Banche, quel mercato più severo degli indici europei

MontepaschiIn un mercato azionario che definire depresso appare un eufemismo, nei giorni scorsi è avvenuto un fatto insolito. Capita che un titolo si trovi a crollare rapidamente del 10% ed oltre: Renault, ad esempio, è precipitata del 20% pochi minuti dopo che si era sparsa la voce di un suo possibile coinvolgimento in uno scandalo di emissioni truccate. Come nel caso del gruppo francese, quando c’è un crollo c’è però anche una spiegazione, solida o meno che sia. Pochi giorni prima del caso Renault, in poche ore i titoli di due banche italiane, Montepaschi e Carige, sono andati a picco, perdendo alla fine della seduta rispettivamente l’11,2% e il 13,6%. La stranezza non sta tanto nella caduta dei titoli quanto nella spiegazione che ne è stata data: colpa della speculazione.

Dire che i titoli oscillano in Borsa per effetto della speculazione è come dire che le quotazioni scendono perché cala il prezzo. E’ curioso che ci si possa accontentare di questa spiegazione, senza andarsi a chiedere perché proprio su questi due titoli si sia concentrata l’attenzione degli speculatori, dei quali si può dire di tutto sul punto morale, che sono cinici, approfittatori e con il pelo sullo stomaco, ma non che sono degli sprovveduti. Non è andato a fondo sul tema nemmeno chi ha sostenuto che su Montepaschi e Carige possa essere stato fatto un test sulla solidità del sistema creditizio nazionale che ha salvato, ma deve ancora sistemare quattro istituti del centro Italia. Eppure proprio in questo caso sarebbe stato di maggiore interesse spiegare perché questi due istituti sono sentiti come gli anelli deboli, oggetto di prova di resistenza.

La speculazione, questa misteriosa entità che in fondo corrisponde al mercato, crede insomma che Montepaschi e Carige siano i primi candidati al “bail in”, al salvataggio anche con i soldi dei grandi correntisti? Eppure la banca senese è sotto il controllo diretto della Banca centrale europea ed ha superato i suoi test sul capitale. E Carige ha giudicato “ingiustificato” e “anomalo” l’andamento borsistico, sottolineando la sua “solidità patrimoniale e finanziaria nel pieno rispetto degli indicatori di vigilanza” attraverso una serie di valori: Cet1 Ratio (rapporto tra il capitale ordinario e le sue attività ponderate per il rischio) al 12-12,2%, rispetto all’obiettivo dell’11,25% richiesto dalla Bce e Liquidity Coverage Ratio (che calcola la capacità di soddisfare in caso di stress predefinito il fabbisogno di 30 giorni di liquidità attraverso attivi disponibili di alta qualità) del 138% rispetto alla richiesta del 90%.

Ma evidentemente non erano queste le risposte che il mercato (o la speculazione) voleva. Infatti ha colpito Carige e Montepaschi (che presenta un Cet1 più alto di Unicredit) non perché siano ritenute deboli dal punto di vista patrimoniale, dato che entrambe sei mesi fa hanno portato a termine aumenti di capitale che li hanno messi in linea con le richieste europee, ma per la questione, sempre più di emergenza, dei debiti in sofferenza. Dopo anni in cui si è stati attenti a rafforzare il patrimonio, a detrimento della redditività, come misura preventiva in caso di difficoltà, si scopre, a dire la verità non da ora, che il problema è meglio valutarlo sotto un altro punto di vista. Carige e Montepaschi sono a posto con gli indici patrimoniali richiesti dall’Europa, ma sono più esposti su un altro, che sta assumendo maggiore importanza, che valuta il rischio sui prestiti inesigibili. Il cosiddetto Texas Ratio, che misura il rapporto tra patrimonio netto tangibile e accantonamenti su crediti, al Montepaschi è circa del 140%, contro una media italiana del 100% e una europea del 53%.

Così si può essere in regola con l’Europa, ma non con il mercato, che a volte è più esigente, ed è arrivato a valutare Montepaschi appena il 30% del valore di libro tangibile. Teoricamente sarebbe un prezzo da saldo, o da immediata scalata (2,7 miliardi è il valore di Borsa complessivo di uno dei primi istituti nazionali, neanche un miliardo quello di Carige), se non fosse che finché non verrà risolto il problema dei prestiti inesigibili, con quella bad bank che l’Europa si ostina a non volere concedere o con una cessione seppure a caro prezzo ai “rivenditori di sofferenze”, tutto l’utile prodotto, e forse anche qualcosa di più, sarà destinato ad accantonamenti sui crediti, con la prospettiva che di fronte al minimo peggioramento sulle sofferenze, che a livello globale si stima dovrebbero avere quest’anno il picco, si debba ricorrere a un nuovo aumento di capitale.




Ma siamo davvero quel popolo di idioti che vediamo nelle pubblicità?

raffreddore influenzaC’è la frutta di stagione, ci sono le tessere stagionali per gli impianti di risalita e ci sono pure le pubblicità che vengono riproposte a seconda del periodo dell’anno. Quando Orione, declinando, imperversa, ossia quando fa freddo e la gente si mette sciarpe e berrette, nelle agenzie pubblicitarie è tutto un fervere di attività: già dalle prime avvisaglie di maltempo, un esercito di creativi ha cominciato a scervellarsi sull’idea con cui battere la concorrenza. Obbiettivo: rifilare a qualche milione di Italiani, gonzi quanto basta, medicamenti e cataplasmi, effervescenze e capsule contro i malanni di stagione. I quali malanni di stagione, il più delle volte, se ne strafregano della dura fatica di chimici e biologi, e fanno il loro corso, secondo natura, come accade da millenni. Perché, nove volte su dieci, contro raffreddori e virus influenzali, non c’è Dulcamara che tenga: ti metti a letto, tossisci, tiri con il naso o, nei casi più sfortunati, fai un po’ di cacchina molle e, dopo tre o quattro giorni, torni a respirare, a dormire e, se non sei un fanigottone impenitente o un politico, anche a lavorare.

Invece, alla televisione, te la raccontano parecchio diversa: va da sé che semplici palliativi vengano presentati come miracolosi rimedi per raffreddori, tossi ed influenze (furbescamente, di solito, si parla di “sintomi influenzali”, per non essere censurati come emeriti cacciaballe, dato che non si tratta di specifici contro l’influenza, che non esistono), ma il modo in cui l’intera faccenda viene descritta credo meriti un’analisi a parte. La scenetta, comunemente, si apre con qualche tranche de vie di persone apparentemente normalissime: la maestrina bruttina, il giovanottone un po’ sfigato, la donna intelligente che deve andare a teatro, la moglie-mamma tutta famiglia e Lancia Y e così via. Questo selezionato campionario di umanità, a causa del maltempo (nonostante l’aridità da Marmarica di questo scorcio d’inverno, negli spot piove sempre a catinelle) e di un destino ingrato, che si accanisce sui migliori, incappa appunto nel sopracitato “malanno di stagione”: e qui inizia la metamorfosi. La maestrina bruttina si trasforma in una specie di cadavere, in cui le uniche macchie di colore sono il violaceo delle occhiaie e il rosso carnicino delle narici, in un volto del colore del taleggio. Il giovanottone, parla come De Mita: dice “Zono un bo’ ravvreddado e vorze ho anghe un bo’ di vebbre…!”.

La donna intelligente, si spezza, ma non si piega, e, agonizzante e con un tempo da lupi, va al bar e ordina acqua calda, in cui sciogliere il preparato salvifico che si porta sempre in tasca: il barista, anziché mandarla al diavolo, come di solito avviene, le porge, premuroso la tazza fumante. La moglie-mamma, ma anche la fidanzata, l’emancipata, la single vestita come Sbirulino, si accoccolano sul divano in posizione fetale, sbarbellando per la febbre, con addosso un vasto repertorio di sciarpe, scialli, calzettoni vichinghi e berrettoni.

Non si capisce perché le dame non vadano a letto e non si mettano sotto le coperte, evitando tutto il complicato armamentario, ma tant’è: evidentemente, i nostri creativi ritengono che le donne italiane siano tutte delle perfette idiote come le protagoniste dei loro video. Lo Schwerpunkt di tutta la situazione è rappresentato dall’assunzione del prodigioso farmaco: una bustina, un bicchierotto, una pastiglietta e la vita torna a pulsare, prepotente.  Il concetto è che, se butti giù la pasticca, tornerai in un momento più bello e più superbo che pria: il cesso torna in cattedra sorridente e pieno di energia, il decerebrato può dedicarsi al suo corso di cucina con profitto e sfornare una specie di vescica sgonfia, che vorrebbe essere un soufflé , la donna colta può andare serenamente ad addormentarsi guardando l’ultima boiata di Dario Fo senza russare per il naso chiuso, e la moglie-fidanzata-single può sostituire la montura da divano con quella da spesa al supermercato, ossia sciarpa, basco fatto a maglia e cappottino color zuccabarucca, ed uscirsene tutta contenta.

Ora, io comprendo benissimo le ragioni delle aziende farmaceutiche, per cui la brutta stagione rappresenta un picco di vendite irrinunciabile: ciò che mi sconcerta è la desolante assenza di fantasia dei pubblicitari. Un po’come il nostro presidente del Consiglio, descrivono un’Italia che non esiste: una specie di Arcadia popolata da idioti cinguettanti, con ombrelli scozzesi e completini indecenti, che si rapportano tra loro con dialoghi che sembrano scritti da Aldo, Giovanni e Giacomo, ma che, a differenza dell’originale, vorrebbero essere realistici. Un Paese di imbecilli e di mammalucchi che non hanno niente da fare, se non tribolare su dei divani con un termometro in bocca: ma chi è che si mette un termometro in bocca, vivaddio? Oppure, il che è ancora più inquietante, il Paese reale è quello lì: i creativi hanno centrato il bersaglio, e gli Italiani si riconoscono davvero nella maestrina, nel bellimbusto e nella radicaloide inteatrata. Orione imperversa e le farmacie prosperano. Comincio a sentire anch’io qualche brividino e mi gira un tantinello la testa: divano, arrivo! Dove sarà la sciarpa della nonna Gilda?




Addio 2015, un anno all’insegna del controsenso

Botto_CapodannoQua, tutti si affannano a raccogliere album fotografici del 2015, a ricordare quel che hanno fatto, e cercare di dare un nome ed un carattere a questi 365 giorni: io, dal mio rifugio filosofico-montano, guardando alle cose d’Italia, come la poiana osserva le greggi che sgambettano giù in valle, felicitando di bagole e belati sentieri e tratturi, direi che è stato l’anno del grottesco. Tali e tanti sono stati, infatti, i paradossi, i nonsense, le gioppinate di questo 2015, che altra definizione, davvero, non mi viene. Un anno all’insegna del più assoluto irrealismo: dodici mesi votati al racconto di un mondo che non esiste, di una vita che nessuno vive e, soprattutto, di una cecità trasformata in visione del mondo.

Paradosso dei paradossi: dei ciechi che hanno una visione! Perché, va detto, da anni ed anni ormai, questo nostro Occidente mignolo mignolo, che ristagna fra le Alpi e Lilibeo, ha perso contatto con le cose reali: insegue fanfaluche, frasi ad effetto divenute carne, vangeli da ubriachi. Però, fino a quest’anno, non avevo ancora visto l’idiozia sostituire l’intelligenza e farsene beffe, cancellando con un colpo di spugna tutti i fenomeni reali in grado di smentire i dogmi: va bene raccontarsi che le cose vanno bene, ma non si può fare finta di essere d’estate, quando si è d’inverno, solo perché sul libretto rosso dei pensieri di qualche palamidone rincoglionito c’è scritto che dev’essere estate tutto l’anno, andiamo!

Prendete la scuola, malata terminale d’Italia, origine di tutte le nostre magagne, fucina di disoccupati, di svogliati e di analfabeti: la scuola, rifugio di martiri e lazzaroni, extrema ratio per qualunque laureato senza prospettive. Pensate che sia sempre stata così, la scuola italiana? Ennò: quarant’anni fa ce la invidiavano in tutto il mondo, la nostra scuola: lo so che, detto oggi, sembra fantascienza, eppure era proprio così. Se, oggi, la scuola fa schifo, non credete che, forse forse, si potrebbero prendere in considerazione un paio di riflessioni un tantino fuori del coro? Del tipo: non è che, magari, le teorie didattiche estruse dai baldi pensatori dal ’68 ad oggi si siano rivelate un’autentica, scusate il francesismo, cagata? E non è che, magari, qualcuno possa essersi sbagliato: che il vecchio sistema, riveduto e corretto, con meno cravatte e grembiuli e un po’ più di tecnologia, andasse molto meglio del guazzabuglio facilista vomitatoci addosso dai pedagogisti e dai docimologi coccolati da certa sinistra?

Insomma: possiamo tenere un pochino conto della realtà, oltre che della teoria? E se la teoria produce spazzatura, concludere che, in definitiva, quella teoria stessa è spazzatura? Ho parlato della scuola, perché è l’esempio forse più eclatante di questa cecità volontaria, ma lo stesso si potrebbe dire per la sicurezza, i servizi sociali, la sanità. Per non parlare della cultura, della filosofia, del sapere: parole che, a un dipresso, qui da noi non significano più nulla. Eppure, a fronte di questo irrealismo cretineggiante e frivolo, vi sono esempi di interventismo pragmatista, che si dimostrano, se possibile, ancora più desolanti. Prendiamo l’idea di proibire i botti di Capodanno, ad esempio. Si tenga presente che chi scrive è, da sempre, acerrimo nemico dei botti: fastidiosi, pericolosi, del tutto estranei alla nostra tradizione insubre, che vorrebbe rami d’agrifoglio, semmai, e liete canzoncine. Però, se devi proibire dei prodotti, perché sei convinto che vadano proibiti, fallo a giugno: non lanciare proclami draconiani il 29 dicembre, quando, ormai, un sacco di poveri fessi ha dilapidato patrimoni in miccette e raudi e, soprattutto, quando le fabbriche di fuochi e il loro indotto sono in trepidante attesa del picco di vendite.

Se non sei del tutto scemo o, peggio, del tutto incompetente in materia di realtà, non fare il sindaco: fai il brahmino, stattene in riva al Gange a gambe incrociate e ripeti tutto il giorno frasette senza senso. Perché non si gioca, in nome del coup de theatre, con la vita delle persone. Insomma, vuoi per eccesso di teoria, vuoi per eccesso di prassi, la sensazione è che questo 2015 sia stato il trionfo dell’imbecillità, del mero controsenso, della patente inettitudine, da parte di chi prende le decisioni per noi, di prenderle con un minimo di sale in zucca. E, viste le prospettive, perfino augurarsi reciprocamente un felice anno nuovo assume i toni del paradosso grottesco: come potrà mai essere migliore, se non si cambia radicalmente direzione? Se non altro, potremo incolpare il 2016 di ogni nefandezza per il fatto che è bisestile: è che, in Italia, sono bisestili anche le persone!




Anche per le Bcc è tempo di rivoluzioni

bcc1Forse neanche la fase di aggregazione che si è aperta nell’ultimo anno/anno e mezzo tra le banche di credito cooperativo, le ex casse rurali, non solo bergamasche sarà sufficiente per salvarle, almeno per come sono strutturate attualmente. Chi è riuscito a commentare le ultime trasformazioni solo con interpretazioni legate al superamento della logica del campanile, può iniziare a capire quanto sia miope anche la dimensione provinciale di fronte all’esplicita manifestazione del pensiero in merito alla riforma del credito cooperativo da parte del presidente del Consiglio Matteo Renzi: “Vorrei che ci fosse un gruppo bancario delle Bcc sul modello del Credit Agricole che è la terza banca francese”.

Probabilmente non si arriverà, almeno inizialmente, a un’unificazione nazionale, ma quello che è certo è che il legislatore sta lavorando, e non dagli ultimi mesi, per arrivare a una concentrazione molto spinta. E’ una richiesta esplicita della vigilanza – Banca d’Italia e Banca centrale europea – che preferisce tenere sotto controllo un pugno di holding piuttosto che perdere tempo con 368 singoli istituti. Finora l’ha fatto in maniera implicita imponendo una mole di controlli difficili da sopportare per microbanche, adesso sta procedendo in maniera diretta “spingendo” per le aggregazioni formali o di sostanza.

Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha spiegato che la riforma delle banche di credito cooperativo a cui sta lavorando il Governo, e che dovrebbe essere presentata a breve, verrà attuata “affinché gli istituti più piccoli possano aggregarsi in una casa comune e facilitare efficienza ed economia di scala”.

Si va insomma verso la creazione di un gruppo in tempi rapidi, approfittando anche della sensibilità al problema creatasi sull’ondata mediatica provocata dal “salvataggio” delle quattro banche commissariate (di queste, nessuna Bcc, che però nell’infermeria di Bankitalia hanno altri istituti), per piegare le resistenze all’operazione. Come il sistema delle popolari è stato di fatto disarticolato e quindi indebolito con l’obbligo di trasformazione in spa per gli istituti principali, così anche il mondo del credito cooperativo, diviso al suo interno sulle modalità della riforma, incapace di procedere nell’autoriforma, vedrà alla fine prevalere una decisione presa dall’esterno. La replica che il comparto è solido è confortante, ma conta poco: alla fine, come sempre, per colpa di qualcuno, che magari non c’entra niente, si finisce per non fare credito a nessuno.

Il progetto del governo punta alla creazione di una holding capogruppo con forma di società per azioni, che faccia da “banca centrale” del sistema controllando e supportando le banche cooperative sottostanti, con la possibilità di approvvigionarsi di capitale sui mercati internazionali. Per evitare il proliferarsi di gruppi regionali o interregionali la soglia minima per la costituzione del gruppo dovrebbe essere fissata con requisiti abbastanza elevati, ma c’è anche la possibilità di un innalzamento dei requisiti patrimoniali necessari per il mantenimento dell’autonomia di un istituto, che ora può essere costituita con 5 milioni di capitale.

Tra Bergamo e Brescia nell’ultimo anno sono maturate diverse operazioni per cercare di prepararsi per ogni evenienza. Sono nate così la Bcc dell’Oglio e del Serio (dall’unione della Ghisalba con la Calcio e Covo), la Bcc Bergamasca e Orobica (dalla fusione dei due omonimi istituti), la Bcc Bergamo e valli (dall’aggregazione della Valle Seriana con la Sorisole e Lepreno), la Bcc di Brescia ha incorporato quella di Verolavecchia, mentre si stanno preparando l’unione della Bcc di Caravaggio con la consorella dell’Adda e del Cremasco e la nascita della Banca del territorio lombardo che dalla somma della Bcc di Pompiano Franciacorta e della Bcc di Bedizzole-Turano-Valvestino porterà al terzo istituto nazionale per dimensione nella categoria. Fuori dai valzer restano a questo punto, nella Bergamasca solo la Cassa rurale di Treviglio (dove il cda ha bloccato una fusione con la Caravaggio che appariva ormai fatta) e la Mozzanica, e, nel Bresciano, la Cassa Padana (che però tra il 2010 e il 2012 ha incorporato BCC Camuna, Banca Veneta 1896 e Bcc Valtrompia), la Borgo San Giacomo, la Garda, l’Agrobresciano e la Basso Sebino (che ha rinviato a dopo la riforma l’esame di un’unione con la Banca dell’Oglio e del Serio). In ogni caso in pochi anni la ventina di istituti orobico-bresciani si è praticamente dimezzata. Ma non sembra finita e soprattutto potrebbe non bastare.




Sanità, con Maroni siamo ormai alla burla

Roberto Maroni
Roberto Maroni

Dicono che la sanità lombarda è la migliore che ci sia. Chissà come son messi gli altri, vien da dire. Soprattutto ora che dalla Regione Lombardia rimbalza la notizia che due su tre dei 49 direttori generali attualmente in carica sono stati bocciati ai test psicoattitudinali promossi per compilare la lista dei 100 manager tra cui il presidente Roberto Maroni sceglierà i nuovi vertici delle strutture sanitarie. Tradotto con il linguaggio dell’uomo della strada, ciò significa che la sanità lombarda funziona, spesso e volentieri, “malgrado” chi la governa. Ma può essere vero? Evidentemente no, e allora forse sarà il caso di sottrarsi alla suggestione del test fintamente meritocratico per andare al cuore della questione. Quel che Maroni sta cercando di fare è semplicemente il gioco delle tre carte: sostituire in buona parte i direttori generali nominati, con rigorosa logica cencelliana, dal suo predecessore Roberto Formigoni con altri di sua osservanza. Cogliendo al balzo una proposta del Pd si è acconciato ad utilizzare il metodo dei test per dare una parvenza di credibilità alle sue scelte. Ma solo gli illusi possono pensare che il responsabile di un ospedale o di un’azienda sanitaria possa essere valutato attraverso quiz poco più complessi di quelli che si devono superare per la patente. E infatti, basta scorrere l’elenco dei bocciati per scorgere anche nomi di professionisti, certamente con targa politica riconoscibile, stimati e apprezzati per il loro lavoro di questi anni.

Quella che si sta consumando, quindi, è nulla più che una presa in giro. Tant’è che, come è già stato osservato su L’eco di Bergamo da un profondo conoscitore di cose sanitarie come Alberto Ceresoli, al Pirellone stanno comunque procedendo nella valutazione delle candidature con il solito bilancino delle appartenenze a partiti, correnti e conventicole. Per cui, per esempio, sull’ospedale Papa Giovanni XXIII è in corso un violentissimo braccio di ferro tra Forza Italia e Lega per accaparrarsene la guida (con il corollario, a cascata, delle caselle da occupare a Seriate e Treviglio). Tutto cambia ma nulla cambia, insomma, anche la Padania perpetua gli usi e costumi gattopardeschi che tanto dovrebbero inorridire gli highlander leghisti.
Del resto, che tutto sia una burla lo dimostra una piccola notizia che è scivolata via nell’indifferenza generale. Un nutrito drappello di manager bocciati ai test maroniani solo sette giorni prima avevano ricevuto dalla medesima Regione un premio di risultato (!) variabile tra un minimo di 17 mila e 500 euro ad un massimo di 29 mila e 400. Prima premiati e poi bocciati: alzi la mano chi ci capisce qualcosa.

Ma probabilmente il bello deve ancora venire perché l’ineffabile Maroni solo pochi mesi fa ha patrocinato una riforma della sanità lombarda che da più parti è vista con timore perché rischia di buttare all’aria un sistema che, con le sue criticità (dovute soprattutto alle commistioni tra politica e affari), ha dimostrato di funzionare. Il nuovo modello è stato varato a fine agosto. Da allora, pensate un po’, dopo le dimissioni dell’assessore Mario Mantovani (che da questa partita era stato esautorato e che nelle settimane successive è finito in carcere con accuse pesanti), la Lombardia non ha un delegato a seguire in prima persona e in via esclusiva questo delicatissimo settore. “Basto io” ha detto il piccolo Napoleone lombardo Maroni.
Ecco perché quello che sembrava un paradosso (la sanità funziona malgrado chi la governa) è un’amara verità. Senza l’impegno di chi sta in prima linea, di chi dedica tutte le sue forze a chi ha bisogno, di chi profonde tutte le sue energie per dare risposte alle esigenze di cura non avremmo la “migliore sanità che ci sia”. Che forse potrebbe essere ancora più efficiente se i politici, quelli ufficiali e quelli mascherati da manager, venissero messi alla porta. Ma questa è l’unica riforma che non vedrà mai la luce.




“Bergamo è senza padri”, Zonca mette il dito nella piaga

Cesare Zonca
Cesare Zonca

“Bergamo è rimasta senza padri” dice in una lunga, e non priva di spunti (alcuni condivisibili e altri molto meno), intervista al sito Bergamopost.it l’avvocato Cesare Zonca. In occasione del suo ottantesimo compleanno, il legale d’affari più famoso e influente della città, colui che con l’ex presidente della Banca Popolare di Bergamo (poi Ubi) Emilio Zanetti ha rappresentato lo snodo obbligato di tante vicende, economiche ma anche dai risvolti politici, è chiamato a tracciare un quadro della situazione e ad offrire al lettore un punto di vista sulle condizioni dello scenario bergamasco. E spicca, pur nella ritrosia forse dettata da carità (il vero signore non infierisce mai), la constatazione di una terra rimasta orfana di padri, cioè di figure di riferimento.
E’ un’osservazione da condividere in pieno. La sua, anzi, è la certificazione di quanto da anni andiamo sostenendo a proposito della dilagante mediocrità che ha investito pressoché ogni ambito della vita bergamasca, da quello economico a quello politico non trascurando quello culturale come quello sociale. Certo è paradossale ritrovarsi in questa situazione di sostanziale assenza di leadership dopo aver sentito per anni auspicare da più parti la fine, fisiologica, della lunga stagione dei cosiddetti “grandi vecchi”.
Zonca, bontà sua, individua nel sindaco Giorgio Gori una “figura promettente”. In nuce, alcune caratteristiche ci sono: la visione di lungo periodo, la capacità di coltivare rapporti con i mondi che contano, le doti comunicative. Indubbie qualità che tuttavia forse non bastano per farne un vero leader se non addirittura un “padre”. La leadership è qualcosa di più e di più complesso che al momento, ma è ancora ai primi passi della sua esperienza politico-amministrativa, Gori lascia soltanto intravedere. Ma anche ammettendo che il sindaco abbia tutto per diventare una guida riconosciuta, o quantomeno stimata, anche da chi politicamente la pensa in modo diverso, resta che la realtà bergamasca ha bisogno come il pane di tante, e diverse per cultura e estrazione sociale, figure di riferimento.
Proviamo a volgere per un attimo lo sguardo all’indietro, così forse il discorso risulta più comprensibile. Fino a poco più di vent’anni fa la scena orobica era calcata da personaggi che oggi, al di là di come la si pensi, appaiono come autentici giganti: accanto a Zonca e Zanetti, ciascuno nel proprio ambito, c’erano Filippo Maria Pandolfi e Mirko Tremaglia, don Andrea Spada, Roberto Sestini e le famiglie Radici, Pesenti e Mazzoleni. Oggi che per le più disparate ragioni (chi si è ritirato, chi ha solo lasciato la prima linea, chi ha fatto scelte diverse, chi non c’è più) queste figure sono venute a mancare, è chiaro a tutti quanto Bergamo sia più povera.
Non si tratta di coltivare inguaribili nostalgie né di immaginare che possano esistere uomini per tutte le stagioni. Resta l’osservazione di Zonca: non ci sono più padri. E a partire dai padri, che per primi avrebbero potuto agevolare (ma forse ci hanno provato, non riuscendoci) la nascita di “figli” all’altezza, tutti sono chiamati ad una seria riflessione. Quel vuoto va riempito, quel quid in più va trovato. Assodato che i leader non nascono in provetta e tantomeno lo diventano per cooptazione, prima si creano le condizioni per la nascita e la crescita di una classe dirigente adeguata alle sfide meglio sarà per tutti. A partire dagli ignari nipotini.




La polemica su Mussolini? Una banale e triste storia di provincia

mussoliniCerte notizie sono come il maiale: non si butta via niente. Le notizie che riguardano la figura di Benito Mussolini, poi, sono come il maiale al cubo: possono essere insaccate, affumicate, conservate per anni ed anni, e, quando le servi in tavola, fanno sempre la loro – è il caso di dirlo – porca figura.

Mussolini, a settant’anni dalla sua morte, è ancora uno scoop: ogni tre per due, salta fuori qualcosa che riattizza l’interesse intorno al Duce. Una volta è la vera storia della sua morte, un’altra un reportage sull’oro di Dongo, un’altra ancora un epistolario che non vuole saltare fuori: in un modo o nell’altro, Mussolini fa ancora notizia. E vende. Qualunque direttore di giornale sa perfettamente che una copia in cui si parli di lui, in cui si offrano gadget del Ventennio, speciali sul fascismo, volumetti da due soldi su qualche carattere ducesco, vende cento volte più di una copia qualunque. E mi sento di dire che anche tutta questa polemica, all’apparenza vieta e fuori tempo massimo, sulla revoca della cittadinanza onoraria concessa dal comune di Bergamo a Mussolini, nel 1924, appartenga al medesimo filone degli speciali sul fascismo e degli inserti sul Duce: è una questione di vendite, in un certo senso.

Tant’è che, ultimamente, tutti quanti, e specialmente quelli che, altrimenti, non si filerebbe nessuno e che nessuno sa chi diavolo siano, cercano di appendere il cappello all’attaccapanni della revoca. Lo dico bello chiaro, a scanso di equivoci: per me, la cittadinanza onoraria a Mussolini potreste toglierla anche domani: in primo luogo, perché delle benemerenze in genere mi frega men che zero, in secondo luogo perché Mussolini mi pare tutto meno che un benemerente e, in terzo luogo, perché le onorificenze concesse dal Comune di Bergamo mi sembrano più o meno tutte quante prodotto di piaggerie e consorterie, non soltanto quella assegnata al Duce. Sicché, valgono quanto il due di coppe con la briscola a denari, a chiunque vengano appioppate: parenti, amici e benefattori.

Ma qui, in questo accanimento su di un tema che, evidentemente, alla stragrande maggioranza dei cittadini importa pochissimo, ci vedo qualcosa di diverso da una banale diatriba, di quelle che ci fanno sbadigliare da decenni, tra destra e sinistra, buoni e cattivi, ricciolini e crapepelate: mi pare di riconoscere i segnali di una precisa campagna di marketing. Marketing politico, ma pur sempre marketing. Rivediamo dall’inizio tutta la faccenda.

L’antefatto è che i temi della scorsa maturità hanno dimostrato che agli studenti italiani la Resistenza, coi suoi annessi e connessi, a furia di venir bombardati da celebrazioni e discorsi, è decisamente venuta in uggia. Ahia, devono essersi detti i professionisti della memoria partigiana: qui rischiamo di restare disoccupati! Di questo passo, a qualcuno di questi signori, che hanno costruito una salda fortuna ed una carriera sulla propria vocazione antifascista, avrebbe potuto toccare di andare a lavorare: e magari dover perfino esibire il proprio curriculum, anziché basarsi sulla fiducia. Ed ecco scattare l’operazione di marketing: Mussolini, orrore, ha ancora la cittadinanza onoraria! Quale miglior occasione per dimostrare al mondo la propria vitalità e la propria indiscussa competenza negli affari in cui storia e morale vanno a braccetto? Così, è partita la polemica, opportunamente amplificata dalla stampa locale, che, su cose come questa, va a nozze, sempre per ragioni di numeri: fare degli speciali sul Duce per aumentare la tiratura sarebbe politicamente scorretto, ma, se qualcuno ti offre la notizia su di un vassoio d’argento…ci siamo capiti.

Così, mentre i Bergamaschi se ne fregavano serenamente di tutta la questione, la polemica è rimbalzata sui muri della città: hanno detto la loro tutti i malati di protagonismo del comprensorio, ci si sono ficcati tutti i padrini della storiografia locale, hanno abbracciato la santa causa politichini di terza e quarta linea, sperando, probabilmente, di venir promossi in cavalleria. Questa, se ve la devo dire piatta, è la mia impressione sull’affaire Mussolini: una banale, tristissima, storia di provincia. Un siparietto tra gente culturalmente e politicamente sorpassata, che non vuole accettare la realtà del sorpasso e che cerca, in ogni modo, di restare sotto il riflettore, di tenere il palcoscenico un minuto di più. Una questione di caratteri e non di revisione della storia, insomma. E, allora, caro Gori, compi un atto di generosità verso questi protagonisti delle ribalte orobiche del tempo che fu: è un po’ come la legge Bacchelli, che soccorre gli artisti in disarmo. Revoca questa benedetta cittadinanza: sarà un’opera di bene. Per questi uomini che non sanno accettare la propria giubilazione politica e, forse, neppure l’incalzare del dato anagrafico; ma, soprattutto, per noi, gente normale, che non sa che farsene di riflettori e di ribalte e che, soprattutto, vorrebbe occuparsi dei cittadini vivi, non dei dittatori morti.




Tra salvataggi e trasformazioni in spa per le banche sarà un 2016 movimentato

a-ubi.jpgIl decreto che permette di salvare quattro banche di media taglia commissariate non risolve definitivamente i problemi. E’ previsto infatti che questi istituti debbano essere successivamente venduti. E il problema è: chi potrà comprarle? Messe insieme Banca Etruria (una delle dieci popolari obbligate alla trasformazione in Spa), Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti rappresentano l’1% degli asset del sistema bancario nazionale. Non devono necessariamente essere acquistate in blocco, ma è un’operazione comunque impegnativa. I big non sembrano molto motivati. Alcuni capiazienda, in Intesa, Unicredit, Montepaschi e Banco Popolare, hanno dichiarato esplicitamente di non essere interessati. La Bpm non ha escluso di fare una valutazione, mentre l’ad di Ubi Victor Massiah si è limitato ad escludere Banca Marche per la sovrapposizione con la Popolare Ancona già nel gruppo. Ci sono poi gli istituti medi: l’anno scorso in effetti l’acquisto da parte della Popolare di Bari ha permesso di risolvere i problemi di Tercas e Caripe, ma adesso i bocconi appaiono un po’ grossi.

L’operazione di salvataggio costa circa 3,6 miliardi, interamente a carico del sistema bancario (mentre azionisti e possessori di obbligazioni subordinate hanno perso il loro investimento) anche se azionisti e possessori, in maniera proporzionale attraverso il neonato Fondo di risoluzione nazionale, la cui liquidità è stata anticipata al 33% da Unicredit, Intesa e Ubi (non è una premessa ad una futura acquisizione, ma un prestito a prezzi di mercato). Questi 3,6 miliardi serviranno per 1,7 miliardi alla copertura delle perdite, 140 milioni per la bad bank (dove saranno trasferiti crediti difficili per 8 miliardi svalutati a 1,5 miliardi, con la prospettiva di un  parziale recupero attraverso la cessione a istituti specializzati) e 1,8 miliardi per la ricapitalizzazione delle nuove banche. Quelle che in futuro dovranno essere vendute anche per recuperare le risorse da restituire al Fondo. Novità del decreto, oltre all’utilizzo del Fondo, è però proprio il fatto che, attraverso la disposizione di successiva vendita, il tema delle aggregazioni diventa per la prima volta “obbligatorio”.

Lo stesso decreto sulle Popolari, che era stato giustificato con l’obiettivo di favorire le aggregazioni, in realtà ha solo cercato di scompaginarne l’assetto, imponendo la trasformazione in società per azioni per quelle con il maggiore attivo patrimoniale, senza imporre fusioni. E infatti, a parte l’unione, peraltro già avviata prima del decreto, tra Volksbank e Marostica che ha creato l’undicesimo istituto soggetto all’obbligo di futura trasformazione, di unioni non ne sono ancora viste. Anzi, paradossalmente proprio il decreto ha rallentato anche le trattative in corso già da anni, dato che la trasformazione in Spa crea anche una sorte di “semestre bianco”: diventa infatti difficile per un Cda destinato a modifiche anche radicali nel possibile cambio di maggioranza determinato dal passaggio da società cooperativa a società di capitali proporre operazioni che potrebbe non essere approvate da chi prenderà le redini dell’istituto dopo pochi mesi.

Per questa ragione è più che probabile che solo dopo la trasformazione in Spa – che finora ha effettuato solo Ubi e che Veneto Banca prevede questo mese – gli istituti potranno veramente procedere nelle aggregazioni. Ma oltre ad unioni tra di loro adesso c’è anche da risolvere la vendita dei quattro istituti. Il decreto a dire il vero non stabilisce date precise, ma si limita a disporre la vendita “quando le condizioni di mercato sono adeguate”. Una premessa per un 2016 molto movimentato su questo fronte.




Quel che ancora non è chiaro del fenomeno Sharing economy

airbnb - sharing economy - turismoLa sharing economy – l’economia della condivisione, con una traduzione forse troppo politicamente corretta, sviluppata intorno a Internet – è considerata il fenomeno emergente dell’economia globalizzata perché presenta alcuni elementi di grande interesse per la clientela: costi bassi se non nulli, comodità, flessibilità, mancanza di intermediari. Ma ad una forte capacità attrattiva, corrispondono un minimo impatto sull’economia, diversi problemi e qualche perplessità sulla sostenibilità del modello.

Start up attive nei servizi di mobilità – da Uber a Car2Go o Enjoy, nei servizi di affitto diretto di case vacanze come Airbnb, o nella ricerca di credito come – stanno strappando alte valutazioni, anche se hanno conti in rosso e danno solo promesse che gli utili arriveranno l’anno prossimo. Eppure, oltre a quello degli utenti, scatenano l’entusiasmo degli investitori. AirBnb ha raccolto tra quest’ultimi 100 milioni di dollari e viene valutata 25 miliardi di dollari. Uber, l’app per servizi di auto con conducente, sta avviando la raccolta di un altro miliardo con trattative che la stimano 70 miliardi di dollari. E la rivale di Uber, Lyft, è valutata 4 miliardi di dollari. Square, società di pagamenti mobili, ha guadagnato quasi il 50% nel primo giorno di quotazione arrivando ad una capitalizzazione di 4,2 miliardi di dollari. Che per inciso è il valore attribuito dalla Borsa a Ubi Banca.

Nonostante le paginate che le dedicano i giornali (che ricorda molto l’attenzione prestata alla New economy prima dello scoppio della bolla) e gli sguardi tra il timoroso e l’interessato che le prestano gli operatori tradizionali, la sharing economy incide però veramente poco sull’economia. Secondo uno studio del Credit Suisse, l’impatto sul Pil è stimabile nello 0,25%, nel caso che i servizi prestati dallo sharing economy siano utilizzato da un terzo della popolazione: potrebbe salire a un punto percentuale nel caso sia utilizzato dall’80% della popolazione.

Ma poi ci sono altri aspetti controversi. “Si sa poco sull’impatto che la sharing economy avrà sulla crescita e le implicazioni di lungo termine sul mercato del lavoro – osserva ancora il Credit Suisse -. Il concetto non è stato ancora completamente analizzato dal punto di vista delle nome legali e comportamentali da applicare”. Uber, ad esempio, è contestato dai tassisti tradizionali che vedono un nuovo concorrente e il punto di forza della loro battaglia è che la sharing economy non rispetta il regime di regolamentazione e di contribuzione e così ottiene un vantaggio competitivo sleale. Ma ci sono cause anche da parte degli stessi “tassisti alternativi” di Uber che chiedono il riconoscimento del loro status: se dovessero vincere, ed essere quindi pagati come i tassisti tradizionali, la sostenibilità del modello Uber sarebbe in pericolo. Del resto il vantaggio che pongono rispetto al modello tradizionale che vogliono destrutturare è proprio quello di una minore remunerazione, una forma di dumping che non riguarda solo i costi.

Nonostante tutto quello che si può sentire, il prezzo in molti casi è la base della scelta. Ma servizi low cost o addirittura gratuiti finiscono per ridurre il Pil, quando distruggono il settore tradizionale per creare un sistema basato su salari più bassi (o nulli) e minori protezioni. E’ vero che i soldi risparmiati da una parte possono essere utilizzati da un’altra e che il consumatore per sua natura tendenzialmente pensa più al suo interesse che a quello generale, ma chi ha la responsabilità dell’interesse collettivo qualche problema dovrebbe anche porselo.

 

 




Così Uber mette all’angolo anche i mitici black cab

Black_London_CabIl black cab sta a Londra quanto la regina sta a Buckingham Palace. Non stupisce che al lancio di Uber i taxisti abbiano protestato ferocemente, paralizzando la città a più riprese. Nonostante le critiche, il business invece fiorisce e prolifera. Con 500mila utenti, 7mila autisti impegnati quasi a tempo pieno, Uber, che ha appena raccolto investimenti per oltre 5 miliardi, fa rosee previsioni per il futuro, prospettando di arruolare fino a 4.2000 autisti nei prossimi 18 mesi. Si tratta di un affare serio, i numeri sono di peso, anche se gli utili non sono ancora maturati. Il successo di questo servizio è facile da spiegare: Uber è conveniente ed è semplice. Il consumatore guarda alle proprie tasche e alla praticità del servizio. Nonostante queste premesse, Uber gode di una fama non sempre brillante, e non solo tra i taxisti degli iconici taxi neri. I motivi vanno dal suo investitore, la banca d’affari più aggressiva al mondo Goldman Sachs, la sede fiscale in Olanda, le corse che a volte costano ben più del preventivo, il sospetto di sfruttamento dei guidatori, che vengono pagati il minimo salariale o anche meno, controlli non sempre accurati sulle abilità al volante dei propri impiegati.

Segue poi l’accusa di gestire in modo improprio i dati che raccoglie sui percorsi e i suoi utenti, ma lo stesso commento si potrebbe scagliare contro molte altre azienda, con Google e Facebook in pole position. Uber suscita domande scomode sul futuro della nostra economia, a cui non abbiamo ancora trovato risposte convincenti. Domande simili a quelle che nascono dall’ascesa di Amazon o I Tunes. Questi prodotti o servizi vengono chiamati in inglese disruptive, che a noi suona un po’ come distruttivi. E lo sono, perché minano come un terremoto lo status quo. Chi ha vissuto negli ultimi dieci anni nei quartieri residenziali e fuori dal centro benedice l’avvento di Uber, che ha reso la vita molto più facile a chi non può permettersi un appartamento in zona 1, o vivere particolarmente vicino a una fermata della metropolitana. Ai vecchi tempi, se si voleva prendere un taxi la notte per trasportare qualcosa di ingombrante, i famosi black cab spesso si rifiutavano, come declinavano la corse per i passeggeri diretti a Brixton, o più in generale a sud del Tamigi. Non è più cosi, visto che gli autisti di Uber sono ben disposti ad andare nei quartieri periferici, perché sanno che non gli sarà difficile trovare clienti per il viaggio di ritorno. Intanto i taxisti non si arrendono e si stanno organizzando con nuove app che faranno concorrenza a Uber. Stiamo a vedere che cosa accadrà nei prossimi mesi.