Una società in declino dove nessuno sa più chiedere scusa

parigi_attacco8_afpQualche tempo fa, nel mondo roseo e rarefatto delle filosofie positive, si è affermato il concetto di “regresso sostenibile”: in pratica, di un progressivo ritorno ad alcune abitudini di produzione e consumo meno frenetiche, meno polarizzate intorno alla crescita finanziaria e meno dannose per il pianeta. Sostanzialmente, sarebbe come dire: scusate, ci siamo sbagliati, il turbocapitalismo è un’immensa vaccata che non ci rende più felici e più sani, perciò facciamo retromarcia pianin pianino.

Saper ammettere che si è sbagliato è una qualità tra le più rare e le meno praticate, nella nostra società: se lo si facesse, ogni tanto, assisteremmo ad ammissioni di colpa e ad inversioni di tendenza che avrebbero del clamoroso. Pensate, ad esempio, se i responsabili del progressivo annientamento della nostra civiltà educativa dichiarassero pubblicamente che la scuola nata dalle sperimentazioni post sessantottesche è un fallimento cosmico, domandassero scusa, ed invertissero la marcia: che botta al loro orgoglio di pedagoghi parolai, e che botta di culo per i nostri figli e nipoti! Oppure, se qualcuno ammettesse che le meravigliose prospettive delle privatizzazioni industriali si sono, col tempo, trasformate in una svendita all’incanto dei pezzi più pregiati della nostra industria ad aziende straniere, col solo risultato di impoverirci e cancellarci dal novero delle potenze produttive: provate a pensare ai vari economisti da barzelletta, che fanno mea culpa davanti all’Italia intera. Come quello che diceva che, con l’euro, avremmo lavorato un giorno in meno, guadagnando come se avessimo lavorato un giorno in più: mia mamma, che confonde ancora l’euro con la lira e mi dice che il latte costa mille euro, ha una visione macroeconomica più lucida! Eppure, nessuno chiede mai scusa, per le macroscopiche bischerate messe in campo, in ossequio a qualche teoria, tanto fumosa quanto palesemente fuori baricentro: tutti colpevoli e nessun reo confesso.

Orgoglio, improntitudine, semplice disprezzo per il prossimo, sono gli ingredienti di questa assoluta incapacità di autocritica: di questo negare la propria colpa fino al paradosso. Noi stiamo andando in pezzi: è bene saperlo, un attimo prima della deflagrazione. Il nostro modello di società si sta sgretolando, in uno scenario desolante, in cui i pochi ricchi accumulano e la gente normale non ha un futuro e, talvolta, neppure un presente: il modello del welfare state fa dormire gli Italiani in automobile e fa rovistare i pensionati nei cassonetti. La nostra struttura economica si avvia al crollo: la mancanza di sovranità monetaria, i diktat di un’Europa a trazione anteriore, l’iperfiscalismo isterico che cerca di tamponare la falla di un debito pubblico insostenibile, legato proprio all’impossibilità di pagare gli interessi che la non sovranità ci ha regalato, ci trascinano verso il fondo. E nessuno domanda scusa, nemmeno per sbaglio: nessuno ci racconta dove siano finiti, per davvero, i miliardi che a migliaia hanno preso la via del Mezzogiorno, senza arrivarci mai.

Come si fa a pensare che l’Italia possa sopravvivere, con due zavorre come il debito pubblico e il mancato sviluppo meridionale da risolvere? Eppure, su questo avete sentito parole di scusa? C’è un acquedotto pieno di buchi, che scorre a sud di Roma: è un acquedotto reale, che perde acqua, ma ce n’è anche uno metaforico, che perde denaro a fiumi: miliardi che si diluiscono in mille rivoli, che diventano favori, mazzette, superstipendi, consulenze d’oro, assunzioni inutili. E nessuno paga, nessuno confessa, nessuno domanda perdono alla gente che vive ancora nei container, a più di trent’anni dal terremoto in Irpinia. Perché nel nostro Paese si perdona prima che si confessi: si festeggia la salvezza prima di essere salvi, si annuncia la vittoria prima che la partita sia terminata. In buona sostanza, si mente al popolo perché lo si disprezza: si rifila alla gente qualunque balenga teoria, perché si considera la gente come una massa plastica di poveri deficienti. Benvenuti nell’Illuminismo del terzo millennio!

E, adesso, c’è la questione della guerra: siamo in guerra, il mondo è in guerra, andiamo alla guerra, basta guerre, mai più guerre, la guerra è bella ma è scomoda…E, di nuovo, nessuno chiede scusa: nessuno ammette di avere sbagliato tutto. La politica delle accoglienze, quella dei controlli, quella della leva obbligatoria, quella del garantismo ad ogni costo, quella dell’incertezza della pena: troppe ce ne sarebbero di cantonate micidiali. Ma voglio concludere questo articoletto apocalittico con parole di speranza e di pace. Due perline da Cimmino, prima di lasciarvi a più paludati commenti. Guerra: come si combatte una guerra asimmetrica? Non colpendo dove ve lo aspettate voi, all’Expo, al Giubileo, ma dove decido io: mentre mangiate al ristorante, ad esempio. Il terrorismo funziona così. Guerra: provate ad immaginarvi un terrorista in bicicletta: si è messo d’accordo coi suoi compagni usando normali lettere in normali buste, bucando un intelligence fatta solo di elettronica. Con la sua bicicletta percorre una ciclabile, dalle parti di Grassobbio: aspetta che arrivi un aereo, tira fuori dallo zaino un RPG, prende la mira con calma, spara e se ne va pedalando. E’ questa la guerra di cui stiamo parlando: stavolta, però, non aspettiamo scuse che non verranno mai…




Aziende in mani straniere, così finiamo per fare la figura dei fessi

lactalisLa vicenda Telecom solleva un dubbio. Ma i francesi sono proprio stupidi? Perché continuano a recuperare quello che gli italiani buttano via? Lo hanno fatto con la moda e con il lusso, con la grande distribuzione, con buona parte dell’alimentare, insieme agli svizzeri, che secondo la vulgata xenofoba sono dei francesi (o dei tedeschi) venuti male. Lo hanno fatto con un’ampia serie di aziende meccaniche, con l’energia e adesso lo fanno con la telefonia.

Come quando si sente parlare del pazzo che va in contromano in autostrada, al quarto o quinto francese che si incontra in direzione opposta, forse si potrebbe iniziare a pensare che ad essere un po’ stupidi sono gli italiani. Il rapporto con i cugini d’Oltralpe è sempre stato complesso, tra la loro presunzione da grandeur e la nostra cialtroneria con complessi di inferiorità che ci fanno vedere solo il peggio di noi stessi. Però all’aforisma autocritico di Jean Cocteau sul fatto che i francesi sono degli italiani di cattivo umore dobbiamo aggiungere con umiltà che saranno anche incazzati, quando vince Bartali o qualsiasi altro italiano (e il sentimento è cordialmente ricambiato), ma un po’ più furbi o almeno lungimiranti lo sono.

Un altro dei vizi italici è quello della geniale improvvisazione, ma sempre vivendo un po’ alla giornata. Ed è così che si perdono le occasioni e anche le aziende. Non c’è da demonizzare l’acquisto straniero: l’operazione può essere un’opportunità quando fa arrivare nuove risorse e nuovi stimoli in un’azienda ferma e in più riempie gli ex azionisti italiani di denaro che può essere reinvestito in altre attività. Ma più che sugli acquisti esteri vale la pena di riflettere sulle vendite italiane. La questione si ripropone ora con Telecom, con la novità che per una volta sembra che sia stata tentata una reazione con la proposta della conversione delle azioni di risparmio che con la diluizione del capitale ordinario potrebbe rimescolare le carte. Ma anche questa inedita difesa apre dei dubbi.

Non è chiaro quello che accadrà quando l’imprenditore Xavier Niel, l’anno prossimo, potrà trasformare le sue opzioni nel 15% del capitale e così, aggiungendo il 20% detenuto dalla Vivendi del finanziere bretone Vincent Bolloré, un terzo di Telecom sarà in mano francesi. Niel attraverso la controllata Free in Francia ha fatto tremare le compagnie telefoniche tradizionali tagliando i prezzi dei servizi. Se ripetesse l’esperienza in Italia, forse ci sarebbe per la prima volta quell’influsso positivo sulla concorrenza sempre auspicato, ma mai manifestatosi, nella calata di nuovi proprietari stranieri. Finora infatti ci sono state solo delusioni e invece di una ventata di liberalizzazione c’è stata una sostituzione nelle precedenti rendite di posizione, con un sostanziale mantenimento dello status quo.

In pochi anni intanto le telecomunicazioni italiane sono diventate straniere. Vodafone è una public company britannica, Wind ha capitali russi e norvegesi, H3 cinesi, mentre Fastweb è svizzera. Telecom di fatto era già francese prima della scalata di Niel, senza che ci fossero state reazioni, anche perché Bolloré era già parte dell’establishment nazionale. Per questo si può pensare che la contromossa attraverso le azioni di risparmio non sia rivolta a evitare una francesizzazione di Telecom, che comunque c’è già stata, ma piuttosto ad allontanare Niel. Il fatto che Bollorè sia “contento” di vedersi diluire la quota e quindi appoggi la proposta lascia pensare che abbia qualche asso nella manica. Magari anche un pacchetto di risparmio per ricostituire la quota. In ogni caso la contesa appare adesso tra un francese dell’establishment e un francese non dell’establishment: in ogni caso non ci sono italiani tra quelli che si disputando il controllo di attività strategiche per il Paese come la rete a banda larga. Certo, ben venga chi ci pensa al posto nostro. Ma nella continua delega all’esterno spesso si pensa di essere furbi, ma si finisce per fare la figura dei fessi. La vicenda di Lactalis, che ora qualcuno chiede di “nazionalizzare” sulla scia delle polemiche per il prezzo del latte , sta lì a dimostrarlo,

 

 




Terzi, l’imbarazzante teatrino di chi non sa accettare la sconfitta

Claudia Maria Terzi, assessore regionale all'Ambiente
Claudia Maria Terzi, assessore regionale all’Ambiente

Se vuole davvero essere originale Claudia Maria Terzi deve fare una bella proposta. Semplice quanto secca: “Aboliamo il Consiglio regionale”. Sicuramente guadagnerebbe consensi a secchiate. E altrettanto certamente, indicando a chiare lettere quale è il suo obiettivo, l’assessore regionale all’Ambiente in quota Lega eviterebbe lo sgradevole teatrino di cui è stata protagonista nei giorni scorsi.
Meglio parlar chiaro e affrontare a viso aperto le battaglie piuttosto che calpestare, come è stato fatto, le più elementari regole della democrazia rappresentativa. L’ex sindaco di Dalmine, infatti, ha reagito in modo perlomeno sgraziato al voto con cui l’aula del Pirellone, a voto segreto certo (34 a 28), ha bocciato il provvedimento con aveva deciso di tagliare i fondi al Parco dei Colli, reo di aver accolto la richiesta della Prefettura di dare ospitalità temporanea ad un gruppo di profughi a Cà della Matta. Anziché prendere atto che nemmeno la sua maggioranza condivide una misura stupidamente ritorsiva nei confronti di un ente caro ai bergamaschi, l’assessora ha subito rovesciato il tavolo. “Non arretreremo di un millimetro – ha esclamato con il turgore dei giorni migliori -. Siamo pronti a ripresentare immediatamente un altro provvedimento di pari contenuto”. Come a dire: del Consiglio regionale non so che farmene e le sue votazioni sono esercitazioni fini a se stesse. Salvo aggiungere una postilla che ha lasciato di stucco: “Perché ci sono delle regole ben precise, e non si possono rispettare solo quando fa comodo”.

Terzi si riferiva allo statuto del Parco dei Colli che non prevede, tra i compiti dell’ente, l’accoglienza dei profughi. Ma anche le regole delle istituzioni, forse, son degne di analoga attenzione. E allora, se l’assemblea del Pirellone, che fino a prova del contrario è composta dagli eletti dal popolo (a differenza degli assessori come la Nostra che sono nominati dal presidente), decide di cassare un provvedimento, prenderne atto dovrebbe essere il minimo. Tutt’al più ci si può scagliare contro gli assenti e i consiglieri di maggioranza che nel segreto dell’urna hanno votato contro (salvo chiedersi, con un pizzico di umiltà, le ragioni del gesto), ma il verdetto non dovrebbe essere messo in discussione. Altro che annunciare la volontà di riproporre il taglio cassato, utilizzando in modo improprio un emendamento al bilancio.

La disinvoltura con cui anche il più banale galateo istituzionale viene calpestato è imbarazzante. Succede quando, dimentichi che si è al governo della cosa pubblica, cioè di tutti (di chi ti ha votato e di chi no), si procede a colpi di ideologia.  Claudia Maria Terzi ha alle sue spalle un’esperienza amministrativa a Dalmine che non è stata esaltante e che è finita tra le macerie. L’anagrafe è dalla sua parte, l’intraprendenza non le manca. Perché buttarsi via così? Perché intestardirsi in una battaglia propagandistica che non serve a nessuno se non a gonfiare le vele del Carroccio? Davvero crede che adottare provvedimenti faziosi sia il modo migliore di fare l’interesse dei lombardi? Ma soprattutto, non pensa che non considerare il voto del Consiglio sia un pessimo modo per delegittimare un organo istituzionale? In politica, come nella vita, ci sono le vittorie ma anche le sconfitte. E’ segno di intelligenza saper trarre lezione dalle battute d’arresto. L’assessora ne ha l’occasione. Non la butti via per il gusto di sventolare una bandierina.

 

 

 

 




Quella domanda senza risposta sui tagliagole dell’Isis

IsisVi ricordate l’Isis? Massì, quei simpaticoni vestiti di nero che, ogni tre per due, rapivano un europeo e gli segavano le canne: come potete averli dimenticati? Jihadi John, col suo inglese perfetto, i malandrini che dalle coste della Libia preparavano una seconda operazione Husky, la minaccia globale, il nemico più nemico che ci sia: l’Isis, mica noccioline! Non vi viene, ogni tanto, da domandarvi che fine abbiano fatto? Stavano avanzando ovunque, come una marea inarrestabile: adesso avrebbero dovuto già essere arrivati ad Oslo e piantare lo stendardo del Profeta a Holmenkollen. Invece, improvvisamente, mezzebuste ed anchormen, hanno smesso di parlarne: come se non fossero mai esistiti. La televisione ci abitua, per la verità, a queste ciclotimie: per settimane ci bombarda con allarmi per uragani che, alla fine, si trasformano miracolosamente in tempeste tropicali, e scopri che a Rimini è piovuto una mezz’oretta. Fa parte, per così dire, del sistema televisivo inventarsi una notizia, spolparla fino all’osso e poi gettarla nella spazzatura, in attesa del prossimo scoop: questa dell’Isis, però, sembrava una faccenda un tantino diversa, un tantino epocale. Si sono sprecati gli speciali: i soliti esperti, le solite inchieste, il repertorio solito di stupidaggini miste ad ovvietà. Poi, du tac au tac, l’Isis è scomparsa dai telegiornali: niente più decapitazioni, niente più paura. Uno, preso così alla sprovvista, potrebbe pensare ad una resipiscenza dei cattivoni: un pentimento tanto immediato quanto tardivo. Chessò, toccati dalle profondissime parole di papa Francesco, intimiditi dalla bellicosa decisione della Mogherini, i tagliagole avrebbero davvero potuto fare retromarcia. Però, pensandoci bene, l’ipotesi appare alquanto remota, soprattutto per la questione Mogherini: evidentemente, qualche fenomeno soprannaturale dev’essere, comunque, intervenuto. Io un’ipotesi ce l’avrei: anzi, se permettete, ce l’avevo anche prima. Forse, qualcuno tra i miei due o tre lettori avrà la bontà di rammentare ciò che scrissi in tempi non sospetti, ossia che l’Isis era semplicemente un babau – uno dei tanti – confezionati ad arte per tenere l’Occidente col fiato sospeso: un esercito di straccioni, parlandone militarmente, senza copertura aerea, senza logistica, senza volumi di fuoco apprezzabili, senza tecnologia. Gente che vinceva combattendo contro altri eserciti militarmente risibili, ma che non avrebbe retto cinque minuti contro una forza militare moderna e modernamente equipaggiata. Ve lo ricordate? La solita minaccia creata ed impacchettata dalla sciaguratissima politica estera statunitense, come i vari Bin Laden o i jihadisti: frutto avvelenato di un modo malsano di intendere l’intelligence internazionale, abbattendo ed innalzando tirannelli, organizzando e disfacendo rivoluzioni e primavere arabe.

D’altronde, gli Usa hanno sempre cercato di governare il proprio vastissimo impero con questi sistemi: la Guerra Fredda, forse rammenterete anche questo, in Italia andava da nord a sud e non da est a ovest. E a noi è costata una stagione che qualche furbacchione in vena di creatività, imbeccato al momento opportuno, ha chiamato “strategia della tensione”: quando riscriveremo la storia di quegli anni, vedrete come ne usciranno puliti i nostri amiconi d’oltreoceano! Ma lasciamo perdere le bombe e le stragi: torniamo all’Isis. Sembravano invincibili, dicevo, finché a contrastarli c’erano le ragazze curde che tiravano dai tetti col Barrett: hanno conquistato qui, sono avanzati là. Tutti esperti di cose militari, da Saxa Rubra a Cologno Monzese: un esercito di strateghi esentati dal servizio di leva. Finché, ad un certo punto, questi dell’Isis hanno pestato un callo (non chiedetemi quale) a Vladimir Putin, che è un tipetto piuttosto fumantino, in materia di calli: lo sappiamo tutti che è in gioco una gigantesca campagna planetaria per decidere i prossimi equilibri mondiali, ma facciamo finta di essere anche noi come i giornalisti televisivi, ossia del tutto incapaci. Fatto sta che Putin è intervenuto in Siria: come dire “guardate che lì non comandate voi!”.

E, insieme a lui, si è mossa la Cina, vale a dire il terzo incomodo fra i colossi prossimi venturi. Da una parte, adesso, c’era l’Isis, con qualche Toyota donata dagli Usa, con qualche proiettile comprato in Italia, con un ampio corredo di coltellacci da macellaio: dall’altra c’erano gli incrociatori lanciamissili classe Kirov, i caccia ed i bombardieri di ultima generazione, i modernissimi T90, la “Morte Nera” e gli “Spetsnaz”. C’era perfino il celebre “Buratino”, che, in barba al nome ridicolo, è un carro lanciamissili che spara testate termobariche da 220 mm a raffiche di trenta alla volta sulla testa del malcapitato tagliagole, riducendolo a ragù. E l’Isis si è disciolta come burro, sulla padella della Siria: si è semplicemente sfaldata. Per questo non la sentite più nominare. Ora, la vera domanda, però, rimane quella di sempre: perché non l’abbiamo fatto noi, subito? O, se preferite la citazione colta: cui prodest questa Isis del cavolo? Ah, Sigonella: quanta nostalgia!




Questa politica ha perso stile anche nelle capriole

gianfranco-finiLes temps changent et nous changeons avec eux: in altre parole, ci si adatta, ci si accomoda. Tempora mutantur et nos mutamur in illis, dicevano i latini: e circa la capacità di accomodarsi, diciamo così, molti di loro la sapevano lunga. Gli scartati alla leva, prevalentemente. Così e non altrimenti pare essersi espresso l’ineffabile Charles Maurice Talleyrand-Périgord, quando gli venne rimproverato il fatto che aveva servito, indifferentemente, Luigi XVI, il Direttorio, Napoleone, Luigi XVIII e Filippo d’Orleans: oggi, sarebbe una specie di eroe nazionale, dalle nostre parti, terra di Girella quant’altre mai. Però, cari lettori, vi voglio dire che c’è modo e modo di fare capriole: un conto sono le capovolte sul prato e altro il Cirque du Soleil. Talleyrand, in un certo senso, capriolava con molto stile e con molto stile capriolavano gli antichi.

Guardateli oggi, i piroettatori: con quale mancanza di eleganza si rotolano e si avvitano! Come dire, per metterla giù piatta, che un conto è la classe di un ladro internazionale che ti sfila il collier mentre balla impeccabilmente un valzer di Strauss e altro il grassatore col piede di porco, che ti svuota i cassetti: sempre delinquenti sono, ma che differenza! Insomma, ai nostri voltagabbana manca un filino di eleganza: vanno, vengono, a volte si fermano, come le Nuvole di De André. E ne escono sempre con le tasche piene di pasticcini, arraffati al buffet. Guardateli, dunque: un giorno sono di destra e quello dopo di sinistra, una settimana sono per le unioni civili e quella successiva sembrano il cavalier tentenna.

Vogliono la buona scuola, il che è legittimo avendone, evidentemente, frequentate di pessime: però con le varianti, altrimenti cambiano parrocchia. Ricattini, piccole meschinità poltronite: come definire la somma delle attività quotidiane di questa classe dirigente che non dirige un bel nulla e che pare ossessionata dall’unico obiettivo di rimanere in sella? Miserabili: ecco la parola. Si tratta di un’accolita di poveracci dediti ad iniziative miserabili, il cui solo scopo nell’esistenza è, appunto, esistere. Il mondo delle cose e degli uomini va avanti: la gente si incontra, si sposa, si lascia, fa dei figli; e loro continuano a rotolare sullo stesso scampolo di prato, indifferenti a tutto, insensibili a tutto. Sono disposti, con l’imperturbabile improntitudine dell’ignorante e del guappo, a sostenere qualunque insostenibile fregnaccia, senza muovere un sopracciglio: si parli di economia o di vaccinazioni, di costituzione o di videopoker, questi ossessi del potere e del soldo affrontano le telecamere senza vacillare, senza dubitare, con uno sprezzo del grottesco che la dice lunga, non tanto sul loro coraggio quanto sulla loro completa incoscienza di sé.

Il mondo, intendiamoci, è sempre andato avanti così: la differenza è, per così dire, intrinseca. Un tempo, tra una capriola e l’altra, c’era chi si guardava intorno e capiva che era venuto il momento di fare qualcosa di serio, pena la giravolta definitiva, che è quella che si fa appesi ad un capestro: in altre parole, mancava, forse, l’onestà, ma c’era la stoffa. Il confronto, non si dice con un Talleyrand, ma perfino (Dio mi perdoni) con un De Michelis, per i nostri politici apparirebbe imbarazzante: una Pinotti, una Giannini, una Mogherini con quelle borsette fuori luogo, con quelle facce serie e comprese, con quella sesquipedale assenza di competenze e capacità, più che una quota rosa ricordano una quota bassa. Il Mar Morto. Ma sono lì: folgoranti in solio, incredibilmente. E ci stanno perché sono nelle grazie del capo: il quale capo appare come il capriolatore ottimo massimo.

Uno che ha fatto sempre e solo il contrario di quel che andava dicendo: quello che mai avrebbe governato senza il voto degli Italiani, che mai avrebbe scaricato il suo amico Enrico Letta, che mai sarebbe rimasto al governo un giorno più del necessario. Non insisto per non infierire, ma è chiaro che uno così non possa che circondarsi di gente come lui: sonnambuli della politica. E non è che sull’altra sponda si rida, con Fini che, nonostante rappresenti il più colossale catalizzatore d’odio della destra italiana, vaneggia in televisione (e non si capisce perché non lo invitino solo in programmi che parlino di fantasmi, stile “Mistero”) di possibili ritorni, con Berlusconi che confonde Palazzo Chigi con il palazzetto dello sport e fa le flessioni per dimostrare che è ancora politicamente in forma, con i convegni, le fondazioni, le assemblee costituenti in cui tutti si detestano e tutti si insultano, ma sono costretti ad unirsi per mettere le mani sul malloppo di Alleanza Nazionale. Capriole, soltanto capriole: scoordinate, scomposte, sguaiate capriole. E noi stiamo a guardare: sempre più schifati e sempre meno disposti a partecipare alla vita politica. Come un pubblico annoiato da un film squallido, come la curva quando la squadra del cuore schiera soltanto i panchinari in un’ultima di campionato, a risultato deciso. E il risultato di questa partita è la catastrofe, purtroppo.

 

 




Ubi, le strategie per non perdere la Popolare di Bergamo

banca_popolare.jpgTra i discorsi da bar, qualunquisti per definizione, si sente, generalmente espresso in dialetto, anche questa sorta di aforisma: “Prima ci hanno portato via il Credito, adesso l’Italcementi, la prossima che se ne andrà sarà la Popolare”. Nel senso, ovviamente di Ubi che, diventata Spa, sarebbe adesso esposta agli appetiti della speculazione e di non meglio precisate mani forti straniere.

In queste prime settimane da società per azioni in realtà non è successo nulla di particolare in Ubi. L’operatività e la gestione, come scontato, è proseguita secondo lo spirito primigenio da cooperativa. L’unico movimento è stata la crescita della quota del fondo americano Blackrock, sempre più primo azionista, per avere superato la soglia del 5%. Ma dato che era già accreditato del 4,95%, il fatto che sia arrivato al 5,022%, questo acquisto sembra essere più legato alla convinzione di un prossimo rialzo del titolo più che l’inizio di una scalata. Anche il rimbalzo del titolo sopra i 7 euro avviando la chiusura del divario dai 7,288 euro previsti dal diritto di recesso (che anche per questo, soprattutto se la tendenza proseguirà entro la scadenza del 27 ottobre, sarà esercitato soprattutto per questioni di principio) non sembra legato alla questione della Spa, quanto al miglioramento del clima bancario e a una rinnovata attenzione al processo di concentrazione bancaria.

Al momento anche su quest’ultimo piano però ci sono solo parole e voci. Un recente rapporto di Fitch sul settore delle (ex) Popolari ritiene che tutto sarà rimandato all’anno prossimo. Poco conta che nello stesso rapporto l’agenzia abbia già sbagliato la previsione che quella di Ubi sarebbe stata l’unica trasformazione in Spa del 2015, dato che poi Veneto Banca ha convocato la sua assemblea a dicembre. Il fondamento del motivo per cui Fitch ritiene che si deve aspettare per le aggregazioni è la necessità di avere un quadro più chiaro. E per questo è necessario avere almeno i risultati dei test europei sugli indici patrimoniali. Questo non toglie che nell’attesa i colloqui continuino, nel famoso “tutti parlano con tutti”, che, sulla base dei “rumors”, tra veri, verosimili e lanciati ad arte, più che a un “risiko bancario” sembra piuttosto a un “kamasutra creditizio”, considerate le combinazioni, spesso contraddittorie che vengono proposte.

Ubi non ha dato comunicazione di incarichi ad advisor per le trattative, al contrario ad esempio del Banco Popolare, che viene dato da più analisti come il suo partner ideale, trascurando magari un po’ le implicazioni delle sovrapposizioni sull’area dell’ex Creberg. Il gruppo veneto infatti già a luglio ha dato mandato a Mediobanca e Bank of America Merrill Lynch di fare consulenza “per la definizione delle più opportune strategie in relazione a possibili sviluppi nel processo di consolidamento”. Questo non sembra essere un disinteresse di Ubi sulla questione, quanto una constatazione del fatto che non ha un bisogno spasmodico di aggregazione, anche perché il gruppo si trova in una posizione di forza che le permette, come polo aggregante riconosciuto, di poter scegliere. Anche se non può comunque perdere troppo tempo nella decisione, dato che con ogni probabilità, una volta avviato il risiko, ci sarà un effetto a catena. Ma sui tempi della partenza c’è assoluta incertezza, nonostante le indiscrezioni che danno ora come in pole position l’unione Bpm-Carige. Ma per tornare alla questione di inizio: è vero che “la Popolare andrà persa”? La questione ricorda molto la discussione su chi è attualmente il “padrone” di Ubi. Sono passati più di otto anni da quando nell’aprile 2007 è nato il gruppo e ancora i bergamaschi sostengono che lo sono diventati i bresciani e i bresciani dicono lo stesso dei bergamaschi. Probabilmente queste accuse reciproche sono la miglior conferma che effettivamente la fusione è avvenuta su basi paritarie. Con la Spa gli equilibri sono sottoposti a una nuova prova, insieme alle diverse modalità di voto. Contrariamente a quanto sta avvenendo in altri istituti, il discorso di un consolidamento dell’azionariato, anche attraverso patti di sindacato, se c’è, sta viaggiando molto sottotraccia. Da qui alla prossima assemblea, dove contrariamente a quanto si profila nelle altre popolari gli attuali vertici si giocheranno le cariche con il rischio delle nuove regole, mancano ancora diversi mesi, ma il tema dovrebbe essere affrontato quanto prima, probabilmente non più su una logica provinciale, ma quanto meno regionale, per assicurare la continuità.




Che fortuna essere un italiano nella capitale inglese

LondraChe a Londra ci siano molti italiani non è una novità. Che tutti questi italiani pensino di essere gli unici a parlare una lingua esotica e poco conosciuta, è qualcosa che non smette mai di stupirmi. Quante volte, in giro per strada, sui mezzi pubblici, nei bar, mi è capitato di sentire conversazioni a voce alta, con pensieri e commenti che solitamente si tengono per sé, o si sussurrano a voce bassa. Commenti, lamentele, giudizi, apprezzamenti volgari. Tutto senza filtri, con la sicurezza che “tanto nessuno mi capisce”. Invece gli italiani a Londra sono 500 mila, e questo numero è per difetto. Tanti sono quelli regolarmente registrati con l’AIRE, in migliaia non vengono inclusi in questa statistica. Un paio di volte, armata di coraggio sono intervenuta, senza ribattere i loro commenti, solo ricordando loro di non essere gli unici capaci di parlare e capire l’italiano. In entrambi i casi, i responsabili avrebbero preferito sparire. Di certo li ho fatti arrossire e sono pronta a farlo ancora. Nella città dove essere eccentrici non desta scompiglio, dove indossare un tutù per andare a comperare il latte o aggirarsi per il centro con due pappagalli sulle spalle non crea imbarazzi, i commenti e le opinioni non passano inosservati.

Fortunatamente noi italiani ci distinguiamo per molto di più delle opinioni forti, espresse ad alta voce. Nella ristorazione, abbigliamento e cosmetica, oltre che naturalmente architettura e design, il passaporto Italiano apre porte ed è visto come un sigillo di qualità. Le cucine e i bar parlano italiano, i negozi di vestiti e i saloni dei parrucchieri non sono da meno. Tanta manodopera giovane e intraprendente trova lavoro nelle grandi catene di ristorazione e caffetterie, dove essere straniero è un punto di forza. Parlando con il direttore di un grande albergo, mi spiegava che la sua catena di hotel a cinque stelle impiega esclusivamente certe nazionalità per certi servizi: gli italiani in cucina, gli spagnoli alla reception. Non mi stupisce.

Mostrare la propria nazionalità, anche con un po’ di orgoglio, è divenuta una cosa comune in tanti settori dove l’interazione con il cliente è importante. Un tempo riservato alle boutique di alta moda, dove commessi in divisa indossavano una targhetta con la bandierina della lingua parlata, la spilletta con la bandierina viene ora utilizzata largamente in molti bar, caffetterie e fast food. In una città che parla tantissime lingue, è un modo in più per far sentire il cliente a casa. Non importa se anche solo per un caffè. A volte il badge non serve: non appena gli italiani aprono bocca, li si riconosce subito. Il nostro accento è apprezzato ed è facile da individuare, ma impossibile da sradicare. Ci battono solo gli spagnoli, con cui a volte ci confondono.

Per quanto riguarda la mia esperienza diretta, chi mi taglia i capelli è di Bergamo, mentre la manicure è curata grazie ad una ragazza di Brescia. Ogni volta che visito il salone in cui lavorano, mi accorgo di non essere l’unica italiana. Non sono l’unica a cui piace sentire la voce di casa.

 

 




Rossi si appella a Facebook, ma non è col populismo che si salva il trasporto locale

Matteo Rossi
Matteo Rossi

A volte, il presidente della Provincia Matteo Rossi pare una versione maschile di Alice nel paese delle meraviglie. Per quanto relativamente giovane, conosce i marosi della politica da almeno un paio di decenni e certo non può dirsi estraneo alle logiche e ai giochetti di quel mondo. Eppure, ogni tre per due lo si vede saltar su a lamentarsi perché l’abolizione dell’Amministrazione di via Tasso, voluta dal premier e segretario del Pd (il suo partito) Matteo Renzi e firmata dall’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio (anch’egli del Pd), si è rivelata un pastrocchio che ha lasciato in vita un simulacro quasi privo di competenza e con risorse ridotte ai minimi termini. Farebbe un torto alla sua e nostra intelligenza, Rossi, se dicesse che non sapeva, al momento dell’accettazione della candidatura, che questa era la situazione. Il contrario porterebbe a considerarlo uno sprovveduto, cosa che non è.

Proprio perché non è un principiante alle prime armi, sapeva a cosa andava incontro ed ora deve far fronte all’impegno preso con i modi e i toni che si confanno ad un rappresentante delle istituzioni. Stona, a volere essere generosi, imbattersi in una riflessione-appello postata su Facebook, dove pare sia molto attivo, a proposito dei continui tagli che stanno mettendo in ginocchio il trasporto pubblico locale. Il nostro Matteo-Alice si è scoperto improvvisamente solo di fronte alle proteste sempre più vibranti degli utenti e allora se ne è uscito con un attacco general-generico che non pare molto coraggioso. “C’è uno scandaloso silenzio su questa vicenda” tuona il presidente. “Chi parla lo fa solo per dare la colpa a qualcun altro, senza approfondire” affonda il colpo senza precisare il destinatario, per poi sottolineare: “Aspettiamo un segnale, un ordine del giorno, una mozione, una convocazione da parte di qualcuno” (chi?). Fino all’appello finale ai cittadini-fan di Fb: “C’è un muro di gomma che dobbiamo rompere, e vi chiedo una mano. Condividiamo l’appello, facciamoci sentire, chiediamo risposte, pretendiamole”.
Roba da applausi, a prima vista, se non fosse che Rossi sa benissimo chi sono gli interlocutori a cui dovrebbe rivolgersi. E non da cittadino, ma da presidente della Provincia. Uno è il governo che è guidato dal suo segretario e che vanta, tra i ministri più in vista, il bergamasco, nonché suo capocorrente (“Sinistra è cambiamento”), Maurizio Martina. Gioca in casa, se non riesce a parlarci direttamente, veda di scambiare con loro almeno un tweet. Se non trova udienza, abbia il coraggio di dirlo ad alta voce, non limitandosi a parlare di un generico “scandaloso silenzio”.

L’altro soggetto da chiamare a render conto è la Regione. Qui Rossi è perfino avvantaggiato perché all’assessorato ai Trasporti c’è quell’Alessandro Sorte con cui, quando questi vestiva i panni di coordinatore provinciale di Forza Italia, ha firmato nientemeno che il “patto costituente” (perifrasi nobile di quello che non è altro che un inciucio) su cui si regge la maggioranza di via Tasso. Visto che si vedono anche in momenti di relax, forse è il caso di approfittarne. Non foss’altro per richiamare chi da un lato sostiene la Provincia e dall’altro, legittimamente dal suo punto di vista, attacca Renzi come l’affamatore degli enti locali. La lettera che gli ha mandato è opportuna, ma gli esercizi epistolari spesso si rivelano retorici e, alla fin fine, stucchevoli.

Insomma, detto in termini terra terra, Rossi deve decidere che ruolo vuole giocare. Se davvero crede fino in fondo in quello che fa, e ritiene che si sia arrivati ad un punto di non ritorno, non deve far altro che alzare la voce, chiamare ciascuno alle proprie responsabilità e, sulla base delle risposte, agire di conseguenza. Compresa la possibilità di rimettere il mandato. Se il gioco non sta in piedi chiamarsi fuori non è un gesto di vigliaccheria. E’ l’unico modo di dimostrare che il re è nudo. Darsi al populismo forse aiuta ad accrescere la popolarità su Facebook, non certo a risolvere i problemi.




Caso Mantovani, le avventurose teorie del presidente Maroni

Mario Mantovani e Roberto Maroni
Mario Mantovani e Roberto Maroni

Roberto Maroni non deve sottostimare la pur modesta intelligenza di noi poveri tapini. E’ lecito, anche se nient’affatto scontato, che il presidente della Regione voglia difendere il suo vice (nonché assessore alla Sanità fino ad agosto) Mario Mantovani, trasferito a San Vittore con pesanti accuse, dalla corruzione alla turbativa d’asta, ma gli argomenti che utilizza dovrebbe sceglierli meglio. Nell’immediatezza dell’arresto, colui che a colpi di scopa tolse la Lega dalle mani di Umberto Bossi, ha osservato che buona parte delle accuse rivolte all’esponente di Forza Italia non riguardavano “il suo ruolo istituzionale”. Come se uno potesse essere contemporaneamente un imprenditore corrotto e corruttore e uno specchiato amministratore pubblico. Ma con il passare delle ore è apparso evidente che i “magheggi” di Mantovani avvenivano in buona parte in forza dell’incarico rivestito al Pirellone. E quindi l’argomento è caduto. Così, Maroni si è lanciato in una difesa ancora più avventurosa. “Nella vicenda Mantovani non c’è un euro di tangenti» ha scritto su Twitter, del tutto incurante che le mazzette non s’usano più da lunga pezza, essendo state sostituite (come peraltro prevede il codice penale che parla non a caso di “denaro o altra utilità, anche di natura non patrimoniale”) da scambi di favori in diverse declinazioni. Quel che Antonio Di Pietro ha icasticamente definito “ingegnerizzazione della tangente”.

Tutte le accuse, naturalmente, vanno dimostrate, ma il tenero Maroni non può non provare un minimo di imbarazzo nel leggere con quale disinvoltura uno dei suoi principali collaboratori ha utilizzato i suoi molteplici ruoli (assessore, senatore, sottosegretario, sindaco) per una gestione del potere a fini di tornaconto personale che fa impallidire i ras di Mani Pulite. Adesso che Mantovani è finito nella melma è facile per molti tratteggiarne la figura come una sorta di “faraone”, compresi taluni cronisti che alle spregiudicatezze del forzaitaliota non hanno mai fatto nemmeno il solletico e che ora sfoderano articolesse al curaro. Eppure, il male ha radici antiche e anche il presidente della Regione ne deve rispondere, politicamente parlando. Perché era evidente a tutti che c’era un conflitto d’interessi gigantesco nell’affidare la delega alla sanità (che in Lombardia significa l’80 per cento delle spese correnti) ad una figura che contemporaneamente, da patron di case di cura e di centri di assistenza con un fatturato annuo di decine di milioni di euro, incassa soldi dalla Regione. Dicevano i nostri vecchi che chi va al mulino s’infarina… Non sarà il caso di Mantovani, certo, ma un minimo di cautela e di attenzione, al di là degli equilibri di coalizione, non avrebbe guastato.

Così come il moralizzatore Maroni s’è guardato dal modificare quel meccanismo che fa dipendere le nomine dei direttori generali delle Asl e delle Aziende ospedaliere dai voleri dell’assessore (e tutt’al più dello stesso presidente). Il contenuto di taluni sms e di certe telefonate tra Mantovani e alcuni dirigenti mostra senza alcun bisogno di commento come la doverosa cortina di distacco tra i diversi ruoli è stata più e più volte spazzata via. Passare dalla familiarità al servilismo (sempre ben retribuito, naturalmente) fino allo scambio di utilità è un giochetto che può comprendere anche il candido presidente della Regione rimasto senza scope di ricambio.

Alla luce di tutto ciò, parlare di giustizia ad orologeria, di complotti, di tentativo di nascondere gli scandali romani significa semplicemente rinchiudersi in un fortino, nella speranza che il temporale passi e tutto possa scorrere come prima. Pia illusione, i conti alla fine dovrà farli anche Maroni e la sua mancanza di coraggio, pena capitale per chi fa politica, gli costerà cara. Certo più degli strilli e delle agitazioni delle minoranze che ora cercano di prendersi la rivincita dopo la sonora sconfitta di due anni fa. Bisogna conservare un minimo di memoria. La Regione a guida formigoniana crollò, proprio per mano della Lega, tra gli scandali. Il centrodestra in Lombardia toccò il punto più basso. C’erano tutte le condizioni per conquistare il Pirellone. A condizione di schierare un candidato all’altezza. Ma i vertici del Pd, a partire dall’allora segretario regionale Maurizio Martina con la testa già rivolta a Roma (dove adesso sta facendo molto bene), decisero di suicidarsi affidandosi al tenero Umberto Ambrosoli. Una figura tanto perbene quanto priva di carisma e di personalità. E così Maroni ha vinto la partita. Oggi che se ne criticano giustamente le scelte occorre avere l’onestà intellettuale di ricordare che scelte più adeguate e lungimiranti avrebbero potuto togliere la terra sotto i piedi, senza aspettare ancora una volta l’intervento della magistratura, a chi ha usato e usa il Pirellone per i propri comodi.




Il rito del tè inglese ora “seduce” anche i salutisti

téQuello che tiene uniti gli inglesi non è la regina, ma il tè, seguito dal cricket. Nessuno li disprezza, molti li amano, la maggior parte li accetta. Il tè è parte della vita quotidiana tanto quanto la tazzina dell’espresso lo è in quella italiana.

I numeri non mentono. Gli inglesi bevono una media di 165 milioni di tazze di tè al giorno ed il 98% di questi vi aggiungono del latte. Provate a chiedere una fettina di limone e vi guarderanno come se aveste chiesto il sale al posto dello zucchero. Insomma, se smettessero di bere tè, gli inglesi soffrirebbero di disidratazione.

Durante il mio viaggio in India uno dei momenti più memorabili è stata la visita ad una piantagione di tè, dove la nostra guida ci spiegava come lì venisse raccolto e prodotto esclusivamente “tè felice”, spiegando che il raccolto di fronte a noi sarebbe stato venduto all’asta, a Cochin e Guwahati in India, ma anche a Colombo in Ski Lanka, Limbe in Malawi e Jakarta in Indonesia. Non avevo proprio idea che questo prodotto venisse smerciato ancora come in epoca precoloniale. Pensavo andasse direttamente alla fabbrica, impacchettato e poi distribuito. Invece si vende all’asta, e chi compra deve negoziare fino all’ultima foglia.

Poi noi lo vediamo impacchettato in modo più o meno elegante, venduto a caro prezzo da Harrods e Fortunum and Mason o attraverso i supermercati e la grande distribuzione a prezzi molto accessibili. I turisti continuano ad acquistare le belle scatolette di metallo contenenti la miscela, irrinunciabile souvenir anche nel mondo della globalizzazione.

Pur godendo di ottima salute, e continuando ad influenzare l’immaginario popolare, il tè e le sue varianti ai vari sapori si sono evoluti molto negli ultimi anni.

La frenesia per cibi e bevande salutari ha fatto impennare il consumo di tè verde, specialmente tra donne e giovani. I dati parlano chiaro: una tazza su otto non è più di tè tradizionale, ma di una miscela verde o alle erbe che promette benefici per la salute. La caccia agli antiossidanti passa da quel che beviamo.

Negli ultimi due anni sono fioriti, specialmente nella zona est di Londra, bar specializzati in questa bevanda, da servire come cocktail, e quindi mescolati con alcol, o come Bubble tea, un drink asiatico da bere freddo con dei grani di tapioca. Bello da vedere, ma non sono sicura in fatto di gusto. Nel centro di Londra e nei grandi alberghi il rito dell’afternoon high tea si celebra a ritmo serrato, con prenotazioni e liste d’attesa per ogni giorno della settimana, dalle tre alle sette di sera. I turisti lo amano, affascinati dal rituale fatto di torte, pasticcini e tramezzini presentati in modo impeccabile, come in una commedia di Oscar Wilde.

Non solo più il tè delle cinque.

Sono inoltre spuntati molti nuovi brand, alcuni ancora di nicchia, altri che hanno conquistato un pubblico ampio e in crescita, che fanno leva su un consumatore giovane, informato e sensibile all’ecologia: dal tè etico di Hampstead Tea, coltivato senza sfruttare i braccianti e l’ecosistema, all’australiano T2, con un packaging accattivante e boutique simili a negozi di design, a Kusmi, costoso ma buonissimo, al più sofisticato e francese di Mariage Frères.

www.italiangirlinlondon.com