Il nuovo pericolo nel campo minato delle banche

MontepaschiBanche, avanti la prossima. Che a questo punto dovrebbe essere Veneto Banca. Sono già stati superati cinque ostacoli (i quattro istituti della risoluzione e Popolare Vicenza) nel campo minato che il sistema bancario sta cercando di disinnescare, con il sostegno del governo, ma la strada è ancora lunga e soprattutto il fiato inizia a farsi sentire. Con tutta la buon volontà legata anche all’interesse della propria sopravvivenza, sia del sistema creditizio che di quello economico e di conseguenza di quello politico, l’impresa è ciclopica: si tratta di spianare, o almeno di ridimensionare, senza che frani tutto, una montagna di prestiti di difficile, se non impossibile, restituzione cresciuta con la crisi, ma allo stesso tempo lasciata lievitare anche per mancati interventi precedenti. Inutile comunque recriminare, a questo punto: il bubbone c’è e bisogna sgonfiarlo evitando che esploda.

Le banche hanno tutto l’interesse per farlo perché il tracollo di un istituto, lo insegna la storia non solo italiana, ha effetti a catena che travolgono tutto il sistema. Così, con uno sforzo congiunto diretto, le banche sono riuscite in passato a salvare il Banco Ambrosiano (diventato poi la base di uno dei due big nazionali, Intesa Sanpaolo) e con uno indiretto, attraverso il Fondo interbancario,  a propiziare soluzioni per istituti minori, come Tercas e Caripe. Operazioni, queste ultime che continuano a fare le Bcc con il loro Fondo di categoria. Ma Salvatore Maccarone, il presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi, l’istituto che dovrebbe garantire i depositanti sotto i 100 mila euro, ha ammesso recentemente di avere le casse vuote anche per il contributo, a rigore fuori competenza, al rimborso degli obbligazionisti delle quattro banche salvate. Questo perché, come capita spesso in Italia, buone iniziative rovinano in maniera distorta.

Aggiungendo che in questo momento nessun istituto è disposto a impegnare il proprio patrimonio in salvataggi dei quali non si riesce a capire a priori il costo, le risorse per gli interventi con gli strumenti utilizzati finora ormai scarseggiano, drenate dall’intervento autunnale, per quelli che in fondo erano ostacoli da primo allenamento. E già si è rischiata la guerra civile per evitare la frana di quattro banche che si possono definire al massimo medie come Banca Marche, Popolare Etruria, Carichieti e Cariferrara. Con lungimirante intervento promosso dal governo, seppure con appoggio essenzialmente esterno per evitare aiuti di Stato, è nato comunque il fondo Atlante: sessantasette istituzioni, quasi tutti istituti di credito, hanno  dato vita a uno strumento dotato di 4,3 miliardi per intervenire in salvataggi e nell’acquisto di “Non performing loans”, i prestiti non performanti, con l’obiettivo di assicurare un rendimento del 6% attraverso queste operazioni. Un terzo delle risorse però sono già state consumate per rilevare la Banca Popolare di Vicenza, che nessuno voleva, dato che l’aumento di capitale da 1,5 miliardi è andato praticamente deserto. Adesso non si può escludere che un altro miliardo possa essere impiegato in un’altra ricapitalizzazione difficile, quella di Veneto Banca.  Se così fosse, il Fondo Atlante si troverebbe ad avere il controllo di due istituti che per anni si erano corteggiati senza riuscire però da soli a trovare un accordo. Si può ipotizzare in ogni caso che anche buona parte delle residue risorse di Atlante debbano essere poi utilizzate per il rilancio di quello che si presenta come un polo bancario potenzialmente di grande interesse.

In questo caso il Fondo Atlante avrà avuto un ruolo meritorio per il sistema credito, disinnescando la quinta mina, ma lascia ancora aperto il problema dei crediti in sofferenza, che era quello di partenza.  E apre a quella che si prospetta come la prossima (sesta) mina. Secondo gli ultimi dati di Bankitalia, a marzo le sofferenze lorde bancarie erano pari a 196,9 miliardi, con una crescita del 3,9% rispetto ai 189,5 miliardi di un anno prima (ma se si tiene conto della cartolarizzazioni e degli altri crediti ceduti o cancellati, il tasso di crescita sarebbe del 13,6%). A fine 2015 il Monte dei Paschi aveva in portafoglio 11,8 miliardi di sofferenze garantite da immobili, 6,5 miliardi con garanzie personali e 8,3 miliardi di sofferenze unsecured. Al netto delle rettifiche già effettuate, le sofferenze sono in bilancio per 9,7 miliardi. Il doppio della dotazione di partenza del Fondo Atlante. Una cifra enorme: ma se si vogliono considerare tutti i crediti deteriorati lordi (non solo quelli in sofferenza) del Montepaschi si arriva a 47 miliardi. Più di dieci volte della dotazione di Fondo Atlante, ottima iniziativa e che senza la quale ora ci troveremmo mezzo Veneto alla presa con il bail-in. Ma purtroppo ancora insufficiente.

 

 

 




Ubi, l’attacco dei parlamentari Pd alla Moratti? Un teatro dell’assurdo

Letizia Moratti
Letizia Moratti, presidente del Consiglio di Gestione di Ubi Banca

C’è qualcuno sano di mente che davvero può pensare che per il solo fatto di sostenere nella campagna elettorale milanese il candidato del centrodestra Stefano Parisi la presidente del Consiglio di gestione di Ubi Banca Letizia Moratti non possa garantire cittadini e risparmiatori nell’erogazione di un prestito? Anche solo prospettarlo come ipotesi fa sganasciare dalle risate. Ma non ditelo ai dieci parlamentari lombardi del Pd che come un sol uomo hanno vergato una lettera grondante indignazione, e ispirata alla più vieta cultura del sospetto, al ministro dell’Economia, al governatore di Bankitalia e al presidente del Consiglio di sorveglianza di Ubi per chiedere di “valutare l’opportunità di adottare le iniziative necessarie a sgombrare il campo da commistioni inopportune con la politica che rischiano di compromettere la credibilità di Ubi”.
Lorsignori (tra i magnifici dieci ci sono, purtroppo, quattro bergamaschi: Sanga, Misiani, Carnevali e Guerini), silenti quando gli intrecci e gli intrallazzi avvengono tra Roma e Firenze, per esempio quando si vuole mettere a capo della cyber sicurezza nazionale il compagnuccio di Renzi Marco Carrai, agitano il drappo rosso del pericolo di un ritorno “alla stagione degli intrecci tra politica e sistema bancario” (ma quale ritorno, di grazia, se basta leggere i giornali per verificare che quel sistema non è mai tramontato?) e come torelli infuriati cercano di incornare la reproba Moratti. Peccato non si rendano conto dell’infimo livello della loro polemica.

Perché se fosse vero l’assunto, e davvero non c’è testa benpensante che possa neanche prenderlo in considerazione, dovremmo credere che anzitutto il Consiglio di gestione e, in seconda battuta, il Consiglio di sorveglianza di Ubi siano composti da teste di legno incapaci di cogliere la tremenda operazione che verrebbe ordita alle loro spalle. E dovremmo anche pensare che Letizia Moratti, di cui è lecito pensare politicamente il peggio possibile (da ministro ha fatto solo danni, da sindaco i milanesi l’hanno congedata dopo solo 5 anni…), sia così sciocca e leggera da potersi permettere di sponsorizzare affidamenti solo a persone o imprenditori con la targa di centrodestra sul sedere. Suvvia, siamo seri. I parlamentari cerchino di occuparsi di problemi reali, hanno solo l’imbarazzo della scelta. Il comportamento della Moratti può essere, anzi è, inopportuno per mere ragioni formali. Ma da qui a scomodare ministro dell’Economia e governatore di Bankitalia ce ne corre. A meno che tutto sto can can non sia il segno, l’ennesimo, della paura degli esponenti democratici di vedere il loro candidato milanese, Beppe Sala, fare la fine di quel porporato che entra Papa in conclave e ne esce cardinale. Quel Sala che, se si volesse usare il medesimo pernicioso ragionamento dei dieci Saint Just in salsa rosa, potrebbe essere sospettato di aver utilizzato il ruolo pubblico di commissario Expo per lanciare la sua campagna per Milano. Ma, appunto, le barzellette preferiamo lasciarle ai politici.

 




Piano sosta, per ora è solo una tosatura con promesse troppo vaghe

parcometroHa scomodato la parola “coraggio” l’assessore alla Mobilità del Comune di Bergamo, Stefano Zenoni, nell’annunciare le modifiche al Piano della sosta. E in effetti ci vuole davvero un bel coraggio a definire “l’Area C di Bergamo” una serie di misure che rappresentano nulla più che una tosatura degli automobilisti, residenti o provenienti da fuori. Un pacchetto di aumenti (compresa l’introduzione di una nuova gabella) a fronte del quale non si garantisce alcunché se non vaghe promesse di investimenti sulla “mobilità sostenibile”.
E dire che proprio su queste colonne, partendo dal riconoscimento del valore dell’assessore, ci eravamo permessi di sollecitare un intervento del Comune su una materia da troppo tempo lasciata nel limbo per mere preoccupazioni elettorali.  “Stiamo lavorando” era l’assicurazione che filtrava da Palazzo Frizzoni. Ci si aspettava di veder spuntare qualcosa di importante, di veramente innovativo, di realmente coraggioso (perché la materia è incandescente, le corporazioni degli automobilisti e dei commercianti sono temibili). E invece, cosa salta fuori? Un aumento del costo dei parcheggi, una estensione del pagamento anche nei giorni festivi, l’introduzione del pagamento anche per il parcheggio dei residenti nelle strisce gialle.

Anche un bambino non particolarmente sveglio capisce che si tratta di una manovra fiscale (da tassazione indiretta) mascherata da Piano della sosta. Una pesca a strascico infiocchettata da parole e paragoni che ad una prima e banale analisi critica mostra la corda. E’ il modo stesso utilizzato dall’assessore Zenoni e dal sindaco Giorgio Gori a legittimare i dubbi. Già tirare in ballo Milano e l’Area C rappresenta una pura mistificazione. Il provvedimento milanese è una “congestion charge”, cioè un pedaggio che si fa pagare a chi entra in una determinata area quale contropartita per l’inquinamento che provoca circolando. Non ha nulla a che vedere con la sosta (a questa, semmai, si aggiunge). Nella velina distribuita ai giornalisti (che se la sono bevuta senza colpo ferire, ahinoi), si dice che i residenti a Milano hanno diritto a 40 accessi gratis all’anno (oltre pagano 2 euro ad ingresso). Non si dice, perché qui cascherebbe l’asino, che i residenti non pagano la sosta nelle strisce gialle. Ergo, se si muovono all’interno dell’Area C oppure se non utilizzano l’auto per andare al lavoro oppure ancora se la utilizzano ma al di fuori degli orari di pedaggio, non sono tenuti al pagamento di alcunché. Assessore Zenoni, ci spiega dove sta la similitudine con le misure che lei vorrebbe adottare?
Il paragone con Milano è improvvido per almeno un’altra ragione. Come chiunque si sia recato almeno una volta nella vita sotto la Madunina, raggiungere il centro con i mezzi pubblici è un giochetto da ragazzi da qualsiasi zona si voglia partire. Perché ci sono parcheggi di attestamento, linee di metropolitana e di tram che consentono di spostarsi in tempi rapidi senza dover necessariamente ricorrere al mezzo privato. A Bergamo non c’è nulla di tutto ciò. Non c’è la metro, ma nemmeno quei due-tre parcheggi di interscambio – che pure sono stati realizzati – sono stati serviti da corsie preferenziali, conditio sine qua non per renderli utili. Aumentare i parcheggi di per sé non servirà a tenere lontane le auto dal centro di Bergamo se non si offriranno reali ed efficienti alternative.

Ed è qui la maggiore criticità del Piano presentato dal Comune (senza dire che sono stati forniti paragoni con un pugno di città utili solo al caso proprio, vere eccezioni in un panorama che offre situazione di segno diverso, con tariffe dei parcheggi più basse  e nessun pagamento della sosta dei residenti, Brescia docet). Da un lato, prendendo per buoni i numeri forniti da Palazzo Frizzoni, si incasseranno 650 mila euro (a fronte di un introito complessivo attuale di 3 milioni di euro, quindi una stangata del 20 per cento), dall’altro si parla di “accelerazione della mobilità sostenibile”, bike e car sharing per intenderci. Un po’ poco e un po’ troppo vago, come reinvestimento. Per la verità, c’è anche un vago accenno al metrobus. Ottimo, se non fosse che il progetto è sul tavolo del sindaco e dell’assessore da parecchi mesi ma da lì non esce. Forse, tirarlo fuori in concomitanza con l’annuncio della tosatura sarebbe stato un segno manifesto della volontà di non limitarsi ad agire sulla leva fiscale. E comunque, è arrivato il tempo di mostrarlo e, soprattutto, di metterlo in cantiere. Insieme, se ne esistono nei cassetti del Palazzo, ad altri progetti che incidano sul sistema della mobilità cittadina.
Sosta e viabilità non sono due compartimenti stagni. Anzi, l’uno è molto condizionato dall’altro. E se si interviene solo su una gamba, il risultato è di ritrovarsi alle prese con un’anatra zoppa. Si fa contento il cassiere, certo, si dà una bella sistemata al bilancio così da gonfiare il petto dicendo che non si aumentano le tasse (quelle dirette…). Ma non si raggiunge di sicuro l’obiettivo di rendere, come si dice nelle premesse, la città più vivibile.

 




Troppi stranieri delinquono, ecco perché sono spregevolmente indignato

reati_sicurezzaAnche ieri c’è stato un episodio di criminalità: stavolta un violento scippo ai danni di una ragazza. Ancora una volta, sia pure con tutte le cautele dettate dalle precise direttive in materia, i mezzi di comunicazione, alla fine, hanno dovuto aggiungere che il delinquente era uno straniero. E io dico basta: non basta agli stranieri, intendiamoci. Basta con questa commedia: con questa conventio ad celandum, in cui tutti fanno finta di nulla, perché il primo che dice che il re gira nudo per strada diventa il bersaglio per ogni tipo di reprimenda. Il re è nudo: qui non c’è giorno in cui non salti fuori che uno straniero, un clandestino, un richiedente asilo, un immigrato, chiamatelo un po’ come vi pare, che tanto avete capito tutti benissimo a cosa mi riferisco, ha commesso un reato. Di solito, si tratta di robetta, furti, scippi, piccole rapine, violenze private: il monopolio dei delitti più importanti ce l’abbiamo ancora noi italiani. E sono soddisfazioni anche quelle! Ma nelle marachelle da taccheggiatori, sui treni o sugli autobus, in quelle piccole violenzine quotidiane che, alla fine, ti lasciano la sensazione di vivere in un far west privo di sceriffi, il monopolio è del tutto straniero: poco cambia se si tratti di romeni o di rom, di marocchini o di ghanesi, sono stranieri. E hai voglia di far finta di niente, quando ce n’è uno al giorno, di questi edificanti episodi.

Eppure, tutti fischiettano con aria indifferente, tanto pesa è la cappa di piombo che aleggia sulle nostre teste: è talmente densa questa opprimente dittatura mediatica e politica, da impedirci perfino di accettare quello che ci dicono i nostri occhi e la nostra mente Ed è la solita storia che vado lamentando da anni: è la teoria che ammazza la realtà, quando la realtà smentisce la teoria clamorosamente. E, siccome la teoria dice che gli immigrati sono risorse, che sono quasi tutti buoni tranne uno o due che sono solo birichini e che vengono da una tradizione simpaticamente ladrona, noi dobbiamo fare finta che le ragazze si scippino da sole, che la violenza la facciano solo gli zii-orchi tra le mura domestiche, che i frontali ubriachi li abbiano nel palmarès soltanto i bergamaschi. Ma possibile che la gente abbia così paura del giudizio di questi arcicensori, autonominatisi custodi delle nostre coscienze? Bastano quattro comandina a costringerci a tapparci occhi, bocca ed orecchie, come le proverbiali tre scimmiette? Basta aprire i giornali: basta seguire le notizie online, ascoltare i telegiornali locali. Lo schema si ripete, ossessivamente: qualche straniero, stufo di bighellonare senza fare un tubo da mane a sera, spinto dalla noia e dalla vigoria dei trent’anni, si cerca qualche svago. E palpa un sedere di qua, violenta una ragazza di là, molesta una signora di su, allunga una mano di giù.

Voi cosa fareste, se foste qui da soli, senza niente da fare fino a sera, se aveste trent’anni e nessuna bergamasca vi si filasse di striscio? Oggiù, anche la carne richiama la sua parte! E queste sono imprese da disperati, non da veri delinquenti: i veri delinquenti sono quelli beccati tre, quattro, cinque volte a spacciare, a rubare, a ricettare, che rimangono qui, protetti da leggi mal concepite ed applicate anche peggio, tra il silenzio della stampa e l’approvazione di quei politicanti che, su queste risorse, hanno costruito la propria fortuna, tanto politica quanto, qualche volta, economica. Così, dico basta: leopardianamente basta. Se tutti quanti s’illudono, se la cantano e se la suonano e sono felici e contenti di tenersi in casa questi problemi, io, perlomeno, non farò parte del coro: io dico che questa teppaglia che commette ogni sorta di reato, tutti i giorni dell’anno, senza soluzione di continuità, a me fa schifo. E che non ce la voglio, a casa mia. E che chi sgarra, deve sloggiare: punto.

So benissimo che non cambierà niente, che non mi si filerà nessuno, che le sciurette della Bergamo bene scuoteranno il capino impermanentato pensando: il solito Cimmino, che individuo spregevole! Verissimo: sono un individuo spregevole. Però, non ho mai rubato cinque lire, mai palpato un sedere non consenziente, mai violato l’altrui proprietà: e questo mi dà il diritto di essere spregevolmente indignato. E una certa praticaccia in opera d’inchiostro mi dà la possibilità di scriverlo, che sono indignato e che voi tutti, ciechi, sordi e muti, avete semplicemente paura. Paura di non rientrare nel canone che qualcuno ha stabilito per voi: a prescindere dal vero. Dal maledetto vero. Così, dico basta: non per arginare il fenomeno, che non è arginabile, ma per non sentirmi anch’io colpevole del disastro, per un sussulto di dignità. E, quando domani, leggerete dell’ennesimo reato commesso da uno straniero, pensate a me, che rido di voi.

 




Brexit, tra aziende e immigrati lo scenario si fa incerto

BrexitSi tratta di un momento storico l’elezione di un sindaco musulmano in una grande e multiculturale metropoli europea. Da venerdì Sadiq Khan è alla guida di Londra. In un momento in cui si innalza un fervore anti immigrazione e slogan populisti cavalcano la paura destata dagli attentati di Parigi e Bruxelles, si tratta di una bella notizia. Figlio di un autista di autobus pakistano e di una sarta, cresciuto in una casa popolare nel sud di Londra con altri sette fratelli, non poteva essere un candidato più diverso da Zac Goldsmith, telegenico e con un sorriso da copertina, figlio di un multimiliardario ed ecologista, studente prima a Eton e poi a Cambridge. Il nuovo sindaco di Londra, una città dove circa un residente su otto è musulmano, avrà un bel da fare davanti a sé. Quello che però tutti non sanno, è il fatto che i suoi poteri non sono vasti quanto sembrano. Londra ha un sindaco eletto dal residente solo dal 2000. Contrariamente alle città italiane, o a quelle americane, i suoi poteri riguardano il sistema dei trasporti, le forze dell’ordine e l’edilizia, ma non nella loro totalità. E’ come se avesse nelle sue mani solo cinque bottoni dell’intera stanza. Di certo, come molti londinesi, è un perfetto rappresentante di tante identità che non sarebbero facilmente coniugabili in altri luoghi nel mondo. Parlando di sé, si definisce: londinese, europeo, di fede islamica, di origine pakistana, un padre, un marito. E’ riuscito ad attrarre l’odio e le minacce delle frange più tradizionaliste della comunità islamica quando, nel ruolo di parlamentare, ha votato a favore delle nozze gay, e attrarre il voto dell’ elettorato conservatore, che non si sentiva rappresentato dalle visioni anti Europa di Goldsmith.

Non è il solo sindaco musulmano d’Europa. Ad accompagnarlo c’è, a Rotterdam, il sindaco di origine marocchina Ahmed Aboutaleb, è divenuto uno dei politici più amati nel suo Paese, ed è stato indicato da alcuni come un papabile primo ministro dell’Olanda in un futuro vicino. L’Olanda, non dimentichiamoci, che ha manifestato negli ultimi anni accesi sentimenti anti islam. Ma se da un lato Londra affida le chiavi della città a un politico che rappresenta il successo dell’integrazione, il resto del Paese sembra andare nella direzione opposta e si interroga  su come potrebbe apparire lo scenario dell’immigrazione in caso si votasse per la Brexit. Uno scenario che non piace alla City e alle grandi aziende, ma che ha numeri e statistiche interessanti. Se l’Inghilterra lasciasse l’Europa, chi già vi risiede non verrebbe cacciato via. Ma per i nuovi arrivati la faccenda si complicherebbe. E sa da un lato abbiamo chi cerca lavoro, dall’altra abbiamo le aziende che negli ultimi decenni si sono abituate a impiegare manodopera, o competenze più qualificate, provenienti dall’Europa. Due milioni e 200 mila lavoratori europei si trovano, impiegati a tempo pieno nello UK. Di questi, quasi un milione sono concentrati nella capitale, mentre oltre 2 milioni di immigrati vengono dal resto del mondo, Europa esclusa. Il dieci percento di questi sono impiagati nell’industria manifatturiera, quasi 500 mila sono nel settore turistico tra hotel, ristoranti e un numero simile è nella finanza, rappresentando circa il 7 percento dell’intero settore. Nessuno davvero sa che cosa accadrebbe in caso di uscita dall’Europa, perché nessun paese prima d’ora l’ha fatto. Di certo l’Inghilterra continuerà ad avere bisogno di immigrati, altrimenti chi servirà i clienti nei bar della capitale, e lavorerà negli hotel? O dove si troveranno degli ingegneri qualificati?

 

 




Caso Lodi, per la politica è tempo di pulizie non di attacchi alle toghe

Simone Uggetti, sindaco di Lodi
Simone Uggetti, sindaco di Lodi

Giorgio Gori stavolta è stato troppo impaziente. Se solo avesse aspettato di leggere gli atti che stavano uscendo da Lodi con ogni probabilità, da uomo accorto e attento a misurare le parole qual è, si sarebbe risparmiato quella che, fatti salvi gli aspetti personali, è parsa una difesa aprioristica del collega sindaco dem Simone Uggetti, arrestato per turbativa d’asta. Quel “personalmente lo conosco come persona per bene”, purtroppo per il nostro primo cittadino, stona di fronte a chi cerca di formattare il computer per nascondere le prove del trucco, si dà del cogl… da solo per non averlo fatto con la maestria dei lestofanti di professione e chiede appuntamento al comandante della Guardia di Finanza per cercare di conoscere se esiste una inchiesta su di lui. Fatta salva, come si dice sempre in questi casi, la presunzione d’innocenza, e sottolineato che non viene contestato un reato gravissimo (ma pur sempre un reato inaccettabile per un pubblico amministratore), la definizione di “persona per bene” non c’azzecca proprio con Uggetti.
Ma le battute a vuoto come quelle di Gori, seconda solo alla difesa d’ufficio del deputato pd Emanuele Fiano che a caldo ha tuonato “in tema di moralità non prendiamo lezioni da nessuno…” salvo smorzare i toni poche ore più tardi di fronte ai primi lanci di agenzia, succedono quando si mette il tema dei rapporti tra politica e magistratura su un piano di guerriglia. Come sta facendo da qualche settimana il lider maximo dei democratici. Quasi del tutto incurante degli scandali che ogni tre per due riempiono le cronache dei media, Renzi ha preso a sparacchiare parole un po’ a casaccio, fino a descrivere l’ultimo ventennio come caratterizzato da una sorta di “barbarie giustizialista”. Un marziano sceso per caso a fare un giretto tra Napoli e Roma non avrebbe saputo spararla più grossa. O forse a Firenze gli echi degli arresti avvenuti in ogni dove dello Stivale non sono mai arrivati, forse per non turbare la sensibilità artistica di chi vive in riva all’Arno.
Si capisce che, anche per talune uscite sopra le righe (più nei toni che nei contenuti) del nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo, siamo di nuovo alle prese con una delle tante riprese del lunghissimo match tra politica e toghe iniziato negli anni Novanta. Ma, senza per forza essere tacciati di giustizialismo, a noi piacerebbe che chi ha responsabilità pubbliche, si tratti di un premier o di un sindaco, cominciasse a condannare senza se e senza ma chi abusa del proprio ruolo prima di imbarcarsi in polemiche con la magistratura. Piaccia o non piaccia, fino a che i politici (di tutti i colori, intendiamoci, perché qui in Lombardia mica ce li siamo dimenticati i Mario Mantovani e i Fabio Rizzi) continuano a farsi beccare con le dita sporche di materia organica, non c’è speranza di riportare il confronto ad un clima sereno.
I cittadini ne hanno piene le tasche, reclamano pulizia e rigore. E se anche talvolta si coglie un eccesso nelle iniziative giudiziarie, ciò viene tollerato sull’altare della buona causa. L’unico modo per invertire questa tendenza, che è drammatica sia chiaro, è quella di una vera e netta assunzione di responsabilità da parte della classe politica. Che deve arrivare prima e più duramente della magistratura, che non può non sapere chi mette a tavola, che non può ritenersi impunita. Che non può definire “per bene” chi gioca con le gare d’appalto. Solo quando sarà stato fatto questo lavacro sarà possibile richiamare ciascuno ai propri ruoli. Prima di allora un bel silenzio, operoso se possibile, sarebbe la cosa migliore.

 




Tra mamma e zia defunta, ecco l’impiegata comunale che non t’aspetti

Torre BoldoneLe occasioni di dire bene di qualche scheggia di istituzioni, di questi tempi, sono talmente rare che, quando capitano, non si può proprio perdere l’occasione di parlarne. Così, dopo tanti articoli in cui ho coperto di contumelie funzionari inefficienti, politicanti ignoranti o vigili pedanti, stavolta vi voglio sottoporre un brevissimo apologo, in cui, una volta tanto, i miei rapporti con la gestione della cosa pubblica mi hanno procurato piacere e soddisfazione. Dovete sapere che, qualche giorno fa, è morta improvvisamente una mia cara zia: era l’unica delle cinque sorelle di mia madre a non essersi sposata ed incarnava, anche per questo, la classica figura della zietta premurosa, che si fa in quattro per il prossimo, in infinite opere caritatevoli, oltre che, naturalmente, per i nipoti. Nelle sue ultime volontà, aveva espresso il desiderio di essere cremata: anche da morta, evidentemente, non voleva occupare troppo spazio o dare troppo fastidio.

Fatto si è che, non avendo altri parenti più prossimi, l’autorizzazione per la cremazione doveva essere firmata dalle due sorelle superstiti, vale a dire mia madre e mia zia Marinella. Per quel che riguarda la seconda, nessun problema: Marinella è la più giovane del sestetto e se la sbriga benissimo da sola. Mia mamma, però, ha novantaquattro anni ed un piede alquanto sifolino che, da qualche tempo, le impedisce di andarsene a spasso con passo bersaglieresco, cosa che era la sua specialità d’antan. Quindi, la firma dell’autorizzazione si è fatta un tantino complicata. Ve la faccio breve: mia zia è morta al “Bolognini” e il comune di residenza di mia mamma, ossia Torre Boldone, avrebbe dovuto inviare a Seriate l’autorizzazione via fax per sbloccare la procedura. Reso un po’ prevenuto dalle mie precedenti esperienze con la pubblica amministrazione, ho telefonato all’ufficio anagrafe di Torre Boldone, per domandare come dovessi procedere: erano le 8.45 e pensavo addirittura che non mi avrebbe risposto nessuno. Invece, contro i miei pregiudizi, mi ha subito risposto un’impiegata, gentilissima e disponibile, che mi ha spiegato nel dettaglio cosa avrei dovuto fare: anzi, per la verità, me l’ha anche ripetuto un paio di volte, avendo, evidentemente, capito subito che aveva a che fare con uno un tantino duro di comprendonio. Passo da mia mamma e ritirare la sua carta d’identità, indispensabile per la compilazione del modulo dia autorizzazione e me ne vado bel bello al Comune di Torre Boldone.

Ma la genetica non è un’opinione: se io sono un tantino duro, mia mamma è graniticamente negata alla realtà fenomenica. Difatti, la sua carta d’identità era scaduta nel 1993! Giunto allo sportello dell’anagrafe, con il mio bravo documento inutile da 23 anni, mi sarei meritato di sentirmi dare dell’asino somaro, a titolo individuale e familiare: viceversa, la gentile signora di cui sopra si è limitata ad attivarsi per risolvere la questione, non prima di aver espresso il proprio dispiacere per l’inconveniente. Non so dirvi se questo sia dipeso da una certa dimestichezza nel trattare con utenti pirla o da una congenita dolcezza di carattere: il risultato, comunque, è stato che il mio problema, previo intervento finale della zia Marinella nel ruolo di staffetta motorizzata, si è risolto in tempi rapidi, con piena soddisfazione di tutti. Lo so che efficienza e cortesia dovrebbero far parte del bagaglio deontologico di chi si rapporti con la cittadinanza: sta scritto nella “mission” di tutti i comuni d’Italia.

Siccome, però, tra la “mission” e la dura realtà c’è di mezzo l’oceano, io vi dico che a me questo modo di operare garba assaissimo e che voglio approfittare di questa mia rubrichetta per ringraziare quella sconosciuta signora e tutti gli impiegati come lei, che, anziché farsi i fatti propri, cercano di mettersi nei panni degli utenti, dandosi da fare oltre i loro obblighi istituzionali per facilitarne le incombenze burocratiche e, in definitiva, l’esistenza. Mia mamma mi aveva spesso tessuto le lodi del suo Comune di residenza, vantandone il riciclaggio ecologico, la cortesia degli addetti e degli abitanti, il benessere diffuso: confesso, però, che avevo attribuito tutto quanto all’incontrovertibile tendenza materna all’ottimismo nei confronti degli esseri umani. Ho dovuto ricredermi, in una circostanza, certamente spiacevole, ma resa, diciamo così, molto meno spiacevole dalla semplice cortesia personale. Ci vuole così poco ad accontentare un cittadino. Ci vuole così poco ad essere un pochino più umani.




La Bergamo-Treviglio? Lasciamo perdere la superstrada e rilanciamo il treno

bergamo treviglioOgni tanto, a leggere le cronache locali, più che nella grigia e pragmatica Bergamo pare di vivere nella sfavillante e fantasiosa Disneyland. Se si tratta di parlare di infrastrutture, infatti, pare che sia tutto possibile. Che si tratti del treno per Orio o della fermata dell’ospedale, della linea del tram per la Valle Brembana o dell’autostrada Bergamo-Treviglio, è tutto un fiorire di idee, progetti, cartine e planimetrie. Una gara a chi vola più alto, fra buone intenzioni e demagogia politica da giovanotti in carriera, del tutto incurante della cronica mancanza di risorse da un lato e del sempre più evidente fallimento di faraoniche opere di un recentissimo passato (do you remember Brebemi?) dall’altro.
In questi giorni riaffiora, come un torrente carsico, l’idea di un collegamento diretto tra il capoluogo e la capitale della Bassa. Un tempo si parlava di una vera e propria autostrada; ora si ipotizza una superstrada a due corsie a pedaggio (?). Nell’uno come nell’altro caso, pare che ci vogliano non meno di 180 milioni di euro. Che non ci sono, che non è ipotizzabile vengano dallo Stato o dalla pur sempre munifica Regione (almeno a star a sentire l’assessore Sorte che da reincarnazione del mago Houdini pare riesca sempre a trovare soldi laddove prima non c’erano…), che non è credibile possano arrivare così facilmente da operazioni di project financing che proprio nella Bassa hanno mostrato e mostrano di non essere sostenibili senza un aiuto, diretto o indiretto, di Pantalone.
Autostrada (o superstrada) Bergamo-Treviglio no grazie, allora? Sì, è bene dirlo forte. E non per pruriti ambientalisti o per disfattismo. Ma per semplice realismo. Perché, al netto di tante visionarie trombonate che ci sono state ammannite nell’ultimo ventennio sull’ineludibile necessità di costruire arterie stradali di ogni tipo per assecondare uno sviluppo che non si è visto o che ha preferito affidarsi alle infrastrutture immateriali, un collegamento diretto tra Bergamo e Treviglio esiste già. Collega tutti i paesi intermedi lungo l’asse nord sud ed è utilizzabile sia per le persone che per le merci. Si chiama treno. La linea viaggia su un doppio binario ed è collegabile, attraverso il nodo di Treviglio, alla Torino-Venezia. Cioè una delle direttrici economiche più importante che ora verrà ulteriormente potenziata con l’alta velocità.
In qualsiasi paese moderno, dove il rapporto costi benefici abbia ancora un senso, nessuno si sognerebbe di investire decine e decine di milioni di euro per un’autostrada di 25 chilometri che poi finirebbe a sua volta nel buco nero della Brebemi. Soprattutto se già si dispone di una infrastruttura ferroviaria. Che, se proprio si manifesta la necessità di migliorare i collegamenti, può essere benissimo adeguata alle nuove esigenze con investimenti decisamente inferiori (anche non calcolando quelli ambientali, che pure ci sarebbero) a quelli che comporterebbe la maxicolata di asfalto. Se si vuole discutere seriamente nessuno guardi al servizio che oggi viene fornito sulla linea Bergamo-Treviglio.  E’ a dir poco penoso, sia in termini di orari che di carrozze messe a disposizione. Ma basterebbe poco per rilanciarlo e per renderlo appetibile, se solo chi ne ha le competenze istituzionali avesse la capacità di comprenderne la valenza strategica e se gli attori economici del territorio si mobilitassero, con la loro pur residuale influenza su quel che rimane della politica, per orientarne le scelte.
Nella Disneyland bergamasca, invece, si continua a favoleggiare. Così che perfino una banale variante per bypassare il centro di Verdello (non realizzata per l’insipienza degli amministratori locali di marca leghista), l’unica opera stradale che avrebbe davvero senso in quella fetta di territorio, diventa un impervio Everest da scalare.  C’è bisogno di aggiungere altro?




Le attività produttive se ne vanno e Bergamo va in crisi d’identità

bergamo centro ritC’è un legame tra il caso dell’Italcementi, destinata in un prossimo futuro a spostarsi, con drastico ridimensionamento, ai confini cittadini del Kilometro Rosso, e la necessità di un rilancio del centro (che non si può solo limitare al Sentierone) in crisi di identità sempre più diffusa. Il decentramento delle industrie è un processo ineluttabile legato a questioni organizzative, logistiche e viabilistiche che le porta, non solo a Bergamo, fuori dalla città. Restano dentro i confini, tra le poche significative eccezioni superstiti, l’Abb (che però ha spostato la produzione a Dalmine) e le Trafilerie Mazzoleni, oltre alle Arti Grafiche e la Perofil (che già si erano peraltro spostate dal centro all’estrema periferia). Molto lungo è invece l’elenco, dalla Magrini alla Cesalpinia, dalla Filati Lastex alla Masenghini, dove la produzione ha lasciato lo spazio al residenziale.

Ma anche le sedi direzionali tendono a lasciare il centro in fondo per gli stessi motivi, di necessità di spazi più adeguati e funzionali, migliore accessibilità e possibilità, almeno in passato, di valorizzazione dell’immobile destinandolo a qualcosa d’altro. Alcune sedi bancarie sono completamente scomparse (la Banca Provinciale Lombarda), altre sono dimagrite (il Credito Bergamasco), altre restano a rischio (Ubi, non tanto per il futuro bancone, quanto per il tentativo di golpe sempre pendente – forse adesso meno – per un trasferimento a Brescia). Al Kilometro Rosso oltre all’Italcementi vorrebbe andare anche la stessa Confindustria Bergamo con la prospettiva che tra pochi anni via Camozzi si spopoli dal punto di vista lavorativo. Anche gli Uffici Statali lasceranno l’anno prossimo Largo Belotti, dove già da tempo si cerca un futuro per l’ex teatro Nuovo.

Pure buona parte del commercio però è uscito dal centro, prima quello all’ingrosso, poi anche molte attività al dettaglio, al seguito della grande distribuzione e dello sviluppo dei centri commerciali. In questo caso ai soliti problemi di accessibilità si aggiungono una serie di fattori specifici: un po’ incide l’avanzata di Internet, con il commercio elettronico che vale il 4% degli acquisti degli italiani, un po’ è colpa del calo e della trasformazione dei consumi, molto dipende dai problemi e costi di accessibilità da parte dei potenziali clienti, moltissimo è causa dei costi degli affitti che a fronte anche delle minore entrate per le ragioni precedenti rendono insostenibile per molte attività la permanenza in centro.

Ad aggravare la situazione generale è la “sdentatura” delle strade: i tanti “buchi neri” che si creano quando ad un’attività che lascia (che sia un’industria, un negozio o una caserma) non se ne sostituisce un’altra. Quando questa situazione non è solo temporanea, ma si consolida, la perdita di attrattività è assicurata e trascina al ribasso anche le altre attività. Perché in fondo il problema del centro si riduce a una questione banale. Come confermano le “notti bianche”, che però sono eventi sporadici, che rendono solo più evidente la differenza con la normalità, per rilanciare le occasioni per frequentarlo. Se vanno progressivamente perse le ragioni d’andarci, per lavoro, per shopping o per altre attività, la frequentazione delle persone andrà sempre di più verso altri poli, più attrattivi e accessibili, con buona pace di tutti i dibattiti sul rilancio.




Una seconda Liberazione? Finirla con i soprusi in nome della libertà

Voglio raccontarvi una cosa che mi è capitata ieri, 25 aprile: io mi trovavo in Toscana per lavoro e, insieme a mia moglie e ad una coppia di cari amici, stavo festeggiando il mio onomastico: come spesso accade, ho voluto fare un post su Facebook, così, per sottolineare la ricorrenza e ho postato una foto artistica di un leone di San Marco. Subito, molti conoscenti hanno risposto, facendomi gli auguri. Tra questi c’era anche un ex consigliere comunale di centrosinistra, col quale sono in buoni rapporti, anche se, qualche volta, ci punzecchiamo un po’: solo che, oltre a farmi i predetti auguri, lui ha voluto metterci la provocazioncella politica. Non mi ha augurato buon onomastico, infatti, ma buona festa della Liberazione. Io gli ho risposto, un tantino piccato, che lui si festeggiasse quel che gli pareva, ma che, in quella sede, io stavo gioendo per il mio onomastico e basta: apriti cielo, come prevedibile, è partito il pistolotto! Se non ci fosse stata la Liberazione, un qualunque Pavolini (chissà poi perché proprio Pavolini?) avrebbe potuto impedirti di parlare… A questo punto, mi è saltata la mosca al naso e gli ho risposto di andare pure a farsi la sua bella manifestazione, con tanto di benedizione da parte mia, che io avrei mangiato e bevuto tale e quale.

Liberazione 25 aprilePerò, adesso, vorrei spiegare a voi e, se mi leggerà, a lui, come la vedo veramente. Il fatto è che io, venuto al mondo nel 1960, ho avuto la fortuna di nascere libero: Pavolini, quando l’ostetrica della clinica Castelli mi ha scodellato in braccio a mio papà, era morto da quindici anni e, con la mia, diciamo così, Bildung, non ha avuto niente a che fare. In compenso, quando sono arrivato al liceo, mi sono trovato davanti torme di giovanotti, più anziani di me di qualche annetto, che non mi lasciavano entrare in classe, perché avevano deciso autonomamente che tutti dovessero aderire ai loro scioperi. I medesimi o i loro omologhi erano quelli che, nelle assemblee d’istituto, impedivano, se necessario con la forza, a chi non la pensasse come loro, di parlare. Va detto che quello che loro pensavano, con il passare del tempo, si è rivelata la più colossale boiata ideologica degli ultimi duecento anni: allora, però, andava di moda, così come andava di moda zittire, con le buone o con le cattive, qualunque forma di dissenso. E, tutto questo, in nome della libertà e della democrazia. Pur essendo uno sprovveduto ginnasiale quattordicenne, notai da subito una certa discrepanza tra il dire ed il fare di questi aspiranti capipopolo: e mi montò una rabbia che ancora non mi sbolle e che, in sostanza, ha fatto di un agnostico istintivo un uomo di destra. Innanzitutto, perché mi sembrava e mi sembra un’ingiustizia mostruosa usare parole come “libertà” o “democrazia” per mascherare la prepotenza e la prevaricazione e, poi, perché questa bella abitudine, mutatis mutandis, non è affatto cambiata.

Oggi, i giovanotti di allora, divenuti spesso ricchi ed attempati professionisti, fanno ancora di tutto per isolare, marginalizzare, escludere da ogni attività e da ogni opportunità chi non sia loro sodale: e l’interpellanza in Comune a Bergamo sulla mia esclusione da ogni iniziativa per il centenario della Grande Guerra la dice lunghissima su come funzionino le cose. I loro eredi, invece, inscenano ogni tre per due allarmi democratici, manifestazioni, presidi, insultando serenamente chiunque dissenta dal loro credo, quando non mettono a ferro e fuoco qualche centro cittadino. Il che deriva, in fondo, da un misto di ignoranza abissale, di invidietta sociale e di sacrosanta paura di doversi rimboccare le maniche: i nipotini coccolatissimi della rivoluzione, alla fine, vogliono autolegittimarsi come sentinelle della democrazia soprattutto per non pagare l’affitto. Così, leggo su internet che hanno assimilato, in un medesimo odio, personaggi diversissimi come Mussolini, Sora e Locatelli, sulla base di una comune fede fascista: inutile dire che questo equivarrebbe a mettere sullo stesso piano Stalin, Gramsci e Berlinguer, ma so già che questo tipo di argomenti non arriva ai neuroni degli interessati. Dico solo che la logica delle 1.500 firme contro i tre incriminati è la stessa dei quattro giovanotti che impedivano a tutto il “Sarpi” di fare lezione: togliete pure tutte le cittadinanze che volete, ma non perché ve lo impone una assoluta minoranza di strillatori professionali, perché significherebbe dare ancora ragione alla logica inaccettabile della “prepotenza democratica”. Farla finita con i soprusi in nome della libertà: questa sì che sarebbe una seconda Liberazione!