Treviglio rilancia Pezzoni. E l’etica va a farsi benedire

Giuseppe Pezzoni
L’ex sindaco di Treviglio, Giuseppe Pezzoni, ha ottenuto quasi 400 preferenze

Se volete capire com’è ridotto questo Paese non state ad ascoltare chi vi racconta i risultati delle ultime elezioni con il bilancino del farmacista in mano, barcamenandosi tra la non vittoria di Renzi (variante della non sconfitta di Bersani), il supposto trionfo del Movimento 5 Stelle (che va bene solo a Roma e Torino e per il resto o non c’è o fa la comparsa) e le beghe dell’improbabile coppia Salvini-Meloni contro Berlusconi sulle macerie del centrodestra che fu (ad eccezione di Milano). No, spingetevi fino a Treviglio, perché qui più che altrove è possibile misurare qualcosa che va al di là della ragionieristica conta dei voti, qualcosa che dovrebbe stare alla base della convivenza civile prima ancora che della contesa politica. Ed è quella parola fastidiosa, ma tanto carica di significato, che si chiama etica (od onestà se preferite metterla giù più piatta).
Un valore che stride fortemente con l’elezione a consigliere comunale di Giuseppe Pezzoni. Sì, proprio lui, l’ex sindaco che non più tardi di qualche mese fa è stato costretto a lasciare il palazzo di piazza Manara tra i fischi e le contestazioni dopo aver ammesso di aver dichiarato il falso vantandosi di una laurea mai conseguita. Provate a pensarci, siamo al cortocircuito totale. Una persona ritenuta (da sè e dai suoi stessi compagni di viaggio politici) non più degna di ricoprire l’incarico di sindaco nel volgere di un semestre viene riportata in municipio sull’onda delle preferenze (quasi 400, il secondo più votato).

La prima considerazione che viene in mente è che è stato tutto uno scherzo e tanto valeva rimanere in sella. Ma qui c’è poco da ridere. C’è un salto (nel vuoto) di qualità che non può non essere sottolineato. Perché passi che Pezzoni non abbia consapevolezza che il tradimento del patto di onestà che si contrae con i cittadini al momento della candidatura sia inescusabile. E passi pure (ma siamo nel campo delle estremizzazioni retoriche) che partiti pronti a tutto pur di non abbandonare la stanza dei bottoni decidano di affidarsi ad un ronzino vincente. Non può passare, invece, che ci siano centinaia di elettori che considerino un falso (che è valso, tra le altre cose, l’incarico di dirigente dell’Istituto dei Salesiani che, forse non ancora del tutto secolarizzati, si sono precipitati a denunciare la malefatta) come un orpello del tutto irrilevante. Una crosticina su un corpo levigato e splendente.
Come se per Pezzoni valesse quel che si diceva ai tempi di Tangentopoli di un intraprendente ministro bresciano. “Non sarà pulito, però lui le strade le costruisce…”. E infatti a Treviglio non son pochi quelli che dicono “avrà detto il falso, ma come sindaco non c’è nessuno meglio di lui”. E così, all’insegna di un poco orobico scurdammoce ‘o passato, tutto si azzera e si ricomincia. Poco poco, vista la mole di preferenze, a Pezzoni sarà affidato un assessorato e la falsa laurea finirà nel cassetto del folklore.
Treviglio, Italia.

Questo è il Paese. Quello dove un leader pieno di conflitti d’ interesse e subissato di inchieste (con annessa condanna per evasione fiscale) viene più e più volte sommerso di voti. Dove un candidato alla Regione Campania alle prese con una condanna per abuso d’ufficio viene portato in trionfo. Dove il fondatore di un movimento e la sua intera e allargata famiglia vivono alle spalle dello stesso movimento per anni (e tutti lo sanno, ma fanno le vergini solo di fronte allo scoppio della tradizionale inchiesta che solleva il coperchio) tra idolatrie e osanna. Dove, inutile che ce la raccontiamo, ciascuno di noi invoca per gli altri il rigoroso pagamento di tasse, imposte e balzelli varia, salvo cercare in ogni modo di schivarle per sé.
E allora, forse, il problema non è Pezzoni, non sono i trevigliesi che l’hanno votato. Quella è solo la febbre. Il dramma è che non abbiamo più nemmeno la capacità di guardare il termometro.




Il tax freedom day arriva prima, ma per i contribuenti resta l’ “inganno”

tasseIl tempo di celebrare il 2 giugno la Festa della Repubblica e il giorno seguente è il «tax freedom day», ovvero la data della liberazione fiscale che, quest’anno arriva dopo 154 giorni di lavoro, tre in meno rispetto al 2015, quando la scadenza cadeva il 7 giugno. Il “tax freedom day” segna lo spartiacque della pressione fiscale: dal primo gennaio fino a quella data quanto si è guadagnato è stato destinato al Fisco, dal giorno successivo fino a fine anno si lavora per il proprio interesse. Il calcolo arriva dall’Ufficio studi della Cgia, l’organizzazione degli Artigiani di Mestre, che ha esaminato il dato di previsione del Pil e lo ha diviso per i 365 giorni dell’anno per ottenere un dato medio giornaliero. Il gettito di imposte, tasse e contributi che gli italiani versano allo Stato è stato quindi rapportato al Pil quotidiano, ottenendo così il «giorno di liberazione fiscale» che appunto arriverà il 3 giugno, meno di due settimane prima del grande ingorgo tributario del 16 giugno quando tra Imu, Tasi, Irpef, addizionali, Irap, Ires, Iva e Tari gli italiani verseranno più di 51 miliardi di euro al Fisco. I tre giorni in meno sotto il giogo del fisco nel 2016 sono dovuti a un calo di gettito di oltre 5 miliardi legato soprattutto alla quasi totale abolizione della Tasi sulla prima casa. E se la situazione è un po’ migliorata rispetto al 2015, non va dimenticato che vent’anni fa, nel 1996, la liberazione fiscale avveniva il 29 maggio, ovvero cinque giorni prima.

In ogni caso, le elaborazioni della Cgia confermano che quando il premier Renzi proclama che il peso fiscale si sta riducendo non dice una bugia. Ma non dice nemmeno la verità. Tutto dipende da cosa si considera come tributo. Se ci si limita a guardare l’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, in effetti non ci sono aumenti perché le aliquote sono sempre le stesse e il peraltro minimo drenaggio fiscale, ovvero il passaggio ad aliquote superiori per effetto dell’inflazione, è comunque compensato dall’introduzione di nuove detrazioni. Se si guarda alla fiscalità sugli immobili c’è stato complessivamente un calo dovuto alla già citata parziale esenzione della Tasi sulla prima casa. Ma se le tasse sono la somma pagata per la prestazione di un servizio offerto da un ente pubblico, allora la data di liberazione fiscale dovrebbe scivolare nuovamente in avanti perché quella di far pagare servizi pubblici prima gratuiti (o meglio, a carico della fiscalità generale) è la strada che gli enti locali stanno percorrendo sempre più spesso per compensare i tagli operati dal governo centrale. Che così può senza tema di smentita dire di stare riducendo l’imposizione anche se il contribuente non ne vede gli effetti, dato che il suo reddito sfuma comunque.

Solo che questo avviene sotto un’altra forma, quella di maggiori prelievi dalla fiscalità locale, non solo in termini di incremento delle tariffe. Per restare a Bergamo è questo quello che sta accadendo, ad esempio, con il prossimo pagamento dei parcheggi anche di domenica. Si tratta solo dell’ultimo tassello di una trafila di servizi che prima il pubblico non faceva pagare e adesso lo fa, dall’ingresso nei musei cittadini al “contributo volontario” per acquistare materiale di consumo nelle scuole. La giustificazione che anche in altre città, in particolare Milano, si paga il parcheggio di domenica – “dimenticando” però che in molte altre questo non avviene, o per quanto riguarda i musei, che a Londra sono gratuiti nientemeno che il British Museum e la National Gallery – apre ampi scenari di emulazione inquietanti per i contribuenti. Dato che a Milano, ad esempio, si paga già l’ingresso nella zona centrale, come del resto avviene in provincia per alcune strade di montagna, potrebbe essere a questo punto il prossimo passo. Per inciso quella dei parcheggi a pagamento sembra una formula in decisa contraddizione con tutti gli appelli per rivivificare il centro. D’accordo sul fatto che ci sono necessità di cassa da parte del Comune, ma i conti li fanno anche i cittadini che piuttosto di spendere sei euro per tre ore di struscio per il centro se ne vanno in un posto dove il parcheggio è gratis e con i soldi risparmiati si comprano due gelati. Alla salute di Palafrizzoni e nel tentativo di portare ancora un po’ indietro nel calendario la data della liberazione fiscale.




Banche e Nord Est, quei campioni del capitalismo figli di un Paese malato

banca-popolare-di-vicenza-filiale

 

Eh sì, ammettiamolo. A furia di dare addosso alla classe politica (e non che non ce ne vengano fornite ragioni ogni giorno) ci siamo dimenticati di guardare anche altrove. Per esempio, in casa di quella classe imprenditoriale, e dirigente in generale, del mitico Nord Est che per decenni ci è stato dipinto come modello insuperabile di virtù. Quanta retorica e quante parole al vento. Perché basta leggere le cronache economico-finanziarie di questi ultimi mesi per rendersi conto, amaramente, di quante vittime abbia fatto quella sorta di ubriacatura generale che ha impedito di vedere ciò che forse chiunque, a parte chi lo doveva fare per compito istituzionale, poteva cogliere.

Avete presente i tracolli della Banca Popolare di Vicenza prima e di Veneto Banca poi? Tra l’una e l’altra se ne sono andati in fumo oltre 11 miliardi. L’equivalente di una (o due) Finanziaria. Soldi di capitani d’industria, di società, di enti religiosi (compresa l’Opera diocesana San Narno della Curia di Bergamo), ma anche di migliaia di piccoli e grandi risparmiatori. Una montagna di quattrini, è bene sottolinearlo, che stavolta non è stata dilapidata dal governo ladro o dal solito politico lestofante che si è arricchito alle nostre spalle. No, no, il cratere è stato scavato, con una voracità invero pazzesca, con le benne che portano impresso il marchio della meglio imprenditoria del Nord Est. Un nome su tutti, tanto per capire di che parliamo. Alla testa della Popolare di Vicenza c’è stato per quasi vent’anni un certo Gianni Zonin. Uno che con le aziende di famiglia ha fatto faville, costruendo un vero e proprio impero preso ad esempio in Italia e nel mondo. Peccato che da presidente della Banca non abbia visto, o si è distratto, o è stato complice (lo stabilirà l’autorità giudiziaria), i magheggi e le manovre spericolate che hanno portato all’azzeramento del valore del titolo e al conseguente falò di tanta ricchezza accumulata nei decenni. E come lui, i tanti industriali e signorotti dell’economia veneta che facevano a gara per sedere nel board dell’istituto.

Davvero una bella nemesi, non c’è che dire. Chi doveva essere il modello di gestione (e come tale si poneva rispetto alla politica, soffiando nelle vele di chi propugnava palingenesi radicali), ha dimostrato, nei fatti e non con le parole, di essere assolutamente inadeguato (volendo essere buoni e tralasciando per il momento eventuali responsabilità penali) sia in termini di trasparenza che di efficienza. Altro che Roma ladrona e altri simili slogan risuonati negli ultimi vent’anni tra i colli e le valli venete. I campioni del capitalismo del Nord Est, se possibile, si sono rivelati peggiori di chi un giorno sì e l’altro pure volevano bruciare sulla pubblica piazza.
Sarà bene prenderne atto. Non per rivalutare la politica, ché sarebbe esercizio vano, quanto per riportarci tutti alla nuda e cruda realtà. Non c’è, non c’è mai stata, una società civile migliore o superiore alla classe politica. Purtroppo, bisogna aggiungere. Ma se non si riparte da lì, se non acquisiamo la consapevolezza che il Paese nel suo complesso è malato nel profondo, sarà ben difficile uscire dal pantano in cui siamo immersi fino al collo.

 




L’omicidio di Sara e gli insopportabili leoni da tastiera

Sara Di Pietrantonio, la ragazza bruciata via dal suo ex
Sara Di Pietrantonio, la ragazza bruciata viva dal suo ex

In questi giorni, su Facebook, i commenti pensosi riguardano soprattutto la povera ragazza romana, strangolata e bruciata dal suo ex fidanzato. Una storia terribile, che, comprensibilmente, ha suscitato raccapriccio e sdegno in quel vasto e variegato mondo che forma l’esercito degli editorialisti inediti. In linea di massima, i commenti si dividono, piuttosto equamente tra chi si augura che l’assassino rimanga in carcere vita natural durante, con annesso lancio delle chiavi della cella, e chi se la prende con i due automobilisti cui la povera ragazza avrebbe chiesto, inutilmente, aiuto, prima di venire uccisa. Premesso che non ho la minima idea del contesto in cui è maturato questo ennesimo, spaventoso, delitto, vorrei fare un paio di considerazioni delle mie sulla reazione del popolo della rete. La prima è riferita a quelli che auspicano un ergastolo effettivo per il truce omicida: scordatevelo. E ve lo dovete scordare perché, in questo buffo e triste Paese, quelli che, come voi, protestano animatamente per i femminicidi, per solito, sono gli stessi che ritengono che il carcere sia diseducativo, che hanno partorito le varie leggi Gozzini, che stanno sempre dalla parte di quel Caino che nessuno dovrebbe toccare. Ecco, questo signore, che ha strozzato e bruciato la propria ex fidanzata, una ragazza di ventidue anni, è Caino: pochi meglio di lui potrebbero interpretare il ruolo del segnato da Dio, che ha ammazzato il fratello per futili motivi.

E, dunque, a questi signori del dolore, a queste vestali della comprensione, non posso che dire: volevate Caino? Eccolo qua. Guardatelo bene in faccia: è uno qualunque, che, per la fine di un rapporto che, evidentemente, non sapeva accettare, ha ucciso la ragazza di cui era innamorato e l’ha bruciata. E’ questo, Caino: non ha la faccia bieca degli aguzzini delle SS. Nessuno deve toccarlo? Benissimo: poi, però, non ci menate il torrone con la violenza sulle donne, perché, probabilmente, un assassino ucciderà comunque, ma, senza qualche forma di deterrente, lo farà sicuramente più a cuor leggero. E voi, gente da botte piena e moglie ubriaca, accettate, una buona volta, il prezzo delle vostre corbellerie buoniste: il male esiste e non si sradica con le chiacchiere. Se un omicida, che è fondamentalmente un vigliacco, sa che, se lo beccano, marcirà per sempre in una galera, almeno un pensierino in più sulla convenienza di uccidere state certi che lo farà. Quanto al riflettere sulla valenza morale dell’omicidio: cosa volete che rifletta uno così? C’è una sola cosa che questo genere di persone arriva a capire: il caso in cui non gli conviene sgarrare. E, sapendo che certamente non la pagherà cara, sgarrerà più sereno. Quanto, poi, ai commentatori che se la prendono con quelli che non si sono fermati e che, a dir loro, dovranno portarne in eterno il rimorso sulla coscienza, rispondo facile facile: sicuri che voi vi sareste fermati? Alle tre e mezzo di notte, vi sareste fermati per far salire in auto una ragazza sconosciuta che domanda aiuto: non avreste, per caso, pensato al solito trucco per derubarvi, oppure al fatto che qualcuno avrebbe potuto prendersela con voi, magari sparandovi?

Perché non viviamo precisamente in tempi rassicuranti: io, che normalmente mi fido del prossimo e non sono precisamente uno che si tiri indietro, sono stato derubato alle cinque del pomeriggio, in via Gavazzeni, da una ragazzotta armata di coltello, che mi aveva chiesto un passaggio al ponte di Boccaleone. Poca roba, cinquantamila lire, e lei era evidentemente una tossica: avrei potuto darle due pappine, ma ho preferito darle i soldi. Fatto si è che, a concedere un passaggio, che vi piaccia o no, cari i miei figli dei fiori, si rischia: immagino che, alle tre del mattino, questo pensierino possa pure sfiorarvi. Dunque, come la mettiamo? Tutti eroi voialtri leoni da tastiera? Tutti pronti a rischiare chiappe, denaro ed automobile per scendere in lizza, come un cavaliere antico, a difesa della donzella in pericolo? Ma non fatemi ridere: piagnucolosa banda di pacifisti da tinello. C’è un solo modo per limitare i danni: e quel modo si chiama, che vi piaccia o meno, repressione. E’ un circolo vizioso: insicurezza, paura, impunità, sfacciataggine. Bisognerebbe invertirlo e renderlo virtuoso: sicurezza, tranquillità, certezza della pena, prudenza. Lo so che parlo ai muri e che nessuno mai penserebbe di collegare due cose tanto, apparentemente, distanti, come questo dramma d’amore malato e la sicurezza dei cittadini. Eppure, forse, in un altro contesto civile, quegli automobilisti si sarebbero fermatevi. Pensateci.

 




Ubi? Non trattiamola da supereroe del sistema bancario

veneto bancaUbi Banca è da tempo tirata per la giacchetta per intervenire a salvare altri istituti, neanche fosse un supereroe del sistema bancario. Forte di un patrimonio eccedente le strette necessità, ma che comunque non può essere sprecato, alcuni la vorrebbero intervenire al capezzale del Monte dei Paschi, altri a sostegno degli istituti veneti. Eppure data la situazione incerta, e probabilmente con molti scheletri nelle casseforti, dei candidati, se Ubi decidesse di proseguire nella sua aurea solitudine non le si potrebbe dare torto. Gli ultimi insistenti rumors riguardano un possibile intervento in Veneto Banca. Le ipotesi di crescita verso Est si rincorrano da tempo: c’è stato qualcosa di più di un interessamento con l’istituto veronese che ora sta dando vita a Banco Bpm, ma si era parlato anche di Popolare Vicenza e di Veneto Banca. “Sistemata” la Popolare di Vicenza con il fondo Atlante, resta quindi soltanto l’ipotesi dell’ex Popolare, ormai Spa, con sede a Montebelluna. Ed è auspicabile che al momento questa resti soltanto un’ipotesi o neanche questo, come del resto continua a sostenere la stessa Ubi banca con ripetute smentite sul fatto che sia aperto un dossier.

Ci sono fondati motivi per i quali l’operazione non appare particolarmente allettante. Innanzitutto perché si sta per preparare un aumento di capitale da un miliardo a servizio dell’Ipo dall’esito molto incerto, tanto che non si esclude un intervento del fondo Atlante. Esattamente come avvenuto poco tempo fa alla Popolare di Vicenza, dove il Fondo versando 1,5 miliardi si è trovato con il 99% del capitale, dato che la sottoscrizione si era fermata all’8%, nonostante il prezzo stracciato (0,1 euro per azioni che tre anni prima erano state collocate a 62,5), peraltro adeguato al valore dell’istituto. Anche per Veneto Banca (nella quale è confluita alcuni anni fa la Banca di Bergamo) si prospetta un aumento di capitale che farà diluire la quota degli attuali soci, anche se non in maniera così netta come nella Vicenza. Del resto in occasione della trasformazione in Spa di fine 2015 è stato fissato un diritto di recesso ai soci Veneto Banca a 7,3 euro ad azione, a fronte dei 30,5 euro del valore (attribuito dalla banca stessa) di un anno prima.

Le criticità a Montebelluna del resto non mancano e vanno dai dubbi legati alla mole dei crediti deteriorati, conseguenza anche di una crescita vertiginosa avvenuta attraverso acquisizioni senza guardare troppo per il sottile, alla bassa redditività e al calo dei depositi. E poi ci sono le stime del piano messo a punto dal nuovo Ceo Cristiano Carrus (ex Creberg), che prevedono un utile di 152 milioni al 2018 e di 249 milioni al 2020, ritenute dagli analisti troppo ottimiste. Tra i «pro», invece, c’è l’opportunità del consolidamento. Veneto Banca, infatti, per Banca Imi, l’investment bank di Intesa Sanpaolo (capofila del consorzio di garanzia che garantisce l’aumento di capitale, salvo futuro intervento del fondo Atlante ), è un candidato potenziale nel risiko grazie alla forte presenza in zone attraenti e allo spazio per potenziali sinergie. Se proprio il Fondo Atlante, che già controlla la Popolare di Vicenza, dovesse intervenire anche in Veneto Banca, si troverebbero sotto lo stesso cappello due istituti che in passato si erano corteggiati senza però arrivare all’accordo. Ma dato che potrebbe intervenire il Fondo Atlante a fare il lavoro sporco dell’aggregazione e soprattutto della sistemazione delle sofferenze dei prestiti (o Npl-non performing loans), non dovrebbe intervenire Ubi che ha disposto una partecipazione con 200 milioni al Fondo, ora dotato di 4 miliardi, proprio per non affrontare il problema degli Npl e di evitare interventi diretti che peserebbero sui bilanci.

Acquisire una quota importante, se non il controllo di Veneto Banca, in sede di aumento, vorrebbe dire infatti esporsi a un esborso di cassa comunque importante, assottigliando pericolosamente i suoi cuscinetti patrimoniali. E in questa fase congiunturale ricostituirli con un aumento di capitale non è operazione dall’esito scontato. Inoltre si assumerebbero rischi rilevanti per l’ampiezza del portafoglio crediti deteriorati, per le pendenze legali legate alla vendita di azioni ai clienti e per le difficoltà sul fronte della raccolta e dei ricavi e in generale della gestione operativa. Se proprio Ubi fosse interessata a Veneto Banca lo potrà fare con minori rischi quando la situazione si sarà meglio definita e stabilizzata. Sarà importante, a questo proposito, vedere come e a che prezzo sarà concluso l’aumento di capitale e da chi sarà formato l’azionariato dopo l’operazione. In questo momento in ogni caso l’istituto ha bisogno di risorse fresche, che Ubi Banca non ha intenzione di farsi drenare, mentre dopo l’aumento di capitale, se Veneto Banca avrà riportato i suoi indici patrimoniali sopra il livello stabilito dalla Bce, un’eventuale operazione potrebbe anche essere impostata carta contro carta. Ma al momento è solo un’ipotesi che si potrà verificare nei prossimi mesi, o forse anche di più. Quando magari l’interesse potrebbe essere per un più succulento pacchetto “Popolare Vicenza-Veneto Banca” ora inesistente.

 

 




Pagnoncelli applaude Renzi, che “spettacolo” al Sociale

Matteo Renzi per dare sostegno al sì al referendum costituzionale di ottobre si diverte (di conserva con la sua ministra alle Riforme che predilige i paragoni azzardati e le distinzioni capziose) a mettere alla berlina gli avversari, dipingendoli di volta in volta come gufi o rosiconi, voltagabbana o inciucisti. Chissà se guardando la platea del teatro Sociale di Città Alta, dove ha voluto tenere a battesimo la sua campagna, si sarà imbattuto nel faccione rubicondo di Marco Pagnoncelli. Sì, proprio lui: il senatore ora approdato sulla scialuppa guidata dal prode Denis Verdini ma con un passato sulla tolda del transatlantico berlusconiano. Già fedelissimo del Silvio nazionale, poi folgorato dal Celeste (alias Roberto Formigoni), macerato dai tormenti esistenzial-politici, era poi finito sulla corvetta di Raffaele Fitto.

Marco Pagnoncelli
Marco Pagnoncelli

Un’imprudenza per un riconosciuto uomo di potere come lui. E infatti, tempo pochi mesi ed eccolo confluire verso il centro di gravità permanente del Vicerè toscano dalla chioma leonina. Forse Renzi non se n’è accorto, o forse lui non si cura dei cosiddetti “de minimis”, ma un compagno di strada così (per tacere dei vari D’Anna, Barani e Falanga, autentici statisti mancati) rientra a pieno titolo, politicamente parlando s’intende, tra coloro che meritano di essere indicati al pubblico ludibrio. A qualcuno del Pd che conserva ancora un po’ di senso del pudore vedere Pagnoncelli spellarsi le mani per gli strali renziani contro gli inciucioni ha provocato gelidi brividi lungo la schiena. Ma, appunto, trattasi di pochi benpensanti che non han capito come sono gli usi della casa.

Il premier, per quanto di matrice democristiana, applica la più classica doppiezza togliattiana. Inflessibile con i difetti di avversari e oppositori interni, morbido e comprensivo con quelli dei suoi amici e della corte dei miracoli con cui ama circondarsi. Il male, o il marcio, è per definizione dall’altra parte. Di qua c’è chi vuole bene all’Italia, chi si batte per il progresso, chi vuole ridare speranza. Di là, invece, sono concentrati i peggiori: quelli che vogliono lo sfascio, che difendono le poltrone, che vorrebbero riportare il Paese all’età della pietra. Un manicheismo da asilo infantile che risulta grottesco sulla bocca di chi è stato investito del ruolo di governo e aspira a passare alla storia come un leader innovatore.

C’è da augurarsi che il presidente del Consiglio rinsavisca presto e assuma toni e contenuti più istituzionali. Ne ha solo da guadagnare.  E’ vero che si sente un piccolo (!) Napoleone con quel suo “dopo di me il diluvio”, ma se continuerà a legare la sopravvivenza sua e del suo governo all’esito positivo del referendum otterrà solo di portare sul fronte del no anche quanti sono favorevoli nel merito alle riforme ma non condividono le scelte politiche dell’esecutivo. Se fosse davvero quel politico dotato di doti sopraffine che crede di essere lo avrebbe capito da tempo. Ma forse gli sarebbe bastato anche solo consultare i libri di storia. Gli uomini solo al comando agli italiani piacciono. Con un particolare: così come ne rimangono folgorati, così se ne disamorano. E i piccoli grandi fenomeni (da Fanfani a De Mita, da Craxi a Berlusconi) lasciano il proscenio tra i fischi.




Perché noi bergamaschi siamo dei poveri fessi

tutor-comoTorno or ora, come ogni maggio che Dio manda in terra, dal festival della storia di Gorizia: una kermesse da 45.000 presenze in tre giorni, cui gli organizzatori dimostrano la bontà di invitarmi. Non ho intenzione, tuttavia, di attaccarvi la solita mella su quanto siano bravi i Goriziani ad organizzare manifestazioni storiche e quanto ne siano incapaci da queste parti. Dopo la boutade dell’assessore che fa iniziare la Grande Guerra il 23 di agosto, presumo che non valga la pena di spendere altre parole sull’argomento. No, le mie considerazioni sono di altro genere, e riguardano aspetti che travalicano una valutazione semplicemente politico-amministrativa, per invadere il campo dell’antropologia o, se preferite, della psicosociologia. Insomma, per farla breve, ho elaborato la forte convinzione che noi siamo i più cretini d’Italia. Noi Bergamaschi, intendo: pensiamo di essere chissà quali furboni, invece siamo dei poveri fessi. Tutto ce lo urla a chiare lettere, ma noi, caparbiamente, procediamo col crapone basso,e  non ce ne accorgiamo.

Cominciamo dai trasporti: sorvolo sul fatto che, nel nostro territorio, abbiamo un’autostrada intasata come lo scarico di un bidet ed un’altra che non serve a nulla e che costa come il fuoco. Tra Milano e Brescia, ossia dove ci siamo noi, funziona un affaretto che si chiama “tutor”, anche se dovrebbe chiamarsi “fregator”, visto che frega e non tutela: il “tutor”, se la tua velocità media è superiore a quanto stabilito dal codice, ti bacchetta, a suon di multone. Il che sarebbe buono e giusto, se la cosa funzionasse ovunque così: se la legge, una volta di più, si dimostrasse uguale per tutti. Perché, credete che in tutta Italia esistano questi simpatici oggettini che controllano la velocità di crociera degli automobilisti? Nemmeno per sogno: tornando da Gorizia sono stato superato da ogni sorta di veicolo a quattro e due ruote per cui i limiti di velocità sembravano essere lirica trecentesca. Dovendo deviare su Conegliano, per evitare una coda gigantesca, ho potuto apprezzare le virtù velocistiche degli utenti delle Autovie Venete, che, tra Portogruaro e Sacile abbattono il muro del suono con peculiare assiduità. Insomma, noi paghiamo e loro corrono.

Ma veniamo all’annosa questione dei parcheggi, su cui, a Bergamo, si scrive e si dice di tutto: a Gorizia, le zone blu sono relativamente poche, non esistono autosilos perché la gente parcheggia in parcheggi pubblici gratuiti, esattamente come si faceva anche da noi, quando i bilanci comunali erano meno periclitanti: senza troppe balle, senza chiacchiere ecologiche, senza scuse, i Goriziani lasciano l’automobile, anche in centro, parcheggiata nelle piazze e ai bordi delle vie, e vanno in giro a piedi. Certo, Gorizia è piccolina: siccome, invece, a Bergamo, per andare a piedi dalla Torre del Galgario a piazza Pontida ci vogliono due mesi, ecco spiegati gli inghippi. O non sarà che questa bella storia dei parcheggi sia soltanto un sistema per spennare la gallina dalle uova d’oro, ossia noialtri babbalei nati tra i due fiumi?

E veniamo al costo della vita, ossia alla sopravvivenza, che è materia di cui m’intendo ben più che di storia. A Bergamo, tutto quanto, dagli affitti ai taxi, dai campi da tennis alla biancheria, costa mediamente più che altrove: non parlo della Sila o del Campidano, parlo di province limitrofe o analoghe alla nostra. Dunque, mi domando e vi domando in cosa possa consistere questo valore aggiunto: qual è il fattore che fa lievitare i prezzi bergamaschi. Io ho il sospetto che la cosa possa, in parte, derivare da una certa mancanza di arbitrio ‘elegantiarum’ da parte dei clienti orobici, ma non si può spiegare tutto con le sciurette a caccia di griffe. Piuttosto rimarcherei l’idea di tontaggine, perché, anche qui, noi ci dimostriamo dei tonti: ci sorbiamo le chiacchiere del venditore, laddove dovrebbero essere il leguleio ed il retore ad usare bene le parole, e i venditori le merci, va da sé. Ascoltiamo rapiti, annuiamo, ordiniamo ed imbustiamo paccottiglia, magari beandocene: tanto può la suggestione sul raziocinio. E potrei continuare a lungo ad elencare materie in cui il Bergamasco mantiene, con i suoi donativi, il resto del Paese, oppure dove si fa gabbare da qualche dulcamara.

Un ultimo esempio: la manutenzione stradale. Uno capisce di essere arrivato a Bergamo anche solo dai rimbalzi dei propri ammortizzatori: l’asfalto dell’asse interurbano è imbarazzante. Eppure, qualcosina in tasse lo scuciamo, tutti assieme: dove vanno a finire quei cumuli di palanche? Ma, tanto, chi dilapida, chi ci frega, chi fa pagare a noi per le magagne di tutti, sa benissimo che il vero carattere della razza bergamasca non consiste nel rimanere come brace sotto la cenere, sibbene come mulo sotto il basto o, se si preferisce, come il pio bove, solenne come un monumento, ma bovinamente disponibile a trarre l’aratro dove il bifolco desideri, con pia e bovinissima solerzia. Ecco, questo pensavo, tornando da Gorizia: che noi siamo proprio condannati, dal nostro peggior difetto, che è anche la nostra maggior virtù, ad essere sempre trattati come i più pirla del reame, per la nostra proverbiale tendenza a rispettare le regole, a starcene in coda, a pagare il dovuto, a contribuire, insomma. Mi piacerebbe immaginare che, come Brighella, a forza di fregature, ogni tanto mettiamo mano al bastone: ma questo, ahinoi, succede solo nelle commedie dell’arte. Nella commedia che si chiama Italia, siamo irrimediabilmente condannati a subire supinamente. E, a giudicare dal successo di pubblico e di critica di certi personaggi locali, verrebbe quasi da pensare che, in fondo in fondo, ci faccia perfino piacere.




Fusioni bancarie, quando l’aritmetica diventa un’opinione

banca popolare milanoLe chiamano fusioni e nell’ingenuità dell’etimologia si pensa che portino ad un aumento del volume. Invece nelle banche, ma anche in altri settori, l’aritmetica è proprio un’opinione e la somma di uno e uno spesso non dà due, ma qualcosa di meno. A volte uno e mezzo è già un buon risultato perché le fusioni sono quasi sempre sinonimo di razionalizzazione. Non sono più i tempi della massa necessaria per crescere. Adesso le dimensioni sono soprattutto un costo. Da ridurre. Perché in questo modo si riesce a recuperare la redditività che va persa su altri fronti, non necessariamente per incapacità. Del resto i tassi negativi rendono difficile fare banca tradizionale e qualcosa si deve pur fare, anche solo per sopravvivere, in attesa e nella speranza che i tassi sotto zero non siano la nuova normalità. L’unione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, quella che forse sarà solo la prima delle fusioni che vedono e vedranno al centro le popolari, ex o in procinto di esserlo, non fa eccezione nel fatto che uno più uno non fa due. Secondo il piano industriale appena presentato, la prospettiva è che uno più uno faccia uno per quanto riguarda gli sportelli e circa uno virgola otto per quanto riguarda l’occupazione.

Il ministro dell’Economia  Padoan sostiene che di banche ce ne siano troppe, dall’Associazione bancaria italiana ribattono che troppi semmai sono gli sportelli. Di fatto per il Banco da una fusione (Italiana) all’altra (Bpm), anche se non necessariamente per la razionalizzazione e per l’eliminazione di sovrapposizioni, è andata persa quasi una banca, nell’aspetto esteriore di filiali e personale. Nel 2006, dalla fusione tra l’allora Banca Popolare Verona e Novara e la Banca Popolare Italiana, l’ex Lodi, nasceva un gruppo, il Banco Popolare, con 21.433 dipendenti e 2.223 sportelli. Nel 2019, secondo il piano industriale, il futuro gruppo Banco-Bpm, dal nome non ancora definito, avrà 2082 sportelli: in pratica, nonostante l’apporto delle 655 filiali della Popolare di Milano, la rete avrà meno agenzie di quelle che aveva il solo Banco alla sua nascita. E questo senza contare che il gruppo ha messo in prospettiva l’obiettivo di scendere ulteriormente a 1700-1800.

Passando invece al personale, la somma di Banco (16.792 dipendenti a fine anno) e Bpm (7.743 dipendenti) porta inizialmente a un organico di circa 24.500 dipendenti, un numero destinato però con il piano a retrocedere nel 2019 ai livelli che dieci anni fa aveva il solo Banco. Sono infatti state annunciate sovrapposizioni e duplicazioni di ruoli per 2.600 persone, delle quali solo circa 800 possono essere recuperate (per non dire “riciclate”) in nuovi ruoli, come i team dedicati al private, gli specialisti corporate, la task force sviluppo, le filiali digitali e la unit “non performing loans”. Va precisato che le fusioni sono un’occasione per procedere al ridimensionamento e fanno da catalizzatore a un processo in atto per conto suo. La stessa Abi ha rilevato come in conseguenza dell’aumento dei clienti dell’home banking (i servizi che gli istituti offrono on line), aumentati in un anno del 12,4% (25,2 milioni di dicembre 2015 contro i 22,4 milioni di fine 2014) gli sportelli tradizionali sono calati del 2,1%, scendendo da 30.740 a fine 2014 a 30.091 a fine 2015. E lo sfoltimento della rete non accenna a diminuire, perché nessun istituto può più permettersi il lusso di una filiale che non rende.

Questo crea un problema nell’occupazione, perché mentre nelle fusioni di non molti anni fa gli esuberi da duplicazione nella sede potevano avere uno sfogo nello sviluppo della presenza commerciale, adesso altro personale in eccedenza arriva proprio dal calo degli sportelli. Contrariamente a quanto avviene nell’industria, però l’uscita del personale nelle banche non è mai stata finora un problema. In genere anzi ci sono più dipendenti che vogliono uscire di quelli che la banca è disposta a fare andare via. Anche al Banco-Bpm le uscite saranno su base volontaria, con prepensionamenti, grazie al ricorso al fondo ad hoc alimentato dal settore.  Il problema che si pone però è: quanto è capiente questo fondo? E come potrà andare avanti se il personale continua a uscire e le banche che lo alimentano continuano a calare? Sarà un problema del futuro: intanto “avanti, con il ridimensionamento”.

 




Pannella, il guerriero controcorrente che “odorava di bucato”

Marco Pannella è morto oggi all'età di 86 anni

Non avevamo nemmeno diciotto anni quando, armeggiando con la vecchia radio, ci imbattemmo per la prima volta nella sua voce. Erano le frequenze di Radio Radicale, quel tribuno dall’eloquio colorito e torrentizio era Marco Pannella. Assolutamente digiuni di politica, ancora discretamente lontani dall’ingresso in quel mondo giornalistico che poi sarebbe stato il nostro acquario, rimanemmo letteralmente folgorati dalla forza e dal carisma di quell’omone dalla chioma candida che oggi tutti rimpiangono, compresi i tantissimi che lo hanno avversato in vita o non gli hanno riconosciuto i meriti che aveva.

Quante ore passate ad ascoltare i suoi comizi e quelli della sua corte dei miracoli radicale, quante notti insonni per vivere in diretta i lavori del Parlamento o i congressi di partito. Essere d’accordo o non con le sue idee era del tutto irrilevante. Né mai ci ha sfiorato anche solo l’idea di prendere la tessera del Partito radicale (e Dio sa quante volte Pannella ha lanciato campagne di reclutamento vagamente ricattatorie: “o la tessera o chiudiamo tutto”). Ci ha svezzato alla politica, ci ha offerto una visione alternativa, a volte così radicalmente opposta a quella tradizionale della Prima Repubblica, di cosa significa battersi per le cause in cui si crede. Fino al proprio sacrificio personale, compresi i tanti scioperi della fame e della sete che pur non ci hanno mai persuaso del tutto. Per i nostri valori di riferimento, a volte vicini a volte lontani, Pannella è sempre stato un termine di confronto. Era bello condividere le battaglie, ma lo era ancora di più ascoltare con quale veemenza cercava di convincere gli interlocutori che non la pensavano come lui.

Certo non le ha azzeccate tutte. Candidare Cicciolina o Toni Negri, pur situazioni diversissime, è stato un errore di sottovalutazione. Anche se quelle scelte, viste con gli occhi di oggi, sono meno dissacranti dell’immagine dell’istituzione di talune facce di attuali ministri e parlamentari. E anche sulla liberalizzazione delle droghe leggere, che pure è tema che si presta a opinioni legittimamente divergenti, non è riuscito a vincere la diffidenza (o la paura). Ma che dire della battaglia per e con Enzo Tortora? Oggi che si ciancia tanto di politica e giustizia bisognerebbe avere l’umiltà di andare a ripercorrere quella vicenda, studiare con quale rispetto delle istituzioni l’allora presentatore televisivo visse il suo dramma e con quale forza denunciò, nel disinteresse generale, le disfunzioni dell’apparato giudiziario e l’inadeguatezza di un pugno di magistrati desiderosi solo di guadagnare le luci della ribalta.
Rammentare le battaglie per il divorzio e l’aborto è perfino banale, eppure hanno segnato la storia di un Paese che fino ad allora, fintamente perbenista, si teneva le mani legate, rovinando la vita alle persone. E poi i temi della libertà di informazione, della parità di accesso alla comunicazione televisiva, della lotta ai monopoli. Ma è inutile continuare, Pannella è tante cose insieme che non si finirebbe mai di raccontare.

Quel che di lui ci rimane è soprattutto la sua capacità di andare controcorrente. Una questione di stile, prima che di idee. Uno stile che apparteneva anche all’altro dei due fari che hanno illuminato, con il loro esempio, il nostro cammino umano e professionale. Marco Pannella e Indro Montanelli, così diversi, è vero, eppure così uguali. E forse è anche per questo che il grande vecchio di Fucecchio guardava all’orso abruzzese con mai nascosta simpatia. “Odora di bucato” diceva Indro del leader radicale. Anche Montanelli, come Pannella, ha combattuto tante battaglie vincendone pochissime. Il grande giornalista era affezionato ad un motto, ripreso dagli hidalgo spagnoli, che citava spesso: “Le sconfitte sono la medaglia delle anime bennate”. Vale per Marco come per Indro. Sconfitti, sì, ma sempre a testa alta. I fari si sono spenti, il loro esempio rimarrà nel cuore e nell’anima.




Becco e bastonato, così m’ha ridotto la Giustizia italiana

Posso dire che non ci capisco niente? Di come funziona la giustizia in Italia, intendo dire: davvero non mi ci raccapezzo. Non capisco se sono io che ho un’idea un po’ troppo astratta dell’applicazione del diritto e delle procedure, oppure sono proprio i meccanismi ad essere inceppati, fino a ribaltare il senso delle cose. Eppure, un tantino di giurisprudenza l’ho masticata anch’io: prima di laurearmi in storia medievale, ho studiato legge,e non ero nemmeno tanto male, come studente. Si vede che non avevo colto il senso ultimo di quello che studiavo: colpa mia. Però, qualcuno mi dovrebbe spiegare quello che mi è successo, perché, sinceramente, da solo non riesco a spiegarmelo. Qualcuno tra i più affezionati dei miei tre lettori, forse, ricorderà quella faccenduola di cui ho già scritto tempo fa: la mia querela ad un pazzo che mi aveva insultato ferocemente in un suo blog su internet e che aveva nuociuto notevolmente alla mia, già scarsa del suo, carriera professionale. Allora, mi lamentavo della lentezza con cui il magistrato incaricato di esaminare la causa pareva operare: se avessi saputo come sarebbe andata a finire, probabilmente, mi sarei risparmiato la fatica di scrivere. Perché, qualche giorno fa, mi è arrivata una notifica della polizia locale, in cui mi si invitava a passare a ritirare una comunicazione che mi riguardava.

Dati i tempi e i miei rapporti notoriamente splendidi con il comando dei vigili urbani, mi sono un filo preoccupato, pensando a qualche multa non pagata o simili. Invece, era la notifica del tribunale di Bergamo, in cui mi si diceva che si comunicava alla parte offesa, cioè al vostro affezionatissimo, che la sua querela era stata archiviata, per l’impossibilità di identificare il querelato. Il che potrebbe pure starci: un sostituto procuratore avrà di sicuro cose più importanti da fare che indagare sul nome e cognome di un matto che insulta pubblicamente un galantuomo. Il fatto è che il predetto querelato, forte di non si sa bene quali certezze circa la sua impunità, non è affatto ignoto: si è firmato per esteso con nome, cognome e, perfino, secondo cognome. Bastava semplicemente aprire il link di quel blog per leggerne le generalità: mancavano solo il suo numero di scarpe e il colore degli occhi. Ne deduco che l’incaricato a questo tipo di operazioni, che immagino essere un agente della polizia giudiziaria o di quella postale, non ha neppure cercato il blog in oggetto, limitandosi ad una metaforica alzata di spalle. L’effetto di questa metafora è stata l’archiviazione della mia querela, con il precipuo risultato di avermi fatto spendere dei bei soldini, visto che gli avvocati, anche se sono tuoi amici, bene o male li devi pure pagare. E, come se non bastasse, a distanza di anni, su internet la pagina in cui mi si dà del mezzo uomo, dell’analfabeta e di tutta una serie di altre amene varietà antropologiche è lì, che campeggia trionfalmente, appena uno digiti il mio nome.

Il bello è che sembra che questo gentiluomo, sul quale ho raccolto privatamente qualche informazione, dato che è stato querelato (spero con miglior fortuna), per altre ragioni, anche da un mio amico, che mi ha spiegato di che genere di soggetto si tratti, stia preparandosi ad entrare in magistratura, se non ci è già entrato, visti gli anni trascorsi. La cosa ha, naturalmente, rafforzato a dismisura la mia ammirazione per la categoria, come potrete facilmente immaginare. Insomma, per riassumervi l’ennesima disavventura cimminiana: ho trovato un soggetto disturbato, che, in seguito a futile discussione su Facebook, ha pubblicato un articolo fortemente diffamatorio nei miei confronti, che da almeno tre anni campeggia in rete. Dopo due anni e mezzo abbondanti dalla presentazione di querela da parte del mio avvocato, mi si comunica che non si può risalire all’identità di uno che si firma con nome e cognome e che, per questo, la mia querela viene archiviata. Dunque, mi tocca pagare le spese legali, e gli insulti rimarranno per chissà quanto, a perenne memoria del mio scorno. Becco e bastonato: altro che parte offesa! Ora, miei buoni lettori, ditemi voi: cosa dovrei pensare di una giustizia che funziona così? Certo, questa è una questione minima: una diatriba sfociata in querela, nulla di più. Ma non posso evitare di pensare che, se le offese avessero riguardato il magistrato che ha archiviato la mia querela, adesso, probabilmente, sarebbero, perlomeno, sparite da internet. E, se la giustizia non è uguale per tutti nelle piccole cose, duro fatica a pensare che lo sia nelle grandi. La prossima volta che mi dovessero diffamare, immagino che sceglierò un’altra strada. Intelligenti pauca.