Ubi Banca: l’occasione per tornare a contare c’è, ma bisogna sfruttarla

Ubi bancaQualche volta le occasioni si ripresentano, ma bisogna essere veloci a coglierle. L’assemblea del 2 aprile ha permesso di chiarire cosa serve per controllare Ubi Banca Spa: il 25% del capitale. Quello che era già noto, cioè che i fondi erano sulla carta i padroni della banca controllando ben più del 40% del capitale, è diventato ufficiale. Il listone che si presentava con il 17% circa del capitale, dato per il 3% dal bergamasco Patto dei mille, per il 12% dal sindacato, a trazione bresciana, che ricalca l’ex patto di sindacato della Banca Lombarda (e che comprende anche il 2% della Fondazione Banca del monte di Lombardia) e per il 2% dalla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo, ha raccolto in assemblea un altro 6,5%, arrivando al 23,5% del capitale. Ma questo non è bastato perché per meno di 12 milioni di azioni (circa 36 milioni di euro alle quotazioni attuali) è stato superato dalla lista dei fondi che ha sfiorato il 25% del capitale (222,8 milioni di azioni)

Di fronte a questa situazione, le velleità bergamasche di riuscire a controllare la banca devono definitivamente rinunciare a fare appello alla storia e alla tradizione e fare conto con questi numeri. Anche concedendo – che è plausibile, ma comunque da dimostrare – che chi si è aggiunto in assemblea al listone, quindi circa il 6% del capitale, sia bergamasco, anche se non aderisce al Patto dei Mille, che ha posto come vincolo di entrata il possesso di 100 mila azioni, si arriva al 9%, cioè una quota comunque inferiore a quella del sindacato bresciano, anche al netto dell’apporto cuneese.

Se Bergamo non riesce a esprimere nemmeno il 10% in assemblea, quota peraltro che non la rende assolutamente sovrarappresentata al vertice, ma semmai il contrario, c’è da pensare che la “sua banca” se la sia venduta (del resto i fondi da qualcuno devono pur avere comprato), perché è andato perso l’equilibrio che esisteva all’inizio della fusione Ubi in termini di capitale tra la bergamasca Bpu (dove però c’era una frammentazione tra un grande numero di soci) e la bresciana Banca Lombarda (dove l’azionariato era più compatto). Oppure, e non è da escludere, che la scelta di un Patto dei Mille sia stata vista come aliena dai piccoli azionisti che in assemblea non si sono nemmeno presentati e che non hanno intenzione di fare i portatori d’acqua ad altri interessi nonostante il comune territorio. Così i grandi azionisti di Bergamo, se vogliono continuare a contare nella banca, non hanno altra alternativa che ricomprarsela, E qui, appunto, c’è la seconda opportunità che si è ripresentata, seppure temporaneamente.

Giovedì la quotazione di Ubi era scesa a un minimo di 2,8 euro, per una capitalizzazione di 2,5 miliardi. A quel punto, almeno da un punto di vista teorico, perché gli scambi non hanno raggiunto quei volumi, acquistare il 20 per cento di Ubi che, aggiunto a quel 5% che ragionevolmente è stato espresso in assemblea, darebbe il controllo, costava meno di 500 milioni, valore peraltro dimezzato rispetto a inizio anno. Le quotazioni nei giorni successivi hanno ricominciato a salire, evidentemente perché qualcuno ha iniziato a comprare in maniera vigorosa tutto il sistema bancario che prima veniva venduto in maniera acritica, riducendo la convenienza e richiedendo un maggiore esborso. Ma gli acquisti, appunto, sono proseguiti. Se a comprare sono stati bergamaschi, lo si vedrà in futuro, ai proclami sono finalmente seguiti i fatti. Ma se non stati loro e sono stati i primi a non credere nella “loro banca” allora sarebbe bene che il discorso sulla bergamaschità si chiudesse veramente per sempre.




Renzi, l’emulo di Craxi che rischia di farsi male da solo

Matteo Renzi
Matteo Renzi

Più ascolti Matteo Renzi e più ti ritorna in mente Bettino Craxi. Più vedi come si muove, da chi si circonda, i bersagli che colpisce e più il senso di un dejà vu si fa palpabile e opprimente. Chissà se l’epilogo sarà egualmente drammatico, c’è da augurarsi di no, per il bene suo e dello stesso buon nome del Paese. È arduo, però, sfuggire ad un parallelismo che vede due uomini politici così diversi per storia personale, cultura, età anagrafica, valori di riferimento accomunati da un modus operandi molto simile se non addirittura sovrapponibile.
Partiamo dallo stile, anzitutto. L’esuberanza che sulle prime caratterizzava positivamente Renzi e ne faceva l’uomo nuovo capace di scardinare i vecchi schemi e mandare in quiescenza le cariatidi del Parlamento si è presto tradotto in arroganza, in un modo di atteggiarsi e di parlare che pretende di far passare la sfrontatezza come capacità di parlar chiaro. Anche Craxi amava essere rude, talvolta sprezzante. Memorabili i litigi con Berlinguer e De Mita, ma anche talune sfuriate contro intellettuali e giornalisti, rei magari soltanto di non essere adusi a baciare la pantofola in anni in cui, tra nani e ballerine, l’indipendenza di giudizio non era classificata tra le virtù. Oggi sono cambiati in parte i mezzi di comunicazione. E i social, per la possibilità che consentono di trasmettere senza filtri il proprio pensiero, possono accentuare e rendere ancora più urticante la spregiudicatezza verbale. Renzi ne è consapevole, sa il rischio che corre, ma è convinto che l’unico modo per svettare rispetto a tutto il resto del panorama politico sia “andare sopra le righe”, parlare il linguaggio della pancia, polemizzare con il tono che si usa al bar sport.

La cultura di Craxi era ben altra, intendiamoci, non i modi. E quei modi, alla fine, gli costarono l’insofferenza e la rabbia degli italiani. Renzi sta calpestando le orme del leader socialista anche per i contenuti. Entrambi convinti della necessità di innovare il polveroso assetto istituzionale, entrambi pericolosamente portati ad intravedere nel ridimensionamento delle Camere come dei corpi intermedi la soluzione. Entrambi, soprattutto, pencolanti, più o meno consapevolmente, verso un modello tranchant che affida ad una figura forte la salvezza della Patria. In altre parole, Renzi come Craxi teorici dell’uomo solo al comando. Di per sé nulla di drammatico, il mondo è pieno di sistemi democratici caratterizzati da un premierato forte. Ma ad accomunare il leader di ieri con quello di oggi c’è l’insofferenza ai controlli, ai contrappesi, al render conto ai giornali. E questo è molto italiano.
E che dire della battaglia contro i magistrati? Le ultime uscite del premier, la sua insofferenza per indagini che bloccherebbero le opere (come se il rispetto della legalità fosse una variabile indipendente), assomigliano terribilmente alle sfuriate craxiane contro le toghe che osavano mettere il naso nei traffici di taluni manutengoli del suo partito. Sappiamo tutti come è finita in quel caso e fossimo in Renzi useremmo maggiore cautela nel mettere la mano sul fuoco, anche o soprattutto sugli amici e le amiche del cosiddetto Giglio Magico.
Tratto autoritario, autoreferenzialità, spregiudicatezza: ecco le tre caratteristiche che stanno facendo del presidente del Consiglio un tardo emulo del leader socialista. Renzi, se vuole, è ancora in tempo per ravvedersi. Ma, come Craxi, vede nemici e complotti dappertutto. E alla fine rischia di farsi male da solo.

 




Ubi banca, con i fondi s’è fatta chiarezza. In attesa del prossimo choc

Ubi BancaFinalmente c’è una stabile chiarezza nella governance Ubi. L’abbandono (forzato, ma accolto con solitaria sollecitudine) della formula Popolare ha dissipato i ricorrenti sospetti di autoreferenzialità rivolti alla categoria, e nella prima assemblea da società per azioni – riunione che ha visto la partecipazione di quasi metà del capitale di Ubi, un dato record se si considera la realtà dalla quale si proveniva – ha attribuito oltre il 51% del consenso, espresso in azioni, alla lista dichiaratamente di minoranza presentata dai fondi. Un segno forte e chiaro, che sgombera ogni dubbio sul fatto che la banca non è dei bresciani, né tantomeno dei bergamaschi, ma è quello che deve essere, una società per azioni, ovvero proprietà dei suoi azionisti. E paradossalmente nel passaggio da cooperativa popolare a Spa la banca è diventata ancora più public company di prima. I fondi, infatti, tanto demonizzati da chi ha motivazioni diverse dalle loro, come espressione di sconosciuti interessi “plutomassonici” (per non dire di peggio), in realtà rappresentano alcune centinaia di migliaia, tutti insieme anche milioni, di investitori, ai quali interessa che la società cresca con una logica di lungo periodo e assicuri remunerazione in maniera sostenibile, e vedono quindi male le collusioni localistiche. Che invece si può pensare non siano aliene da chi non si arrende all’evidenza, si consola con calcoli astrusi sul risultato del voto e ipotizza rivincite con appelli al campanile. E’ un’opzione certamente possibile in un’economia democratica, che però non ammette scorciatoie, ma richiede una sola condizione: acquistare le azioni ed averne una in più dei competitori. Il resto è vaniloquio.

Intanto si è creata in Ubi una situazione inedita, anche se sempre più comune tra i grandi gruppi. La lista dei fondi, che ha la maggioranza dell’assemblea di Ubi, si è accontentata di esprimere tre consiglieri di sorveglianza su 15, ed ha poi votato in maniera compatta quelli mancanti, proposti dal listone orobico-bresciano-cuneese e approvati dall’assemblea con il 99%. Curiosamente questi nove consiglieri sono stati nominati con una percentuale più che doppia rispetto al presidente Andrea Moltrasio, al vicepresidente Mario Cera e al consigliere Armando Santus, che hanno invece ottenuto quasi il 49% e sono entrati come primi candidati del listone, diventato di fatto di minoranza, secondo classificato con più del 30% dei voti. Ma al di là di questo aspetto tecnico, il significato del voto è che il Consiglio di sorveglianza, praticamente confermato in blocco, è pienamente legittimato, con un avallo del suo operato attraverso il voto dei reali proprietari dell’azienda, i fondi. Probabilmente è uno choc per chi ritiene che amicizia e appartenenza dovrebbero essere i criteri di base per la selezione e tra un mediocre compaesano e un’eccellenza “forestiera” sceglierebbe il mediocre, alla faccia di ogni criterio meritocratico.

E probabilmente a breve ne avrà un altro, quando si arriverà alla creazione di una banca unica, nella quale si fonderanno i vari istituti rete, con la speranza che questo possa spazzare via una volta per tutte quei campanilismi che ancora frenano la banca. Situazioni incomprensibili per i fondi, soprattutto se internazionali, che hanno assunto il ruolo di “cane da guardia” e per farlo nella maniera migliore non si sono presi l’incarico di gestione diretta – in fondo non è il loro compito – ma hanno fatto capire in modo inequivocabile chi è che comanda e che può intervenire quando vuole, nel caso si crei una situazione che lo richieda. La chiara distinzione tra manager legittimati e una proprietà forte è una condizione dalla quale dovrebbero avere benefici la banca e tutti gli azionisti. Saranno scontenti, ovviamente, quanti rimpiangono la Popolare con la quale sognavano o tentavano di creare una consorteria basati sui privilegi dalla familiarità. Perché la deriva demagogica era il rischio che ha reso improvvisamente superato, anche per le maggiori dimensioni degli istituti, un modello che pure ha dato negli anni ottima prova di sé, nella Bergamo come in Bpu e in Ubi, ma anche deviazioni della quale è ricca la cronaca economica e anche giudiziaria. In ogni caso è una storia superata (e lo sarà ancora di più con il bancone). Finalmente.




Quell’ ipocrisia che mina la nostra percezione del male

pasqualinoLa percezione del male, in altre epoche, meno frenetiche ed imprecise, assumeva contorni universali: perfino un contadino analfabeta era in grado di percepire la vastità della minaccia di una vittoria del male sul bene. Chiamava diavolo il male e Dio il bene, ma la sostanza era che qualunque male era male e qualunque bene era bene. Oggi, noi, figli e nipoti del relativismo trasformato in rèclame, divoratori di immediatezza culturale, rispetto a quel povero contadino siamo dei trogloditi: anzi, siamo, letteralmente, la società dei porci di cui parlava Platone nella Politéia, opulenti e ciechi. Non siamo in grado di percepire l’interezza delle cose: ne cogliamo solo la minima incidenza che esse hanno sulla nostra vita, senza avanzare di un passo. Per questo, la nostra visione, chiamiamola così, etica dell’esistenza è, in realtà, solo un monumentale egoismo, una cecità pressoché assoluta. Non siamo neppure in grado di comprendere le possibili conseguenze di eventi che non ci riguardino in prima persona, ma che preludano a future e, magari, ben più drammatiche, implicazioni.

Vediamo di spiegarci. Se uccidere un uomo è male, allora tutti gli uomini uccisi sono vittime di questo male. Se uccidere un animale è male, allora tutti gli animali uccisi sono vittime di questo male. Questo, perlomeno, sul versante etico. Perché l’etica non è la politica: non conosce la subdola via del compromesso. Né è capace di stilare graduatorie: non ha liste d’attesa ed ingressi vip. Perciò, se uccidono degli innocenti a Bruxelles o a Lahore, tanto per rimanere nell’ambito della cronaca, l’etica pretenderebbe eguale cordoglio ed eguale indignazione: l’empatia, la vicinanza culturale, l’impressione momentanea non riguardano l’etica, ma l’estetica. Ci sono morti più pittoreschi e morti più impegnativi, morti più celebrabili con gessetti e candeline, e morti dai contorni sfumati, indistinti: estetica, appunto. Morti più bellini di altri, in definitiva. Così è quasi sempre: le nostre menti atrofizzate non riescono più a concepire il male, ma solo un male, preciso, puntuale, definito e momentaneo. Possiamo commuoverci solo a determinate condizioni: e sono condizioni miserande.

Facciamo un altro esempio, anche questo di stretta attualità: suoi social network, a Pasqua, si sprecano gli accorati appelli a non mangiare gli agnellini di latte. L’agnellino è candido, rappresenta un simbolo di innocenza che il cristianesimo ha reso universale, cerca la tetta della mamma: lo prendono, lo scuoiano e lo imbandiscono in tavola, debitamente insaporito e cotto. E’ una barbarie. Ma è una barbarie che ci arriva in casa: che ci raggiunge come un pugno nello stomaco. E noi, società porciforme, versiamo la nostra catartica lacrimuccia: non importano i cuccioli di scrofa o di vacca che, ogni giorno dell’anno, subiscono lo stesso destino. Quelli non sono candidi, non sono simboli, e le tette delle loro mamme non sono cercate col medesimo tenerissimo desiderio. E neppure pensiamo ai cuccioli di donna che muoiono a migliaia, ogni giorno, per la sete, la fame, le malattie: mica possiamo pensare a tutto, d’altronde. Gli agnellini sono chic e poco impegnativi. D’altronde, in qualche modo, anche il caviale beluga è fatto coi piccoli dello storione: chi si commuoverebbe per una strage di uova di storione? E poi il caviale è così appropriato, sotto le feste: non si sbaglia mai a servirlo!

Ecco, la società del porcile funziona proprio così: si commuove, ma quel tanto che basta. Partecipa, manifesta, veglia incandelata, ma poi: avanti, alò, chi more more…Perché la nostra non è etica, ma solo un’immemore, disattenta, autoassolutoria correttezza formale. E’ come quel segno di croce fatto alla svelta, quel cenno soltanto di genuflessione, quando si entra o si esce da una chiesa: giusto per dire che siamo ancora in grado di distinguere tra una chiesa ed una salumeria. Ma la devozione con cui guatiamo ingordamente i prosciutti, spesso, indica un’estasi mistica ben superiore. Dunque, la nostra miserabile ipocrisia andrebbe dichiarata: anzi, cancellata. Diciamolo bello chiaro, senza cercare di sgravarci la coscienza con ragionamenti artefatti: a noi degli altri non importa proprio nulla. Piangiamo le vittime di Bruxelles o di Parigi, perché non li percepiamo come altri: perché sappiamo che avrebbe potuto toccare a noi, per i medesimi motivi, per la scelta più o meno casuale di qualche assassino. Perché è verissimo che “Je suis Bruxelles”, ma non nel senso mieloso e retorico che anima questi tormentoni: perché è proprio così che ci sentiamo. E non siamo Lahore, non siamo Lagos, non siamo la Siria: ma questo non lo scriviamo su internet o su qualche maglietta griffata. Preferiamo glissare e lasciarlo tra le righe: non sarebbe elegante dire che dei bambini cristiani del Pakistan ci importa meno che degli agnellini pasquali.




Non confondiamo chi “cinguetta” per mestiere con una Bergamo felice

TweeterLa statistica, una volta, era inattendibile ma comprensibile: era quella dei polli trilussiani, per cui, se tu ne avevi due e io nemmeno uno, statisticamente, avevamo un pollo a testa. Oggi, oltre che inattendibile, la statistica sta diventando anche scema. Sarà che parte, come dire, da presupposti scemi: fatto si è che, più osservo i risultati di indagini demoscopiche e di classifiche basate sul rilevamento statistico e più mi convinco di vivere in un mondo di decerebrati. Un pochino, va messo in conto che questa sensazione non dipenda esclusivamente dalla statistica, ma semplicemente dal fatto che il mondo pullula, effettivamente, di decerebrati: gente che fa giorni di coda per comprare un telefono o che si spara addosso per una precedenza. Però, è innegabile che certe graduatorie stiano insieme con lo sputo, per dirla in francese. E, paradossalmente, più progrediamo (si fa per dire) sul versante tecnologico, più lo strumento di analisi è sofisticato e più il procedimento di rilevazione è desolatamente stupido: è come per certe automobili, talmente elaborate dal punto di vista dell’elettronica da incartarsi ogni tre per due per sovraccarico delle informazioni.

Prendiamo l’ultima classifica, in ordine di tempo, che ha visto protagonista la nostra ridente cittadina: quella dell’indice iHappy, secondo cui Bergamo è la decima città in Italia e la prima in Lombardia quanto a felicità personale. Si tratta di una particolare graduatoria che individua il grado di felicità di una comunità, partendo dall’accurata analisi dei cinguettii positivi degli utenti di Twitter. La peculiarità di questo elaborato sistema di rilevazione consiste nella catalogazione di centinaia di milioni di messaggini di gioia o di rabbia, indicandone il “sentiment” immediato: se l’Atalanta vince, se la morosa ti regala un Rolex o se vinci alla lotteria, il tuo “sentiment” sarà positivo, ed avrai ben 140 caratteri per esprimerlo. Se, viceversa, ti rigano la Porsche o se pesti una cacca di cane, il tuo “sentiment” sarà decisamente negativo, e avrai a disposizione i soliti 140 caratteri per cercare di tirare il maggior numero possibile di madonne. Sembra un giochino scemo, ma, in realtà, è un giochino scemo molto complicato: una serie di complessi algoritmi che servono, peraltro, soltanto a dare valutazioni sballate. Sballate perché, per solito, chi affida a Twitter l’espressione dei propri sentimenti, anziché utilizzare il normale repertorio relazionale, si configura più come un povero di spirito che come un cittadino medio: per capirci, come giudichereste quei poveracci che scaricano la fidanzata con un messaggino o che comunicano tramite Whatsapp le proprie sofferenze e le proprie intime felicità?

Ecco, appunto: la classifica di iHappy è basata solo ed esclusivamente su quell’aliquota di Bergamaschi che sono inclini a mettere in piazza i fatti loro per mezzo di un social network e che, appena succede loro qualcosa di bello o di brutto, si precipitano a postarlo twitteggiando, in modo che l’etere riceva il loro messaggio e lo disperda ai quattro angoli della terra. Ossia, lasciatemelo dire, dei Bergamaschi un tantino degeneri: visto che la nostra città è sempre stata nota per la sua riservatezza un po’ legnosa. Siccome io non credo che, du tac au tac, il Bergamasco tipo si sia trasformato in un simpatico caciarone, di quelli che strillano dal balcone i fatti loro alla piazza, ne concludo che la classifica sia un filo menzognera, perché si basa soltanto su alcune precise categorie di orobici, vale a dire quelli che, abitualmente, anziché parlare, cinguettano su Twitter. E credo si legga tra le righe che non è la fetta di popolazione bergamasca che sia più vicina al mio cuore. Perché quelli che, abitualmente, affidano a Twitter i propri sentimenti o, meglio, il proprio “sentiment”, sono, per solito, ragazzini un po’ lelotti, sciurette annoiate e parvenus in caccia di pubblico: la maggioranza dei Bergamaschi, che lavora o che si diverte, ha altro cui pensare.

Categoria a parte sono, poi, i politici: a me, per esempio, arriva quotidianamente una batteria di tweet da politicanti del PD, a partire dall’amato premier, giù giù, fino ai consiglieri regionali, che mi informano delle trionfali iniziative del partitone. Il punto è che io non l’ho mai chiesto e, se devo dirvela tutta, delle fanfaronate di qualche politicante non so davvero che farmene. Ecco, se questo è il campionario degli utenti i cui messaggini hanno funzionato da banca dati per stabilire che Bergamo è una città felice, lasciatemene serenamente dubitare: questa, in larga parte, è gente che sorride per mestiere, perché il botox le dà degli spasmi facciali o perché è definitivamente ed irrimediabilmente disturbata. Non mi rappresenta e non ci rappresenta. Rappresenta solo se stessa: una fetta di umanità felice perché, evidentemente, inconsapevole, che, il giorno del crollo definitivo di questo povero Paese, si limiterà a commentare il disastro con un “sentiment” negativo. Tweet!

 




“No Triv”, a certe Regioni la storia ha insegnato davvero poco

No TrivCom’è noto (o, meglio, com’è ignoto), il 17 aprile, gli Italiani saranno chiamati a votare per un referendum, conosciuto come “No Triv!”, in riferimento alla materia del voto, ossia le trivellazioni marine a scopo estrattivo. Non è tanto dell’argomento specifico del referendum, in realtà, che vi vorrei parlare, quanto del come, in questo benedetto Paese, si affrontino (o, meglio, non si affrontino) dei temi che, alla fine, ci riguardano tutti quanti. I meno giovani tra voi ricorderanno certamente gli adesivi col sole che ride e la dicitura “Energia nucleare? No grazie!”, in tutte le lingue del globo: faceva enormemente figo, tra le fanciulle di ispirazione demo-radicale, esibire la spilletta “No Nukes”, insieme agli immancabili zoccoloni di cuoio e alla borsa di Tolfa. Faceva figo, certo: però, per quella moda scema, adesso noi andiamo mendicando energia elettrica dai nostri vicini, che ce la vendono grazie alle loro centrali nucleari. Queste, peraltro, sono spesso a un tiro di sasso dalla nostra frontiera, che è come se fossero qui da noi, quanto a rischi. Insomma, il peccato senza il piacere. Perché, trascinati da un battage senza alcuna base scientifica, sull’onda delle emozioni chernobylesche dell’anno prima, milioni di bravi Italiani hanno votato per lo smantellamento delle centrali nucleari italiche, nonché per l’abbandono di qualsivoglia politica energetica basata sui reattori: insomma, grazie ad un ecologismo superficialotto e fondato più sui pregiudizi che sui giudizi, ci abbiamo rimesso un sacco di palanche, che, oggi avrebbero potuto servire a spingere la ricerca verso le fonti rinnovabili.

Non solo, ma abbiamo sul nostro territorio decine di testate nucleari americane, su cui le vestali del cielo pulito e dei praticelli verdi non hanno nulla da ridire: eppure, una centrale nucleare non è progettata per esplodere, mentre una testata atomica sì. Aggiungo che le nostre centrali dismesse, per il cui spegnimento sono stati spesi miliardi, non sono affatto spente: il nocciolo è vivo e vegeto, e lotta insieme a noi. Se quel maledetto referendum del 1987 si è rivelato un monumento all’italica idiozia, oltre che una jattura di vaste proporzioni, quello del mese prossimo si sta dimostrando anche peggiore. Tanto per cominciare, quasi nessuno ha capito cosa riguardi: anzi, moltissimi neppure sanno ancora che il 17 aprile si voterà: dibattito zero, informazione zero, sensibilizzazione zero. Dal che deduco che, compresa la stupidità della proposta regionale di abrogazione (perché il referendum, stavolta, non proviene da una raccolta di firme, ma è di iniziativa di alcune Regioni), si sia preferito fare decadere il quesito referendario col non raggiungimento del quorum: altre palanche buttate al vento. In seconda battuta, questo referendum si limiterebbe, in caso di vittoria del sì, ad evitare la possibilità di rinnovo della concessione di trivellazione fino ad esaurimento di giacimenti, per chi già stesse trivellando, all’interno delle 12 miglia marine dalla costa: nuove trivellazioni in quell’area sono già proibite e oltre le 12 miglia, semplicemente, non si possono proibire. Come dire che l’unico risultato serio di un simile voto sarebbe quello di fare interrompere, allo scadere delle concessioni, l’estrazione di gas naturale (perché di gas e non di petrolio si tratta), lasciando lì impianti, pipelines e strutture preesistenti e limitandosi a lasciare intatto ciò che rimane dei giacimenti: non si capisce per quale motivo e con quale giovamento per l’equilibrio ecologico dei siti.

Senza contare che qualcun altro, magari sloveno o croato, partendo da fuori delle 12 miglia, potrebbe, per mezzo di perforazioni a quarantacinque gradi, succhiarci il gas di sotto al sedere, tanto quanto. Difatti, davanti alla palese insensatezza di questa prospettiva, che ci leverebbe una fonte energetica, senza migliorare in nulla l’impatto ambientale, i promotori hanno dovuto ammettere che questo referendum è stato chiesto soprattutto come segnale politico: avete capito bene? Per lanciare il loro segnale, questi simpaticoni non usano un tappetino ed un fuocherello, come i Sioux: usano il fabbisogno energetico nazionale, vale a dire le nostre tasche. E il fondamentale messaggio è: abbandoniamo i combustibili fossili e puntiamo sulle fonti rinnovabili. Che è cosa buona e giusta, intendiamoci. Però, mentre il governo si decide ad investire seriamente sulle rinnovabili, ad incentivare seriamente l’installazione del fotovoltaico e a sperimentare seriamente nuovi sistemi di produzione e stoccaggio dell’energia elettrica, noi vorremmo poter evitare di dipendere in tutto e per tutto dagli altri, per il nostro fabbisogno energetico. Anche perché non si capisce per quale ragione dobbiamo sempre perseguire una politica di dipendenza e di sottomissione nei confronti di questo e di quello, quasi che qualcuno avesse interesse a mantenerci in un perenne stato di sudditanza: schiavi politicamente ed economicamente di padroni che ci siamo scelti da soli. E, a forza di referendum politici e di segnali, se qualcuno ci chiude i rubinetti, finiremo a remengo. Altro che trivelle…




Ecco perché il Ducato di Piazza Pontida è meglio di tanti intellettuali

Il Rasgamento della vecchia
Il Rasgamento della vecchia

Ogni tanto, mi capita di riflettere sul mondo, sul mio mondo: mi guardo in giro ed esploro, più con gli occhi della nostalgia, se devo essere sincero, che con quelli dell’entomologo, la mia strada, il mio quartiere, la mia città. Probabilmente, uno, invecchiando, tende a rimpiangere le cose dei suoi anni giovanili, semplicemente perché non vuole accettare l’idea della decrepitezza e della morte. Oppure, più semplicemente, tutto ciò che è legato alla giovinezza, quando si è vecchi, appare bello: in un certo senso, vi è una sorta di eclissi della memoria eidetica, per cui i brufoli, le vergogne e i fiaschi vengono cancellati e restano solo le glorie, vere o presunte. Sarà anche così, però, quando percorro le mie strade di sempre, incontro i miei conoscenti di sempre, saluto, sorrido, proseguo, non posso fare a meno di notare, un crescente deficit di felicità: leggo nelle cose e nelle persone una preoccupante carenza di gioia e di serenità. A forza di ripetere che viviamo tempi cupi, questa cupezza pare esserci calata sul cuore: sembriamo quegli uomini dell’alto Medioevo, che si raccoglievano in minuscoli villaggi, circondati dalla foresta e minacciati dai lupi, dai Goti e dalle pestilenze.

Eppure, abbiamo un disperato bisogno di tranquillità e di momenti felici: ognuno di noi persegue una sua piccola felicità individuale e ne ha un assoluto diritto. Cose da poco: semplici, minime, legittime soddisfazioni quotidiane, che ci permettono di guardare al domani con meno patemi e con meno annoiata stanchezza. La ragione di queste mie considerazioni è determinata dall’osservazione del crescente successo che riscuotono i festeggiamenti di mezza Quaresima e, in particolare, la sfilata dei carri allegorici e il “rasgamento della Egia”. E’ una festa semplice, addirittura elementare, da un punto di vista simbolico: un modo tradizionale e un tantino goliardicamente pagano di buttarsi alle spalle l’inverno e di mettere alla berlina o esorcizzare i problemi, grandi e piccoli, della nostra comunità. E la gente partecipa in massa: non so dire se per autentica adesione o, semplicemente, per passare qualche ora diversa dal solito. Fatto sta che, ogni anno, le strade sono più piene: la festa è più sentita, più pubblicizzata e, mercè gli strumenti della tecnologia, documentata. E, dunque, io ne concludo che si senta il bisogno di essere un pochino più felici: magari con sistemi rudimentali, mangiando una frittella o guardando semplici allegorie e leggerissime satire di cartapesta. Perché la gente mi pare stufa di star male: stufa di aver paura, di essere costretta alla tetraggine da una serietà obbligatoria, da un malinteso senso di responsabilità, dall’idea malsana e controproducente che solo ciò che è utile, corretto, consapevole, possa essere piacevole, appagante, realizzante.

L’homo seriosus, di prodiana memoria è diventato un modello troppo ingombrante e greve: e, lasciatemelo dire, ha anche un tantino rotto le balle. Dopo le orge di raziocinio e di rigore, gli esseri umani cercano sempre un’evasione nei verdi pascoli dell’irrazionale, del faceto o dell’eroico. E c’è perfino un faceto eroismo in certe epopee bergamasche d’antan: da Francesco Nullo a Nino Calvi, i nostri eroi facevano spesso un discreto casino. Si divertivano, insomma: non erano busti di marmo che andavano a spasso. Certo, oggi chiunque si senta investito di una briciola d’autorità o di un minimo di potere, va in giro impettito con un’espressione da “su di dosso” da fare disamorare Cupido: ma credo dipenda proprio da quell’equivochetto di cui sopra. Dal confondere la serietà con la tristezza. Vorrei che ritrovassimo il buon vecchio spirito di una volta: sebbene assediati, minacciati, avvelenati. Moriremmo lo stesso, giacché morire bisogna, ma almeno moriremmo dopo aver vissuto, e un pochino contenti, un filo più sorridenti di quanto non siamo, adesso, ancora vivi. La morte ci ha da trovà vivi, si dice a Livorno. Insomma, il mio vuole essere solo un invito a tornare un pochino a divertirsi, godendo anche di qualche scemata, se è una scemata divertente. E vuole anche essere una lode al mio caro, vecchio Ducato di Piazza Pontida, che, almeno per un paio di giorni all’anno, riempie le piazze di Bergamaschi che fanno i Bergamaschi. E che, senza troppe cerimonie e senza metterla giù tanto dura, fa quello che gli intellettuali con alloro e tocco vorrebbero fare, ma non ne sono quasi mai capaci: castigat ridendo mores. Corregge i costumi con un sorriso.




Ubi Banca, Bergamo incassa più di quel che pesa

ubi_b4.jpgCome facevano già capire i numeri, si va verso una Ubi a maggioranza bresciana, a giudicare dalla carta d’identità di chi comporrà i futuri vertici, per quanto questo possa contare. Anche se quello che dovrebbe interessare ai vari portatori d’interesse, dai correntisti agli azionisti, bergamaschi e non, dovrebbe essere qualcos’altro. Chi ritiene che la banca abbia avuto un buon andamento negli ultimi anni e soprattutto che si siano messe le basi per un solido futuro dovrebbe essere interessato alla continuità. E da questo punto di vista non si profilano rivoluzioni né rivolgimenti, anche se salgono dai commentatori da bar le lamentele sull’ “ennesima banca persa” (dopo la Banca di Bergamo, la Provinciale Lombarda e il Credito Bergamasco), come se un istituto potesse funzionare solo se ha un riferimento provinciale, dimenticando che piuttosto è lo sguardo sempre e troppo ripiegato sui propri passi, sulla propria storia, sulla propria tradizione, sul “si è sempre fatto così” – e, diciamolo, sui propri riferimenti ai soliti centri di potere – che impoverisce e soffoca ogni possibilità di crescita e a volte anche di sopravvivenza.

Tornando a Bergamo e alla sua rappresentanza, in un Consiglio di sorveglianza che lo statuto restringe da 23 a 15 persone gli esponenti bergamaschi danno un contributo particolare al ridimensionamento, ma allo stesso tempo viene paradossalmente riconosciuta loro una presenza superiore al peso effettivo espresso dai suoi azionisti. Il listone per la nomina del Consiglio di sorveglianza di Ubi Banca Spa in occasione dell’assemblea del 2 aprile raggruppa infatti poco più del 17% del capitale sociale. La parte del leone la fa il sindacato Azionisti Ubi Banca Spa, una sostanziale riedizione del patto che controllava la bresciana Banca Lombarda e Piemontese prima della fusione, che controlla circa il 12% del capitale sociale e rappresenta il 70% delle azioni del listone. La parte bergamasca, con il Patto dei Mille, ha voluto contarsi e non è riuscita, nonostante innesti varesini, a unire in un sindacato nemmeno il 3% del capitale. C’è poi un 2,2% che fa capo alla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo, tradizionalmente alleata del fronte bresciano, ma che ha preferito non partecipare alla costituzione del nuovo patto.

Con questi rapporti di forza appare un premio molto generoso la concessione al patto bergamasco, che rappresenta circa il 17% del listone, addirittura di un terzo dei candidati (tra i quali il presidente Andrea Moltrasio), mentre alla Fondazione di Cuneo, che esprime una quota di capitale non molto più bassa del Patto dei mille, viene riconosciuto un solo candidato (Gian Luigi Gola). Questo anche se in assemblea, con ogni probabilità, di bergamaschi ne verranno eletti solo tre (Moltrasio, Armando Santus e Renato Guerini), che sono comunque il 20% dei consiglieri quando non si esprime nemmeno il 3% del capitale sociale. Tutto dipenderà dal risultato in assemblea della lista che dovrebbe essere presentata dai fondi. Formalmente gli investitori istituzionali sono accreditati dal 40% e volendo potrebbero anche sbancare tutto. Tradizionalmente però il loro ruolo non è quello della gestione: il loro interesse è avere consiglieri veramente di sorveglianza che controllino la situazione e quindi si presenteranno in partenza come lista di minoranza e potranno quindi ottenere un consigliere, oppure due (se raccoglieranno tra il 15% e il 30% dei voti in assemblea), oppure tre (se supera il 30%).  E nell’ipotesi non improbabile che arrivino alla soglia massima, resteranno fuori gli ultimi tre candidati del listone, con i non eletti in panchina, per sostituire eventuali consiglieri che dovessero lasciare la carica durante il mandato: negli ultimi tre posti ci sono due dei cinque candidati bergamaschi, i consiglieri uscenti Luciana Gattinoni (terz’ultima e quindi probabile prima dei non eletti) e Antonella Bardoni (inserita all’ultimo posto e quindi con pochissime possibilità), che quindi almeno al primo giro non dovrebbero far parte del nuovo consiglio.

Rispetto al consiglio attuale è probabile così che mancheranno 9/10 consiglieri bergamaschi: Gattinoni e Bardoni, quindi, ma anche tutti i non ricandidati, Alfredo Gusmini, il vicepresidente Mario Mazzoleni, oltre a Federico Manzoni, bergamasco doc, ma proposto in precedenza dal fronte bresciano, e ai cinque eletti nella lista di minoranza, considerandoli tutti tali, anche al di là dell’anagrafe, perché essenzialmente espressione dei piccoli soci della ex Popolare di Bergamo, Andrea Resti, Marco Gallarati, Maurizio Zucchi, Dorino Agliardi e Luca Cividini. Sono invece cinque i consiglieri non bergamaschi che usciranno: due bresciani, Enrico Minelli ed il vicepresidente del Consiglio di sorveglianza e neopresidente del “patto” Alberto Folonari (per il quale scatta l’ineleggibilità per superato limite dei 75 anni d’età), le docenti universitarie Marina Brogi (romana) ed Ester Faia (nata a Napoli) e il commercialista milanese Carlo Garavaglia. Due soli i nuovi nomi proposti nella lista: Francesca Bazoli e Simona Pezzolo de Rossi (commercialista bresciana al penultimo posto e quindi con ogni probabilità anch’essa esclusa). L’unico nuovo innesto nel consiglio, oltre ovviamente ai rappresentanti dei fondi, sarà quindi l’avvocato bresciano Francesca Bazoli, già nel giro Ubi tanto da essere nel comitato esecutivo del Banco di Brescia, e già in predicato in passato di entrare nel consiglio di gestione di Ubi, dopo che dal consiglio di sorveglianza era uscito, per la normativa sui doppi incarichi, il padre Giovanni Bazoli, numero uno di Intesa Sanpaolo, che lascerà l’incarico alla prossima assemblea. Ma al di là delle entrate e delle uscite, quello che più dovrebbe interessare è se in Ubi Spa cambierà qualcosa. E questo non sembra probabile se si considera, appunto, che dei primi dodici nella lista, a parte Francesca Bazoli, ci sono undici conferme, a partire da presidente (Andrea Moltrasio) e vicepresidente vicario (Mario Cera). Le altre sono quelle, in ordine di lista, di Armando Santus, Gian Luigi Gola, Pietro Gussalli Beretta, Pierpaolo Camadini, Letizia Bellini, Renato Guerini, Giuseppe Lucchini (l’industriale bresciano che controlla la Lucchini Rs di Lovere), Sergio Pivato, Alessandra Del Boca. Una garanzia di continuità e quindi dello spirito Ubi – che in ogni caso non è mai stato a maggioranza bergamasco, se non al massimo per metà -, che vale più di tante carte di identità.

 




Se anche l’abbigliamento “maschera” la falsa austerità

Si è conclusa di recente la prima London Fashion Week del 2016. Se dovessi scegliere una parola per riassumere quello che ho visto, sceglierei frugale. Ho visto scendere dalle auto sponsorizzate e lucidate donne e uomini vestiti come se fossero dei senzatetto. In questo periodo dell’anno tutto è enfatizzato, ma non serve essere parte di questa selettiva tribù per abbracciare questo stile. Basta camminare su una strada qualunque, da Castione a Barletta, e accorgersi che jeans strappati con buchi enormi in zona ginocchia, orli sbrindellati, magliette con il buco, giacche con le toppe attaccate, sono la norma.  In Giappone vendono jeans che sono prima stati dati in pasto alle tigri, e poi rivenduti a caro prezzo. No, non si tratta di uno scherzo. Adidas vende scarpe con delle finte macchie di fango, Diesel propone jeans spuzzati di vernice e pittura, come se fossero stati usati per tinteggiare casa. Chi ha un budget limitato può trovare nella rete istruzioni dettagliate e suggerimenti per invecchiare, sgualcire, e direi rovinare, un paio di pantaloni nuovi e perfetti, usando lamette da barba, carta vetrata e candeggina.
Lo stile “usato e martoriato” non si ferma agli abiti. Ho perso il conto di quanti amici hanno in cucina una credenza strappata alla discarica e ritinteggiata, o le cassette della frutta del mercato smaltate e trasformate in porta oggetti. Nessuno sceglie il marmo per il bagno o i pavimenti. Si preferiscono le assi di legno vissute, i rubinetti di metallo opaco e i mattoni a vista, come se non ci si potesse permettere di rifinire i muri.

jeansPer la maggior parte della storia, abiti vecchi e consumati erano l’unica opzione, e chi si poteva permettere bei vestiti li indossava con orgoglio. Il fenomeno di apparire dimessi è relativamente recente e portatore di rottura e contestazione delle regole. Pensiamo al look libero e trasandato degli hippy, i tagli e le spille da balia dei punk, i grunge degli anni ’90. Il denominatore in comune è il momento storico in cui sono nati, segnato da pace e prosperità, in un’era che si può permettere il lusso di scegliere. Se per i nostri nonni abiti dimessi erano un segno di tempi di guerra, fame e ristrettezze, il look stressato e dimesso tanto di moda adesso può rappresentare diverse cose: lo stato d’inquietudine e afflizione nella quale si trova la nostra società, la risposta ad un contesto che ci bombarda di nuove tendenze ogni tre mesi, istigando una fame insaziabile al consumo, abiti prodotti a costo bassissimo, di altrettanto bassa qualità, spesso in condizioni di lavoro disumane. Se una maglietta costa quanto un gelato, il motivo lo sappiamo bene. Un altro motivo è invece la “sindrome di Maria Antonietta”, dove chi ha troppo di tutto, si diverte a travestirsi da povero solo per il gusto di apparire diverso e interessante, o perché ha già indossato velluti, pizzi e sete e desidera qualcosa di diverso. Basta pensare ai guru della Silicon Valley, tutti in felpa sgualcita e maglietta, cercano di apparire modesti quando hanno un conto in banca a sette zeri e l’aereo privato. Oppure non c’è nessun significato sociologico ma è solo e semplicemente moda.

 




Borsa di studio all’assessore, il no del sindaco è da applauso

Valerio Achille Baraldi, sindaco di Ponte San Pietro
Valerio Achille Baraldi, sindaco di Ponte San Pietro

Il più delle volte, la lettura quotidiana dei notiziari ha la capacità di ribaltarmi lo stomaco o di farmi secernere quantitativi atrabiliari fuori scala. Qualche volta, magari, il travaso di bile lascia il posto alla riflessione filosofica: ma vi confesso che accade di rado in una personcina incline più all’invettiva che ai teoremi, com’è il sottoscritto. Rarissime sono le notizie che mi suscitino un po’ di ilarità o, perlomeno, di buonumore. Tra queste, vi segnalo il giro di valzer che si è svolto nei giorni scorsi a Ponte San Pietro, tra due assessori ed il sindaco, a proposito della concessione di una borsa di studio. La fonte è Bergamonews e, in verità, la mia attenzione era stata attirata, più che dal titolo, dalla fotografia di un giovanotto dall’aria seria e perbenino, vestito come i bravi giovanotti si sentono in dovere di fare, in occasioni particolari come matrimoni, cresime o lauree. E, appunto, di laurea pareva trattarsi, visto che il predetto giovanotto appariva incoronato da un ingombrante cespuglio di alloro, che faceva pendant con la sua espressione tra l’attonito ed il sorridente e con un’improbabile giacca pied-de-poule carta da zucchero, di quelle che puoi indossare soltanto in quelle ferali circostanze obbligative. Devo dire che il malcapitato, sbattuto in prima pagina in quella mise tanto poco impaginabile, ha immediatamente suscitato la mia amichevole solidarietà. D’altronde, io non capisco perché, da qualche anno, i poveracci che si portano a casa la sudatissima laurea debbano uscire dalla cerimonia conciati come dei Barabba, con queste siepi ridicole sul crapone: quando mi sono laureato io, si limitavano a tentare di piazzarti costosissime foto dell’evento o di venderti un kit personalizzato di biglietti da visita con su scritto il fatidico “Dott.”. Sia come sia, il tapino, incespugliato e poi spernacchiato dal quarto potere si chiama Matteo Macoli, e pare essere una specie di fenomeno scolastico, dato che asserisce di aver portato a casa una collezione di borse di studio mica da ridere: l’occhiale da studioso ce l’ha e, quanto al resto, non ho ragione di dubitare della sua parola.

Causa della spernacchiatura l’ennesima borsa di studio, concessagli, stavolta, dall’assessore all’istruzione del comune di Ponte San Pietro, Marzio Zirafa. Non ci sarebbe niente di strano, se il Macoli non fosse, lui pure, un assessore del medesimo comune: insomma, mica è proibito concedere una borsa di studio ad un proprio collega e sodale, però, acciderba, non è cosa elegantissima. Infatti, il sindaco di Ponte, Valerio Achille Baraldi, ha pensato bene di fermare la pratica, postulando che la cosa non fosse eticamente opportuna: il che, vi faccio osservare, non si configura precisamente come un complimento. Insomma, il pluripremiato neolaureato se ne va dietro alla lavagna, insieme al responsabile dell’istruzione, a riflettere su ciò che sia opportuno o meno, sulle rive del Brembo. Un bravo al sindaco, che, in un’Italia in cui l’opportunità, tanto etica quanto politica, ha lo stesso valore del due di coppe se la briscola è ori, difende le ragioni del buon gusto e della signorilità: magari fossero altrettanto sensibili all’etica tutti quei politici che insultano, imbrogliano, infrangono ogni comandamento di Dio e dell’uomo e, finché un giudice non li manda in galera, non si schiodano dalla sedia nemmeno con le tenaglie.

Una storiella minima, dunque, ma altamente significativa. Che, tra l’altro, me ne fa venire in mente un’altra di diversi anni fa, passata del tutto sotto silenzio, vuoi per la diversa connotazione politica dei protagonisti, vuoi per l’assenza, all’epoca, di giornalisti spernacchianti: fu quando il direttore di un noto ed illustre istituto di ricerca, tutto sdegno e moralità, assegnò un premio per la miglior ricerca ad un suo nipote, che, peraltro, quasi a sottolineare l’agnazione, portava il suo stesso cognome. Non so dirvi se il premiato meritasse o meno il riconoscimento: dal tenore della ricercuzza, direi, ad occhio e croce, di no. Tuttavia, scherza coi fanti e lascia stare i santi: a nessuno venne in mente di tirare in ballo l’opportunità etica, e il nipote incamerò olimpicamente il premio. E’ pur vero che il tempo è galantuomo e che, nelle stanze della ricerca vera, il giovane ricercatore non si è mai visto, nonostante lo ziesco riconoscimento: tuttavia, capirete che, su di un tema come quello dell’opportunità etica, converrebbe essere tutti della stessa parrocchia. Quindi, un semplice richiamo verbale per i due assessori, un tantino disinvolti sul versante dell’eleganza istituzionale; un sincero applauso per il sindaco, capace di tagliare il nodo gordiano con autorevole dignità; un pernacchione, fuori tempo massimo, al direttore illustrissimo e al nipotino, difensori a parole di intramontabili valori e, nella realtà, italiani piccoli piccoli, di quelli che tengono famiglia. E, talvolta, la premiano persino.