Provincia, al voto (in pochi) tra i soliti paradossi italiani

Provincia-BergamoLa politica è veramente il palcoscenico dei paradossi: una specie di camera fatta di specchi, in cui tutto ciò che, nel mondo normale, sarebbe puro delirio, viene presentato come fosse la cosa più normale del mondo. E, badate, non mi riferisco alle esilaranti bissabobe dei politicanti romani, che un giorno danno dello scemo a uno e, il giorno dopo, lo copiano pari pari: parlo di noi, orobi mesopotamici, stirpe di baghèt e di taragna, gente pratica e laboriosa. Perché sabato scorso, 2.843 bergamaschi, tra sindaci e consiglieri comunali, sono andati a votare per un’assise che non esiste più, almeno nelle parole felpate e false della politica, vale a dire il Consiglio Provinciale. Quattro liste, quarantanove candidati, sedici eletti. Nel più abissale ed assoluto disinteresse dei cittadini. Neanche un plissé sull’appassionante agone politico: nemmeno un bergamasco che abbia mangiato di magro o si sia astenuto dai commerci sessuali, in attesa del verdetto dell’urna. Anche perché dei destini di un consiglio in cui gli amministratori si votano tra loro, non si capisce poi per fare cosa, davvero pare impossibile che a qualcuno possa importare.

Prova ne sia che perfino tra i pubblici amministratori, che dovrebbero, come si dice, dare il buon esempio, c’è stata una significativa astensione: il 36%, superiore del 9% rispetto alla precedente tornata del 2014. Insomma, neppure ai diretti interessati interessa l’elezione di questo comitato di sbaraccamento: di questo plotone di psicopompi il cui unico vero ruolo parrebbe essere di facilitare il trapasso della defunta provincia ai campi elisi.  E, allora, come direbbe Beppo Novello, perché? Per quale ragione eleggere un consiglio che non dovrebbe nemmeno esistere, che conta poco o niente e che nessuno si fila di striscio? Capirei se si trattasse del solito scopo umanitario, se ci fossero di mezzo le palanche: uno occupa la sua cadrega e si porta a casa un gruzzoletto solo per scaldarla. Ma qui non ci si guadagna mezza lira frusta. Manca, se mi passate il termine, il movente. Posso capire che a qualcuno faccia gola l’essere eletto per l’elezione in sé: ci sono quelli che si sbattono per essere membri di un consiglio d’istituto o presidenti di un’assemblea condominiale, e con Narciso non si scherza. Ma il legislatore che interesse avrebbe avuto nel mantenere questo lemure di elezione, questo fantasma di consiglio?

No, qui c’è qualcosa di più profondo, che risale alla ritrosia italica verso le semplificazioni: da noi, ogni semplificazione complica vieppiù le cose, inevitabilmente. C’è una specie di entropia mentale: un caos assistito, nelle menti dei nomoteti: basta sentire parlare di commissioni, comitati, assemblee, tavoli, workshop, consigli, che nelle menti dei politici si accende una lampadina da 10 candele. Che poi, diciamocelo, questa abolizione delle province non ci è andata giù fin dall’inizio. Le Province, poverine, non facevano male a nessuno: sono le Regioni, semmai, che andavano eliminate, perché sono un verminaio mangiasoldi. Le Province, da secoli, sono una dimensione perfetta per amministrare agevolmente un territorio: abbastanza grandi da porsi questioni progettuali di un certo respiro e abbastanza piccole da tener presente le istanze di tutti. Una regione come la Lombardia, invece, è un carrozzone colossale, che distribuisce denaro a vanvera e che, per dover decidere tutto, decide poco o nulla: una specie di Stato intermedio, che dello Stato centrale mantiene i peggiori difetti. Andrebbe eliminata, lo dico senza remore: e, se non fosse una miniera di incarichi, di poltrone, di consulenze e di sprechi, su cui i partiti campano in concorde baldoria, probabilmente, l’avrebbero già mandata in soffitta, insieme a tutti i dipartimenti napoleonici e ai podestà del Ventennio.

Invece, ci tocca di mantenerla, questa parodia di decentramento, mentre le Province fanno elezioni del tutto ininfluenti, tra liste che nessuno conosce, per fare scelte che nessuno avallerà. E’l’Italia, gentili lettori: un’elezione non si nega a nessuno, in questa specie di carnevale di matti. Il paradosso finale, la definitiva presa per il culo, è che, in questa pletora di soviet, in questa jungla di commissioni, comitati e consigli, l’unica cosa che manca per davvero è qualcuno che, alla fine, decida e si prenda la responsabilità delle decisioni. Uno che dica: si fa così e cosà e, se non funziona, la decisione è mia e mia la colpa. Ma, forse, sarebbe chiedere un po’ troppo ad un popolo di cagadubbi come il nostro, che cancella le Province e poi le mantiene in vita a stipendio zero e a potere decisionale zero meno. Ma va bene così: se non altro ci sarà qualcuno che potrà dire di aver vinto, qualche volta, da qualche parte. In bocca al lupo, dunque, ai sedici neoconsiglieri, chiunque essi siano: qualunque cosa faranno, auguro loro di farla bene, anche se, in fondo, mi piacerebbe capire almeno di cosa si tratta. Una mia amica che fa politica mi ha promesso di spiegarmelo: io aspetto fiducioso.

 

 




Profughi o clandestini? La “guerra” psicosemantica sugli immigrati

migranti - CopiaLe parole sono una delle cose più importanti di una civiltà: chi controlla le parole controlla i pensieri della gente e li indirizza dove meglio crede. Per questo, più siamo ignoranti e più siamo indifesi, contro questa campagna di distorsione della realtà e del buon senso. Chi, più di ogni altro, si approfitta della nostra debolezza culturale è, per certo, il linguaggio della politica: da un uso semplicemente disinvolto di certi termini, credo di poter dire che si sia passati ad un uso psicologico delle parole. In un certo senso, introiettando nelle menti, non sempre lucidissime e quasi mai allenate, degli Italiani certi termini, si vuole abituare la gente ad accettare il significato che questi termini sottintendono. Manipolazione psicosemantica, la chiamerei. Facciamo qualche esempio. Partirei dall’origine stessa della nostra idea di politica, vale a dire dal termine ‘democrazia’. Sorvolo sul fatto che, ad Atene, la parola designasse semplicemente un sistema elettorale, basato sulle circoscrizioni: noi, oggi, siamo in Italia e possiamo serenamente considerare la democrazia come il governo del popolo.

Il problema sorge quando si parla, invece, di ‘aristocrazia’: questo termine, mercè la solita rivoluzione francese, che ha dettato le regole del nostro presente perfino a livello di vocabolario, ha, presso di noi, una sfumatura negativa. Lungi dal mantenere il suo nobile significato originario di “governo dei migliori”, la parola ‘aristocrazia’, a un dipresso, viene percepita come un governo di parassiti imparruccati che vivono di rendita, di dame con l’erre blesa e di effeminati cicisbei, che, se il popolo chiede pane, suggeriscono di dargli brioches. Viceversa, la vera ‘aristocrazia’ è precisamente quello che tutti domandano a gran voce, in questi tempi di Lorenzin: che i migliori si facciano avanti e che il merito e non il favore governi la baracca. Ne deriva che ‘aristocrazia’ non è affatto il contrario di ‘democrazia’, sibbene di ‘keirocrazia’, che starebbe per il governo dei peggiori, la peggiocrazia. Come dire che, quando governa il popolo, esso è perfettamente in grado di esprimere delle eccellenze e che nulla vieta ad una democrazia di essere anche un’aristocrazia: come vedete, le parole, talvolta, ingannano.

Lo stesso dicasi del sovrabusato termine ‘populismo’ che tanto pare piacere a giornalisti e politicanti vari, che ne felicitano ogni movimento politico che non gli garbi: la parola che, nel nostro vocabolario, sta ad indicare ciò che questi signori, palesemente ignoranti o in malafede, intendono con ‘populismo’ è ‘demagogia’. La ‘demagogia’ è l’arte di trascinare le masse popolari, illudendole o assecondandone gli uzzoli. Il ‘populismo’, dal russo narodničestvo, è una forma particolare di socialismo, sviluppatosi nel XIX secolo e che, perfino nelle sue forme più moderne, come il Peronismo, ha mantenuto la sua valenza socialisteggiante, attribuendo al popolo una specie di aura mistica di positività e purezza. Oggi, invece, usare ‘populista’ come sinonimo di fascista, almeno nei talk show televisivi, è prassi comune: laddove, in primis, se c’è una matrice populista, essa va ricercata, storicamente, a sinistra e, in secundis, quanto a promettere a vanvera paradisi sociali e ad accarezzare il pelo della gente, mi pare di poter dire che, in casa nostra, i veri professionisti abitino nei palazzi del governo, più che nei covi degli squadristi.

Ma veniamo alla psicosemantica più subdola, perché più grave e vitale è la questione che essa sottende: gli immigrati. Invariabilmente, nei dibattiti di ogni ordine e grado, i giornalisti ed i politici di indirizzo governativo si guardano bene dall’usare altro termine che ‘profughi’ per indicare gli immigrati, mentre i loro antemurali parlano solo e sempre di ‘clandestini’: si tratta di due sciocchezze uguali e contrarie o, se preferite, di due malefedi contrapposte. I profughi sono una precisa categoria di emigranti, sancita, riconosciuta e protetta dal diritto internazionale, ossia persone costrette ad abbandonare la propria terra e la propria patria in seguito a eventi bellici, o a persecuzioni politiche o razziali: questo e non altro significa la parola ‘profugo’, in inglese refugee. Per contro, il termine ‘clandestino’, giuridicamente, neppure esiste: come dire che, dalla legge italiana, i clandestini non sono nemmeno contemplati. Per solito, si indicano come clandestini i cosiddetti “immigrati irregolari”, gli overstayers del diritto anglosassone, vale a dire persone che rimangono nel nostro Paese a visti scaduti o senza autorizzazione e senza documenti.

Va da sé che la stragrande maggioranza degli immigrati irregolari, che sono l’argomento di furiosi scontri televisivi, oltre che cospicua fonte di guadagni per la solidarietà pelosa delle cooperative, è rappresentata da persone che non sono né profughi né clandestini. E, allora, perché i ciarlatori professionali abusano di questi due termini? Semplice: per la solita psicosemantica. Profugo ti fa pensare a bambini con gli occhioni sgranati, a mamme avvolte in stracci, a poveretti in fuga dall’ecatombe. Mica a giovanottoni ben in carne, con telefonino e cappellino da baseball. Il profugo è un potente elemento di pathos e di commozione. Invece, il clandestino ti fa pensare a qualcuno che, subdolamente, si annidi nella stiva, per non pagare il biglietto: ad una precisa volontà di ingannare e di aggirare la legge, non a un povero Cristo che cerca una vita migliore. E’ una guerra, cari lettori: una guerra di parole, combattuta con ogni mezzo allo scopo di manipolare ed indirizzare il nostro consenso. E lo scopo, in fondo, è il più squallido e triste: permettere ai peggiori di rimanere in sella, a scapito dei migliori. E’ questo mercato delle vacche, in fondo, che chiamano ‘democrazia’.

 

 




Social e stadi, che triste spettacolo sulla morte di Ciampi

Abbiamo una tradizione: oggi come oggi, facciamo finta di nulla, eppure la tradizione c’è. Spesso, si fa finta che non ci sia, perché ci vergogniamo di essere diventati quel che siamo, e la tradizione è la cartina tornasole del nostro declino: però, lei è lì, ugualmente, a prescindere da quanto noi strizziamo gli occhi per non vederla. E la tradizione ci racconta tante cose che, talvolta, ci piacerebbe non sapere. Per esempio, che, quale che sia stata la loro vita, i morti vanno rispettati. Tutti. Parce sepulto, dicevano gli antichi: e una lunga teoria di scrittori e di pensatori, nel corso della nostra lunghissima storia, ha ribadito e perfezionato questo nobile concetto. Parce sepulto: sia che il morto ti fosse caro, sia che, viceversa, lo considerassi persona esecrabile ed odiosa in vita, una volta cadavere, egli diveniva intoccabile, sacer, immune tanto agli insulti quanto alle azioni insultanti. Certo, un tempo la morte era cosa affatto diversa: restituiva all’uomo, anche al più potente, il contatto con la terra, l’humilitas, da cui proviene il concetto francescano di umiltà. I re, prima di morire, vestivano un saio di bigello e si sdraiavano sulla pietra, con un sasso per cuscino: questo li spogliava dell’assise onde erano venerati e serviti, ma li sottraeva al giudizio umano, per affidarli a quello di Dio. Fu solo con l’avvento della morte borghese che le tombe divennero celebrazione della pompa e non luogo di preghiera e penitenza: un poco alla volta, i morti cominciarono ad essere creduti vivi. E ad essere trattati da vivi: proporzionalmente al crescere di una fifa birbona di morire, aumentò il numero dei trucchetti per ingannare la morte. Il morto venne vestito, imbellettato, trasformato in un manichino che assomigliasse ad un vivo: del pari, poco a poco, quel rispetto sacrale che alonava il defunto si sbriciolava, lasciava il posto alla volgarità della vita, alle pantomime della vita.

Carlo Azeglio Ciampi
Carlo Azeglio Ciampi

Così, oggi, ci ritroviamo a celebrare la morte come se fosse un carnevale: dimentichi del tutto della tradizione, sobria e pietosa, dei nostri avi. La gente applaude il feretro che esce dalla chiesa dopo le esequie, come se si trattasse di un cantante o di una personalità pubblica in visita ufficiale: niente di più barbaro ed inguardabile, gli applausi al funerale. E, dietro alla morte di una persona famosa o influente, non c’è mai la considerazione rispettosa per una condizione che, prima o poi, toccherà a tutti, ma sventola il codazzo degli odi e degli amori, quasi in un supplemento di esistenza. I social network hanno moltiplicato e velocizzato enormemente questo dilagare di volgarità e di trivio: lì, la morte diventa definitivamente circo, fiera, mercatino delle pulci. Come esiste la moda, come ci sono le prevendite dei telefonini, così ci sono i coccodrilli, i necrologi fai da te, dei grandi personaggi che se ne vanno. Per una settimana, tutti conoscono la discografia completa del cantante morto, e poi l’oblio. Tutti hanno visto tutti i film dell’attore famoso, e poi l’oblio. Tutti sanno, tutti piangono, tutti si disperano, e poi cala il sipario, in attesa della prossima occasione di sproloquio, del prossimo funerale mediatico, della prossima farsa necrofila. Oppure, il che è peggio, muore un uomo pubblico, e la sua morte è accolta da cachinni e da insulti, oppure da sesquipedali sbrodolate encomiastiche: talvolta, da entrambe le cose, in una specie di fiera della vanità alla rovescia, in un carnevale dei pazzi.

E’ il caso della scomparsa di Carlo Azeglio Ciampi, che è l’episodio che mi ha indotto a scrivere di morte, in questo articolo. Ciampi non è stato un santo: aveva molte pecche e qualche frequentazione poco felice. Lo si è dipinto come una specie di salvatore della Patria, che è un ruolo perlomeno opinabile, per chi ci ha trascinato, a mani e piedi legati, in Europa. Insomma, si è abusato con l’incenso, secondo un costume incensatorio proprio dei popoli servili per natura. Al tempo stesso, però, internet ha traboccato di insulti e di auguri di bruciare all’inferno, all’indirizzo dell’estinto, colpevole, secondo gli autori dei poco nobili interventi, di tradimento, massoneria, arricchimento sulla pelle dei contribuenti. Ecco, io dico che Ciampi è morto e, in quanto morto, merita rispetto: quel rispetto che si deve a chi muore. Lo si poteva incensare ed omaggiare in vita; oppure dedicargli vie e piazze a tempo debito, una volta sceso il silenzio sul lutto recente. E, allo stesso modo, si poteva contestare da vivo: scrivere delle sue, vere o presunte malefatte ai danni delle tasche degli Italiani, quando poteva ascoltare e difendersi, non ora, che giace gelido in una bara. Oppure attendere che la storia di Ciampi venga scritta: e in quella sede argomentare delle sue colpe e delle sue virtù.

Eccessivo, infine, il minuto di silenzio negli stadi, ripugnanti, sempre negli stadi, i fischi e gli insulti al suo indirizzo. Entrambe testimonianze di un popolo che ha smarrito il senso delle cose: ha perduto il contatto con la propria tradizione di civiltà e di umanità. Ecco, l’Italia degli stadi e dei social network, l’Italia che bercia e che offende i morti oppure li applaude, come a teatro, è l’Italia che più mi disturba: quella per cui, all’estero, mi verrebbe da fingermi svizzero, certe volte. Noi siamo un popolo dalle potenzialità formidabili, soprattutto grazie al nostro formidabile passato: se ci dimentichiamo la lezione dei nostri padri, molto difficilmente trasmetteremo un’identità positiva ai nostri figli. Cerchiamo di insegnare loro il rispetto, tanto dei vivi quanto dei morti: così, quando toccherà a noi varcare quella soglia tenebrosa e piena di incognite, non ci saluteranno con un applauso o una pernacchia, ma con il silenzio del dolore e del rimpianto. Insieme all’orgoglio di aver avuto un genitore dalla schiena diritta e non un pagliaccio.

 

 




Troppe bischerate sulla scuola, ci vorrebbe un antisessantotto

scuolaCola sciropposa la melassa mediatica: c’è l’autunno che incombe, con le nebbie e le castagne genge, e c’è il primo giorno di scuola, con i primi batticuore e le speranze negli occhi stellanti di citti e cittelle. Questi sono gli indefettibili temi della retorica settembrina. Ogni settembre che Dio manda in terra, ci sono le interviste alle mamme, tutte fiere dei loro Nicholas e delle loro Jessiche che si accingono ad imparare a sillabare ba-ba e bu-bu, immortalate davanti a qualche istituto comprensivo di Vattelapesca. Del pari, indefettibilmente, ci giungono le alate parole di provveditori e ministri, piene di motti augurali e di garanzie istituzionali: noi ci tocchiamo apotropaicamente sugli auguri e sorridiamo, con diabolica ironia, delle garanzie. Infine, dopo le fanfare e gli zuccherini, comincia la mazurka: e lì, è il caso di dirlo, cade l’asino. Perché, lungi dall’essere quel meraviglioso mondo di Oz che si evince da circolari e telegiornali, l’inizio dell’anno scolastico assomiglia piuttosto al cerchio degli ignavi, che corrono a perdifiato dietro ad un’insegna che, beffardamente, muta colore ad ogni piè sospinto. E il piè sospinto dipende dai governi, dai ministri, dalle furbe trovate di qualche docimologo demente. La triste verità è che non ci si capisce niente: mancano docenti, cattedre si volatilizzano ed altre si materializzano, come in un vecchio film di Star Trek, i programmi non si capiscono, gli obiettivi, obiettivamente, sono alquanto vaghi e le competenze…beh, le competenze!

Insomma, è un maledettissimo imbroglio, questo accidente di inizio anno scolastico. E la buona scuola sembra sempre meno buona e, soprattutto, sempre meno scuola: sembra il parcheggio di un supermercato, un ufficio collocamento, una giostra di paese, un centro sociale, una clinica neuropsichiatrica, ma non sembra punto una scuola come ce la immaginiamo. Intendiamoci, alla fine le classi si formano, gli orari si incastrano, i supplenti suppliscono ed i docenti docentano (quest’ultimo verbo a pera l’ho inserito per permettere a qualche professoressa di lettere di conquistare il suo momento di gloria, segnalando al direttore che il verbo docentare, sia pure frequentativo, non esiste proprio): questo, per esclusivo merito di quei poveri disperati che si rovinano la salute cercando di mettere una pezza alle sesquipedali bischerate della burocrazia scolastica. Perché, vorrei che lo sapeste, la scuola, buona o cattiva che sia, sopravvive grazie alla pazienza e allo spirito di sacrificio di un manipolo di insegnanti e di dirigenti che, non del tutto immemori dei tempi antichi, in cui si era usi lavorare e far silenzio, si dannano per riparare i danni che un’impostazione criminale della pubblica istruzione infligge al buon senso e all’educazione dei nostri ragazzi.

La scuola, badalì, non è messa come dite voi, quando ne parlate maluccio, magari davanti al cappuccino, perché l’erede non ha capito una mazza di Eraclito e ha preso tre in filosofia: è molto peggio, è drammaticamente peggio. Questo Paese sta andando in malora per un’infinità di motivi e, tra questi, la scuola è il più grave, il più strategico, il più grottesco: la scuola dovrebbe essere il nostro futuro e, invece, è decisamente un trapassato. Nel senso più cadaverico del termine. Io mi sono un tantino stancato di fare diagnosi e suggerire medicine, però un ultimo tentativo lo voglio fare: siccome le cose vanno sempre peggio e, ai piani alti, cinguettano felici con imbarazzante incoscienza, voi che amate la scuola e che desiderate che i nostri figli ne escano, non si dice pronti alla vita, chè la prontezza uno se la deve sudare, ma quantomeno alfabetizzati, cercate di fare sentire la vostra voce.

E’inutile raccontarci tra noi, davanti al solito cappuccino, che la scuola fa schifo e, poi, non dire nulla e non fare nulla, quando chi la riduce così si inventa artagotiche scempiaggini ad ogni chiaro di luna. Sapete cosa ci vorrebbe? Un antisessantotto: una rivoluzione alla rovescia, che la facesse finita col cumulo di bischerate che si è andato ammassando sulla scuola, tra sperimentazioni e feticismi didattici, negli ultimi cinquant’anni. Capisco che sia un filo utopistico immaginare degli studenti che vanno in piazza a chiedere di studiare, a domandare ordine, selezione, meritocrazia: però, se le riforme, anziché riformare, demoliscono, al popolo non rimangono che le picche e le torce. Altrimenti, sciroppatevi le amarene ministeriali e i baci di dama provveditorali: beccatevi la buona scuola e mettetela in cornice, con le castagne e le foglie morte. Però, a questo punto, lasciatemi almeno bere il cappuccino in pace, senza piangermi sulla spalla perché Nicholas è ignorante come una rapa e Jessica scambia Garibaldi con Pippo Baudo.

 

 

 




Un errore prendersela solo con le slot. Anche la Borsa è pericolosissima

Slot machineUna stretta sull’azzardo legalizzato appare come una velleità moralizzatrice che può al massimo nascondere un fenomeno, ma difficilmente lo può eradicare. Se anche le slot machine fossero vietate in tutto il territorio nazionale, ci sarebbe sempre, come c’è sempre stato, il gioco illegale, ci sarebbero i viaggi oltre confine, con Francia, Svizzera, Austria e Slovenia sempre disponibili a poche ore di auto, e ormai ci sarebbero i siti Internet internazionali dilaganti e difficilmente frenabili per continuare a spendere anche dal divano di casa.

Eppure su questo tema si insiste, con tenacia forse meritevole di altre battaglie, con un filo rosso che lega il sindaco di Bergamo Giorgio Gori al presidente del consiglio Matteo Renzi, andando oltre la comunanza partitica. La vicinanza politica, che si dice fosse una volta più salda di ora, si manifesta nella parallela lotta alle slot machine. A Bergamo l’ex manager di una Fininvest che sguazzava nei giochi a premi ha introdotto un regolamento che li vieta in determinati orari (Lotto, Superenalotto e affini esclusi, perché c’è azzardo e azzardo). Il problema è che nelle ore di coprifuoco basta uscire dal confine comunale e i vincoli scompaiono, con Seriate o Torre Boldone che diventano il nuovo paradiso delle slot, come una volta Capodistria o Innsbruck. Risultato del divieto: effetto mediatico, plauso dei benpensanti, danneggiamento di attività commerciali e giocatori praticamente come prima.

A livello nazionale, sull’ideale scia di Gori, ma più in grande, si muove ora il presidente del consiglio. Renzi ha preannunciato che intende mettere a punto una misura per togliere le slot da tabaccherie ed esercizi pubblici, una rottamazione in piena regola, senza peraltro far sapere se ci saranno indennizzi per chi ha investito nel settore.  L’obiettivo è arginare le ludopatie che ormai sarebbero arrivate a livello nazionale a coinvolgere più di 250 mila giocatori “patologici”. Riferendosi, sembra, solo all’azzardo e non a Pokémon Go o altri videogames dall’utilizzo compulsivo, ma che non comportano vincite in denaro.

Il problema però è che, scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, metà dei quattro miliardi e mezzo del gettito fiscale da slot deriva proprio dalle macchine collocate da tabaccai e locali pubblici. In pratica dare l’impressione di accontentare le anime belle del “no slot”, senza toccare comunque le sale giochi dove i ludopati potrebbero comunque continuare a dilapidare il patrimonio che vogliono, comporterebbe un mancato gettito di 2,2 miliardi. Dato che già non si sa bene dove si troveranno i 15 miliardi necessari per disinnescare l’aumento dell’Iva dal primo gennaio, mentre si dovranno fare i salti mortali per convincere l’Europa a concedere un po’ di flessibilità sui conti, viene da pensare che piuttosto che chiudere questa fonte di reddito, sarebbe il momento di allargarla. E qualcuno ci deve avere anche pensato dato che Renzi si è premurato di sottolineare che per finanziare la ricostruzione del dopo terremoto non verrà aumentato il costo della benzina, né appunto verranno allargate le maglie sul gioco d’azzardo e sulle slot.

Ma non allargare non richiede necessariamente di stringere, anche se si decide di andare su questo fronte fiscale in direzione contraria a tutta l’Europa e pure alla storia, dato che nello Stato Pontificio, che di morale dovrebbe intendersene, non c’erano scrupoli a tassare il Lotto e il meretricio, per ricavare le risorse per finanziare le opere pubbliche. Senza contare che “la tassa sugli imbecilli”, come la definiva con razionale oggettività il matematico Bruno de Finetti, è, secondo Camillo Benso di Cavour, l’unica forma di imposizione volontaria, e quindi accettata dal contribuente-giocatore. Certo, la ludopatia è un problema (ma anche la cirrosi epatica o il tumore al polmone conseguenze di altri vizi legalizzati non sono da meno): se si vuole affrontare il discorso seriamente, però, non si può prendersela solo con le slot machine, come strumento che rovina le persone, dimenticando che, chi vuole, può comunque giocarsi tutto alla roulette, al Lotto, ai gratta e vinci. O in Borsa, che può essere vista come una “bisca legalizzata” anche più pericolosa di una “mangiasoldi”.




Il baratto tra occupazione e tasse e la figuraccia della Apple

Tim Cook
Tim Cook

Tredici sono i miliardi di euro che, secondo la Ue, Apple deve versare per tasse non pagate all’Irlanda (che, per inciso, in maniera incomprensibile non li vorrebbe anche se rappresenterebbero per Dublino alcuni anni di manovra). Per fare un confronto, sono in tutto quindici i miliardi che secondo il ministero dell’Economia, l’Agenzia delle Entrate dovrà incassare nel prossimo triennio dall’evasione secondo la convenzione 2016-2018 presentata nei giorni scorsi. Visti in proporzione non è ben chiaro quale sia la somma più clamorosa (e quindi lo “scandalo” maggiore), dato che da una parte c’è la più grande azienda del mondo che attraverso un accordo con uno Stato (però non del tutto sovrano su questa materia) ha cercato una scappatoia per non pagare le tasse in Europa e dall’altro c’è l’importo obiettivo di ben tre anni di lotta all’evasione nei confronti di tutte le aziende attive in Italia. Dove peraltro a dicembre era stato raggiunto un accordo proprio con Apple, che di fronte alla contestazione per tasse eluse dal 2008 spostando formalmente i ricavi in Irlanda, aveva ottenuto l’impegno di pagare 318 milioni di euro. L’intesa all’epoca era stata vista da altri Paesi con invidia e ammirazione, ma forse a questo punto è stato effettuato al ribasso, all’insegna del “pochi, maledetti e subito”. In quei 13-15 miliardi così diversi e così uguali che accomunano Irlanda e Italia c’è però un altro elemento di similitudine nella giustificazione. L’autoriduzione delle tasse, nel caso di Apple dietro un paravento almeno all’apparenza più legale rispetto alla plateale evasione fiscale, viene presentata come una necessità per dare lavoro.

L’Istat alla fine del 2015 aveva stimato in 206 miliardi, quasi il 13% del Pil nazionale, il valore dell’economia sommersa e illegale (dove rientrano sottodichiarazioni e lavoro nero, ma anche droga, prostituzione, contrabbando e altre attività non lecite), con oltre 3,5 milioni di “lavoratori” irregolari. Tutte persone che non è chiaro se siano già contate nelle rilevazioni sulla disoccupazione, come è probabile, o che se, in un’ipotetica scomparsa dell’economia sommersa, gonfierebbero ulteriormente le liste del collocamento. Di sicuro la presenza del “nero” altera le statistiche sul lavoro, non è invece certo, come alcuni ventilano, che sia grazie al “sommerso” che la disoccupazione viene contenuta, riconoscendo indirettamente all’illegalità un immotivato valore sociale. La stessa deformazione che si sente ripetere nella scusa dell’imprenditore pizzicato: non riuscivo ad andare avanti con tutte quelle tasse. Da qui il sillogismo che per lavorare e dar lavoro l’evasione è una necessità. E quasi sempre si trova il mass media compiacente o poco pensante che avalla il ragionamento, senza considerare le conseguenze: o tutte le aziende per dare lavoro devono evadere il fisco – e allora l’obiettivo dei 15 miliardi da recuperare in tre anni è ridicolo – oppure ci sono aziende che riescono a creare occupazione in maniera regolare e che quindi subiscono concorrenza sleale, con il rischio di essere messe fuori mercato dalle imprese disoneste che giustificano con la necessità di dovere evadere le eccessive tasse la loro incapacità di gestione o almeno la maggior brama di profitto. Se questo resta ingiustificabile, ma può essere comprensibile, in attività di piccolo cabotaggio, è paradossale che il tema del baratto tra occupazione e tasse basse o nulle venga posto da Apple, colosso dell’innovazione che di queste scorciatoie non dovrebbe avere bisogno. Eppure è quello che ha fatto Tim Cook, reagendo in maniera isterica e ventilando la perdita di posti di lavoro e il ritiro degli investimenti in Europa. Il vero mistero però è l’Irlanda che a questo punto avrebbe barattato la rinuncia a 13 miliardi di euro con i 5.500 posti che Apple ha nel Paese: in pratica due milioni e mezzo per occupato. Non proprio un grande affare. E che anche Apple poteva in fondo risparmiarsi, evitando con la rinuncia a un po’ di utili (i profitti netti del suo solo ultimo anno fiscale hanno superato i 53 miliardi di dollari) di perdere la faccia.




Banche e stress test, perché esultare è un po’ fuori luogo

montepaschi_1217Esultare per il superamento degli stress test da parte di quattro istituti italiani su cinque appare un po’ fuori luogo, essenzialmente per due ragioni. Prima di tutto perché, capovolgendo il discorso, i risultati peggiori, tra 51 banche europee, sono proprio di un istituto italiano, Montepaschi, l’unico che in caso di mercato avverso finirebbe addirittura con capitale sottozero.  E in secondo luogo perché anche un’altra promozione, quella di Unicredit, è stata così di misura, collocandola al quarto peggior posto d’Europa, che pone inevitabilmente la necessità di una ricapitalizzazione, per altro già ventilata, seppure per un importo non definito, ma che potrebbe arrivare a 5 miliardi, per irrobustire il patrimonio. Il nodo principale però è quello del Montepaschi, che ha presentato un piano di risanamento approvato sulla carta, anche dall’Europa, ma che deve passare dalla teoria alla pratica. Si basa essenzialmente su un aumento di capitale da 5 miliardi e sulla cessione di un portafoglio di sofferenze per 27 miliardi a un veicolo di cartolarizzazione per 9,2 miliardi, pari al 33% del valore lordo. Considerato che il Monte dei Paschi ha un tasso di copertura vicino al 66%, ovvero ha già accantonato perdite, svalutando le sofferenze di due terzi del valore nominale, la partita delle sofferenze si dovrebbe chiudere  con questa cessione senza produrre ulteriori perdite. Ma non è detto che un istituto a questo punto con i crediti in ordine sia appetibile per investirvi.

Quando un istituto chiede di punto in bianco cinque miliardi e in Borsa ha una capitalizzazione di un miliardo è chiaro che c’è molto che non sta andando. Non sarà facile trovare, insomma, investitori disposti a mettere soldi in una banca che sarà anche storica, ma non è ragionevolmente in grado di assicurare rendimenti adeguati all’impegno richiesto e non lo sarà per molto tempo.  Lo stesso problema del resto si sta registrando per trovare l’acquirente delle quattro banche oggetto della risoluzione di novembre (Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti), dove pure i bilanci sono stati completamente puliti a spese del sistema con un costo dal quale, in base alle proposte arrivate finora, difficilmente rientrerà. Gli ultimi aumenti di capitale bancari non sono peraltro andati bene. E’ riuscito quello del Banco Popolare da un miliardo richiesto dalla Bce come premessa per l’unione con Bpm, ma in quel caso la ricapitalizzazione non era legata a necessità di salvataggio. Sono stati dei flop invece quelli della Popolare di Vicenza e di  Veneto Banca, conclusi entrambi con l’intervento urgente da parte del fondo Atlante, che ne ha dovuto prendere il controllo.

Ma i precedenti non sono buoni per Mps anche solo guardando alla sua storia. Per la quinta volta in otto anni, dall’acquisizione di Antonveneta, che ha scatenato buona parte dei problemi attuali, Montepaschi chiede soldi ai soci, con operazioni che progressivamente hanno completamente stravolto l’azionariato, man mano che i vecchi proprietari (a partire dalla Fondazione) hanno passato la mano, diluendo la quota ad ogni richiesta non soddisfatta. Con questi ultimi 5 miliardi, il conto supera i 20 miliardi, ma nonostante questo il valore della banca attualmente non arriva, come detto, al miliardo. Aggiungendo ai cinque miliardi di Mps i probabili cinque di Unicredit, le banche italiane insomma chiederanno 10 miliardi in poco tempo ad azionisti generalmente delusi dai risultati: non è quindi scontato che vi sia una disponibilità nazionale a investire. Diverso può essere il discorso internazionale: in questi giorni si parla ad esempio di un interesse della cinese Fosun per Bcp, banca portoghese in difficoltà. Non si può escludere che da Pechino si possa guardare anche alla finanza italiana. Nonostante tutte le difficoltà, in ogni caso, magari con l’aiuto internazionale, non necessariamente cinese – Montepaschi e soprattutto Unicredit sono comunque sempre tra i primi gruppi non solo italiani  – è possibile che alla fine una soluzione la troveranno.

Il problema è che neanche allora saranno esaurite le criticità del sistema nazionale. Oltre alle quattro banche della risoluzione già citate, si devono ancora sistemare i crediti inesigibili nei due istituti del Nord Est, Popolare Vicenza e Veneto Banca salvati dal fondo Atlante, e di Carige. Più in generale, considerando anche quelli di Montepaschi, nel sistema ci sono circa 200 miliardi di sofferenze lorde, che scendono a circa 85 miliardi se si considerano quelle nette (la differenza, 115 miliardi rappresentano poste di bilancio sottratte negli anni agli utili per assicurare accantonamenti , o perdite di valore già spesate). E una volta risolto il problema patrimoniale si potrà anche metter mano a quello della redditività che, si vedrà nelle semestrali in questi giorni, negli ultimi anni è stata drenata proprio per cercare di risolvere le questioni delle sofferenze e degli adeguamenti richiesti dall’Europa. Insomma, forse ci sarà da esultare, ma non è ancora il momento.




Social card: la Germania insegna, l’Italia sceglie il solito pastrocchio

sia social cardIn Germania, Paese che ha conti ben migliori e un debito pubblico ben inferiore rispetto all’Italia, il ministro per la Famiglia, Manuela Schwesig, ha presentato un piano di sostegno che destina 300 euro al mese per due anni ai giovani genitori che decidano entrambi di ridurre l’orario di lavoro settimanale a 28-36 ore (cioè l’80-90% di quello fissato per legge) per dedicarsi ai figli minori di otto anni. Ma il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, lo ha cestinato dopo appena due giorni perché la spesa totale prevista dal provvedimento, stimata in un miliardo di euro, è troppo costosa. Inoltre è ritenuta controproducente dal punto di vista economico, perché, secondo Schaeuble, la priorità non è aumentare le sovvenzioni sociali alle famiglie, ma piuttosto aumentare i posti negli asili nido a tempo pieno, creando così nuovi posti di lavoro e più crescita, tanto più che la Germania si trova a fare fronte a una carenza di forza lavoro specializzata. Sembra che il progetto sia destinato a entrare nel programma socialdemocratico per le elezioni politiche dell’anno prossimo, ma al momento non se ne fa nulla.

In Italia invece, dove i conti sono ben peggiori e il debito pubblico ben superiore a quello della Germania, non è una proposta, ma un annuncio l’arrivo da settembre di una social card destinata a un milione di famiglie considerate povere, in condizioni di difficoltà con minorenni a carico.  Si chiama Sia, Sostegno per l’Inclusione Attiva e prevede un sussidio medio di 320 euro mensili (fino a un massimo di 400 euro), con un fondo iniziale per il 2016 di 750 milioni di euro (valido quindi solo per arrivare a fine anno), con l’obiettivo del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, di un raddoppio del budget a 1,5 miliardi per il 2017 quando sarà attivo il reddito d’inclusione previsto nel ddl Povertà. Condizione necessaria per ottenere il beneficio è l’adesione a un progetto di «accompagnamento», obiettivamente dall’incerta definizione. Per inciso, il Sia, una carta di pagamento elettronica che ricorda la Social card di Tremonti, non è una pensata di questo governo, perché è stato ideato da Enrico Giovannini, ministro del Welfare con Enrico Letta, e sperimentato in 12 grandi città. Non è quindi un problema di questo governo, ma un problema strutturale nazionale quello di destinare le poche risorse a provvedimenti indiscutibilmente suggestivi e di civiltà, ma che non ci si può permettere.

Non è sempre stato così. Nel 1966 il repubblicano Ugo La Malfa, che era nato in Sicilia e non ad Amburgo, aveva presentato un emendamento (accettato dal Parlamento) al piano di programmazione economica che rinviava l’introduzione della tv a colori al decennio successivo (debuttò poi nel 1977) perché sosteneva sostanzialmente che gli italiani non erano nelle condizioni di affrontare questo lusso superfluo che tra l’altro avrebbe aumentato gli acquisti di prodotti dall’estero, dato che in Italia non si producevano all’epoca televisori di questo tipo, per 1.000 o 2.000 miliardi di lire, contribuendo a uno sbilancio della bilancia commerciale. Manca adesso, nella politica, la responsabilità di scelte impopolari o comunque “non piacioni”. Indubbiamente ogni governante è molto più gratificato nel disporre regalie che nell’effettuare tagli o chiedere soldi ai contribuenti. Ma bisogna avere anche il coraggio di prendere decisioni adeguate alla situazione e spendere quello che si può spendere (c’era una volta la copertura di bilancio….). Soprattutto se c’è il rischio di arrivare alla donazione a pioggia e fuori bersaglio.

Di fatto l’unica voce contraria indiretta è arriva dalla presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ha ricordato in occasione dell’audizione sul disegno di legge fiscale a sostegno delle famiglie, che le detrazioni Irpef per figli a carico oggi spettano anche alle famiglie più ricche, mentre restano scoperti i nuclei con redditi molto bassi. Risulta infatti che «quasi il 20% dell’ammontare delle detrazioni spetta ai nuclei appartenenti agli ultimi tre decili di reddito familiare lordo equivalente», quindi alle famiglie più benestanti. Al contrario non si usufruisce delle detrazioni in caso d’incapienza, ovvero quando l’ammontare di imposta lorda dovuta risulta più bassa della detrazione che spetta. Se si aggiunge poi che chi evade le imposte può risultare più povero di chi lo è veramente, ipotesi come la social card richiederebbero molta attenzione perché i sussidi non finiscano dove non dovrebbero, proprio perché, purtroppo, l’Italia non è la Germania non solo nello spendere quello che non potrebbe permettersi.

 

 

 

 




Così, tra mille finte verità, ci ritroviamo nell’universo paralizzato

Il ministro dell'Interno, Angelino Alfano
Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano

Se lo chiedeva Pascoli, quando il suo Odisseo, pieno di dubbi e di stanchezza, giunse in vista dello scoglio delle sirene, immobili ed indifferenti al destino degli uomini. Se lo domandò Francesco Guccini, nell’enigmatico meriggio della sua ‘Bambina portoghese’. E mille altri con loro, se lo chiedono, ancora oggi, con sempre maggiore insistenza, con sempre minore speranza: qual è il vero Vero? In questo universo caotico di rumori ed immagini, come si fa a distinguere la verità tra le mille finte verità? Come spesso accade, l’ambizione positiva dell’uomo viene frustrata dall’esperienza delle cose: la gigantesca rete di comunicazione che è stata resa possibile dalla tecnologia non ci ha restituito più certezze, ma più dubbi. Al silenzio, come tecnica elusoria, si è semplicemente sostituito il concerto di mille frastuoni: ma l’esito è lo stesso, ingannare l’opinione pubblica. E, in questa colossale zona grigia, tra la realtà e la finzione, tra l’inganno e la verità, nuotano, apparentemente a bell’agio, malfattori ed imbroglioni, tutelati dagli scrupoli, del tutto comprensibili, di chi non vuole condannare senza sapere e non può sapere perché non c’è modo di distinguere l’accusa dalla calunnia. Se, ad esempio, fosse vero che il fratello del ministro Alfano abbia ottenuto incarichi ed assunzioni in virtù di poderose raccomandazioni e ad onta di una carriera universitaria imbarazzante e che la moglie del medesimo ministro sia stata scelta tra centinaia di avvocati, senza un criterio trasparente, per attività professionali legate alle istituzioni, non bisognerebbe chiedere le dimissioni di Alfano, ma chiederne la testa. Tout court.

Ma chi può sapere se le notizie che trapelano su queste spiacevoli anomalie siano autentiche o siano frutto di una campagna diffamatoria? Il garantismo vuole che sia meglio un colpevole libero che un innocente in galera. Perciò, colpevole o innocente, Alfano continua ad imperversare con le sue banalità televisive: ma non si può condannare un uomo solo perché dice cose banali, neppure in circostanze serie come quelle che stiamo attraversando. Certo, io avrei scelto una persona meno inadeguata come ministro degli Interni, ma questa è una considerazione di altro genere, ed esula dal nostro discorso. Come quello di Alfano, si potrebbero fare infiniti esempi, tanto di colpevoli che evitano il “redde rationem” quanto di innocenti che subiscono autentici linciaggi, mediatici come giudiziari, salvo poi risultare estranei ad ogni addebito: e noi continuiamo a non capirci nulla, non riusciamo a distinguere il “vero Vero” gucciniano. Se la signora Kyenge, se il ministro Boschi, se la presidentessa della Camera Boldrini avessero detto veramente la metà delle criminali castronerie che vengono loro attribuite su internet, meriterebbero l’esilio coatto nelle isole Tuamotu: il punto è se le abbiano dette o meno. Alcune di queste affermazioni sono talmente demenziali che perfino il più accanito detrattore delle tre dame in oggetto durerebbe fatica a credere alla loro autenticità: altre somigliano di più al carattere delle tre, chiamiamole così, imputate, ma questo non basta affatto a darci la patente certezza della fonte.

Perfino le citazioni prette, una volta decontestualizzate e restituite come frammento, assumono significato affatto diverso da quello originario: a nulla si può credere serenamente. A nulla. Questo accade perfino involontariamente, coi titoli degli articoli sui giornali: a me capita con una certa frequenza di vedere delle mie bagattelle comparire sulla stampa con titoli ed occhielli del tutto fuorvianti. Così, quando mi arrivano commenti velenosi su questo o quell’articolo, capisco che il censore si è limitato a leggere il titolo, si è incazzato e ha reagito d’istinto: intendiamoci, io scrivo un mucchio di corbellerie che meritano altro che censure, ma, perlomeno, mi piacerebbe venissero lette, prima di essere stroncate. Invece, funziona così: il vero è sepolto da un mucchio di accessori, di applicazioni, che lo mutilano, lo camuffano, lo mimetizzano. E la fretta fa il resto: fretta di ingurgitare notizie, senza possedere i succhi gastrici del buon senso o della cultura. Ingurgitare, ingurgitare: internet ci impone questa bulimia mediatica. E, alla fine, non sappiamo più cosa abbiamo ingoiato: non sentiamo, per mantenere la metafora, più i sapori.

Rimane un grande “boh!”, un indistinto malessere politico e sociale, di cui percepiamo chiaramente il disagio, ma che non sappiamo circoscrivere o spiegare. Perché ci mancano i dati. Il fratello di Alfano sarà un manutengolo; la Boldrini sarà una sociopatica grave? La verità è che non lo sappiamo: non lo possiamo sapere. Perciò, o ci fidiamo ciecamente della nostra fonte, con un fideismo di matrice politica, ideologica, calcistica in definitiva, oppure ci asteniamo dal giudicare, costretti ad un ruolo pilatesco, per paura di sbagliare, di fare pipì fuori dal vaso, di venire querelati, magari. E non si fa mai pulizia delle nostra sporcizia, perchè non la si distingue più dalla pulizia: perché, se non c’è più modo di scegliere tra la merda e l’oro, o si corre il rischio di mettersi al collo un monile escrementizio o si rinuncia ad indossare gioielli. Ecco che, in una maniera del tutto inaspettata, ci troviamo a vivere nell’universo paralizzato di Montale, in cui, impossibilitati a conoscere una verità, non ci rimane che esprimere al negativo le nostre ambizioni di giustizia, di felicità, di onestà. Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, oggi possiamo dire. E, mentre noi ci ripieghiamo in noi stessi, definitivamente esuli dal nostro protagonismo civile e sociale, i maiali prosperano nel loro limbo limaccioso. Eppure, basterebbe così poco: un pochino di verità.

 

 




E se ripristinassimo il servizio di leva per difenderci dai terroristi?

attentato nizzaQuando facevo la naja, circolava nelle caserme italiche un ameno librettino, dedicato all’eventualità di un attacco termonucleare. Erano tempi di ‘guerra fredda’ e la possibilità che a qualche simpaticone, da una parte o dall’altra della cortina di ferro, venisse l’idea di mandare il mondo a catafascio era meno peregrina di quanto non sia oggi: così, con bello spirito d’iniziativa, qualche generale, in qualche ufficio romano, aveva concepito questo simpatico vademecum. Va da sé che sapevamo tutti quanti che, per quanto impermeabile e refrattario al freddo e alla fatica, anche un battaglione di alpini, se opportunamente felicitato di qualche chilotone, tende ad andare a remengo: diciamo che le contromisure indicate dal librettino servivano, più che altro, a farci affrontare allegramente la morte. C’era scritto, ad esempio, che, in caso di detonazione di un ordigno atomico nei paraggi, avremmo dovuto defilarci lungo i muri maestri (che nessuno avrebbe saputo distinguere da quelli normali), tenendo una fetta di limone in bocca. Inutile dirvi che questa cosa di essere inceneriti travestiti da gin tonic, mentre cercavamo i muri maestri della caserma “Battisti”, ci rendeva molto meno gravosa l’idea di un’improvvisa dipartita. Questo solo per dire che ad ogni mossa del nemico dovrebbe corrispondere una contromossa: e che questa contromossa non dovrebbe avere carattere, per così dire, grottesco, sibbene efficace, realizzabile e, soprattutto, atto a contrattaccare: quello della buccia di limone è solo un aneddoto, ma credo renda l’idea della vanità di certe contromisure.

Oggi, viviamo nell’incubo di un’altra guerra fredda: un esercito di spietati assassini, indottrinati ed attivati da una struttura internazionale e da chissà chi altro, è pronto a colpire duramente, insidiosamente e senza alcuna pietà, in un punto qualsiasi dell’Europa. Alcuni di questi killer sono poco più che dementi, cui è stato inculcato il pensiero fisso del martirio, ma, per quanto dementi, non ci si deve fare ingannare: sono pericolosi ed operativamente significativi. Il Califfato o chi per lui non ha alcun bisogno di addestrare kamikaze: si limita ad offrire un brand, un’impresa, un tatuaggio mentale, a gente già predisposta ad indossare l’identità del guerriero del Jihad, sopra il proprio nulla abissale. E’ questo che rende così difficile arginarli: che vi credete? I canali d’infiltrazione comuni possono essere intercettati dallo spionaggio: lo spontaneismo nemmeno per sogno. Non date retta ad Alfano, che vi parla di successi dell’intelligence: quello con qualunque forma di intelligence ha rapporti talmente sporadici da potersi definire assenti. L’assassino può provenire dagli immigrati di terza generazione, come dai barconi che, sagacemente, accogliamo a decine, senza il minimo controllo antiterrorismo: l’elemento determinante non cambia, ed è quello dell’assoluta spontaneità della trasformazione in automa della morte. Ma, vi direte, tutto questo cosa ha a che fare con la storiella del libretto e della naja: c’entra, miei cari, eccome se c’entra.

Le contromisure proposte alla popolazione italiana di fronte al fenomeno della guerra asimmetrica, perché di questo si tratta, sono, più o meno le stesse di quel libretto: state tranquilli, non abbiate paura e fidatevi delle forze dell’ordine. Come dire: sperate che non tocchi a voi, in definitiva. Certo, contro questo genere di minaccia non è che ci sia molto da fare: due coserelle, però, potrebbero servire a limitare i danni. La prima è l’educazione: un’educazione alla minaccia, molto simile ad un addestramento. Israele, che convive con questo problema da quasi settant’anni, addestra i propri cittadini ad affrontare le emergenze: perché non potremmo farlo anche noi? Non è vero che, in ogni scuola, si perde tempo a spiegare che, in caso di terremoto o di nube tossica si deve fare così e cosà? Siccome a Bergamo, per ragioni geologiche, un terremoto distruttivo non può accadere, varrebbe la pena di spiegare ai ragazzi come comportarsi nel caso, assai meno remoto, di un attacco terroristico: cose semplici, ma utili, come non raggrupparsi, non rimanere in piedi se uno urla “Allah u akbar!”, non stare in un angolo a farsi sparare addosso come pecore e così via. A volte, basta poco per ridurre l’impatto di un attacco suicida. Non è un caso che, quando uno di questi furboni ha tirato fuori l’AK47 su di un treno, dei militari in viaggio di piacere l’abbiano subito disarmato: questi non sono supersoldati, ma sfigati qualsiasi, senza esperienza militare, che si possono e si devono contrastare e non assecondare. Non dico che imparare quattro cosette a scuola possa risolvere la questione, però, credetemi, nel caso, aiuterebbe a limitare i danni.

L’altra cosa è il ripristino del servizio di leva: sorvolo sul fatto che darebbe ai nostri giovani un diverso senso dell’appartenenza e del dovere, limitandomi all’ambito pratico. Avere in giro per le città dei soldati, anche semplicemente di ronda o, addirittura, in libera uscita, servirebbe a controllare meglio il territorio: invece, oggi, i nostri soldati sono soprattutto all’estero, non si capisce bene a far cosa. Il presidio delle città avviene solo per punti critici e sottrae personale alle già scarse Forze dell’Ordine: è un tipo di tattica che non paga e che non guarda al futuro, ma solo al tamponamento (o, se preferite, all’apparenza del tamponamento) di situazioni emotive contingenti. L’istituzione di una leva, anche solo per un servizio di Guardia Nazionale, avrebbe ricadute a pioggia sul nostro assetto difensivo e finirebbe per costare meno delle nostre dissennate spedizioni in Afghanistan o in Libano. Altrimenti, non ci rimane che affidarci alla Madonna di Caravaggio o alle rassicurazioni di Alfano: insomma, una soluzione apotropaica.