Fondo Atlante, quell’opportunità tra salvataggi e business

Il fondo Atlante, un nome che indica bene lo sforzo che si propone di sostenere, è bene che ci sia, ma è soprattutto strano che sia arrivato così tardi. A prima vista sembra un progetto paradossale. Perché le banche italiane, che tutte, chi più chi meno, hanno già per loro conto sofferenze, ovvero prestiti che difficilmente rientreranno, per un totale complessivo di 200 miliardi lordi, dovrebbero mettersi a comprare le sofferenze degli altri? I critici, anche tra le stesse banche che in certi casi obtorto collo hanno dovuto accondiscendere alla partecipazione al fondo, sostengono che in questo modo, per salvare istituti decotti, si mettono a rischio anche gli istituti sani. Del resto, in sintesi, il fondo Atlante non è che una sorta di consorzio che per sostenere il sistema creditizio ed evitare che il crac di una banca abbia un effetto domino sulle altre si propone di comprare i crediti complessi degli istituti in difficoltà e sostenerli patrimonialmente in caso di necessità di aumenti di capitale che il mercato non è disposto a sottoscrivere. Eppure quello che da un lato sembra solo un salvataggio visto dall’altra parte è anche un’opportunità di business. Del resto c’è chi dell’acquisto dei crediti in sofferenza ha fatto il suo profittevole mestiere e non sembra un caso che al fondo Atlante si sia decisi di arrivare quando alcuni fondi internazionali si sono fatti avanti per rilevare Carige (il fondo Apollo) e la Popolare di Vicenza (il fondo Fortress) puntando proprio ai loro prestiti incagliati.

Banca EtruriaDel resto Fortress, fondo quotato a Wall Street, aveva annunciato nell’estate di due anni fa che avrebbe puntato un miliardo di euro per investire sui crediti in sofferenza delle banche italiane, desiderose di alleggerire le posizioni anche per rientrare nei limiti patrimoniali previsti dalla vigilanza. In questa ottica, infatti, tutti gli istituti, negli ultimi anni, hanno ceduto prestiti non performanti (i cosiddetti “non performing loans”), cioè fidi che i debitori non riescono più a rimborsare. Un servizio che ovviamente viene pagato: nel caso delle quattro banche salvate a novembre (Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti), ad esempio, il valore di cessione delle sofferenze è stato portato ad una media del 22,3% del valore nominale, data da una media ponderata tra il 31% assegnato alla porzione garantita da ipoteca e il 7,3% a quella chirografaria, senza garanzie. Ma ogni credito è una storia a sé. Un conto è il pagherò di un pizzicagnolo e un altro è quello di un mutuo su un immobile assistito da un’ipoteca. Ma è anche un conto un’ipoteca su un palazzo in via Montenapoleone e un altro su un appartamento in un condominio di Zingonia destinato alla demolizione. Quindi si tratta di andare a vedere, caso per caso, cosa c’è nel lotto e, con arte un po’ da antiquario e molto da rigattiere, trovare le pepite in mezzo al ciarpame senza valore.

Chi acquista in blocco pagando una frazione del valore nominale, può fare grandi profitti se riesce a farsi rimborsare dai creditori più di quella frazione o a valorizzare in maniera superiore ad esempio gli immobili che ottiene dall’ipoteca. E’ un lavoro da specialisti che richiede tempo – aiuterà molto l’annunciato decreto che prevede lo snellimento della procedura e la velocizzazione del recupero crediti – e anche le mani libere nel trattare il creditore che non sempre le banche hanno. Ma è redditizio tanto che secondo quanto stimato da Alessandro Rivera, a capo della direzione “Sistema bancario e finanziario” del Tesoro, il fondo Atlante potrebbe avere un rendimento del 6-7%. E questo nonostante le spinte perché l’acquisto dei non performance loans non ai prezzi di mercato, come potrebbe essere il 22,3% adottato per le quattro banche, ma vicino ai prezzi di libro (cioè al valore nominale detratti gli ammortamenti che mediamente sono intorno al 50%), in modo più favorevole agli istituti che li cedono, riducendo così anche la quota di potenziale recupero e di profitto per l’acquirente. Solo l’annuncio dell’arrivo di Atlante peraltro ha già portato ad un aumento dei prezzi di cessione dei Npl, a conferma che forse prima il business era sbilanciato a favore degli acquirenti. Del resto l’Abi stima che le sofferenze bancarie nette, quindi considerata la parte già spesata in bilancio, ammontino a 83 miliardi, quindi ci si avvicina al 40%, sempre come media (che è comunque quasi il doppio della valorizzazione adottato per le quattro banche), a fronte dei 200 miliardi di sofferenze lorde. C’è quindi margine da spartire tra minori profitti per l’acquirente e minore perdita per le banche che vendono: ma l’interesse per l’operazione resta.

Anche dagli aumenti di capitale, il secondo pilastro degli interventi di Atlante, che sarà probabilmente quello più importante, è possibile un ritorno nonostante l’intervento sia di ultima istanza di fronte al fatto che nessuno vi vuole partecipare. Il primo intervento di Atlante sarà con ogni probabilità l’investimento di una cifra vicina all’impegno massimo di un miliardo e mezzo nell’operazione di aumento di capitale iperdiluitivo che dovrebbe finire per dare al Fondo stesso il controllo della Popolare di Vicenza. Un istituto che viene valutato attualmente solo 10 milioni di euro, cioè una frazione del solo patrimonio tangibile, e dove i margini di recupero sono molto ampi. L’operazione Atlante quindi dovrebbe combinare salvataggi e business (con i rischi d’impresa del caso). Per quanto ci possano essere perplessità – a partire tra l’altro dalla capacità di intervenire con un patrimonio nel complesso contenuto (le adesioni hanno superato i 4 miliardi, ma tra Vicenza e Veneto Banca sono in arrivo aumenti che potenzialmente potrebbero richiedere l’intervento del Fondo per più di metà di quella cifra) di fronte a una montagna di 200 miliardi di sofferenze – c’è anche da dire che è bene considerare un’opportunità quella che in fondo era una strada senza alternativa.




Una gaffe dietro l’altra, quanta ignoranza tra i politici

La galleria ferroviaria de Gottardo
La galleria ferroviaria del Gottardo realizzata dagli svizzeri. Per Renzi è invece made in Italy

Sapete, quando si scrive o si parla in pubblico, può sempre capitare di commettere qualche errorino: io, per esempio, una volta confusi Guglielmo Giannini, quello dell’ “Uomo Qualunque”, con Alberto Giannini, quello del “Becco Giallo”. Mal me ne incolse, perché l’illustre correlatore mi fece fare una figuraccia penosa, che ancora oggi rammento con imbarazzo ed un senso fastidiosissimo di disagio irrisolto. Fu un disagio salutare, giacchè, da quel giorno funesto, prima di dire una cosa, ci penso dodici volte e mi documento più che posso: la topica resta sempre dietro l’angolo, ma, perlomeno, è un rischio più remoto. Invece, mercè forse la schiera di leccaculi, che fa sì con la testa a qualunque bestialità il capo estruda, oppure per quel senso di investitura divina che, dalle nostre parti, è solito alonare chi occupi un posto di qualche rilevanza, il comandina di turno non è mai neppure sfiorato dall’ idea che si possano berciare scempiaggini, anche se si è potenti e riveriti.

Fatto sta che costoro, con una frequenza che si sta facendo significativa, esprimono concetti ed esternazioni di un’asinità allarmante: il che, lasciatemelo dire, non è mica tanto un bel segnale. Io rammento la sparacchiata ciclotronica della Gelmini, che, evidentemente frastornata dalla velocità siderale con cui la sua auto blu la riporta a casina bella, immaginò un tunnel che portava da Ginevra al Gran Sasso. Allora, tutta l’Italia rise della maestrineggiante Gelmini: sarà che era berlusconiana, sarà che aveva un bell’accento bresciano, da fare innamorare i sassi, la cosa venne stigmatizzata e ridicolizzata secondo merito. Poi, però, questo genere di idiozie, vuoi per l’aumentata frequenza, vuoi per la mutata tendenza politica degli esternatori, ha cominciato a passare sempre più sotto silenzio. La ministra Giannini (l’ennesimo Giannini, maledizione!) ha confuso serenamente il caccia F35 con un modello di missile, e si è sentita solo qualche risatina, tra gli addetti ai lavori: ed era il ministro della Difesa, non della salumeria. Però, magari, la maggioranza degli Italiani, dopo decenni di pacifismo demente e di ignoranza scolastica, non era tenuta a riconoscere l’entità della cantonata.

Che dire, tuttavia, di questi giorni grami, in cui il presidente del Consiglio e la presidente della Camera, in meravigliosa congiunzione astrale, sono riusciti a dirne due che, davvero, fanno tremare i pilastri? Il primo, in un empito di entusiasmo, si deve essere detto: massì, balla più balla meno, spariamola grossa, che, tanto, chi vuoi che se ne accorga, in mezzo a tante balle? Così, serenamente, ha raccontato al Paese che il tunnel del San Gottardo, la galleria ferroviaria per alta velocità più lunga del mondo, capolavoro di efficienza e di ingegneria elvetica, 57 chilometri di svizzeraggine allo stato puro, in realtà l’abbiamo fatto noi. Che, a un dipresso, sarebbe come dire che abbiamo fatto noi la Tour Eiffel, il Muro di Berlino e le Piramidi, tutto assieme. Avete sentito qualcuno dare del pirla all’estensore di sì formidabile sparata? Macchè: nemmeno un plissé. Molto ben detto eccellenza, congratulazioni eccellenza, bravissimo davvero eccellenza. Pensate che delusione, quando uno dei sessanta milioni di appecorati si dirigerà pieno d’orgoglio verso il centro d’Europa, convinto di usufruire dell’altissima tecnologia italica, e a Chiasso si troverà i doganieri svizzeri! Dunque, a Renzi tre in geografia e due in onestà ideologica.

Ma che dire della presidentessa Boldrini, che, due giorni fa, l’ha sparata altrettanto grossa, passando dalla geografia alla storia? Certo, io capisco che, per assecondare l’uzzolo personale nei confronti dell’immigrazione, cui la gentile signora pare tenere più che alla propria nomea culturale, ogni arma sia buona: tuttavia sostenere, senza mettersi a ridere, che il vallo di Adriano, costruito nel II secolo dopo Cristo dall’omonimo imperatore, abbia impedito ai Romani di amalgamarsi felicemente coi loro dirimpettai, è davvero imbarazzante. Perché quello era il Limes: dall’altra parte c’erano i cazzutissimi predoni Pitti, mica i bambini siriani cogli occhioni sgranati. Così va il mondo. D’altra parte, anche noi, in fondo, abbiamo un’assessora alla Cultura che è convinta, al punto da scriverlo, che la prima guerra mondiale sia iniziata il 23 agosto. E nessuno si sogna di farle notare che è una castroneria colossale: specialmente, guardacaso, i superesperti che ha messo nel comitato per il centenario della Grande Guerra. Gli antichi progenitori, privi del fondamentale apporto culturale delle genti caledonie, avrebbero commentato: asinus asinum fricat.

 




Chi vuol chiudere l’ospedale condanna anche la Val Brembana

Ospedale San Giovanni BiancoConverrà affidarsi alla Sacra Spina. Chissà che una preghiera collettiva ai piedi della reliquia che nelle scorse settimane ha mostrato un “segno” che a qualcuno ha fatto gridare al miracolo non sortisca effetti migliori della marcia di protesta di 3-4 mila cittadini della Valle Brembana, scesi in strada per chiedere la salvaguardia dell’ospedale di San Giovanni Bianco.
Nonostante la mobilitazione popolare e malgrado l’affannarsi in ogni sede di sindaci e amministratori locali, il destino della struttura sanitaria è sempre più precario, fino al punto da non poter escludere (certo non a breve termine) una chiusura o una riconversione. Difficile immaginare un futuro sereno quando, secondo la collaudata tecnica del carciofo, il presidio perde un pezzo dietro l’altro. Nemmeno il tempo di digerire la chiusura del punto nascite, ed ecco il ridimensionamento della pediatria, la revisione degli orari del pronto soccorso, il timore di ulteriori tagli.
Da vertici della sanità bergamasca arrivano rituali e poco convincenti rassicurazioni. “L’ospedale non si tocca” giurano. Ma nello stesso tempo compulsano tabelle e normative. Proprio quelle che rendono poco credibili le loro parole. Perché il punto è tutto lì. E’ nell’assoggettare un ospedale di montagna alle logiche generali, nel considerare le strutture sanitarie tutte uguali, tutte misurabili su freddi parametri statistici ed economici. “Se non ci sono almeno 500 nascite all’anno, un reparto non può rimanere aperto” detta la Regione. E San Giovanni, che si è fermato circa alla metà, ha pagato dazio. Pazienza se un lieto evento in Valle Brembana ha un valore che va al di là del numero. E’ il segno della gente di montagna che non si arrende allo spopolamento, che rimane gelosamente attaccata al suo territorio, che continua ad immaginare un futuro in realtà isolate.
L’ospedale è un polmone che dà fiato alla Valle, è l’angelo custode su cui contare nel momento del bisogno. Se questo viene meno, svaniscono anche le ragioni per rimanere. Bisognerà rifletterci seriamente e ritrovare la coerenza tra i rituali richiami all’importanza della montagna e le decisioni che si prendono. Stupisce, quindi, che proprio chi fa della tutela delle radici il proprio atout propagandistico e valoriale se ne dimentichi quando procede con logica da piccolo ragioniere di paese.
Fa ridere pensare che le sorti della Sanità lombarda dipendano da qualche centinaio di migliaia di euro per i supposti sprechi dovuti al mantenimento dei servizi a San Giovanni Bianco. Non scherziamo, dai. I soldi buttati sono quelli finiti nelle tasche degli amici degli amici per consulenze inesistenti o per servizi pagati tre-quattro volte il loro valore. Basta ricordare solo gli ultimi scandali che hanno fatto finire in carcere in Lombardia l’ex assessore alla Sanità Mario Mantovani e il presidente della commissione Sanità Fabio Rizzi. Ma in questi giorni è in corso a Milano il processo a carico dell’ex governatore Roberto Formigoni e anche in questo caso sono emersi giri di denaro da decine di milioni assolutamente non giustificati se non da logiche di potere o familistiche.
E allora, finiamola di fare i rigoristi sui più deboli, su chi ha tutti i titoli per chiedere una attenzione che vada al di là delle occhiute regole di bilancio. Se è stato giusto riconvertire gli ospedali di Trescore, Calcinate, Sarnico, è altrettanto sacrosanto chiedere che a San Giovanni Bianco siano date tutte le risorse per mantenere viva ed efficiente una struttura di vitale importanza per una parte così significativa del territorio. Non è campanilismo, è semplice buon senso. Così come non è affatto una questione di quattrini. O meglio, lo è ma non fino al punto da impedire una decisione ponderata e legata alla specificità del caso. Insomma, è una mera questione di volontà politica. Il presidente (e assessore alla Sanità ad interim…) Roberto Maroni, se c’è e vuole davvero dimostrare di essere vicino al territorio, batta un colpo.




Il canone Rai è un sopruso! Ecco perché proprio non mi va giù

Rai canoneChe vi devo dire? A me sembrava un sopruso bello e buono, già quando ti facevano pagare il canone Rai, anche se tu nemmeno possedevi un televisore: bastava un semplice computer per garantirti l’obbligo. Annunciatrici, presentatori, mezzibusti e galliname assortito ti iniziavano a raccomandare sei mesi prima di pagare questo maledetto canone: e andavano avanti sei mesi dopo a dire che potevi emendarti, che con una piccola sovrattassa saresti stato in pace con la tua coscienza e con le patrie gabelle. Poi, visto che sempre più gente se ne strafregava del canone, della Rai e delle gallinesche esortazioni, hanno cominciato a mandare in giro garruli omuncoli, vestiti impeccabilmente, a controllare, prima verbatim e poi de visu, se avevi o meno strumenti atti alla riproduzione video oppure se avevi posto i sigilli ai canali di Stato. E Vabbè: una seccatura, ma niente di più. Alla fine, esasperato, pur di evitare ulteriori rotture di zebedei, pagavi e amen. Poi, è arrivato questo bel capo d’opera, e si è inventato l’ennesima boiata del canone in bolletta: così, deve essersi detto il furbacchione, non mi scappano, questi maledetti Italiani!

Ora, però, credo che il problema si sia spostato di baricentro: mi pare che il punto chiave non sia più pagare o meno una tassa di possesso del televisore, che vada a finanziare la tv pubblica o che permetta alla Rai di trasmettere anche programmi non commercialmente appetibili, in alternativa alle televisioni private. Intanto, un tempo, si diceva che il canone serviva a mantenere la qualità televisiva dell’azienda di Stato, che non poteva contare sugli sponsor e sulle entrate pubblicitarie: solo che, invece, oggi la Rai manda in onda pubblicità esattamente come gli altri. Sulla qualità, ovviamente, stendo un velo pietoso, ma il dato iniziale è completamente venuto meno: ergo, che paghiamo a fare? In secondo luogo (e credo sia la questione fondamentale), io penso che dare soldi alla Rai, oggi come oggi, sia semplicemente mantenere con le nostre palanche una servilissima agenzia di propaganda governativa: finanziare, coi soldi di tutti, le veline e le strombazzate di Renzi e della sua compagnia di giro. Pensate che stia scherzando? L’avete presente quella foto sui sondaggi demoscopici che gira in modo virale su Facebook? Massì, dai: quella in cui si vede un serioso giornalista di Agorà che racconta bubbole, con alle spalle un grafico a torta  riferito all’opinione degli Italiani sulle vocazioni lobbiste del governo Renzi. I numeri sono eloquenti: il 44% crede che Renzi appoggi smaccatamente le lobby, il 31% non lo crede e il 25% non sa o non risponde. Come dire che quasi un Italiano su due pensa che siamo governati da imbroglioni e da faccendieri, tanto per capirci. Solo che, su di un bellissimo sfondo rosso “rivoluzione d’ottobre”, le fette della torta non rispecchiano affatto, nelle dimensioni, il  dato numerico: il 31% occupa metà del cerchio, mentre il 44% è più piccolo perfino del 25% degli insipienti. Trucchetto patetico, per carpire l’approvazione (e il voto) degli anziani, dei miopi, dei disattenti cronici: insomma, di quelle categorie più deboli cui il PD dice sempre di pensare notte e dì.

Questa, signori, si chiama manipolazione del consenso o, se preferite, truffa ai danni dei cittadini: e questa truffa è messa in atto dalla sedicente televisione pubblica, per compiacere i propri padroni. E noi dovremmo cacciare cento euro a testa per mantenere agi e privilegi di questa banda di leccapiedi? O per permettere a Bruno Vespa di intervistare il giovane Riina? Per sorbirci i pistolotti di questo e di quello? Per gli scoop raccapriccianti della D’Urso? Per le risse da cortile nei talk show? Per sostenere il Minculpop in versione terzo millennio? Per ascoltare telegiornali tragicomici, con palinsesti accomodati, notizie camuffate e filmati taroccati? Al confronto, i filmati Luce del Ventennio erano la Bibbia illustrata. Insomma, miei cari, il punto non è più che farsi estorcere dei soldi per un servizio tutto sommato superfluo non garba a nessuno: il punto è che con quei soldi si finanziano marchette, in una sorta di favoreggiamento della prostituzione mediatica. Perché, in questo modo, non solo ci è stata tolta la libertà di decidere se finanziare o meno dei programmi scadenti, ma anche quella di scegliere se dare o meno ascolto alle panzane governative: col canone in bolletta, ci hanno tolto possibilità di mandare a remengo, simbolicamente, la Rai, i suoi padrini, i suoi padroni e tutto il caravanserraglio di ministre piangenti, litiganti ed intriganti che la Rai, quotidianamente ci infligge.




Renzi, l’emulo di Craxi che rischia di farsi male da solo

Matteo Renzi
Matteo Renzi

Più ascolti Matteo Renzi e più ti ritorna in mente Bettino Craxi. Più vedi come si muove, da chi si circonda, i bersagli che colpisce e più il senso di un dejà vu si fa palpabile e opprimente. Chissà se l’epilogo sarà egualmente drammatico, c’è da augurarsi di no, per il bene suo e dello stesso buon nome del Paese. È arduo, però, sfuggire ad un parallelismo che vede due uomini politici così diversi per storia personale, cultura, età anagrafica, valori di riferimento accomunati da un modus operandi molto simile se non addirittura sovrapponibile.
Partiamo dallo stile, anzitutto. L’esuberanza che sulle prime caratterizzava positivamente Renzi e ne faceva l’uomo nuovo capace di scardinare i vecchi schemi e mandare in quiescenza le cariatidi del Parlamento si è presto tradotto in arroganza, in un modo di atteggiarsi e di parlare che pretende di far passare la sfrontatezza come capacità di parlar chiaro. Anche Craxi amava essere rude, talvolta sprezzante. Memorabili i litigi con Berlinguer e De Mita, ma anche talune sfuriate contro intellettuali e giornalisti, rei magari soltanto di non essere adusi a baciare la pantofola in anni in cui, tra nani e ballerine, l’indipendenza di giudizio non era classificata tra le virtù. Oggi sono cambiati in parte i mezzi di comunicazione. E i social, per la possibilità che consentono di trasmettere senza filtri il proprio pensiero, possono accentuare e rendere ancora più urticante la spregiudicatezza verbale. Renzi ne è consapevole, sa il rischio che corre, ma è convinto che l’unico modo per svettare rispetto a tutto il resto del panorama politico sia “andare sopra le righe”, parlare il linguaggio della pancia, polemizzare con il tono che si usa al bar sport.

La cultura di Craxi era ben altra, intendiamoci, non i modi. E quei modi, alla fine, gli costarono l’insofferenza e la rabbia degli italiani. Renzi sta calpestando le orme del leader socialista anche per i contenuti. Entrambi convinti della necessità di innovare il polveroso assetto istituzionale, entrambi pericolosamente portati ad intravedere nel ridimensionamento delle Camere come dei corpi intermedi la soluzione. Entrambi, soprattutto, pencolanti, più o meno consapevolmente, verso un modello tranchant che affida ad una figura forte la salvezza della Patria. In altre parole, Renzi come Craxi teorici dell’uomo solo al comando. Di per sé nulla di drammatico, il mondo è pieno di sistemi democratici caratterizzati da un premierato forte. Ma ad accomunare il leader di ieri con quello di oggi c’è l’insofferenza ai controlli, ai contrappesi, al render conto ai giornali. E questo è molto italiano.
E che dire della battaglia contro i magistrati? Le ultime uscite del premier, la sua insofferenza per indagini che bloccherebbero le opere (come se il rispetto della legalità fosse una variabile indipendente), assomigliano terribilmente alle sfuriate craxiane contro le toghe che osavano mettere il naso nei traffici di taluni manutengoli del suo partito. Sappiamo tutti come è finita in quel caso e fossimo in Renzi useremmo maggiore cautela nel mettere la mano sul fuoco, anche o soprattutto sugli amici e le amiche del cosiddetto Giglio Magico.
Tratto autoritario, autoreferenzialità, spregiudicatezza: ecco le tre caratteristiche che stanno facendo del presidente del Consiglio un tardo emulo del leader socialista. Renzi, se vuole, è ancora in tempo per ravvedersi. Ma, come Craxi, vede nemici e complotti dappertutto. E alla fine rischia di farsi male da solo.

 




Indifferenti alla bellezza, moriremo tutti di stupidità

città Alta - Natale - bella atmosfera - foto VisitBergamoL’Italia possiede un intero universo di oggetti, opere, scorci meravigliosi: il fatto che gli Italiani siano diventati indifferenti alla bellezza è, insieme, il più assoluto paradosso, la più evidente catastrofe e il crimine contro la civiltà più sanguinoso della nostra epoca. Eppure, nessuno ne parla, nessuno cerca di rimediare e nessuno la pagherà. Ci spegneremo nella vergogna, nella bruttezza e nel silenzio, come gli eredi di un patrimonio immeritato che provenga da lontani e sconosciuti parenti. Forse, qualcuno, prima del crepuscolo, aprirà gli occhi e, come un sonnambulo che ritorni alla realtà, si domanderà: come siamo potuti arrivare a tutto questo? I grandi pensatori del Basso Impero soffrirono per le stesse, dolorosissime, certezze: la visione profetica dell’abisso che stava inghiottendo il loro mondo, e sul cui orlo etère e pretoriani, imperatori e proconsoli, danzavano spensierati, mentre, ai confini di Roma, montava la rovina definitiva. Vox clamantis in deserto: la voce di uno che grida nel deserto, questo, probabilmente, è il più fedele ritratto di quegli uomini, condannati, come Cassandra, ad inascoltati vaticini. Mirabilmente, il Vangelo descrisse quell’ inappellabile sprofondare degli dei pagani e della loro civiltà, dietro le sembianze del Battista: ma Giovanni non gridava nel deserto, e i cristiani nutrivano la fede in un’epoca nuova e migliore, che avrebbe sostituito quella degli schiavi e dei signori.

Noi, viceversa, non abbiamo nessuna fede e non possiamo ipotizzare nessuna età dell’oro, ma solo la fine. Siamo già postumi, anzi: nelle nostre scuole, in cui lo strumento prevale sull’umanità, nelle fabbriche, per le nostre strade, siamo semplicemente i relitti sbattuti sulla spiaggia dal fortunale. E ci illudiamo di essere ancora vivi: che si tratti soltanto di una crisi passeggera, determinata da qualche nodo economico da sciogliere, risolvibile con qualche rimedio omeopatico, con una tisana, un cataplasma. Ma anche il malato terminale fa progetti: perfino sul letto di morte le persone parlano dei viaggi che faranno, delle cose nuove che introdurranno nella loro immaginaria vita futura. E così noi: non altrimenti progettiamo un mondo che non sarà. Che non saremo. Vi è questa meravigliosa facoltà negli umani: una sorta di seconda coscienza, che smorza il dolore alimentando false speranze. Invece, guardiamo negli occhi la sorte di questo Paese: noi cesseremo di esistere, come entità statale e, soprattutto, come comunità umana. I fili che ci legano gli uni agli altri sono già esilissimi: quasi miracolosamente sopravvissuti agli eventi. Come Stato, abbiamo perso quelle che sono le più evidenti prerogative statali: tanto per cominciare, le istituzioni sono percepite e, spesso, sono di fatto, il primo nemico della gente comune. Dal vigile urbano che scrive verbali di contravvenzione, fino ai giudici della Consulta, tutti coloro che rappresentano la giustizia, in senso latissimo, sono visti dal cittadino come nemici occhiuti ed avidi, da cui guardarsi: mai come difensori o come riferimenti.

Lo stesso dicasi per il fisco, che, anziché significare un’equa ridistribuzione delle risorse economiche, è ormai soltanto un inghiottitoio, in cui ogni stilla di sangue della società precipita, ad alimentare ignoti e, sovente, tenebrosi fiumi carsici. E potremmo proseguire all’infinito: scuole che non insegnano, sindacati che non sindacano, accademie di nessuna scienza, religiosi privi di religiosità. Questa la percezione. Il vero dramma, però, è che chi sta ai vertici è convinto, nella presunzione tipica di chi comanda senza nessuna investitura e senza nessun merito, che questa percezione pertenga al popolino, alla sesquiplebe: loro, gli illuminati, sanno, vedono la luce fuori dal tunnel, conoscono l’Eden cui ci stanno conducendo le loro scelte scellerate. E, invece, il popolino questa volta ha visto giusto: sono loro, i soloni dei dicasteri, delle sovrintendenze, dei provveditorati, ad avere le palpebre cucite. Ubriachi di parole ridondanti, circondati di ciarlatani e di abbindolatori, alonati della loro gloria da quattro soldi, fatta di privilegi, di auto lampeggianti, di ossequi e d’inchini, coloro che dovrebbero guidare l’Italia alle resurrezione sono, in realtà, gli ultimi esecutori di un destino feroce: i carnefici, stupidi ed inconsapevoli, di una civiltà. Questa è la verità: noi moriremo di stupidità. Non per una guerra che ci concluda, in un unico formidabile lampo. Nemmeno per meticciati che ci disperdano in mille lingue e mille colori. Solo per la nostra incommentabile stupidità, che si rivela nella suprema scempiaggine di chi ci comanda e nella ancor peggiore passività pecoresca di chi obbedisce, senza nemmeno domandarsi più il perché. Eppure, fuori di noi c’è quell’universo incredibilmente bello che i nostri padri hanno saputo creare e che non vediamo più: non ne cogliamo il messaggio né ne vediamo le potenzialità. Forse, semplicemente perché non ne siamo più degni.




Ubi banca, con i fondi s’è fatta chiarezza. In attesa del prossimo choc

Ubi BancaFinalmente c’è una stabile chiarezza nella governance Ubi. L’abbandono (forzato, ma accolto con solitaria sollecitudine) della formula Popolare ha dissipato i ricorrenti sospetti di autoreferenzialità rivolti alla categoria, e nella prima assemblea da società per azioni – riunione che ha visto la partecipazione di quasi metà del capitale di Ubi, un dato record se si considera la realtà dalla quale si proveniva – ha attribuito oltre il 51% del consenso, espresso in azioni, alla lista dichiaratamente di minoranza presentata dai fondi. Un segno forte e chiaro, che sgombera ogni dubbio sul fatto che la banca non è dei bresciani, né tantomeno dei bergamaschi, ma è quello che deve essere, una società per azioni, ovvero proprietà dei suoi azionisti. E paradossalmente nel passaggio da cooperativa popolare a Spa la banca è diventata ancora più public company di prima. I fondi, infatti, tanto demonizzati da chi ha motivazioni diverse dalle loro, come espressione di sconosciuti interessi “plutomassonici” (per non dire di peggio), in realtà rappresentano alcune centinaia di migliaia, tutti insieme anche milioni, di investitori, ai quali interessa che la società cresca con una logica di lungo periodo e assicuri remunerazione in maniera sostenibile, e vedono quindi male le collusioni localistiche. Che invece si può pensare non siano aliene da chi non si arrende all’evidenza, si consola con calcoli astrusi sul risultato del voto e ipotizza rivincite con appelli al campanile. E’ un’opzione certamente possibile in un’economia democratica, che però non ammette scorciatoie, ma richiede una sola condizione: acquistare le azioni ed averne una in più dei competitori. Il resto è vaniloquio.

Intanto si è creata in Ubi una situazione inedita, anche se sempre più comune tra i grandi gruppi. La lista dei fondi, che ha la maggioranza dell’assemblea di Ubi, si è accontentata di esprimere tre consiglieri di sorveglianza su 15, ed ha poi votato in maniera compatta quelli mancanti, proposti dal listone orobico-bresciano-cuneese e approvati dall’assemblea con il 99%. Curiosamente questi nove consiglieri sono stati nominati con una percentuale più che doppia rispetto al presidente Andrea Moltrasio, al vicepresidente Mario Cera e al consigliere Armando Santus, che hanno invece ottenuto quasi il 49% e sono entrati come primi candidati del listone, diventato di fatto di minoranza, secondo classificato con più del 30% dei voti. Ma al di là di questo aspetto tecnico, il significato del voto è che il Consiglio di sorveglianza, praticamente confermato in blocco, è pienamente legittimato, con un avallo del suo operato attraverso il voto dei reali proprietari dell’azienda, i fondi. Probabilmente è uno choc per chi ritiene che amicizia e appartenenza dovrebbero essere i criteri di base per la selezione e tra un mediocre compaesano e un’eccellenza “forestiera” sceglierebbe il mediocre, alla faccia di ogni criterio meritocratico.

E probabilmente a breve ne avrà un altro, quando si arriverà alla creazione di una banca unica, nella quale si fonderanno i vari istituti rete, con la speranza che questo possa spazzare via una volta per tutte quei campanilismi che ancora frenano la banca. Situazioni incomprensibili per i fondi, soprattutto se internazionali, che hanno assunto il ruolo di “cane da guardia” e per farlo nella maniera migliore non si sono presi l’incarico di gestione diretta – in fondo non è il loro compito – ma hanno fatto capire in modo inequivocabile chi è che comanda e che può intervenire quando vuole, nel caso si crei una situazione che lo richieda. La chiara distinzione tra manager legittimati e una proprietà forte è una condizione dalla quale dovrebbero avere benefici la banca e tutti gli azionisti. Saranno scontenti, ovviamente, quanti rimpiangono la Popolare con la quale sognavano o tentavano di creare una consorteria basati sui privilegi dalla familiarità. Perché la deriva demagogica era il rischio che ha reso improvvisamente superato, anche per le maggiori dimensioni degli istituti, un modello che pure ha dato negli anni ottima prova di sé, nella Bergamo come in Bpu e in Ubi, ma anche deviazioni della quale è ricca la cronaca economica e anche giudiziaria. In ogni caso è una storia superata (e lo sarà ancora di più con il bancone). Finalmente.




Boccia vince, ma per Confindustria è tempo di profonde riflessioni

Vincenzo Boccia
Vincenzo Boccia

Quattro anni sembrano passati invano. Nel 2012 Giorgio Squinzi battè Alberto Bombassei 93 a 82. Stavolta, Vincenzo Boccia ha superato Alberto Vacchi 100 a 91. Confindustria spaccata era e spaccata è rimasta. “E’ segno di vitalità democratica” ha osservato qualcuno. Come a dire che gli imprenditori italiani si sono almeno risparmiati sia le false larghe convergenze del passato che le nomine dall’alto. Un voto che spacca a metà resta, tuttavia, un segno evidente di una difficoltà a vivere da protagonisti, con una linea d’azione chiara e condivisa, tempi in cui gli spazi per le associazioni di categoria, ancorché cariche di gloria, si sono terribilmente ristretti. Una fatica comune alle realtà del mondo economico, dal commercio all’artigianato, e che non risparmia nemmeno di certo i sindacati, a loro volta alle prese con una evidente crisi di rappresentanza che non si traduce ancora in un altrettanto vistoso calo di tessere solo perché le organizzazioni si sono trasformate in centri servizi fiscali e assistenziali.
Tornando a Confindustria, gli addetti ai lavori ci dicono che Boccia, grossomodo come il suo predecessore Squinzi, ha vinto grazie all’appoggio delle società pubbliche (Eni ed Enel in testa), dei colleghi del centro e del sud e di qualche sostegno guadagnato anche nel Nord est. Quella dell’industriale grafico salernitano era indicata come la soluzione nel solco della continuità, in contrapposizione ad una figura “nuova”, impersonificata dal bolognese Alberto Vacchi, imprenditore di successo nel ramo metalmeccanico. A questi, per inciso, è andato il voto (con una sola eccezione) dei colleghi bergamaschi. E su questo fronte si sono schierati anche personaggi del calibro di Luca di Montezemolo, Gianfelice Rocca e Alberto Bombassei. Non è bastato, seppur per soli 9 voti il Consiglio generale di Confindustria ha scelto Boccia.
Starà a lui dimostrare, a partire dal 25 maggio quando entrerà ufficialmente in carica, se gli imprenditori italiani si possono permettere di proseguire lungo il solco tracciato negli ultimi anni da Squinzi all’insegna del basso profilo e della sostanziale accettazione di un ruolo di mera testimonianza rispetto alla politica del governo (e di quello di Matteo Renzi, in particolare). Sia chiaro, nessuna nostalgia dei tempi in cui l’assioma era, per intenderci, “ciò che è bene per la Fiat è bene per il Paese”, ma come promotori di sviluppo e portatori d’ interessi, nell’ambito del confronto e della contrattazione tra le parti, gli industriali hanno il diritto-dovere di far sentire la loro voce. Di essere protagonisti, di incalzare chi governa a promuovere cambiamenti e riforme, di confrontarsi e scontrarsi con i sindacati. Di proporre al Paese idee e progetti che lo aiutino a mettersi al passo con il resto d’Europa e del mondo.
Il collateralismo, quando non la subalternità alla politica, specie quando la politica alza troppo la cresta e presume di essere autosufficiente, non paga. Asseconda, forse, qualche ambizione personale o regala a qualcuno l’illusione di poter sopravvivere. Non dà, invece, nessuna garanzia sul futuro. Ma detto questo, a chi, prima con Bombassei (il cui successivo ingresso in Senato non ha giovato) e ora con Vacchi, ha tentato la carta del cambiamento è doveroso chiedere una riflessione autocritica. Due sconfitte consecutive non possono essere derubricate come banali incidenti di percorso. Sì, avranno prevalso le solite logiche correntizie e, più in generale, le consolidate manovre di potere di cui gli industriali, certi industriali, non sono meno esperti dei politici che tanto criticano. Converrà però anche interrogarsi se l’auspicato rinnovamento possa concentrarsi solo nella pur fresca e intraprendente biografia di un candidato presidente.




Ubi Banca, in assemblea prove tecniche per i fondi?

Ubi bancaPer l’assemblea di sabato 2 aprile di Ubi Banca i giochi sono ormai fatti, dato che si presentano solo due liste e una di queste, con appena tre candidati, dichiaratamente di minoranza e che quindi non concorre per la presidenza e la vicepresidenza. Però ci sarà un elemento di particolare interesse ed è il comportamento in assemblea dei fondi. Fino a pochi giorni fa l’unica incertezza riguardava il numero dei voti per vedere se la lista dei fondi otterrà uno, due o tre consiglieri di sorveglianza, togliendoli al listone bresciano-orobico-cuneese. Per la stampa locale questo è determinante per vedere se i fondi, ottenendo il terzo consigliere, superando il 30% dei voti in assemblea, ridurranno da quattro a tre la presenza dei bergamaschi, aprendo così uno psicodramma orobico sulla perdita di rappresentanza. Ma la questione negli ultimi giorni è diventata un’altra ben più rilevante, che rischia di fare veramente diventare ancora più sterile la diatriba sulle poltrone divise in modo non paritario tra Bergamo e Brescia. E passa appunto per un evento imprevedibile nello scenario del credito nazionale.

Finora la Banca d’Italia ha sempre tenuto lontano i fondi dal controllo di un istituto italiano, ammettendoli solo come portatori di risorse finanziarie. Ma adesso che la vigilanza è passata alla Banca centrale europea il clima sta cambiando. E lo conferma il fatto che la newyorchese Apollo Management, che ha in gestione 250 miliardi di dollari, si sia fatta avanti per rilevare la maggioranza di Carige, con il beneplacito della Bce che ha “esortato” il Cda a tenerne conto, vedendo in questa proposta la possibilità di sistemare una delle non poche criticità del sistema nazionale. Apollo si è anche candidata per rilevare le quattro “good bank” nate dal commissariamento di Banca Etruria, Carife, Carichieti e Banca Marche e se tutta l’operazione dovesse andare in porto ci si troverebbe ad avere un fondo alla guida di un gruppo di grande rilevanza nella fascia sotto il Po.

La mossa di Apollo scardina un fatto che sembrava ormai acquisito. Attualmente, come si vede anche in Ubi, dove la loro candidatura è un evento inedito, i fondi non hanno mai mostrato interesse per la gestione diretta. Solo negli ultimi anni si registra una presenza sempre più puntuale di candidature nei rinnovi dei Consigli bancari per esprimere suoi rappresentanti. Eppure i fondi avrebbero teoricamente la possibilità di controllare il Consiglio, così come controllano il capitale. Già adesso in Ubi, se si mettessero insieme, i fondi avrebbero quasi il 50%, secondo le ultime stime, e soprattutto rappresenterebbero più del doppio del capitale faticosamente messo insieme dal listone. Quindi, se solo volessero, potrebbero presentarsi alla prossima assemblea con una lista di maggioranza e vincere in scioltezza. Del resto due soli azionisti insieme, Blackrock e Silchester, da soli valgono più del 10% del capitale. Ovvero più di metà listone

Per ora non vogliono, ma in futuro? C’è, è vero, il problema che i fondi non sono un’entità compatta, che vota in modo coeso e motivato. E ci sono anche fondi con visioni strategiche diverse: ci sono i fondi sovrani, i fondi pensione, i fondi d’ investimento, i fondi di private equity, gli hedge fund… Ciò non toglie che la vicenda Apollo-Carige mette il loro attivismo sotto una luce diversa. Non sia mai che dopo tanta silenziosa crescita negli anni, non decidano a un certo punto di passare all’incasso. Da questo punto di vista la conta in assemblea non sarà indifferente. Servirà, per le minuzie locali, per valutare se l’azionariato bergamasco frammentato non poteva essere meglio rappresentato che attraverso un patto di sindacato con soglie molto elevate. Ma servirà soprattutto per vedere se i fondi andranno molto al di là del 30% dei voti in assemblea che valgono i tre consiglieri. E magari facciano le prove per una futura maggioranza. E in questo caso, sia chiaro, non ce ne sarebbe più per nessuno, bresciani o bergamaschi che siano.




Quell’ ipocrisia che mina la nostra percezione del male

pasqualinoLa percezione del male, in altre epoche, meno frenetiche ed imprecise, assumeva contorni universali: perfino un contadino analfabeta era in grado di percepire la vastità della minaccia di una vittoria del male sul bene. Chiamava diavolo il male e Dio il bene, ma la sostanza era che qualunque male era male e qualunque bene era bene. Oggi, noi, figli e nipoti del relativismo trasformato in rèclame, divoratori di immediatezza culturale, rispetto a quel povero contadino siamo dei trogloditi: anzi, siamo, letteralmente, la società dei porci di cui parlava Platone nella Politéia, opulenti e ciechi. Non siamo in grado di percepire l’interezza delle cose: ne cogliamo solo la minima incidenza che esse hanno sulla nostra vita, senza avanzare di un passo. Per questo, la nostra visione, chiamiamola così, etica dell’esistenza è, in realtà, solo un monumentale egoismo, una cecità pressoché assoluta. Non siamo neppure in grado di comprendere le possibili conseguenze di eventi che non ci riguardino in prima persona, ma che preludano a future e, magari, ben più drammatiche, implicazioni.

Vediamo di spiegarci. Se uccidere un uomo è male, allora tutti gli uomini uccisi sono vittime di questo male. Se uccidere un animale è male, allora tutti gli animali uccisi sono vittime di questo male. Questo, perlomeno, sul versante etico. Perché l’etica non è la politica: non conosce la subdola via del compromesso. Né è capace di stilare graduatorie: non ha liste d’attesa ed ingressi vip. Perciò, se uccidono degli innocenti a Bruxelles o a Lahore, tanto per rimanere nell’ambito della cronaca, l’etica pretenderebbe eguale cordoglio ed eguale indignazione: l’empatia, la vicinanza culturale, l’impressione momentanea non riguardano l’etica, ma l’estetica. Ci sono morti più pittoreschi e morti più impegnativi, morti più celebrabili con gessetti e candeline, e morti dai contorni sfumati, indistinti: estetica, appunto. Morti più bellini di altri, in definitiva. Così è quasi sempre: le nostre menti atrofizzate non riescono più a concepire il male, ma solo un male, preciso, puntuale, definito e momentaneo. Possiamo commuoverci solo a determinate condizioni: e sono condizioni miserande.

Facciamo un altro esempio, anche questo di stretta attualità: suoi social network, a Pasqua, si sprecano gli accorati appelli a non mangiare gli agnellini di latte. L’agnellino è candido, rappresenta un simbolo di innocenza che il cristianesimo ha reso universale, cerca la tetta della mamma: lo prendono, lo scuoiano e lo imbandiscono in tavola, debitamente insaporito e cotto. E’ una barbarie. Ma è una barbarie che ci arriva in casa: che ci raggiunge come un pugno nello stomaco. E noi, società porciforme, versiamo la nostra catartica lacrimuccia: non importano i cuccioli di scrofa o di vacca che, ogni giorno dell’anno, subiscono lo stesso destino. Quelli non sono candidi, non sono simboli, e le tette delle loro mamme non sono cercate col medesimo tenerissimo desiderio. E neppure pensiamo ai cuccioli di donna che muoiono a migliaia, ogni giorno, per la sete, la fame, le malattie: mica possiamo pensare a tutto, d’altronde. Gli agnellini sono chic e poco impegnativi. D’altronde, in qualche modo, anche il caviale beluga è fatto coi piccoli dello storione: chi si commuoverebbe per una strage di uova di storione? E poi il caviale è così appropriato, sotto le feste: non si sbaglia mai a servirlo!

Ecco, la società del porcile funziona proprio così: si commuove, ma quel tanto che basta. Partecipa, manifesta, veglia incandelata, ma poi: avanti, alò, chi more more…Perché la nostra non è etica, ma solo un’immemore, disattenta, autoassolutoria correttezza formale. E’ come quel segno di croce fatto alla svelta, quel cenno soltanto di genuflessione, quando si entra o si esce da una chiesa: giusto per dire che siamo ancora in grado di distinguere tra una chiesa ed una salumeria. Ma la devozione con cui guatiamo ingordamente i prosciutti, spesso, indica un’estasi mistica ben superiore. Dunque, la nostra miserabile ipocrisia andrebbe dichiarata: anzi, cancellata. Diciamolo bello chiaro, senza cercare di sgravarci la coscienza con ragionamenti artefatti: a noi degli altri non importa proprio nulla. Piangiamo le vittime di Bruxelles o di Parigi, perché non li percepiamo come altri: perché sappiamo che avrebbe potuto toccare a noi, per i medesimi motivi, per la scelta più o meno casuale di qualche assassino. Perché è verissimo che “Je suis Bruxelles”, ma non nel senso mieloso e retorico che anima questi tormentoni: perché è proprio così che ci sentiamo. E non siamo Lahore, non siamo Lagos, non siamo la Siria: ma questo non lo scriviamo su internet o su qualche maglietta griffata. Preferiamo glissare e lasciarlo tra le righe: non sarebbe elegante dire che dei bambini cristiani del Pakistan ci importa meno che degli agnellini pasquali.