Ubi, gli azionisti diretti in Consiglio? Meglio dar ascolto agli ammonimenti

ubi-banca1.jpgIn Italia – e quindi a Bergamo – sono tutti commissari tecnici della Nazionale, direttori di giornali, presidenti del Consiglio, amministratori delegati e ovviamente banchieri. Controindicazione della libertà di parola è che quelle a vanvera sono numericamente preponderanti e sovrastano quelle di chi sa di che cosa sta parlando. Così, per cercare di ristabilire un po’ di equità, vale la pena di ricordare almeno due recenti interventi di tecnici del settore, che possono essere utili per inquadrare la vicenda Ubi. Uno è l’intervento del responsabile della vigilanza di Bankitalia Carmelo Barbagallo. Il riferimento specifico è in questo caso alla riforma delle Bcc, ma vale anche per quella delle sorelle maggiori, le Popolari. La ratio del Governo, declinata in maniera diversa, è infatti la stessa. Come ha ribadito il ministro dell’Economia Padoan la considerazione di base è che il sistema è troppo frammentato. Insomma, ci sono troppe banche e a parere del governo questo non va bene, perché piccoli istituti possono creare grandi problemi. E dato che volontariamente le aggregazioni stentavano a procedere, nell’impossibilità di renderle obbligatorie, perché comunque c’è la libertà di impresa, ha creato la situazione per “favorirle” prescrivendo trasformazioni societarie delle grandi popolari cooperative in Spa e delle singole Bcc in realtà dipendenti da holding sulle quali è più facili vigilare e che ne delimitano l’autonomia. Le obiezioni che anche in questo modo è stata violata la libertà di associazione al momento non hanno avuto riscontro e, anche se il governo sembra che da arbitro, se proprio non sia diventato un giocatore, si comporti ormai come un appassionato tifoso (come conferma l’esplicito sostegno alla fusione Banco-Bpm), questo è lo scenario.

Barbagallo, in ogni caso, sostiene che c’è una cinquantina di banche di credito cooperativo in difficoltà (su un totale di oltre 300) e potenzialmente sottoposte a «tensioni» dovute alla scarsa patrimonializzazione e alle debolezze e criticità di un sistema reso ancora più fragile dalla crisi finanziaria. In generale Barbagallo, al di là delle riforma, fotografa un mondo scarsamente capitalizzato e poco propenso all’innovazione, che ha nel territorio la sua forza e allo stesso tempo il suo limite, con conflitti di interesse e condizionamenti locali che possono influenzare le decisioni di allocazione del credito e di investimento, «mettendo a rischio la sana e prudente gestione». Questo è un parere autorevole sul fatto che non sia sano fondare una banca, Bcc o popolare che sia, soltanto sul riferimento al territorio. E in ogni caso lasciare pensare che il richiamo non sia  sempre in buona fede. Altrettanto chiaro è stato l’editoriale dell’ex presidente dell’Abi Tancredi Bianchi sul dorso di Bergamo del Corriere della Sera. Dall’alto della sua pluridecennale esperienza di banchiere, in questo caso parlando esplicitamente di Ubi, rimette nella giusta carreggiata il dibattito sulle nomine. Pur avendo reso popolare in passato l’espressione “i piedi nel borgo, la  testa nel mondo”, il professor Tancredi Bianchi, nel suo intervento ha saltato a piè pari, come merita, il tormentone ultraprovinciale sulla conta dei rappresentanti bresciani e bergamaschi. Questa in una Spa è infatti una questione superata dal fatto che è naturale che chi ha più azioni faccia valere il suo peso. Ed è anche una questione affrontata fuori tempo perché se Bergamo vuole continuare a contare, come crede di dover contare, lo deve fare non tanto riferendosi alla tradizione, ma comprando più azioni, o organizzandosi meglio. Il problema della rappresentanza in ogni caso scoppia adesso, ma ha le sue origini con la naturale diluizione conseguente alle fusioni, accentuata dal fatto che quella con la Banca Lombarda ha riguardato una Spa con capitale meno frammentato. Ma, nella logica del se, probabilmente senza fusioni, quella che ha dato origine a Ubi e ancora di più quella precedente che ha portato alla nascita di Bpu, la Banca Popolare di Bergamo sarebbe già stata inghiottita da qualche gruppo più grosso.

Tancredi Bianchi pone comunque un’altra questione, meno appassionante dei derby campanilistici, ma più concreta. Nelle società per azioni moderne la tendenza, che non è una moda, ma una necessità, è una maggiore distinzione tra azionisti, controllori e gestori. La preoccupazione non deve essere quindi tanto sul fatto che ci siano consiglieri bresciani o bergamaschi, ma che ci siano professionisti di valore e sempre meno condizionati dal loro essere (grandi) azionisti. La critica quindi dovrebbe essere rivolta semmai non tanto al fatto che ci sono troppi bresciani e pochi bergamaschi, ma al fatto che si profila un consiglio di sorveglianza dove è forte la presenza diretta di azionisti di peso, in particolare nella parte bresciana del listone. Ed è incidentale che siano bresciani, se non per il fatto che in quest’area si trova la maggiore concentrazione di grandi azionisti. Parere personale è che in fondo questo può essere anche maggiormente ammesso in un consiglio di sorveglianza che ha il ruolo che dice il suo nome – in fondo chi ha un interesse diretto è anche particolarmente motivato a controllare – anche se effettivamente sarebbe stato meglio che ci fosse una maggioranza di consiglieri totalmente indipendenti o comunque soci non così rilevanti. L’ammonimento di Tancredi Bianchi è però da tenere seriamente presente nella futura composizione del Consiglio di gestione: se dovesse esserci una ampia presenza di azionisti diretti (che nello specifico non potrebbe che essere bresciani) allora sì che invece di avere una banca più aperta e moderna si rischierebbe di spostare soltanto la chiusura di mentalità da un territorio ad un altro.




Non confondiamo chi “cinguetta” per mestiere con una Bergamo felice

TweeterLa statistica, una volta, era inattendibile ma comprensibile: era quella dei polli trilussiani, per cui, se tu ne avevi due e io nemmeno uno, statisticamente, avevamo un pollo a testa. Oggi, oltre che inattendibile, la statistica sta diventando anche scema. Sarà che parte, come dire, da presupposti scemi: fatto si è che, più osservo i risultati di indagini demoscopiche e di classifiche basate sul rilevamento statistico e più mi convinco di vivere in un mondo di decerebrati. Un pochino, va messo in conto che questa sensazione non dipenda esclusivamente dalla statistica, ma semplicemente dal fatto che il mondo pullula, effettivamente, di decerebrati: gente che fa giorni di coda per comprare un telefono o che si spara addosso per una precedenza. Però, è innegabile che certe graduatorie stiano insieme con lo sputo, per dirla in francese. E, paradossalmente, più progrediamo (si fa per dire) sul versante tecnologico, più lo strumento di analisi è sofisticato e più il procedimento di rilevazione è desolatamente stupido: è come per certe automobili, talmente elaborate dal punto di vista dell’elettronica da incartarsi ogni tre per due per sovraccarico delle informazioni.

Prendiamo l’ultima classifica, in ordine di tempo, che ha visto protagonista la nostra ridente cittadina: quella dell’indice iHappy, secondo cui Bergamo è la decima città in Italia e la prima in Lombardia quanto a felicità personale. Si tratta di una particolare graduatoria che individua il grado di felicità di una comunità, partendo dall’accurata analisi dei cinguettii positivi degli utenti di Twitter. La peculiarità di questo elaborato sistema di rilevazione consiste nella catalogazione di centinaia di milioni di messaggini di gioia o di rabbia, indicandone il “sentiment” immediato: se l’Atalanta vince, se la morosa ti regala un Rolex o se vinci alla lotteria, il tuo “sentiment” sarà positivo, ed avrai ben 140 caratteri per esprimerlo. Se, viceversa, ti rigano la Porsche o se pesti una cacca di cane, il tuo “sentiment” sarà decisamente negativo, e avrai a disposizione i soliti 140 caratteri per cercare di tirare il maggior numero possibile di madonne. Sembra un giochino scemo, ma, in realtà, è un giochino scemo molto complicato: una serie di complessi algoritmi che servono, peraltro, soltanto a dare valutazioni sballate. Sballate perché, per solito, chi affida a Twitter l’espressione dei propri sentimenti, anziché utilizzare il normale repertorio relazionale, si configura più come un povero di spirito che come un cittadino medio: per capirci, come giudichereste quei poveracci che scaricano la fidanzata con un messaggino o che comunicano tramite Whatsapp le proprie sofferenze e le proprie intime felicità?

Ecco, appunto: la classifica di iHappy è basata solo ed esclusivamente su quell’aliquota di Bergamaschi che sono inclini a mettere in piazza i fatti loro per mezzo di un social network e che, appena succede loro qualcosa di bello o di brutto, si precipitano a postarlo twitteggiando, in modo che l’etere riceva il loro messaggio e lo disperda ai quattro angoli della terra. Ossia, lasciatemelo dire, dei Bergamaschi un tantino degeneri: visto che la nostra città è sempre stata nota per la sua riservatezza un po’ legnosa. Siccome io non credo che, du tac au tac, il Bergamasco tipo si sia trasformato in un simpatico caciarone, di quelli che strillano dal balcone i fatti loro alla piazza, ne concludo che la classifica sia un filo menzognera, perché si basa soltanto su alcune precise categorie di orobici, vale a dire quelli che, abitualmente, anziché parlare, cinguettano su Twitter. E credo si legga tra le righe che non è la fetta di popolazione bergamasca che sia più vicina al mio cuore. Perché quelli che, abitualmente, affidano a Twitter i propri sentimenti o, meglio, il proprio “sentiment”, sono, per solito, ragazzini un po’ lelotti, sciurette annoiate e parvenus in caccia di pubblico: la maggioranza dei Bergamaschi, che lavora o che si diverte, ha altro cui pensare.

Categoria a parte sono, poi, i politici: a me, per esempio, arriva quotidianamente una batteria di tweet da politicanti del PD, a partire dall’amato premier, giù giù, fino ai consiglieri regionali, che mi informano delle trionfali iniziative del partitone. Il punto è che io non l’ho mai chiesto e, se devo dirvela tutta, delle fanfaronate di qualche politicante non so davvero che farmene. Ecco, se questo è il campionario degli utenti i cui messaggini hanno funzionato da banca dati per stabilire che Bergamo è una città felice, lasciatemene serenamente dubitare: questa, in larga parte, è gente che sorride per mestiere, perché il botox le dà degli spasmi facciali o perché è definitivamente ed irrimediabilmente disturbata. Non mi rappresenta e non ci rappresenta. Rappresenta solo se stessa: una fetta di umanità felice perché, evidentemente, inconsapevole, che, il giorno del crollo definitivo di questo povero Paese, si limiterà a commentare il disastro con un “sentiment” negativo. Tweet!

 




Salvini & Meloni, quei giochini surreali e sterili per far fuori Berlusconi

La Prima Repubblica (salvo eccezioni) è stata spazzata via da mani Pulite. Umberto Bossi ha subìto l’onta delle ramazze. Massimo D’Alema, per quanto cerchi ancora d’agitarsi, è stato rottamato. E pure Antonio Di Pietro se n’è dovuto uscire di scena suo malgrado tra le pernacchie nonostante ad un certo punto fosse assurto al ruolo di salvatore della Patria. Inutile girarci intorno, per un uomo politico l’uscita di scena spontanea è più rara di una vittoria dell’Atalanta di questi tempi grami. Così serve sempre un elemento esterno per arrivare laddove forse, con un po’ di ragionevolezza e soprattutto senso della misura, si potrebbe giungere senza traumi.
Sta succedendo anche nel caso di Silvio Berlusconi, come si può vedere dallo spettacolo che rimbalza dalla Capitale. Tutte le beghe sul candidato più adatto a conquistare il Campidoglio sono mangime per i piccioni. Intanto perché così com’è ridotto, il centrodestra non ha la benché minima chance di arrivare sulle macerie lasciate da Ignazio Marino e dai suoi illustri predecessori (a partire da Terminator Alemanno). E in secondo luogo, perché a Matteo Salvini anzitutto, e a Giorgia Meloni di conserva, sta a cuore ben altra partita. Una sfida rivolta al futuro, a conquistare la leadership per cominciare a ricostruire il disastrato terreno dei moderati e conservatori.

Matteo Salvini e Giorgia Meloni
Matteo Salvini e Giorgia Meloni

Dopo vent’anni, la stella di Berlusconi è ampiamente tramontata. Non ne vuole prendere atto lui, per via dei fortissimi interessi economici che pure sono sempre stati la stella polare del suo agire politico e per la sua congenita incapacità a vestire panni che non siano quelli della primadonna assoluta e incontrastata. E non lo vogliono fare nemmeno i superstiti cortigiani che, non potendo vivere di propria virtù, cercano affannosamente di tener su il catafalco nella speranza di sopravvivere il più a lungo possibile.
Ma qui non è il caso di infierire. Il tacchino non si è mai accomodato in padella da solo e, quanto al resto, l’umanità è piena di servi mediocri che s’attaccano come cozze alle barche in disarmo…

Piuttosto, fa riflettere il modo in cui la coppia Salvini & Meloni combatte la sua battaglia. Non si capisce perché non vadano dritti al punto. Che significa, senza troppi giri di parole, invitare Berlusconi ad accomodarsi. In modo chiaro, trasparente, diretto. La leadership si misura sulla capacità di condurre una battaglia, certo scomoda e per certi versi pure ingenerosa (ma come diceva quel tale? La politica è lacrime, sangue e m…), a viso aperto. Assumendosi la responsabilità di una scelta netta. E, naturalmente, correndo il relativo rischio di fare pluff. Ma l’alternativa è questo surreale giochino del tutti contro tutti a base di veti incrociati, insinuazioni, indagini genealogiche sulla purezza della razza.
Il “muoia Sansone con tutti i filistei” è risultato alla portata di mano. Inoculare la sindrome della sconfitta, l’ennesima, in Berlusconi probabilmente aiuterà Salvini & Meloni a sentirsi più forti. Difficile, tuttavia, che senza una netta e radicale revisione del corredo programmatico-ideologico e la formazione di una autorevole e preparata classe dirigente (cosa che oggi non si intravede) possano anche solo lontanamente pensare di avvicinarsi ai consensi conquistati nell’arco di un ventennio dall’Unto del Signore.




Ubi e Italcementi, troppi equivoci sulla responsabilità sociale d’impresa

italcementiAd insistere troppo sulla responsabilità sociale d’impresa alla fine le aziende sono state prese alla lettera. Questo concetto, che non prelude né alla cogestione, né tantomeno all’esproprio, era stato sviluppato negli anni Sessanta per sottolineare l’interscambio tra le aziende e il territorio, più o meno vasto, in cui operano. Poi è diventato uno strumento di marketing, a partire dalle aziende ritenute a torto o ragione inquinanti, che volevano dimostrare che quello che prendono dal territorio, anche in termini di impatto ambientale, lo restituiscono al territorio sotto altre forme. Quando si è iniziato a parlare di ruolo degli stakeholder, come sempre quando non ci si intende nel lessico, si è partiti per la tangente.. Stakeholder sono i “portatori d’interessi”, ovvero chi ha un ruolo influente nei confronti di un’azienda e tra questi ci sono i clienti, i fornitori (lavoratori compresi), i finanziatori, ma anche le comunità locali o l’amministrazione pubblica. L’equivoco è che il riconoscimento di un ruolo non vuole dire avere diritti. Non è che quando un’azienda dice che il cliente ha sempre ragione significa che si mette lui a decidere al posto dell’imprenditore.

Il premio Nobel Milton Friedman già molti anni fa ha bocciato la teoria sulla “responsabilità sociale d’impresa” – già criticata anche da altri perché l’indeterminatezza e la mancanza di priorità tra i vari portatori d’interesse, la rende poco praticabile – sostenendo che i manager sono agenti per conto dei proprietari azionisti e che devono agire nell’esclusivo interesse di questi ultimi. E che utilizzare il denaro degli azionisti per risolvere problemi sociali significa fare beneficienza con i soldi degli altri. Forse Friedman può essere un po’ estremo, ma di certo il suo pensiero non è particolarmente popolare tra i portatori d’interesse bergamaschi dove molti si sentono titolari di più diritti degli stessi proprietari.

Un caso è quello di Ubi dove in vista della prossima assemblea per il ricambio dei vertici tutti dicono la loro, dimenticando che l’unico diritto di parola spetta solo agli azionisti, che non sono più tutti uguali tra loro, come nella Popolare, ma hanno un peso diverso a seconda di quante azioni hanno. Il fantomatico e indistinto territorio ha un potere importante, come cliente, fornitore e portatore di interessi, ma è bene non confondere i ruoli: parlare di diritti sulla governance che al momento in Italia non hanno neanche i lavoratori, al contrario di quanto accade in altri Paesi come la Germania, è sicuramente fuori luogo.

Un altro caso è quello di Italcementi. Del gruppo cementiero è stata annunciato a luglio il passaggio del controllo alla tedesca Heidelberg, una volta raggiunte le autorizzazioni da parte degli Antitrust di mezzo mondo, con successiva Offerta pubblica d’acquisto sulle azioni rimanenti. Si tratta di una vendita tra azionisti privati che sta seguendo tutte le regole, quindi al di là della legittima preoccupazione dei lavoratori per l’esito dell’operazione sul piano occupazionale, non si capisce perché i sindacati si lamentino del fatto che il governo non mostri di volersi fare parte attiva nella vicenda. Si sta parlando di cemento che neanche in Francia, notoriamente molto protezionistica, è un settore considerato strategico per gli interessi nazionali (tanto è vero che Ciments Français è stata venduta a Italcementi e Lafarge si è fusa con Holcim), quindi non si capisce su cosa debba intervenire il governo e soprattutto a quale titolo.

Ci si scontra anche in questo caso nella classica visione a prospettive variabili. Ci si professa per il libero mercato quando vuol dire fare quello che si vuole in maniera tendenzialmente anarchica, senza dover rispondere a nessuno, ma quando sono gli altri a professarlo a nostro (presunto) danno, allora ci si ricorda della responsabilità sociale d’impresa, magari a sproposito. La costituzione italiana, articolo 42, del resto riconosce e garantisce la proprietà privata. Di cogestione o di dittatura del proletariato non c’è traccia.




“No Triv”, a certe Regioni la storia ha insegnato davvero poco

No TrivCom’è noto (o, meglio, com’è ignoto), il 17 aprile, gli Italiani saranno chiamati a votare per un referendum, conosciuto come “No Triv!”, in riferimento alla materia del voto, ossia le trivellazioni marine a scopo estrattivo. Non è tanto dell’argomento specifico del referendum, in realtà, che vi vorrei parlare, quanto del come, in questo benedetto Paese, si affrontino (o, meglio, non si affrontino) dei temi che, alla fine, ci riguardano tutti quanti. I meno giovani tra voi ricorderanno certamente gli adesivi col sole che ride e la dicitura “Energia nucleare? No grazie!”, in tutte le lingue del globo: faceva enormemente figo, tra le fanciulle di ispirazione demo-radicale, esibire la spilletta “No Nukes”, insieme agli immancabili zoccoloni di cuoio e alla borsa di Tolfa. Faceva figo, certo: però, per quella moda scema, adesso noi andiamo mendicando energia elettrica dai nostri vicini, che ce la vendono grazie alle loro centrali nucleari. Queste, peraltro, sono spesso a un tiro di sasso dalla nostra frontiera, che è come se fossero qui da noi, quanto a rischi. Insomma, il peccato senza il piacere. Perché, trascinati da un battage senza alcuna base scientifica, sull’onda delle emozioni chernobylesche dell’anno prima, milioni di bravi Italiani hanno votato per lo smantellamento delle centrali nucleari italiche, nonché per l’abbandono di qualsivoglia politica energetica basata sui reattori: insomma, grazie ad un ecologismo superficialotto e fondato più sui pregiudizi che sui giudizi, ci abbiamo rimesso un sacco di palanche, che, oggi avrebbero potuto servire a spingere la ricerca verso le fonti rinnovabili.

Non solo, ma abbiamo sul nostro territorio decine di testate nucleari americane, su cui le vestali del cielo pulito e dei praticelli verdi non hanno nulla da ridire: eppure, una centrale nucleare non è progettata per esplodere, mentre una testata atomica sì. Aggiungo che le nostre centrali dismesse, per il cui spegnimento sono stati spesi miliardi, non sono affatto spente: il nocciolo è vivo e vegeto, e lotta insieme a noi. Se quel maledetto referendum del 1987 si è rivelato un monumento all’italica idiozia, oltre che una jattura di vaste proporzioni, quello del mese prossimo si sta dimostrando anche peggiore. Tanto per cominciare, quasi nessuno ha capito cosa riguardi: anzi, moltissimi neppure sanno ancora che il 17 aprile si voterà: dibattito zero, informazione zero, sensibilizzazione zero. Dal che deduco che, compresa la stupidità della proposta regionale di abrogazione (perché il referendum, stavolta, non proviene da una raccolta di firme, ma è di iniziativa di alcune Regioni), si sia preferito fare decadere il quesito referendario col non raggiungimento del quorum: altre palanche buttate al vento. In seconda battuta, questo referendum si limiterebbe, in caso di vittoria del sì, ad evitare la possibilità di rinnovo della concessione di trivellazione fino ad esaurimento di giacimenti, per chi già stesse trivellando, all’interno delle 12 miglia marine dalla costa: nuove trivellazioni in quell’area sono già proibite e oltre le 12 miglia, semplicemente, non si possono proibire. Come dire che l’unico risultato serio di un simile voto sarebbe quello di fare interrompere, allo scadere delle concessioni, l’estrazione di gas naturale (perché di gas e non di petrolio si tratta), lasciando lì impianti, pipelines e strutture preesistenti e limitandosi a lasciare intatto ciò che rimane dei giacimenti: non si capisce per quale motivo e con quale giovamento per l’equilibrio ecologico dei siti.

Senza contare che qualcun altro, magari sloveno o croato, partendo da fuori delle 12 miglia, potrebbe, per mezzo di perforazioni a quarantacinque gradi, succhiarci il gas di sotto al sedere, tanto quanto. Difatti, davanti alla palese insensatezza di questa prospettiva, che ci leverebbe una fonte energetica, senza migliorare in nulla l’impatto ambientale, i promotori hanno dovuto ammettere che questo referendum è stato chiesto soprattutto come segnale politico: avete capito bene? Per lanciare il loro segnale, questi simpaticoni non usano un tappetino ed un fuocherello, come i Sioux: usano il fabbisogno energetico nazionale, vale a dire le nostre tasche. E il fondamentale messaggio è: abbandoniamo i combustibili fossili e puntiamo sulle fonti rinnovabili. Che è cosa buona e giusta, intendiamoci. Però, mentre il governo si decide ad investire seriamente sulle rinnovabili, ad incentivare seriamente l’installazione del fotovoltaico e a sperimentare seriamente nuovi sistemi di produzione e stoccaggio dell’energia elettrica, noi vorremmo poter evitare di dipendere in tutto e per tutto dagli altri, per il nostro fabbisogno energetico. Anche perché non si capisce per quale ragione dobbiamo sempre perseguire una politica di dipendenza e di sottomissione nei confronti di questo e di quello, quasi che qualcuno avesse interesse a mantenerci in un perenne stato di sudditanza: schiavi politicamente ed economicamente di padroni che ci siamo scelti da soli. E, a forza di referendum politici e di segnali, se qualcuno ci chiude i rubinetti, finiremo a remengo. Altro che trivelle…




Renzi, il desolante spettacolo del Pd e il rischio di una Waterloo

Forse è davvero tempo che Matteo Renzi smetta di dare la caccia a gufi e cornacchie per dedicarsi a mettere ordine in casa propria. Lo spettacolo che sta dando il Partito democratico da Napoli a Roma, senza trascurare Milano e tante piccole situazioni locali (anche bergamasche, da Treviglio a Ponte S. Pietro passando per Cologno al Serio), è a dir poco incredibile. Tanto da premier fa sfoggio di muscolare vitalità a Palazzo Chigi quanto da segretario appare incapace di governare la creatura sulla quale, comunque, si regge la sua avventura politica.
Lo scorso anno sull’altare di questa clamorosa contraddizione è stata immolata la Liguria. Ora la posta in palio, anche solo sul piano simbolico, è ancora più elevata perché si disputa il governo delle più importanti città del Paese. Eppure, il Giovin Signore fiorentino tira dritto come se nulla fosse. Sembra un piccolo Napoleone (che già di suo non era un watusso…): io vado avanti, l’intendenza seguirà.

Matteo Renzi
Matteo Renzi

Ma deve stare attento perché la sua Waterloo potrebbe trovarla proprio in periferia. La spregiudicatezza con cui prima ha dato via libera all’elezione di Vincenzo De Luca (gravato di una condanna per abuso d’ufficio) alla presidenza della Regione Campania ed ora chiude gli occhi sul ricorso, presentato dal candidato a sindaco di Napoli Antonio Bassolino, per fare luce su alcune disinvolte manovre di pagamento del voto avvenute in alcuni seggi (come documentato da video del sito Fanpage.it), è disarmante. Lo stesso dicasi per il pasticcio sui conteggi delle schede bianche e nulle a Roma.
La stessa credibilità, e quindi anche validità, dello strumento delle elezioni primarie, su cui per primo Renzi ha costruito la sua affermazione, ne sta uscendo fortemente compromessa. A Milano abbiamo visto in coda file di cinesi incapaci di spiaccicare una parola di italiano ma desiderosissimi di votare per Beppe Sala (?). A Napoli è toccato sorbirci l’ennesimo remake del voto di scambio. In entrambi i casi, il vertice del Pd ha liquidato le polemiche che si sono levate come sciocchezze. Ma si può essere tanto machiavellici da illudersi che il fine (l’elezione del proprio candidato) giustifichi sempre i mezzi?. E soprattutto, possibile che non si voglia capire che, al di là dei singoli pur censurabili episodi, quel che manca veramente al Partito democratico a trazione renziana è il rapporto con il territorio. Il modello verticistico, costruito su leadership di cartapesta create per diretta emanazione del Giovin Signore (Raffaella Paita a Genova, Beppe Sala a Milano e, in parte, Roberto Giachetti a Roma), ha scavalcato e travolto il tradizionale confronto dialettico con la base. Le primarie, e più in generale le elezioni, servono solo a certificare cooptazioni già decise. Salvo poi scoprire che il giocattolino non tiene. In Liguria è stato Cofferati a chiamarsi fuori, a Milano il vicesindaco Balzani si è messa a fare la fronda, a Roma si profila una candidatura dell’ex ministro Bray (con la longa manus di D’Alema dietro) e a Napoli probabilmente Bassolino correrà da solo contro la candidata del Pd. Un vero trionfo, non c’è che dire. Dell’anarchia, però, non di un partito che aspira a mantenere la guida del Paese.
Renzi, almeno in apparenza, può continuare a fingere che governo e partito corrano su binari diversi. Ma la contraddizione è troppo marcata perché non si arrivi, prima o poi, ad un redde rationem. Lo saranno senz’altro le amministrative di giugno (specie se il centrosinistra dovesse perdere Milano, Roma e forse anche Torino). Ma ancor di più, specie se vi arriverà sulla scia di una sconfitta, il referendum costituzionale di ottobre.
Renzi ha solo un grande vantaggio, per ora: la drammatica crisi del centrodestra, incapace di congedare Silvio Berlusconi e di trovare una valida leadership alternativa. Non si illuda, però: con i cosiddetti uomini forti gli italiani sanno essere feroci. Prima li issano su un monumento, poi li riempiono di pomodori in faccia.




Ubi Banca, Bergamo incassa più di quel che pesa

ubi_b4.jpgCome facevano già capire i numeri, si va verso una Ubi a maggioranza bresciana, a giudicare dalla carta d’identità di chi comporrà i futuri vertici, per quanto questo possa contare. Anche se quello che dovrebbe interessare ai vari portatori d’interesse, dai correntisti agli azionisti, bergamaschi e non, dovrebbe essere qualcos’altro. Chi ritiene che la banca abbia avuto un buon andamento negli ultimi anni e soprattutto che si siano messe le basi per un solido futuro dovrebbe essere interessato alla continuità. E da questo punto di vista non si profilano rivoluzioni né rivolgimenti, anche se salgono dai commentatori da bar le lamentele sull’ “ennesima banca persa” (dopo la Banca di Bergamo, la Provinciale Lombarda e il Credito Bergamasco), come se un istituto potesse funzionare solo se ha un riferimento provinciale, dimenticando che piuttosto è lo sguardo sempre e troppo ripiegato sui propri passi, sulla propria storia, sulla propria tradizione, sul “si è sempre fatto così” – e, diciamolo, sui propri riferimenti ai soliti centri di potere – che impoverisce e soffoca ogni possibilità di crescita e a volte anche di sopravvivenza.

Tornando a Bergamo e alla sua rappresentanza, in un Consiglio di sorveglianza che lo statuto restringe da 23 a 15 persone gli esponenti bergamaschi danno un contributo particolare al ridimensionamento, ma allo stesso tempo viene paradossalmente riconosciuta loro una presenza superiore al peso effettivo espresso dai suoi azionisti. Il listone per la nomina del Consiglio di sorveglianza di Ubi Banca Spa in occasione dell’assemblea del 2 aprile raggruppa infatti poco più del 17% del capitale sociale. La parte del leone la fa il sindacato Azionisti Ubi Banca Spa, una sostanziale riedizione del patto che controllava la bresciana Banca Lombarda e Piemontese prima della fusione, che controlla circa il 12% del capitale sociale e rappresenta il 70% delle azioni del listone. La parte bergamasca, con il Patto dei Mille, ha voluto contarsi e non è riuscita, nonostante innesti varesini, a unire in un sindacato nemmeno il 3% del capitale. C’è poi un 2,2% che fa capo alla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo, tradizionalmente alleata del fronte bresciano, ma che ha preferito non partecipare alla costituzione del nuovo patto.

Con questi rapporti di forza appare un premio molto generoso la concessione al patto bergamasco, che rappresenta circa il 17% del listone, addirittura di un terzo dei candidati (tra i quali il presidente Andrea Moltrasio), mentre alla Fondazione di Cuneo, che esprime una quota di capitale non molto più bassa del Patto dei mille, viene riconosciuto un solo candidato (Gian Luigi Gola). Questo anche se in assemblea, con ogni probabilità, di bergamaschi ne verranno eletti solo tre (Moltrasio, Armando Santus e Renato Guerini), che sono comunque il 20% dei consiglieri quando non si esprime nemmeno il 3% del capitale sociale. Tutto dipenderà dal risultato in assemblea della lista che dovrebbe essere presentata dai fondi. Formalmente gli investitori istituzionali sono accreditati dal 40% e volendo potrebbero anche sbancare tutto. Tradizionalmente però il loro ruolo non è quello della gestione: il loro interesse è avere consiglieri veramente di sorveglianza che controllino la situazione e quindi si presenteranno in partenza come lista di minoranza e potranno quindi ottenere un consigliere, oppure due (se raccoglieranno tra il 15% e il 30% dei voti in assemblea), oppure tre (se supera il 30%).  E nell’ipotesi non improbabile che arrivino alla soglia massima, resteranno fuori gli ultimi tre candidati del listone, con i non eletti in panchina, per sostituire eventuali consiglieri che dovessero lasciare la carica durante il mandato: negli ultimi tre posti ci sono due dei cinque candidati bergamaschi, i consiglieri uscenti Luciana Gattinoni (terz’ultima e quindi probabile prima dei non eletti) e Antonella Bardoni (inserita all’ultimo posto e quindi con pochissime possibilità), che quindi almeno al primo giro non dovrebbero far parte del nuovo consiglio.

Rispetto al consiglio attuale è probabile così che mancheranno 9/10 consiglieri bergamaschi: Gattinoni e Bardoni, quindi, ma anche tutti i non ricandidati, Alfredo Gusmini, il vicepresidente Mario Mazzoleni, oltre a Federico Manzoni, bergamasco doc, ma proposto in precedenza dal fronte bresciano, e ai cinque eletti nella lista di minoranza, considerandoli tutti tali, anche al di là dell’anagrafe, perché essenzialmente espressione dei piccoli soci della ex Popolare di Bergamo, Andrea Resti, Marco Gallarati, Maurizio Zucchi, Dorino Agliardi e Luca Cividini. Sono invece cinque i consiglieri non bergamaschi che usciranno: due bresciani, Enrico Minelli ed il vicepresidente del Consiglio di sorveglianza e neopresidente del “patto” Alberto Folonari (per il quale scatta l’ineleggibilità per superato limite dei 75 anni d’età), le docenti universitarie Marina Brogi (romana) ed Ester Faia (nata a Napoli) e il commercialista milanese Carlo Garavaglia. Due soli i nuovi nomi proposti nella lista: Francesca Bazoli e Simona Pezzolo de Rossi (commercialista bresciana al penultimo posto e quindi con ogni probabilità anch’essa esclusa). L’unico nuovo innesto nel consiglio, oltre ovviamente ai rappresentanti dei fondi, sarà quindi l’avvocato bresciano Francesca Bazoli, già nel giro Ubi tanto da essere nel comitato esecutivo del Banco di Brescia, e già in predicato in passato di entrare nel consiglio di gestione di Ubi, dopo che dal consiglio di sorveglianza era uscito, per la normativa sui doppi incarichi, il padre Giovanni Bazoli, numero uno di Intesa Sanpaolo, che lascerà l’incarico alla prossima assemblea. Ma al di là delle entrate e delle uscite, quello che più dovrebbe interessare è se in Ubi Spa cambierà qualcosa. E questo non sembra probabile se si considera, appunto, che dei primi dodici nella lista, a parte Francesca Bazoli, ci sono undici conferme, a partire da presidente (Andrea Moltrasio) e vicepresidente vicario (Mario Cera). Le altre sono quelle, in ordine di lista, di Armando Santus, Gian Luigi Gola, Pietro Gussalli Beretta, Pierpaolo Camadini, Letizia Bellini, Renato Guerini, Giuseppe Lucchini (l’industriale bresciano che controlla la Lucchini Rs di Lovere), Sergio Pivato, Alessandra Del Boca. Una garanzia di continuità e quindi dello spirito Ubi – che in ogni caso non è mai stato a maggioranza bergamasco, se non al massimo per metà -, che vale più di tante carte di identità.

 




Soste e mobilità, quella strategia che il Comune non chiarisce

Stavolta ad accendere gli animi è l’ipotesi di estendere il pagamento della sosta in città anche la domenica. In passato, il muro contro muro si è alzato per l’isola pedonale o per la movida. Lo si sa, a Bergamo affrontare i temi della viabilità e della sosta è più complicato che studiare l’esistenza delle onde gravitazionali. Un po’ perché si lascia prevalere la logica di parte, secondo le regole del bar sport, per cui spesso si è contro o a favore di un provvedimento a prescindere, per appartenenza a una categoria o a un partito più che scelta ragionata. E un po’, ma verrebbe da dire soprattutto, perché chi ha la responsabilità di gestire la materia, già di per sé incandescente, ha sempre faticato sia a elaborare una strategia di lungo termine sia a trovare le modalità più adatte a coinvolgere, e quindi a far comprendere le singole decisioni, i cittadini (siano essi commercianti, residenti, turisti, ecc).

posteggi_parcheggiAnche nel caso di stretta attualità, mettersi a discutere se sia giusto o sbagliato estendere il pagamento della sosta nel giorno festivo rischia di essere ozioso. Ci sono valide ragioni da una parte e dall’altra, tant’è che se è vero che alcune città hanno già fatto questa scelta, è altrettanto sicuro che altre non hanno percorso la medesima via oppure hanno adottato provvedimenti diversi. Piuttosto si tratta di capire perché si è arrivati a questa determinazione, ma soprattutto in quale ragionamento si inserisce. E allora, mettendo i piedi nel piatto, è il caso di dire che forse proprio su questo fronte l’Amministrazione Gori finora non ha reso comprensibile qual è la sua strategia e quali gli obiettivi che si vuole porre.

“Vogliamo disincentivare l’uso dell’auto”, come ha detto l’assessore Stefano Zenoni, è enunciazione di principio che di per sé può essere fatta propria da chiunque. La vera risposta che si attendono i cittadini è quella che riguarda cosa si propone in alternativa. A quasi due anni dall’insediamento, ci si deve ancora affidare agli spifferi di Palazzo Frizzoni per apprendere che si sta elaborando un piano della sosta e un piano della mobilità che conterrebbero innovazioni significative ma di cui non è dato conoscere il contenuto. Si vagheggia di ring e di metro bus (cavallo di battaglia della campagna elettorale goriana), solo che rimangono semplici parole. Suggestive, magari, ma come titoli di un tema a cui manca lo svolgimento.
Intendiamoci, nessuno pensa che in Comune si trastullino con il Lego. Data la delicatezza della materia, c’è sempre da curare ogni misura fino all’ultimo dettaglio. E tuttavia, è tempo di uscire allo scoperto, di spiegare come e dove si vuole arrivare. Solo un confronto serrato, preciso e puntuale, senza pregiudizi da una parte e dall’altra, può aiutare a far maturare scelte le più condivise possibili. Bisogna mettere sul tavolo mezzi, risorse, progetti, tempi di attuazione. Con la consapevolezza, da parte di chi ha l’onere della guida, che il paziente (se così vogliamo chiamarlo) accetterà anche la medicina più amara solo se si convincerà che gli possa giovare. Quindi, trasparenza, condivisione e lungimiranza. E’ l’unico modo perché Bergamo si adegui ai tempi che cambiano non smarrendo la sua identità.




Il crollo di un mito, anche gli svizzeri sono diventati italiani

autoNo, nein, niet, non voglio parlare di Vendola e del suo bambino comprato sul catalogo Postalmarket: l’eugenetica o la tratta degli schiavi non sono argomenti adatti alla mia rubrichetta senza pretese e a me. Parlerò di Svizzeri: un bel pezzullo sugli Svizzeri in Italia. No, no, tranquilli: non mi riferisco a quelli venuti qui con le pezze al sedere e diventati ricchi e spocchiosi con l’acquisto dei beni espropriati alla Chiesa, e nemmeno a quelli che hanno trasformato un tratto di città, sotto le Mura, in un condominio, con tanto di cancello, ad evitare che qualche aborigeno possa mescolarsi alla crème cantonale. Parlo degli Svizzeri di passaggio, non di quelli immigrati. Perché, ogni volta che torno da Pinzolo, verso le sette di sera della domenica, ne incontro a vagonate, che sfrecciano sulla A4, e, quasi sempre, si comportano da veri scavezzacolli del traffico, nemmeno fossero degli Italiani qualunque.

Un tempo, lo Svizzero in autostrada era una curiosità: faceva quasi tenerezza, con quelle auto giapponesi dai colori improbabili, che da noi erano ancora di là da attecchire, e quelle camicette, quei cappellini di paglia, quegli occhialoni polaroid. Lo superavi, ma con simpatia: non c’erano ancora i limiti di velocità, per cui oggi ti tocca viaggiare senza riuscire mai a mettere, non si dice la sesta, ma neppure la cara vecchia quinta, eppure, lui si faceva centinaia e centinaia di chilometri a novanta all’ora. Era grigio, ligio alle regole, compassato: te lo immaginavi di una noia mortale, nelle conversazioni sotto l’ombrellone, coi bambinetti biondi e educati, le caramelle Sugus e il Toblerone. Adesso, lo Svizzero è cambiato: si è, diciamo così, evoluto. Insomma, è diventato un cafone come tutti gli altri. O, perlomeno, è un cafone in trasferta, perchè, a casa sua, se solo si azzardasse, non si dice a fare, ma semplicemente a pensare le manovre che esegue qui da noi, lo blinderebbero in men che non si dica. Provate voi ad andare a fare i ganassa su di un’autostrada svizzera: a zigzagare col Porsche tra un’auto e l’altra. Sareste carne morta, nel giro di un quarto d’ora. Per questo, forse, lo Svizzero, ultravessato entro gli angusti confini della Confederazione, quando entra in Italia, si scatena: è un po’ come quei mariti con la moglie arpia, che, quella volta all’anno che vanno alla festa per soli uomini della Loggia del Leopardo, si trasformano, si agitano, iniziano a sudare e a dire parolacce o a raccontare barzellette spinte. Fatto si è che, quando sto tornandomene a casina bella, lemme lemme, con la velocità automatica bloccata sui centotrenta, capita sempre che mi arrivi alle spalle, come una pantera famelica, qualche Audi, qualche Mercedes, qualche Maserati e perfino qualche sorella BMW, a velocità stellare, sfanalando come una petroliera nella nebbia, e dandomi solo il tempo di spostarmi sulla corsia di destra, prima di essere carambolato via dal proiettile in arrivo.

Sempre più spesso, e con crescente stupore, anziché le proverbiali targhe dei pirati della strada, milanesi di Cesano Maderno o brianzoli di Lissone, quando non bresciani di Valtrompia o bergamaschi, osservo automobili targate TI o VD e financo ZH. Ora, che un Ticinese possa comportarsi da Italiano, ci può anche stare: in fondo, dicono ‘ciumbia’ e parlano, più o meno, come Massimo Boldi. Passino anche quelli di Vaud: si sa che i Francesi sono cugini degli Italiani in materia di vini, formaggi e cattive abitudini. Ma uno Schwyzerdütsch: uno cresciuto a pane e strisce pedonali, come può trasformarsi al punto da insidiare perfino un tranquillo viaggiatore che torna a casa a velocità codice? Eppure, la cosa è positiva: tra le cafomobili sfreccianti ci sono anche gli zurighesi. Passano, imponenti e velocissimi, con l’aria tronfia e placida dell’impunito impenitente, nemmeno venissero dalla Garbatella, anziché dallo Wiedikon: e questo, un tantino, mi induce a riflettere. Siccome i costumi confederali, in materia di circolazione perlomeno, non sono diventati affatto più lassi e, anzi, semmai, si sono irrigiditi, questo fenomeno deve avere un’altra spiegazione. E, onestamente, l’unica che mi venga in mente è che, ormai, abbiamo una tale nomea di Paese in cui ognuno può fare quello che vuole, che perfino i viaggiatori di commercio di Wintherthur e di Glarona hanno introiettato il messaggio. Insomma, mica solo i Romeni o gli Albanesi si sono accorti che in Italia ognuno può infrangere la legge impunemente, senza che gli succeda nulla: l’hanno capito anche gli Svizzeri. Tra qualche estate, potrebbe accadere che i bambinetti biondi della famigliola vicina d’ombrellone, appena ti capiti di distrarti, ti freghino il cellulare dalla borsetta: altro che Sugus e Toblerone! Uno ad uno, i miei miti stanno crollando: adesso tocca agli Svizzeri, che incarnavano la mia idea di cittadino modello e che si sono dimostrati scascioni quanto e più degli altri, almeno sulle quattro ruote. Manca solo che trovi un Norvegese che mi sta svaligiando l’appartamento, e la mia crisi d’identità sarà compiuta!




Ubi e Italcementi, se il mercato mette a nudo il “mito” della bergamaschità

Italcementi“Avevamo due banche” (Ubi e Credito Bergamasco) è il ritornello che va in onda in queste settimane. Una versione aggiornata delle canzoncine che è toccato sorbirci quando le anime bennate hanno scoperto che “avevamo una municipalizzata” (Bas confluita in Asm, poi diventata A2A) e “avevamo una multinazionale del cemento” (Italcementi venduta a Heidelberg). Ebbene sì, provinciali di tutta la Bergamasca unitevi: il re è nudo. La fola di una Bergamo concentrato di virtù e di intelligenze, di saperi e di poteri, sta crollando miseramente.  E’ il mercato, bellezza. Un sistema che si fonda su regole chiare fino alla brutalità magari, ma senza alcun dubbio trasparenti. La prima delle quali è che comanda chi ha più capitali. Non chi ha una lunga storia, chi sa amministrare meglio una società o un’azienda, chi è intriso di buoni valori, chi sa governare la comunicazione per costruirsi una autoreferenzialità protettiva.
Se Bergamo perde il controllo di alcune delle realtà che ne hanno caratterizzato la storia economica non è un atroce scherzo del destino o il risultato di un complotto. È semplicemente il frutto di scelte, dalle più antiche alle più recenti. Se solo oggi se ne vedono le conseguenze è perché in un mercato sempre più aperto e globale non c’è più spazio per i “cavalieri solitari”. E tantomeno per la difesa dei campanili.

Sarebbe ora di aprire gli occhi e smetterla di piangersi addosso. La “bergamaschità” fine a se stessa, ammesso che abbia mai avuto un reale valore, oggi non serve a nulla. Questa benedetta storia dei legami con il territorio ha fatti guasti terribili, come dimostrano vari esempi in giro per lo Stivale (da Siena ad Arezzo passando per Vicenza). Perché rinchiudersi nel recinto locale ha spesso significato perpetuare logiche di familismo, di corrente, di interesse personale. Il concetto di radicamento vale per considerazioni di carattere storico e sociale, ma nulla ha a che vedere con l’economia. A qualcuno parrà banale, ma la “buona” multiutility non è quella governata da amministratori che parlano il tuo stesso accento o che abitano nel tuo quartiere ma quella che offre i migliori servizi alle condizioni più convenienti. Lo stesso vale per la “buona” banca. Non conta la targa ma il soddisfacimento delle esigenze del cliente. Tanto più questo sarà elevato, tanto meglio l’istituto di credito o l’ex municipalizzata starà sul mercato al pari dei concorrenti.

Cosa intendiamo dire? Semplicemente, che non è affatto vero, almeno a priori, che Bergamo debba sentirsi più povera se Ubi sarà controllata da altri che non abbiano natali orobici o perché Italcementi è finita in mani tedesche (certe scelte, sui livelli occupazionali non più sostenibili, sarebbero state obbligate anche senza la cessione). Smettiamola di sentirci i migliori, i più capaci, quelli che fanno sempre le scelte più giuste. Proprio quel che sta maturando in questi mesi dimostra che altri sanno essere anche più coraggiosi e lungimiranti. E allora sarebbe segno di saggezza cominciare a ragionare aprendosi al confronto e alla collaborazione con il mondo che ci sta intorno. Forti delle nostre qualità ma consapevoli che non tutto si esaurisce dentro le Mura. Altre sfide sono alle porte, come l’ipotizzata fusione tra Sea e Sacbo. Se la affrontiamo con la paura di perdere un pezzo di patrimonio (e anche di potere) ci consegniamo alla sconfitta sicura. La “bergamaschità”, d’ora in avanti, lasciamola al Ducato di Piazza Pontida (con rispetto parlando, naturalmente).