controlli contro l’evasione, ma anche per alleviare i compiti ai contribuenti.

Sarebbe giunta l’ora di ripensare all’impostazione della riforma fiscale del 1973. Poco più di quarant’anni fa il calcolo delle imposte era eseguito dagli uffici del Fisco che facevano il conto e ne chiedevano il pagamento. Con il nuovo sistema si è capovolto il sistema. Da allora è il contribuente che procede all’autoliquidazione, versando in base alla propria situazione e poi, semmai, è il Fisco a fare controlli, tra l’altro, ormai praticamente automatici, almeno sul piano formale, grazie a computer ben più efficienti di quelli degli anni Settanta.

Tutto questo però ha comportato un maggiore aggravio ai compiti del contribuente. Così che il Fisco, in senso lato, parlando di imposte sugli immobili, si risparmia anche la fatica di fornire dati che ben conosce, come i valori catastali e le aliquote, e scarica sul cittadino la responsabilità di recuperare le informazioni, fare i calcoli e magari sbagliare o dimenticarsi qualche scadenza. Non costerebbe molto utilizzare i computer per ritornare al buon vecchio mondo antico, con l’esattore che dice quanto il contribuente deve pagare e il contribuente che paga, ma non deve fare altro.




Montichiari, inutile affidarsi alle scorciatoie politiche

Montichiari aeroportoPrima di dare per persa definitivamente la partita per la gestione dell’aeroporto di Montichiari devono essere fatti passi più concreti della sorprendente lettera di intenti con cui Venezia, Verona e Brescia hanno concordato di dare vita ad una partnership finalizzata alla gestione dello scalo. E tuttavia, sarà il caso di cominciare a preoccuparsi perché ostentare eccessive sicurezze di fronte ad interlocutori che non disdegnano la spregiudicatezza, in un Paese abituato a digerir di tutto, rischia di condurre ad amare delusioni. Stupisce, ad essere sinceri, che dalle parti di Sacbo ci sia chi ancora fa affidamento sul ruolo che potrebbe giocare l’Enac e in particolare il suo presidente Vito Riggio, un burosauro sopravvissuto alla Prima Repubblica la cui credibilità è già stata messa a dura prova più volte in passato. Affidarsi a quel che ha detto solo un paio di settimane fa, quando ha partecipato all’inaugurazione della nuova ala dello scalo orobico, e cioè che Bergamo e Verona (controllata da Venezia) devono tornare a trattare per trovare un accordo, era nulla più che un auspicio. Per nulla reso più forte dalla minaccia (da pistola ad acqua) di intervenire “legislativamente” (ma quando mai?). Quanto sia ascoltato Riggio lo vediamo ora, con l’arrembante presidente della Save veneziana, Enrico Marchi, che va avanti per la sua strada, sempre border line anche rispetto alle regole. Perché bisognerà pur ricordare – anche se la materia è complessa e non di semplice comprensione per i non addetti ai lavori – che il suddetto si è “impadronito” prima della società di gestione dell’aeroporto di Treviso e poi quella più importante di Verona (la famosa Catullo) facendo ricorso a spericolati aumenti di capitale che hanno eluso o aggirato, secondo autorevoli giuristi, la procedura che avrebbe dovuto essere adottata a garanzia di tutti: la gara europea. Su questo, per esempio, avrebbe dovuto vigilare l’Enac dell’ex andreottiano Riggio. Ma non c’era, e se c’era stava guardando altrove. Capite bene che dopo aver consentito a Venezia di mettere le mani su Verona (che, fino a diverso avviso del Consiglio di Stato, ha la concessione per gestire Montichiari) risulta risibile ora l’idea che possa in qualche modo limare le unghie a Marchi. Tantomeno ha senso invocare un ruolo da paciere o, peggio, da arbitro. Poiché si sta parlando di società per azioni, per quanto legate ad affidamenti che vengono dall’alto, forse converrà abbandonare illusorie scorciatoie affidate alla politica o a suoi succedanei. Bisogna tornare alle logiche del mercato, che del resto ai vertici di Sacbo conoscono molto bene. Orio ha mezzi, know how, potenzialità per giocarsi la partita a viso aperto. Magari anche ammettendo, come capita a chiunque, di aver commesso qualche errore tattico (anche solo verbale). Proprio perché Marchi ha uno spiccato senso degli affari, non gli sfugge che Montichiari può tentare davvero la via del decollo solo se si affida a mani esperte come quelle bergamasche e non certo ai bresciani che finora han solo combinato disastri. Fatto salvo che in ciascuno c’è un tasso di masochismo che a volte spinge a farsi del male per puro dispetto, una intesa tra Bergamo e Venezia sta scritta nelle cose. Ma, è il caso di dire, non scende dal cielo. Probabilmente va valutata una diversa strategia o altri, ma più credibili, interlocutori. Nella consapevolezza che Orio sta continuando a crescere a ritmi vertiginosi e di tempo per individuare sbocchi per lo sviluppo futuro non ce n’è più molto.




Se il dipendente si muove l’azienda risparmia

runningViviamo in un mondo dove tutto e tutti sono sempre più connessi. Tutto questo ha delle implicazioni sempre più visibili nel lavoro e nella società. L’ultima iniziativa tecnologica, a cui sto partecipando, ha preso il via all’inizio di questa settimana, dopo essere stata annunciata un mese fa. Si tratta del Global corporate challenge o GCC per farla breve, ovvero di una sfida senza confini a cui stanno partecipando migliaia di grandi e medie aziende. L’obiettivo è incentivare la forza lavoro ad essere più dinamica, muoversi di più e, obiettivo finale, stare meglio. La mia azienda ha subito aderito a questo progetto, iniziando a battere i tamburi e incentivare la forza lavoro o creare squadre da sette elementi, meglio se con colleghi di altri uffici e non con il vicino di scrivania. A poche ore dal lancio, i più sportivi avevano già fatto squadra. A tre giorni l’80 per cento dell’azienda era arruolata.

Un paio di settimane fa é seguita la distribuzione di piccoli pacchetti regalo, dal design innovativo e moderno. All’interno un contapassi, anzi due, nel caso il primo vada perso o dimenticato. E poi l’invito a scaricare l’app dove registrare i propri passi, o altre attività come il nuoto o la bicicletta.

Obiettivo: fare almeno diecimila passi al giorni, meglio ancora superare il traguardo. Tutto conta. Diecimila passi sono circa sette chilometri e mezzo, una distanza del tutto relativa. E’ passata meno di una settimana e l’entusiasmo vince: tutti parlano di quanti passi hanno collezionato il giorno precedente, della posizione del proprio team in classifica e di nuovi obiettivi nel campo del fitness. Quello che più mi ha stupito è osservare quanti dei miei colleghi, per lo più uomini, giovani, sportivi e competitivi, abbiano sentito il bisogno di andare oltre il contapassi e regalarsi un braccialetto tecnologico che monitora il sonno, a frequenza cardiaca, e registra automaticamente i risultati. Chi ha il contapassi, deve invece ricordarsi di registrare i dati manualmente alla fine di ogni giornata. Ho come il sospetto che dietro a questa iniziativa ci siano Garmin, Nike e altri produttori di braccialetti sportivi.

Mi chiedo quale sia il vero motivo di questa improvvisa mania per lo sport e il movimento, specialmente nel settore finanziario, dove fino a poco tempo fa si facevano affari davanti a numerose bottiglie di vino e pranzi interminabili. La prima è che le aziende pagano a caro prezzo le polizze sanitarie private. Se la forza lavoro è in forma, è più facile che abbia meno bisogno di frequentare medici e fisioterapisti. La seconda è che ormai dimostrato che esiste un rapporto proporzionale tra produttività, livelli di stress e sonno. Insomma se l’impiegato sta meglio, lavora meglio, produce di più, si ammala di meno e costa di meno. Se queste iniziative funzionano e rappresentano davvero un risparmio sul lungo termine, lo sapremo solo tra qualche anno, quando ci saranno dati rilevanti che permetteranno di tirare le somme. Nel frattempo io e il mio team ci stiamo divertendo. Oggi ho fatto 4706 passi, sono solo le 10.30, già a metà del mio percorso.

www.italiangirlinlondon.com




Battuta d’arresto per il Pd. E l’altro Matteo esulta

Renzi e la moglie Agnese
Matteo Renzi al voto con la moglie Agnese

Diceva Enrico Cuccia che le azioni non si contano, si “pesano”. Converrà seguire le orme del padre nobile di Mediobanca se si vuole analizzare il risultato delle elezioni regionali rifuggendo dalle dichiarazioni di parte, di tutte le parti, che hanno contrassegnato le ore immediatamente successive all’apertura delle urne. Lasciamo da parte il 5-2 con cui molti hanno sintetizzato il responso popolare. E’ una formula che serve ai giornali per scattare una fotografia immediata ma aiuta solo in parte a comprendere quel che è successo. Se fosse solo una questione di bandierine piantate, il premier e segretario del Pd Matteo Renzi potrebbe ergersi a vincitore della tornata elettorale. Ma la conquista della Campania con Vincenzo De Luca, l’impresentabile dell’Antimafia inseguito anche dalla legge Severino, si porterà dietro un caos istituzionale e politico che non renderà agevole, almeno nei prossimi mesi, il governo di una delle Regioni più sofferenti del Paese. In Umbria la presidente uscente Catiuscia Marini si è salvata per il rotto della cuffia. Ma in Liguria e in Veneto per il Pd è stata una vera e propria Waterloo. In Riviera si è consumata una spaccatura a sinistra che ha portato alla fuoriuscita di un candidato che ha portato via i voti che, forse, avrebbero consentito a Raffaella Paita di battere Giovanni Toti. Ma se quest’ultimo ha vinto lo deve anche al fatto che la candidata imposta dal presidente uscente della Regione Claudio Burlando, per storia personale e gravami (è indagata per disastro colposo), non era probabilmente la migliore da schierare al via. In Veneto, la trottola Alessandra Moretti (in tre anni passata da deputata a europarlamentare a candidata alla Regione) è stata, come si dice adesso, asfaltata da Zaia. Una figuraccia che ha pochi precedenti a livello nazionale. Se dai singoli concorrenti, si passa al dato politico, va constatato che il Pd del 40 per cento delle Europee, che tanto aveva fatto gonfiare il petto al bulimico presidente del Consiglio, è ritornato intorno a quel 25% medio che tanto faceva ribrezzo al medesimo Giovin signore fiorentino. C’è di che riflettere per chi ritiene di essere investito del ruolo di salvatore della Patria contro e a dispetto di tutti. Dall’altra parte della barricata, non è che Forza Italia sia uscita in forma smagliante dalle urne. Sì, è riuscita a strappare la Liguria, ma lo deve ai guai del Pd e alla forza della Lega (di cui diremo dopo). Per il resto, in Puglia sono volati gli stracci e anche chi voleva fare la faccia feroce, come Raffaele Fitto, si è dovuto accontentare della sconfitta dei propri amici azzurri. Sai che consolazione. In Veneto ha stravinto Zaia, ma Forza Italia si è ridotta a poco più del 5 per cento. In Campania, nonostante la sfida provenisse da un candidato impresentabile, ha dovuto cedere la presidenza. Se l’è cavata, pur perdendo, in Umbria. Un bilancio pesante, che segnerà probabilmente la fine di una leadership e una svolta radicale nei rapporti di forza all’interno dello schieramento moderato o, più genericamente, di centrodestra. E qui veniamo ai vincitori. Difficile negare che alla Lega spetti il ruolo di forza trionfante. Di Zaia si è detto e Toti se è stato eletto lo deve al 20 per cento portato in dote dal Carroccio. Ma il 20 per cento conquistato in Toscana e nelle Marche (poco meno) dicono quanto Matteo Salvini sia stato capace, pur sulle ali di una campagna dai toni forsennati (o proprio grazie a questa), di portare sul simbolo di Alberto da Giussano, anche lui finora considerato impresentabile, messe di consensi che nemmeno il Bossi dei tempi d’oro riuscì a meritarsi. Quella Lega lì non esiste più, questa che esce dalle Regionali è un movimento in buona parte nuovo, anche nel corredo ideologico, pronto a giocarsi una partita di primo piano anche sul livello nazionale e non più nel ristretto arco pedemontano. Lo si diceva alla vigilia, ma ora è più chiaro: la sfida si restringe ai due Matteo. Il ruolo di terzo incomodo potrebbe giocarlo il Movimento 5 Stelle, l’altro vincitore delle Regionali al di là del fatto di non aver conquistato nessuna presidenza. Sul piano dei voti il consenso dei grillini è tornato a crescere e a consolidarsi dopo la battuta d’arresto delle Europee dello scorso anno. Certo, questa fiducia va spesa utilmente, disponendosi se necessario a sporcarsi le mani con gli altri partiti, a partire dai temi concreti come ha detto qualche candidato, perché altrimenti si rischia di consegnare alla pura testimonianza una voglia di cambiamento e di innovazione che va ascoltato e compreso.




Expo a rischio sagra, ma farà comunque bene al Pil

EXpo abc (2)Forse neanche il primo novembre, quando l’Expo sarà definitivamente chiusa, ci sarà un giudizio univoco se sia stato un successo o meno. Del resto, a esposizione iniziata, ci sono ancora commenti discordi sul fatto che si sia arrivati in tempo. Questione di punti di vista, ovviamente: che il più sia stato fatto è indubbio, ma è innegabile che all’inaugurazione non tutti i padiglioni fossero pronti e che a due settimane dall’inaugurazione ci siano ancora cantieri aperti. Tutto è molto relativo e la propaganda cerca di allontanare gli sguardi dai dettagli, che però sono quelli che contano.

A rendere più complicato il giudizio è che neanche adesso che l’Expo è iniziato si è riusciti a capire esattamente cosa sia e soprattutto a cosa punti. In un contenitore così vasto dove sono entrate aspettative di tutti i tipi si confronteranno soddisfazioni e inevitabili speranze deluse. Sono ovviamente contente le aziende che hanno lavorato e incassato per la costruzione, piuttosto mogi sono invece, almeno per ora, quanti si illudevano di avere vagonate di turisti stranieri da ospitare.

Intanto c’è il silenzio stampa su quello che alla fine dovrebbe essere il metro del successo dell’esposizione: il numero di visitatori. Dopo i primi due giorni di grancassa (200 mila presenze all’inaugurazione, 220 mila il giorno dopo, nel ponte del Primo Maggio) è stata messa la sordina sulle informazioni, salvo sporadici flash, sempre in positivo, come le code nel fine settimana, per gli ingressi serali a cinque euro, che onestamente vanno collegati all’interesse per i ristoranti (e magari in prospettiva allo spettacolo del Cirque du Soleil) più che alla visita dei padiglioni. Più che legittimo, comunque, perché in questa confusione di obiettivi non è escluso che i padiglioni che avrebbero dovuto essere il cuore e la ragione dell’Expo alla fine siano soltanto i fondali del palcoscenico.

Il commissario unico di Expo Giuseppe Sala ha dichiarato in occasione della prima conferenza di bilancio a 13 giorni dall’apertura dell’Esposizione, che “per la non facile verificabilità dei numeri giornalieri” (alla faccia della perfetta organizzazione !) non è possibile comunicare dati certi, ma continua ad ostentare sicurezza, parlando di un bilancio “più che positivo”. L’obiettivo dei 20 milioni di visitatori e 24 milioni di biglietti viene confermato anche se diversi commentatori hanno esultato per il raggiungimento del primo milione di ingressi (“ufficiosi”) dopo poco più di dieci giorni. Un ritmo che proietterebbe nei sei mesi a 18 milioni.

Anche sugli unici dati ufficiali ci sarebbe poco da esultare. Dopo che all’inaugurazione aveva dichiarato la prenotazione di 11 milioni di biglietti, il 13 maggio Sala ha comunicato che Expo può contare su undici milioni e trecentomila biglietti già emessi, fatturati o contro-garantiti da una fideiussione bancaria per gli accordi con i tour operator». Una crescita di soli 300 mila biglietti che appare piuttosto magra. Sala ha rilevato che “sono già più di 100 mila i biglietti venduti dal primo maggio per gli ingressi serali (al prezzo di 5 euro)”, così che la sua puntualizzazione che «Expo la sera è un successo» sembra essere per negazione l’ammissione che di giorno non lo è altrettanto.

Intanto degli 11,3 milioni di biglietti staccati, quelli effettivamente “incassati” sono cinque milioni, mentre il resto è garantito da prenotazioni in particolare di agenzie di viaggio. Complessivamente, 8 milioni sono stati venduti a 11 grandi distributori, 700 mila sul sito e con la distribuzione diretta di Expo, 350 mila alle scuole (ma con 700 mila prenotazioni). Ma ci sono biglietti e biglietti: via web costa 34 euro, ma vari rivenditori fanno prezzi più bassi e si possono trovare anche a 20. Si può comunque confidare che alla fine i numeri saranno raggiunti in un modo o nell’altro, ma dato che si sta parlando di un’esposizione universale non è solo una questione di quantità. C’è qualità differente nel visitatore e non solo per la capacità di spesa: un conto è uno straniero che deve pernottare, un conto è un milanese che torna a casa, un conto è uno studente, un conto è uno scolaro attrezzato di panino nella cartella, un conto è chi è interessato solo ai ristoranti. C’è la possibilità che alla fine l’Esposizione universale si riduca a un’estemporanea sagra regionale, frequentata soprattutto da lombardi e con una grande abbondanza di scolaresche. Ma poco male. Resteranno infrastrutture realizzate per 2 miliardi di euro, alcune di utilità generale, altre funzionali solo a un’area dalla destinazione incerta. E in ogni caso si darà data una scossa, come nelle migliori tradizioni delle politiche keynesiane, dove scavare una buca e poi riempirla muove comunque il Pil. Secondo Euler Hermes (gruppo Allianz) Expo darà un contributo dello 0,1% al Pil Italiano del 2015: con queste crescite a dimensione virgola non è da buttar via.

 




Centenario della prima guerra, che amarezza i silenzi di PalaFrizzoni

Palazzo FrizzoniCi ritorno, ossessivamente, ripetitivamente: è la cimminite, da cui non mi riesce di liberarmi. E’ una fissa che vi infliggo: gira che ti rigira, a questa faccenda del centenario della prima guerra mondiale, prima o poi, devo ritornarci. Sono malato di guerra, inebetito dagli ormoni del patriottismo, assuefatto alle più indigeribili cicalate storico-rievocative. D’altronde, sono un sopravvissuto anch’io: sono un reduce, in un certo senso. Mia mamma, anziché portarmi con gli altri bambini a sdilinquirmi per i daini del parco Suardi, mi trainava, un giorno sì ed uno no, al museo del Risorgimento: e si vede che di fiato ne aveva da vendere, perché, salendo in Città Alta, mi cantava tutto il tempo “Cara biondina capricciosa garibaldina, trullallà…” o “Il Piave mormorava…”. E io metabolizzavo: inghiottivo e peptonizzavo quel popò di manzo fagiano, e ne traevo succhi, linfe e questa inguaribile sindrome guerrofila.

Cosa pretendete da uno tirato su a capricciose garibaldine e fiumi mormoranti? Dunque, mi sono detto che, in questo anno di grazia 2015, la mia bramosia sarebbe stata, finalmente, placata. E, in un certo senso, il Padreterno mi ha concesso la proverbiale troppa grazia: non c’è settimana in cui non mi ritrovi in qualche posto a parlare di questa guerra, Trentino, Abruzzo, Veneto. Ieri, ad esempio, sono stato a Maserà, paesino sulla Conselvana, in provincia di Padova: oggi sarò dalle suore, settimana prossima a Gorizia e poi a Calalzo. Insomma, posso ben dire di essere degno di quella trottola patriottarda che era mia madre, quando la gamba la sosteneva.

Anche nella nostra provincia è tutto un fiorire di iniziative, qualcuna meglio strutturata, qualcun’altra, magari, un po’ tirata per i capelli, ma tutte lodevoli, se non altro per l’impegno: Alzano e Piazza Brembana, Peia e Carvico, Seriate e Gorle, insomma, non c’è paese che non organizzi qualcosina sul tema della prima guerra mondiale. Bravi i sindaci, brave le associazioni e bravi i cittadini, che, anziché guardarsi la De Filippi in tv, vengono ad ascoltarsi le mie bubbole. Si va dai temi più generali, come le ragioni della guerra o dell’intervento italiano, fino a temi specifici: i ragazzi del ’99, gli arditi, Caporetto o, addirittura, strettamente territoriali, come i Bergamaschi in guerra o i fratelli Calvi. Tutto fa brodo: onestamente, purchè ci si ricordi di questa fettazza della nostra storia, da tempo vilipesa e trascurata, andrei a parlare anche dell’uso delle gavette sul fronte di Salonicco.

Chi latita, purtroppo, sono i pesci grossi: la regione Lombardia e il comune di Bergamo. La prima, a guida centrodestra, mi pare che consideri questo centenario un po’ come un fastidioso obbligo, da levarsi dai piedi il più in fretta possibile: una specie di vezzo passatista che rischia di distrarre un po’ di attenzione dal carrozzone dell’Expo e che è più un danno che un’opportunità. Tanto è vero che il comitato scientifico che dovrebbe occuparsi della valorizzazione del patrimonio storico regionale della Grande Guerra (e di cui, immeritatamente, faccio parte), si è riunito una sola volta, giusto per eleggere il presidente e il vice. Questo mentre Trentino, Veneto e Friuli-Venezia Giulia, ossia le altre regioni interessate dall’evento, da anni stanno lavorando per celebrare, ristrutturare e valorizzare il proprio bagaglio storico.

Lo stesso dicasi per il comune di Bergamo, a guida centrosinistra: a parte l’inaugurazione della torre dei caduti, ristrutturata a spese di un istituto di credito, è il nulla pneumatico. Incompetenza? Cattiva volontà? Mancanza di idee? Eppure, a Bergamo ci sarebbero numerose iniziative di interesse nazionale ed internazionale da proporre: io ne avrei una decina nel cassetto. Ma nessuno me le chiede, perché, evidentemente, qui da noi gli storici della prima guerra mondiale crescono come funghi. Oppure perché, in un contesto che vorrebbe spostare tutta l’attenzione sul coincidente settantesimo della Liberazione, uno storico vero potrebbe infastidire le smanie di protagonismo di qualche storico fasullo. Da una parte, la totale ignoranza della materia 1915-18 e, dall’altra, la protervia nel voler monotematizzare, a proprio vantaggio, la storia contemporanea, evidentemente, fanno sì che si cerchi di cancellare la, passatemi il termine, concorrenza. Solo che chi ci rimette è la città.

Come noterete, ho il dentino un pelo avvelenato: va bene che “nemo propheta in patria”, però, un colpetto di telefono, una mail, la richiesta di un suggerimento, mi pare che avrebbero potuto arrivarmi, stante, soprattutto, il rigor mortis culturale sul tema. Così, continuo a girare per l’Italia, con l’amarezza di non poter fare nulla per casa mia: mi sento un po’ come un leone in gabbia. Ovverosia, leggermente incazzato. Ecco, questo volevo dirvi sul tema del centenario: il rospaccio rospo lo dovevo recere. E’ più forte di me. E, credetemi, non è questione di lavoro: di quello, ahimè, ne ho fin troppo. E’ questione di amore per la propria terra. E, un pochino, per la propria mamma. Ma questa è un’altra storia.




Albinoleffe, il grande sogno spezzato dal dna bergamasco

UC AlbinoLeffe v Reggina Calcio - Serie BE’ una storia molto bergamasca, quella dell’Albinoleffe, precipitato nei Dilettanti dopo un decennio nel calcio d’élite (con tanto di serie A sfiorata), al termine di una stagione ingloriosa. E’ la vicenda paradigmatica di chi fa del “piccolo è bello” un dogma, di chi non sa o non vuole condividere progetti con altri, di chi si chiude in una autoreferenzialità che individua in chiunque osi muovere osservazioni critiche o anche opinioni dissonanti un potenziale nemico. A suo modo, la società seriana, incarnata nel bene e nel male dal suo presidente Gianfranco Andreoletti, ha seguito una parabola simile a quella di molti altre realtà, specie in campo economico, della Bergamasca. Nata da una felice intuizione, mettendo a fattor comune l’esperienza di due sodalizi storici del calcio orobico (Leffe e Albinese) e chiamando alla gestione alcuni dei principali imprenditori della Valle Seriana, ha smarrito nel corso del tempo la filosofia che l’aveva portata ad essere presa a modello in campo nazionale. Una favola, la si era dipinta ad un certo punto, con quel di più di facile retorica che nel giornalismo, non solo sportivo, si spreca nell’illusione di catturare attenzioni facili. E forse lo avrebbe potuto essere davvero se chi ne era alla guida, persona di specchiata onestà e gran lavoratore, non si fosse fatto cogliere dal virus del solipsismo tipico del “one man show”. Eppure, c’erano tutte le condizioni per consolidare l’esperienza, farle mettere radici e aiutarla nella crescita. Sarebbe bastato, si fa per dire, capire che in una realtà come quella bergamasca non era possibile, per nessuno, rubare la scena all’Atalanta. Sì, c’è il caso Chievo che dimostra la possibile coesistenza ad alto livello di due società calcistiche in una città non metropolitana. Ma Verona è grande due volte e mezzo Bergamo. E comunque, è l’eccezione che conferma la regola. L’Albinoleffe avrebbe dovuto stringere un rapporto di collaborazione con l’Atalanta. Di qua una società con un fiorente settore giovanile che ha bisogno di mandare le sue promesse a farsi le ossa. Di là, un’altra società che non ha grandi risorse e che può quindi mettere a disposizione spazi per talenti in erba. Come unire due opportunità, insomma. Semplice come bere un bicchier d’acqua. Ovunque, forse, ma non a Bergamo dove in tanti anni, per ragioni e responsabilità che è vano cercare di individuare, non si è riusciti a tenere aperto nemmeno un canale di formale dialogo (basti ricordare le beghe sull’uso dello stadio e sulle spese di ristrutturazione). Meglio andare avanti ciascuno per la propria strada, e pazienza se tanti risorse vanno sprecate. Nessuno stupore, sia chiaro. L’individualismo sta scritto nel codice genetico dei bergamaschi. Quante realtà sono state spazzate via dalla crisi perché non si è stati capaci di unire le forze, di aprire il capitale ad altri soci, di affrontare il mercato in mare aperto, come pure altrove avviene d’abitudine? Si dirà: ma non si può prendere l’Albinoleffe come modello e generalizzare. Beh, che dire, allora, della situazione in cui versa, cambiando sport, la Foppapedretti? Qui abbiamo la controprova. Il presidente Luciano Bonetti, anche lui per indole un discreto accentratore ma non al punto da non comprendere la necessità di condividere gli impegni di una impresa sportiva di alto livello, nelle scorse settimane si è sgolato per far comprendere anche ai sordi che il volley femminile a Bergamo può avere un futuro solo se si farà avanti qualcuno disposto a dare una mano. Bene, ne ha avuto come risposta un silenzio assordante. Interrotto solo dall’indiscrezione, che pare piuttosto fondata, su un possibile interessamento di Antonio Percassi come sponsor, grazie anche agli auspici di autorevoli personaggi. Un’ottima soluzione, intendiamoci, ma rivedere in prima linea un soggetto già sovraesposto come il presidente dell’Atalanta, conferma la desolante mancanza di generosità di tanti imprenditori bergamaschi bravi ad applaudire i successi di calciatori e pallavoliste salvo non chieder loro di aprire il portafogli. Oggi si ammaina. Almeno a certi livelli, la bandiera dell’Albinoleffe come ieri è toccato a quella della Virescit o del Celana nel basket. Le lacrime di coccodrillo si sprecano, la voglia di cambiare, purtroppo, non si vede.