Ubi, perché non ha più senso guardare al passato

ubi-banca1.jpgSe la vogliamo buttare sul piano calcistico, se si vuole capire quanto conta la storia e la tradizione in un’impresa, si può guardare a quanto è successo alla Roma A.S. – per inciso una società quotata in Borsa – dove “il capitano” per eccellenza, Francesco Totti, 27 anni in giallorosso, è stato accantonato di punto in bianco. La bandiera e la dedizione sono infatti belle cose, ma l’importante è che la squadra vinca. Per avvicinarsi a Bergamo, qualcosa di simile è avvenuto con un altro capitano, Cristiano Doni, che non aveva certo l’attaccamento alla maglia di Totti: c’è voluto un po’ di tempo perché i tifosi più accaniti riuscissero a metabolizzare una situazione ben più grave di un giocatore giudicato sul viale del tramonto, ma alla fine il capitano è stato scaricato, e poi, tanto per esagerare e con poco rispetto di quella storia che dovrebbe essere riconosciuta nel bene e nel male, condannato  a una sorta di “damnatio memoriae”, perché l’importante era che andasse avanti l’Atalanta.

Se questi discorsi sulla storia passata valgono in una squadra di calcio, a maggiore ragione valgono in una banca, soprattutto se società per azioni. Già spesso si tende a confondere gli istituti di credito con gli istituti di beneficenza e i veri proprietari (gli azionisti) con altri portatori di interessi più o meno concreti. In Ubi sembra che sia anche dimenticato che le regole sono cambiate, che il capitolo cooperativa si è chiuso e non si può gestire un’azienda continuando a guardare all’indietro, recriminando su cosa è stato e cosa sarebbe potuto essere. Invece la componente “orobica” di Ubi, per indicare, semplificando, i  soci di provenienza Bpu, alla retorica della “banca bergamasca” non vuole rinunciare, anche se i numeri in questo momento dicono che non c’è più. Forse non è chiaro il funzionamento di una società per azioni a chi continua a sostenere che il gruppo è patrimonio dei bergamaschi (quali?) perché la Banca Popolare di Bergamo è la banca più produttiva ed efficiente del gruppo. Un sillogismo non distante dall’esigere che nel Consiglio dell’ Abb o della Schneider Electric devono esserci rappresentanti bergamaschi perché la loro filiale in provincia va molto bene: potranno anche entrare nel board, ma solo se i proprietari saranno d’accordo. Lo stesso vale alla Popolare di Bergamo, un gioiellino che va molto bene, ma che  è controllata al 100% da Ubi Banca, dove i bergamaschi sono riusciti finora ad esprimere solo un patto di sindacato presentatosi (in attesa di aggiornamenti) con una quota del 2,27% del capitale. E dato che in un’assemblea di una Spa vince chi ha un’azione più degli altri (come quando Ubi era una cooperativa vinceva chi presenta un socio più degli altri), se si dovesse tenere in questo momento, con le attuali posizioni conosciute,  il controllo non è dei bergamaschi ma della cordata di anima bresciana (ex Banca Lombarda) che rappresenta l’11,95% del capitale e quindi decide sia in Ubi, sia indirettamente nella Popolare di Bergamo.

Con il Patto dei Mille, come al momento sua unica proposta, di fatto Bergamo ha reso palesemente visibile la sua posizione di inferiorità. Se corre da sola sarà con ogni probabilità messa fuori gioco anche dalla lista che dovrebbero presentare i fondi, mentre se troverà un’alleanza con il patto bresciano, probabilmente estesa anche alla Fondazione Caricuneo (ex azionista Lombarda che ora corre da solo), che ha pure una quota superiore al 2%, riuscirà ad esprimere qualche consigliere, con ogni probabilità anche uno dei due presidenti, ma di fatto sarà presente in Ubi più da ospite, che da padrone, grazie alla buona disposizione, in virtù di relazioni consolidate, degli alleati bresciani che, se volessero, potrebbero avere tutto. Questa situazione, in ogni caso, non si è creata tanto per colpa della Spa, quanto perché Bergamo non è riuscita ad esprimere una formula che permetta di unire la forza dispersa dei tanti ex soci della Popolare, azionariato diffuso e frammentato, e per aver pensato che si potesse continuare a contare senza tirare fuori i soldi e acquistare azioni.

Ma il fatto che venga superata una divisione geografica ormai antistorica, dopo ormai quasi nove anni dalla fusione e della nascita del terzo-quarto gruppo bancario – e si intende non provinciale, ma nazionale -, leader non solo a Bergamo ma anche su altre piazze,- dovrebbe essere nel gioco delle cose. Si può pensare che alla maggior parte dei clienti e degli azionisti, sempre di più non bergamaschi, importi ben poco dove siano nati i consiglieri e siano legittimamente più interessati ad avere una banca sana ed efficiente e  soprattutto, in questi tempi da panico di bail-in, di non avere brutte sorprese. Che spesso arrivano proprio dai conterranei, come hanno scoperto a loro spese gli obbligazionisti di Banca Etruria e Banca Marche, quando la conoscenza, l’amicizia e i favori reciproci portano a perdita di professionalità. Pensare che una gestione sia migliore solo perché i Consigli siano composti da bergamaschi o da bresciani (con l’avvertenza che in ogni caso il consigliere delegato Victor Massiah è nato in Libia) è ingenuo, mentre se la questione riguarda solo interessi di potere o di poltrone sarebbe meglio chiudere subito, con un po’ di preoccupazione,  il discorso. Per aiutare a valutare con orizzonti più grandi si potrebbe piuttosto pensare di chiudere definitivamente con il passato, realizzando anche sinergie e risparmi, e procedere alla realizzazione di una banca unica: forse ragionando solo come Ubi, Unione di Banche Italiane, l’aspetto del campanile provinciale inizierebbe veramente a contare meno e si guarderebbe a questioni più importanti.

 




Brexit, vi racconto come i britannici affronteranno il referendum

BrexitLa domanda a cui gli elettori britannici si troveranno a rispondere è semplice: rimarremo in Europa o la lasceremo? Prima che il Paese vada alle urne il 23 giugno, ci saranno una miriade di discussioni, dibattiti, manifestazioni, con il solito spiegamento di forze politiche, ex politici, leader economici, a cui seguiranno facce conosciute e in cerca di popolarità.
La risposta a questa domanda non è semplice, il dibattito è più che acceso e nei prossimi mesi farò del mio meglio per aggiornare i lettori de La Rassegna in merito alle ultime news sul Brexit. Iniziamo dal nome. Il mondo anglosassone ama le parole brevi e le abbreviazioni. Hanno già pensato a una parola facile da ricordare e usare sugli slogan. Ieri l’annuncio, da molti vissuto come una pugnalata alle spalle, del sindaco di Londra Boris Johnson che si schiererà per lasciare l’Europa. Strano per il sindaco della città più  internazionale d’Europa, con un padre dal passato da europarlamentare e un educazione da classicista. La reazione dei mercati non si è fatta attendere, con la sterlina crollata a picco sul dollaro e che tocca il valore più basso degli ultimi sette anni. Gli analisti delle grandi banche hanno espresso le loro posizioni, e preferenze: se per Deutsche Bank e Moody’s (l’agenzia di rating) è meglio restare, i loro colleghi di UBS, Citi ed HSBC non si sono sbilanciati, limitandosi a parlare dei rischi legati ad un’uscita.

I leader delle grandi aziende quotate in borsa sostengono la posizione del primo ministro David Cameron, e sono ormai oltre cento gli amministratori delegati che ci hanno messo la faccia, e un terzo di loro ha anche firmato una lettera ufficiale, che verrà pubblicata martedì dall’autorevole quotidiano finanziario Financial Times. Tra loro ci sono Vodafone, EasyJet, Shell, GSK, Brtish Telecommunication, WPP, la più grande agenzia al mondo di pubblicità. E ne vedremo molti altri nelle prossime settimane. I due schieramenti corteggiano infatti i grandi brand, che hanno più impatto dei partiti politici sugli elettori. Ci si aspetta inoltre che i Leavers – ovvero quelli che vogliono la Brexit – faranno di tutto per creare divisione tra le grandi aziende e quelle piccole. Come nel caso del referendum in Scozia, dove i secessionisti rivendicavano il ruolo di portavoce dei piccoli negozianti e commercianti, dei piccoli imprenditori, in opposizione alle multinazionali governate dalle élite.
Cameron ha presentato l’accordo stabilito a Bruxelles la scorsa settimana, chiedendo il sostegno del parlamento per rimanere in Europa, evidenziando il fatto che, in caso di dipartita dall’Europa, l’economia ne soffrirebbe, la disoccupazione aumenterebbe e il paese sarebbe meno sicuro davanti alle minacce del terrorismo e della Russia. Vedremo cosa accadrà nelle prossime settimane, se il sindaco Boris Johnson riuscirà a creare un seguito popolare, o se sarà’ la City a decidere il destino di questo voto.

 




Il malaffare dilaga. E intanto condanniamo a morte la civiltà

corruzioneOggi, nel definire le malversazioni, le truffe, le corruzioni, i furti, che sono divenuti la semplice quotidianità della cronaca politica, si tende ad usare toni sommessi, a minimizzare, a far passare come normale ciò che, viceversa, in un mondo civile dovrebbe essere un’assoluta eccezionalità. Sotto il capace ombrello del garantismo, che, a un dipresso, significa, dati i tempi biblici della giustizia italiana, né più né meno che oblio, tanto del peccato quanto del peccatore, si riparano ladri e truffatori di ogni risma e di ogni bandiera: sicuri dell’impunità, certi di farla franca e di poter tornare a rubare o a truffare, pressochè indisturbati. Sarà che, dentro il calderone, prima o poi, ci finiscono tutti, il che induce prudenza nel censurare e nel punire certe marachelle; sarà che si teme che il farabutto, ancorché tale, mantenga un grado di potere atto a fartela pagare o a venirti, prima o poi, utile, tutti stanno abbottonati, ogni volta che qualche politico, qualche grand commis, qualche boiardo viene scoperto con le mani nella marmellata. Io non so dire se questo dipenda anche da un’insopportabile assuefazione della gente e da un senso di impotenza, mista a disinteresse, che riducono il nostro popolo ad un gregge belante, in cui ciascuno si fa sempre e solo gli affari propri: fatto si è che, se a uno non tocca direttamente di andarci di mezzo, di quel che accade al prossimo nulla gli frega. E questa è la morte della civiltà: né più né meno.

Quando si perde completamente il senso altruistico della società, che verte sul considerare un torto fatto ad altri come se lo facessero a noi, questa società cessa di esistere: associarsi significa avere interessi comuni e, se questi interessi smettono di essere comuni, l’associazione non ha più senso. Per questo, io dico che chiunque rubi sulla pelle del popolo, che chiunque arraffi, intrallazzi, spadroneggi, alle spalle della gente, è un gran porco. Non è uno che ha sbagliato, uno che è scivolato: è proprio un porco, di quelli che vanno additati al pubblico ludibrio. Poco cambia se si tratti dell’Inps o della sanità, delle case popolari o dei centri di accoglienza: la porcheria è, comunque, gigantesca, perché attenta alla vita stessa della nostra democrazia, della nostra libertà. Il resto sono chiacchiere: cortine di fumo, nebbia per distrarre il pubblico dalla questione fondamentale. Il cavillo, l’appello alla legge, sono semplicemente azioni dilatorie: sistemi di distrazione di massa, per distogliere l’attenzione e la rabbia popolare dal colpevole, dissertando astrattamente sulla colpa e sulla pena, come dei Beccaria fuori tempo massimo. La civiltà giuridica dell’habeas corpus è una bellissima cosa: qui, però, ci troviamo di fronte allo sfacelo della Nazione. Siamo un Paese in cui gente plurindagata, pluricondannata, pluriporciforme, viene serenamente mantenuta ai vertici della pubblica amministrazione, trasferendola, semplicemente, da un settore all’altro, nella fiducia della dimenticanza e nella certezza dell’impunità: un Paese in cui si tagliano le ecografie, in cui si risparmia sulle manutenzioni, in cui si abbandonano i bisognosi, per riempire le tasche di qualche suino in grisaglia. Questo è insopportabile. Non è difficile da digerire: è, letteralmente, insopportabile.

Un politico, un dirigente, un amministratore che rubino, vanno perseguiti con severità esemplare: non sospensione dall’incarico, non censura, ma vent’anni di galera. Non sto mica scherzando: vent’anni di galera mi sembrano pena equa per chi abbia, di fatto ucciso dei vecchietti lasciati senza cure o vessato dei cittadini rimasti senza assistenza, rubando le risorse che a loro avrebbero dovuto essere destinate. Me ne frego dei moderni indirizzi rieducativi, che dicono che la prigione è inutile: sarà anche inutile, ma, certamente, rappresenta un deterrente migliore rispetto al niente. Io lo dico sempre: leva la patente a chi parcheggia sui posti riservati ai disabili e vedrai che, dopo cinque o sei patenti ritirate, a nessuno verrà più in mente di mollare l’auto dove non deve. Allo stesso modo, prendi uno che abbia rubato milioni di euro dirigendo enti pubblici o facendo il politicante e sbattilo in cella, ad apprezzare la bellezza dell’essere uguale agli altri, privato dell’assise onde andava superbo: e vedrai che rieducazione efficace! Perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: e, se la teoria fa a pugni con la realtà, è la teoria che va cambiata. Coi porci ci vogliono i porcari, non gli assistenti sociali: è ora di dire basta a tutto questo girarsi dall’altra parte, far finta di niente. Perché, ammesso e non concesso che, finché non tocca a noi, possiamo fregarcene, adesso, comincia a toccare a quasi tutti. Nel terzo millennio, dunque, la coscienza sociale dipende dalla quantità e non dalla qualità, con tanti saluti alla teoria delle rivoluzioni elitarie di Sorel: così, alla fin fine, mi auguro che le porcate aumentino ancora, superando il limite del sopportabile, in modo che la gente, se Dio vuole, si svegli. E venga la resa dei conti, tanto per i ladri che per i filosofi.




Ubi, tempesta sul titolo. Ma c’è chi ne approfitta

ubi31.jpgE’ bastato che trapelasse l’indiscrezione non confermata che Deutsche Bank, la prima banca tedesca seppure ultimamente un po’ acciaccata, non fosse in grado di rimborsare le cedole di un bond subordinato in scadenza 2017 perché il titolo finisse nella bufera con un calo a due cifre, nonostante tutti i proclami da parte dell’istituto e del governo sulla solidità del gruppo. Solo quando è stata fatta uscire, presumibilmente ad arte, l’indiscrezione di riparazione che il gruppo starebbe considerando un’operazione di riacquisto del proprio debito, l’isteria del mercato è rientrata. La banca continua ad essere sotto stretta osservazione, ma il fatto che abbia anche soltanto la possibilità di un’idea di buy back ha dato l’apparenza di una situazione di liquidità sotto controllo. I problemi rimangono, tanto è vero che giovedì i credit-default-swap, le coperture che assicurano dal rischio di insolvenza sono balzate a 265 punti base, così che la prima banca tedesca è sentita più rischiosa della prima banca italiana (Unicredit) che è ferma a 245, ma almeno i mercati si sono leggermente rilassanti. Al di là di tutti gli indici e i parametri, in fondo, quello che vogliono i clienti, e quindi gli investitori, da una banca è tranquillità e fiducia ben riposta. Quando questa viene minata, a torto o a ragione, il risultato sono le pazze oscillazioni di questo inizio 2016.

All’origine dei dubbi sulla solidità degli istituti italiani c’è infatti paradossalmente il salvataggio delle quattro banche commissariate, realizzato grazie alle risorse dello stesso sistema creditizio nazionale. Un’operazione che invece di essere vista come espressione di solidità degli istituti italiani, ha acceso un faro sulla possibilità che anche gli istituti di credito possano fallire e sull’esistenza dell’accordo europeo sul bail-in, con una differente rischiosità per chi ha rapporti con le banche. In fondo nulla di particolarmente diverso (se non per i possessori di quei 58 miliardi di obbligazioni subordinate in circolazione a fine anno) da quanto accadeva prima in Italia, ma sufficiente per mettere agitazione, come se all’improvviso ogni banca dovesse fallire. A volte basta una piccola ingenuità, un venticello, per incrinare la credibilità. E provocare un crollo del titolo, come è accaduto giovedì per Ubi, un clamoroso meno 12% finale dopo perdite in corso di seduta ancora più alte, nel giorno della pubblicazione di risultati forse non eccelsi in termini assoluti, ma comunque più che dignitosi nel contesto attuale, tanto da permettere un lieve incremento del dividendo. Lo scivolone è avvenuto, a parere di molti, su una questione in fondo marginale come il diritto di recesso. In ottobre, in occasione della trasformazione da popolare cooperativa in Spa, Ubi ha previsto la possibilità per i soci dissenzienti di uscire dalla società rivendendole le azioni, come il codice civile prevede in caso di trasformazioni. Nell’occasione è stato fissato un limite ai rimborsi, che incidono negativamente sul patrimonio, ad una quota che in ogni caso non facesse scendere il coefficiente Cet1 a regime sotto un livello calcolato su una media parametrata europea. A ottobre questo si traduceva in circa 350 milioni di disponibilità per l’operazione. A chiedere il recesso sono stati soprattutto fondi di investimento che avevano deciso di uscire al prezzo fissato di 7,288 euro per azione, valore che all’epoca era prossimo a quello di Borsa, con circa 35,5 milioni di azioni (poco meno del 4% del capitale) per un importo totale di circa 257 milioni, quindi ampiamente all’interno della previsione di spesa.

E’ successo però che in pochi mesi il cambiamento dello scenario e i contributi al fondo di risoluzione e in generale all’operazione di salvataggio dei quattro istituti commissariati, hanno eroso gli indici patrimoniali ed hanno ridotto a circa 13 milioni di euro (a fronte di richieste rimaste a circa 257 milioni) la possibilità di riacquistare le azioni da parte di Ubi senza scendere sotto il limite patrimoniale prefissato. Così solo il 5% delle domande di recesso potrà essere accolta. E chi pensava di poter vendere a 7,288 euro ora si trova titoli che valgono meno di 3 euro. Tutto logico, corretto e condivisibile, ma nonostante tutte le spiegazioni, il messaggio rovesciato che è passato è che Ubi non può pagare quanto annunciato. Il che formalmente non è nemmeno falso, anche se le ragioni sono diverse da una crisi di liquidità – il peggior rischio per una banca – come un’affermazione del genere potrebbe invece fare immaginare. L’ad Victor Massiah ha parlato di una “reazione assolutamente inorridita” da parte dei fondi. Fatto sta che si sono scatenate le vendite, con scambi per oltre 30 milioni di azioni, oltre il 3% del capitale, quasi quanto i titoli che hanno chiesto il recesso (che però sono congelati nell’operazione) e più dell’intero pacchetto dichiarato dal Patto dei Mille. Grandi vendite, quindi, ma quando ci sono scambi vuol dire anche che ci sono grandi acquisti. E si può immaginare anche che ci siano costruzioni di posizioni importanti a prezzi scontati che poi si vedranno in assemblea. Se ci fosse una mano forte che ha rastrellato quanto è stato precipitosamente venduto si sarebbe creato in una giornata il terzo maggiore azionista della banca. I giochi insomma non sono ancora fatti, mentre per il titolo è da aspettarsi ancora un’ ampia volatilità.

 




Milano, largo ai manager. E la politica muore

Giuseppe Sala, candidato sindaco per il centrosinistra
Giuseppe Sala, candidato sindaco per il centrosinistra

Politica l’è morta. A Milano, Italia. Beppe Sala, Stefano Parisi e Corrado Passera: tre manager candidati sindaco. Uno per il centrosinistra, uno per il centrodestra e l’altro per il centro e basta. Ma, che abbia un po’ di sale o che sia insaporita con le spezie, la minestra sembra più o meno la stessa. Vince la cosiddetta società civile, seppur in una declinazione tecnocratica, esce pesantemente sconfitta la politica. Le ragioni e i modi in cui si è arrivati alla scelta degli aspiranti successori di Giuliano Pisapia possono essere diversi, ma resta il dato di fondo sconsolante che accomuna gli schieramenti: i partiti non sono stati in grado, o non hanno saputo (per incapacità o viltà conta poco), individuare al loro interno una figura in grado di partecipare alla corsa alla poltrona più importante di Palazzo Marino. E se Milano, come dice qualcuno, anticipa quel che poi si vedrà su ampia scala in futuro, beh, non c’è di chi esserne troppo contenti.

Certo, gli anticasta e i populisti in servizio permanente effettivo saranno lieti. Via i politici, finalmente, mettiamo alla guida delle nostre città chi ha saputo farsi valere nel settore privato (seppur Sala e Parisi vantino una non trascurabile esperienza anche nel pubblico, come ex city manager del Comune di Milano, ma non solo). Se non fosse che l’amministrazione della cosa pubblica è tutt’altro rispetto alla logica dei bilanci aziendali. Occuparsi di strade, di servizi sociali, di infanzia, di istruzione è ben diverso che studiare business plan o varare investimenti pluriennali. Così come rispondere agli azionisti o ad un consiglio di amministrazione è altra cosa rispetto a dover rendere conto, anche quotidianamente per strada, ai cittadini o al consiglio comunale.
Anche se a taluno parrà un’iperbole, il mestieraccio del sindaco, specie di una grande città, è terribilmente più complicato di quello di un amministratore delegato. Non è questione di dimensioni economiche né di rischi da assumere. C’è un tema di sensibilità, di valori, di interessi da contemperare nell’ambito di una società che esprime necessità ed esigenze non sempre conciliabili. E che, proprio per questo, richiedono un’attenzione e un equilibrio che il pur bravo manager non sempre possiede.

Sarà interessante capire, nell’ormai prossima campagna elettorale, come Sala e Parisi sapranno proporre un profilo programmatico in linea con la sensibilità dei rispettivi elettorati di riferimento. Impresa non facile se, dicono i pubblicitari, “sono due candidati di fatto intercambiabili e omologhi a livello di immagine. Nello specifico caratterizzati da una similare `awareness´, ovvero la percezione del pubblico sul piano  quantitativo e valoriale”.
In attesa di conoscere il verdetto degli elettori, chi ne esce peggio è il Partito democratico. Beppe Sala, voluto cinicamente da Renzi, ha vinto ma, come hanno sottolineato in molti, non ha affatto convinto. Il sostegno di tanti poteri forti e dei giornaloni gli è valso meno della metà (42 per cento) dei voti delle primarie. Non proprio un successone. Per altro verso, la sinistra dem, vittima dell’antico vizio della divisione intestina, pur forte di una maggioranza potenziale di quasi il 60 per cento, è riuscita a non trovare la quadra tra la vicesindaco uscente Francesca Balzani e l’assessore Pierfrancesco Majorino. Bastava poco perché da Milano, in caso di sconfitta di Sala, partisse un violento ceffone a Renzi e al suo spericolato progetto politico neocentrista. Ma ancora una volta, paradossalmente ma non troppo, è stata la sinistra del suo partito a offrirgli il successo su un vassoio d’oro zecchino.

Per il centrodestra il discorso è in parte diverso. Parisi è un sottoprodotto della tradizione dei Gabriele Albertini e delle Letizia Moratti (imprenditori, non manager, e non è una sottigliezza). E tuttavia, continuare a pescare nel laghetto della società civile rischia di diventare la certificazione della difficoltà a far crescere una propria classe dirigente. Quasi che i consiglieri comunali, quelli regionali, i parlamentari, i sindaci di area moderata non siano all’altezza. Pare impossibile. Forse è mancanza di coraggio. Una sola domanda: era così fuori luogo per Matteo Salvini tentare la sfida milanese per trovare sul campo una vera e propria consacrazione?
Infine, di Corrado Passera non occorre aggiungere molto perché la sua impresa è a dir poco temeraria. Coraggiosa, ma al limite del patetico. Resta il Movimento 5 Stelle. Ma di fronte alla grande occasione di sfruttare la partita fotocopia di centrosinistra e centrodestra i grillini finora non stati capaci che di scegliere una candidata, Patrizia Bedori, che non convince nemmeno i fondatori. Forse è proprio vero, politica l’è morta.




La pipì nel cespuglio e l’errata percezione del diritto

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Stefano Rho

Mi piacerebbe tornare sull’argomento del professore che piscia in un cespuglio e, undici anni dopo, lo licenziano per una falsa autocertificazione, perché, secondo me, la cosa, oltre ad essere adatta a diventare un apologo sulla scuola italiana, rappresenta anche un significativo esempio di come venga percepita le giustizia in Italia. La storiella, ormai, credo la conosciate tutti, dato il cancan mediatico che ha accompagnato la vicenda: denunce sui giornali, interpellanze parlamentari, manifestazioni studentesche e così via. Il punto centrale di tutta questa situazione surreale, però, temo risieda altrove: non nel fatto che sia pazzesco verbalizzare una pisciata in un cespuglio, nottetempo, in un posto a casa di Dio. Nemmeno nel venialissimo peccatuccio di dimenticarsi dell’episodio all’atto dell’autocertificazione per l’immissione in ruolo: sarebbe meglio ricordarsele, certe bagattelle, ma può capitare. Penso perfino che lo Schwerpunkt non consista tampoco nella draconiana, quanto ridicola, severità di un licenziamento in tronco, per una bambocciata del genere: sebbene la scuola si sia dimostrata, tanto per cambiare, ottusamente forte coi deboli e debole coi forti, neppure questo mi pare il dato essenziale.

Quello che vorrei sottoporre all’attenzione dei miei pochi, fedeli e pazientissimi lettori è il risultato finale di tutta la spiacevole vicenda. A nessuno, per la verità, sembra essere venuto in mente che, tra l’avere regole stupide e il non aver regole affatto, possano esistere delle regole sensate. E che le regole seguono, per solito una logica di coerenza: se uno, per esempio, avesse svaligiato una banca, ma fosse, nella vita normale, un bravissimo dentista, avrebbe poco senso organizzare un sit-in dei suoi pazienti fuori dal tribunale per reclamarne la scarcerazione. Insomma, il caso dell’insegnante dimentico mi pare che abbia messo a nudo il concetto, un tantinello fantasioso, che abbiamo della giustizia e dei suoi meccanismi. Il fatto è che il malcapitato docente, bravissimo a quel che mi si dice, nonché padre di numerosa prole, non andava licenziato perché la ragione del licenziamento è risibile, non perché è bravo a fare il suo mestiere: non so se rendo l’idea?

Il primo problema, perciò, riguarda la percezione del tutto sbagliata che gli Italiani hanno del diritto: non dei loro diritti, ma proprio del diritto, dello Jus. E’ la norma generale che, se si rivela ingiusta, va modificata o, in subordine, diversamente interpretata: e questo non in base alle medaglie al valore deIl’imputato, ma all’inconsistenza dell’imputazione. Il secondo punto è che, come la responsabilità penale è del tutto personale, così sembra che vengano percepiti i diritti medesimi: una visione assolutamente singola e personalizzata della legge, che, viceversa, è quanto di più collettivo e pubblico possa immaginarsi. Come questa norma balzana, ve ne sono altre decine, che fanno ridere i polli e che ingabbiano i cristiani, mentre i malandrini se la ridono bellamente, continuando a malandrinare: solo che ce ne accorgiamo solo quando ci toccano. Fino a quel momento, ci disinteressiamo del tutto dell’ormai endemica disfasia tra la ratio giuridica e le norme del nostro diritto: ci preoccupiamo degli omicidi stradali quando qualcuno stira una persona a noi cara, ci lamentiamo dell’incertezza della pena se vediamo a spasso il ladro che ci ha svuotato l’appartamento, manifestiamo davanti al tribunale se ad essere vittima di una burocrazia assurda è il nostro insegnante. Altrimenti, ce ne stiamo lì, a coltivare il nostro orticello, serenamente sbattendocene di tutte le altre vittime, di tutte le altre ingiustizie, più o meno patenti.

Questo, signori, si chiama egoismo. E su questo vorrei porre l’accento: io spero vivamente che al professore in questione venga restituita la sua cattedra, con tante scuse, ma non perché Misiani fa le interpellanze o perché quattrocento ragazzi, qualche professore ed un megafono si traslano in piazza Dante un sabato mattina. Io vorrei che gli venisse restituita la sua cattedra perché è giusto: perché la ragione del suo licenziamento è stupidamente sbagliata. E che questa applicazione tanto pedissequa quanto miope della legge non dovesse toccare più a nessuno: compresi quelli che non hanno dalla loro parlamentari interpellanti o manifestazioni megafonanti. Rendo l’idea? Mi direte: ma noi non sappiamo nulla di altri casi, magari in Sardegna o nelle Marche, ci mobilitiamo qui e ora, perché di questo siamo al corrente! Orbene, è proprio qui la questione: se la norma va contro il sentimento di giustizia, si cancelli la norma, così non capiterà di nuovo, quantunque ed ovunque! E le tonitruanti interpellanze lascino il posto agli emendamenti: le prime sono aoristive, puntuali, individue, mentre i secondi lasciano una traccia nella civiltà giuridica di un Paese. Aggiungo che, nello specifico, sarebbe bene che i cittadini imparassero la distinzione, nemmeno troppo sottile, tra un certificato del casellario richiesto da privati e quello richiesto dalla Pubblica Amministrazione, onde evitare spiacevoli equivoci. Ma, forse, con una scuola che butta via milioni di euro per l’educazione alla legalità, sarebbe chiedere troppo.




Banche, l’onda ribassista e le possibili sorprese in assemblea

a-ubi.jpgIn sei mesi Ubi ha praticamente dimezzato il suo valore in Borsa e da inizio anno la quotazione è scesa di circa un terzo, tornando ai livelli (3,808 euro) dell’aumento di capitale di cinque anni fa e a un valore che è quasi la metà del valore del diritto di recesso stabilito in occasione della trasformazione in Spa. Non è nemmeno la performance peggiore di un settore bancario in generale caduta, all’interno di una Borsa comunque in calo anche per fattori internazionali, dalla discesa del prezzo del petrolio al rallentamento economico non solo in Cina. Non ci sono motivi concreti che indichino un peggioramento della salute delle banche tale da portare a un crollo così repentino. La Borsa però vive anche, e a volte soprattutto, di aspettative e di sensazioni che portano a rialzi immotivati come a ribassi irrazionali. Questo non vuol dire che sia in atto un complotto contro le banche italiane o contro l’Italia in generale. Preoccupazioni reali di fondo esistono e caso mai si tratta di riuscire a capire quanto siano state amplificate.

Il motivo principale è quello delle sofferenze bancarie, le perdite legate ai prestiti che non vengono restituiti, oltre 200 miliardi di euro nell’intero sistema bancario, mediamente già svalutate in bilancio per il 60%, ma con 80 miliardi di euro ancora da gestire. Si è aggiunto il timore che dopo i quattro istituti commissariati (Etruria, Marche, Carife e Carichieti) che con il loro salvataggio a novembre hanno scatenato i dubbi sul settore, altri si possano aggiungere, portando a cascata ulteriori costi alle altre banche. E più recentemente è esplosa anche l’insofferenza del mercato sulla incertezza delle aggregazioni, una questione che interessa in particolare le Popolari e quindi Ubi, per il suo ruolo riconosciuto di potenziale aggregatore. Non si vedono infatti all’orizzonte fusioni dalle prospettive chiare e lineari che diano certezza di successo. Tutte sono operazioni problematiche con diversa gradualità e per vari motivi, tanto che l’impressione è che alla fine piuttosto che procedere a un cattivo matrimonio, almeno per chi non è obbligato dai conti, sia meglio restare single. Il mercato vede con preoccupazione, ad esempio, che la solidità patrimoniale di alcuni istituti, e tra questi c’è Ubi a tutto diritto, possa diluirsi o addirittura scomparire dall’unione con istituti più deboli. Ma resta anche perplesso sulla possibilità che possa derivare un istituto più solido dall’unione di due debolezze ed è altrettanto preoccupato che non si trovi soluzione per le banche dall’equilibrio fragile. Il consolidamento degli istituti è infatti visto come una necessità e i ritardi nella sua realizzazione li paga l’intero sistema bancario, che ha già sborsato più di 3 miliardi per tenere in piedi i quattro istituti

La tempesta borsistica, inoltre, si è scatenata nel periodo di limbo che precede la comunicazione dei dati societari, attesi nei prossimi giorni, che dovrebbero dare un aggiornamento, e auspicabilmente tranquillizzare, sulla solidità degli istituti, riguardo a struttura patrimoniale, salute dei prestiti, loro copertura, accantonamenti e, non ultimo, redditività e prospettive di dividendo, elementi che in Borsa hanno sempre la loro importanza.  L’incertezza accentua tutte le tendenze e anche la scarsa trasparenza sull’effettivo andamento dei famosi “colloqui di tutti con tutti” contribuisce a rendere poco chiara la situazione, alimentando la volatilità. Per le Popolari c’è poi l’ulteriore incertezza legata alla riforma, che dal punto di vista temporale, si sta rivelando improvvida. La trasformazione in Spa non ha al momento portato ad alcuna aggregazione come era negli auspici dei promotori della normativa, ma ha anzi aperto altri fronti di instabilità, con la possibilità di cambiamenti delle maggioranze e quindi della gestione.

Tutte queste tensioni si scaricano sulle quotazioni di Borsa, con prospettive tra l’altro di grande complessità per quegli istituti, Veneto Banca e Popolare di Vicenza, che in Piazza Affari stanno per sbarcare, non per obbligo della riforma, ma come logica conseguenza. E non è totalmente vero che una banca sia totalmente indifferente dalle quotazioni di Borsa. Facendo il caso eclatante del Monte dei Paschi, che proprio nei giorni scorsi ha presentato il suo primo bilancio in utile dopo cinque anni, quello che conta per la sua solidità è la patrimonializzazione netta concreta di quasi 10 miliardi, non che il mercato gli riconosca un valore, in termini di capitalizzazione di Borsa, di appena uno e mezzo. La bassa capitalizzazione non incide sulla gestione ordinaria, ma può avere però implicazioni importanti in operazioni straordinarie, dall’equilibrio tra le parti nelle aggregazioni di cui tanto si parla, al successo di eventuali aumenti di capitale che potrebbero essere necessari per la questione delle sofferenze, fino allo stesso assetto interno, perché con un investimento non astronomico neanche per la finanza nazionale, dove molti imprenditori si trovano con grande liquidità dopo avere ceduto le loro azienda, si possono creare pacchetti in grado di determinare il controllo di un istituto. Tanto per fare dei numeri, il 5% di Ubi adesso lo si compra con 170 milioni, il 5% del Banco o della Popolare di Milano con 150,il 5% della Bper per 110: il 5% di Montepaschi per 80 milioni (quando un anno fa ce ne volevano 400). Il 5% di Carige poco più di 20. Non si può escludere che ci sia chi è interessato al ribassismo per poter comprare domani a un prezzo inferiore a quello di ieri e magari presentarsi con posizioni forti al cambio dei vertici in assemblee demoralizzate per il calo delle quotazioni.




La cabinovia Orio-Bergamo? Un’idea semplicemente ridicola

cabinovia OrioEra ora. Finalmente Giuseppe Anghileri, dopo quasi trent’anni, può cedere il testimone del titolo di autore della proposta più balzana per la città. Il già consigliere comunale democristiano (e poi indipendente) soprannominato “sindaco di Borgo Santa Caterina” era convinto che uno dei modi migliori per superare il problema del traffico in ingresso-uscita da Bergamo fosse la realizzazione di un mega tunnel sotto Città Alta. Un traforo del Monte Bianco in sedicesimo, insomma, in barba alla delicatezza del borgo soprastante. La proposta era talmente ardita, per tacer dei costi, che, giustamente, fu lasciata in bacheca. Qualche anno dopo ci pensò l’allora sindaco Cesare Veneziani a lanciarsi in qualcosa di meno fantasioso ma non meno discutibile: il minimetrò dalla stazione ferroviaria alla funicolare. Ci volle poco a capire che per poche centinaia di metri investire decine di milioni di euro sarebbe stato un azzardo imperdonabile.
Ora, nell’anno domini 2016, riesumando e aggiornando un’idea lanciata dall’ex deputato di Forza Italia Gianantonio Arnoldi, ecco che due giovani virgulti azzurri, il consigliere comunale Stefano Benigni e il consigliere provinciale Jonathan Lobati, mettono sul tavolo nientepopodimenoche la cabinovia che dovrebbe collegare l’aeroporto con il centro di Bergamo. Con ampio spiegamento di mezzi, fra rendering, foto e video, l’ardimentosa coppia ha spiegato al colto e all’inclita le straordinarie mirabilie dell’impianto a fune. Non un semplice mezzo di trasporto, hanno tenuto a spiegare ai più superficiali, ma addirittura una attrazione turistica. A riprova, caso mai ce ne fosse bisogno, che a volte il confine tra il dramma e la farsa è davvero sottile.

Perché se anziché giocare al Lego chi fa politica, o almeno presume di farlo, resta ancorato alla concretezza, e soprattutto al buon senso, non può che rendersi conto che quell’idea è semplicemente ridicola. Per più ragioni, alcune talmente elementari che possono essere comprese anche dai più faciloni. Anzitutto, c’è un problema di sicurezza visto che le cabine dovrebbero sorvolare i parcheggi dell’aeroporto, l’asse interurbano e le cliniche Gavazzeni. “Ma si può sempre mettere un ponte di protezione” ha obiettato Lobati. Che, da buon sindaco di Lenna, forse non ha del tutto chiara la distinzione tra un paesello di montagna e una città. Soprattutto, e qui veniamo al secondo aspetto, dal punto di vista dell’impatto ambientale. Bisogna avere gran poco rispetto della storia di Bergamo per immaginare di impiantare piloni e cabine con sullo sfondo le Mura venete e tutte le bellezze del territorio. Altro che, come sostiene la coppia Benigni&Lobati, “attrazione turistica”. La cabinovia sarebbe un pugno nello stomaco, una macchia nera al centro di un quadro di struggente bellezza. Ma come si fa a non capirlo? Possibile che oggi i canoni estetici siano mutuati dal modello Disneyland?

Ma i giovanotti di Forza Italia mostrano di non conoscere (la gavetta in politica non esiste più, si nasce già imparati) le dinamiche del trasporto. Dicono che la cabinovia rispetto al treno avrebbe il vantaggio di poter rappresentare un motivo in più per convincere chi sbarca a Bergamo a fare tappa in città. Ma benedetti figlioli, chi arriva allo scalo ha già deciso prima di partire cosa intende fare e dove vuole andare. Nessuno arriva in aeroporto e sol perché c’è una cabinovia butta all’aria i suoi programmi. I viaggi sono organizzati nel dettaglio. E non è il mezzo di trasporto che orienta la scelta. Semmai, proprio contrariamente a quel che sostengono Benigni&Lobati (con il sostegno alle loro spalle dell’assessore regionale ai Trasporti che, in barba all’incarico ricoperto, dice di ragionare “da bergamasco”…), l’utilizzo del treno, o di un tram, consente al viaggiatore di muoversi in tempi ristretti anche su distanze medio-lunghe, senza faticosi e dispendiosi interscambi, ottimizzando la visita. E magari guadagnando anche il tempo per un fuori programma, altrimenti impossibile.

Stupisce che due politici così giovani ragionino ancora con logiche da piccolo borgo antico, che non colgano come Bergamo debba smetterla di considerarsi un brutto anatroccolo abbandonato a se stesso per inserirsi invece a pieno titolo in un sistema (culturale, economico e quindi anche strutturale) più ampio. Quantomeno, se non oltre, di scala regionale. L’aeroporto è di questo livello. E come succede in tutta Europa, ha bisogno di essere servito da una infrastruttura moderna: quasi sempre una metropolitana, talvolta dal treno. Chi pensa di collegare Orio al resto del mondo con una cabinovia forse è bene che si prenda un periodo di vacanza per un viaggio di studio. Non sarebbe tempo sprecato.




Ma si potrà combattere lo smog spegnendo stufe e caminetti?

caminoChe la situazione bergamasca sia tragica, può essere: che non sia seria è del tutto fuori discussione. Ci sono mille e mille modi di affrontare un problema, ma quello adottato in questi giorni a Bergamo per cercare di tamponare l’emergenza inquinamento sembra lo stralcio di un copione dei Monty Python. Lo scrive benissimo il valoroso Isaia Invernizzi su Bergamonews: la situazione è paradossale. Lo Stato incentiva l’utilizzo di caminetti e stufe a pellets e, qui da noi, quei medesimi strumenti incentivati sono additati al pubblico ludibrio come principali responsabili dell’inquinamento e messi all’indice. Adesso, tutto si può dire e fare: per carità, siamo in un paese libero. Ma veramente qualcuno può pensare che i picchi allarmanti di PM 10 e, soprattutto, di PM 2.5, che da settimane turbano i sonni della comunità orobica, siano colpa di caminetti e stufe a legna? Davvero qualcuno può sostenere, senza mettersi a ridere, che, tra caldaie obsolete, uffici pubblici con climi da sauna, camion ed automobili a gogo, impianti industriali e via discorrendo, l’inquinamento dipenda dalla legna dei caminetti? E perché non dalle deiezioni canine o dal meteorismo degli obesi, stupidaggine per stupidaggine?

Se la sanzione, poi, è partita dai dati raccolti dalla centralina di via Garibaldi, o la centralina ha un comportamento socialmente pericoloso oppure chi ha elaborato i dati dovrebbe rivedere i propri parametri: quante credete che siano le persone che, in centro città, possiedono un caminetto? E, di questi, quanti lo tengono acceso notte e dì e ci riscaldano la casa? Mi viene in mente il mio amico Giovanni, che ha speso una valanga di soldi per una stufa ipertecnologica a massima resa, ha speso anche di più per trasformare la propria abitazione in una casa ad impatto ambientale prossimo allo zero, coibentata ed isolata e, adesso che potrebbe godersi i frutti dei suoi investimenti ecologici e della sua coscienza naturalistica, si vede indicare al volgo come “Giovanni l’Inquinatore”. Senza contare che il suo gioiello ad alta tecnologia dovrà rimanere desolatamente spento, propter legem. Andiamo, signori pubblici amministratori, almeno stavolta evitate di fare i Robespierre col collo degli altri: anche un canbarbone potrebbe dirvi che nessuno – dicasi nessuno – si berrà mai la storiella della necessità e dell’efficacia di un provvedimento di emergenza come questo. Anzi, diciamocelo bello chiaro: questo è un pannicello caldo, una pochade nata per dare qualcosa in pasto al popolaccio che chiede pane.

Siccome nessuno di voi ha la minima idea di cosa fare per arginare il fenomeno delle polveri sottili, giacché nessuno ci aveva pensato per tempo, tanto che siete andati avanti a sperare nella pioggia, come quei fessi che leggono i meteo su Facebook ed aspettano da anni la nevicata del secolo, adesso provate a metterci delle pezze che, come si dice in Veneto, sono peggio del buco. Perché che gli amministratori possano essere incompetenti, imprevidenti, inefficienti, ci può anche stare, e ci siamo abituati: ma, che ti prendano anche per i fondelli, ecco, quello ci sta un tantino meno! Volete essere draconiani: draconiani davvero? Andate a controllare le temperature negli uffici, nelle scuole, nei locali: mandate in giro frotte di controllori per le caldaie, bloccate le auto euro 3. Questo non rappresenterà certamente la soluzione ad un problema che necessiterebbe di ben altri strumenti e di ben altre sinapsi: ma, perlomeno, darete ai vostri concittadini la sensazione che qualcosa si faccia e vada nella direzione giusta. Poi, superata questa emergenza, non tornatevene a sonnecchiare, in attesa di un altro inverno con nuovi picchi di polveri sottili, nuove emergenze e nuove bischerate emergenziali: progettate un piano anti-inquinamento, basato sulle famose ciclabili, sul trasporto pubblico, sull’elettrico, sul rinnovamento del parco caldaie, su controlli severi. E, vedrete che, anche senza provvidenziali uragani o bora di levante, un pochino alla volta si tornerà a respirare.

Ma ve le devo dire io queste cose? Non potevate arrivarci da soli, o sacri rappresentanti della volontà popolare? Vi do un consiglio gratuito, e non c’è neppure bisogno di ringraziarmi: lo faccio volentieri. Dato che l’unica cosa che pare interessare ai politicanti è la garanzia di essere rieletti a fine mandato e di tenere le chiappe ben appoggiate sopra la poltrona, vi suggerisco, in quest’ottica, di cambiare strategia: la gente è un tantinello stufa di proclami e promesse cui non fa mai seguito niente. E, se va avanti così, la vostra poltrona prenderà la via dell’esilio. Quindi se non volete darvi una svegliata per amore dei vostri amministrati, datevela per amore vostro: vostro di voi, intendo, e delle vostre poltroncine. Perché si può pure scherzare sull’inquinamento e sugli inquinatori, se sei un povero Cimmino qualsiasi e scrivi articoletti tra il serio ed il faceto: ma, credetemi, a fare dell’umorismo sui polmoni della gente, se si è dei politici, va a finire che, politicamente, si rischia grosso. Se, tra un provvedimento di proibizione dell’uso dei fiammiferi svedesi e una censura alle biciclette pieghevoli vi rimane un attimo di tempo, rifletteteci….




Sofferenze bancarie, tutti i dubbi sui salvataggi

Banca EtruriaI problemi delle sofferenze bancarie sono noti da tempo e non solo tra gli addetti ai lavori. Quei duecento miliardi di euro di prestiti non restituiti – oltre a dimostrare che le banche toglieranno l’ombrello anche a chi ne ha bisogno per darlo a chi non ne ha (ma troppo spesso c’è chi si porta via il parapioggia) – stanno da tempo drenando la redditività del sistema per destinarli ad accantonamenti su crediti, oltre che al rafforzamento patrimoniale imposto dalle autorità di vigilanza. Il risultato è che per far quadrare i conti da anni le banche stanno cercando di ridurre i costi, operazione che si traduce prima di tutto in risparmi in personale e sportelli, e aumentare i ricavi, operazione non facile soprattutto in tempi di tassi quasi zero.

Nonostante tutto questo fosse ormai abbondantemente noto, almeno per chi lo avesse voluto sapere, la Borsa sembra che l’abbia scoperto solo quando a metà gennaio la Banca centrale europea ha fatto la richiesta di informazioni supplementari. Lì si è disegnata la lavagna dei buoni e dei cattivi, con un massacro delle quotazioni innanzitutto per gli istituti oggetto dell’indagine. Seppure con il beneficio del dubbio e dell’errore, e secondo il principio che anche i peggiori sospettati possono sempre dimostrare la loro innocenza, come è del resto nell’obiettivo di questa ispezione, l’iniziativa del Single supervisory mechanism, la vigilanza dell’Eurotower, con l’invio di questionari alle banche europee per un esame dei non performing loans (i crediti non performanti, con eufemismo inglese), in parallelo con l’attività ispettiva a verifica del livello delle coperture ha spezzato in due il sistema creditizio italiano.

Da una parte Banco Popolare, Bpm, Bper, Mps, Carige e Unicredit, che sono state “nominate”. Dall’altra Ubi, Intesa, Mediobanca,Credem e Popolare di Sondrio, che non lo sono state. Ma la bufera solo in una prima fase si è concentrata sul primo gruppo, prima di generalizzarsi. Perché è vero che alcuni istituti possono avere più problemi di altri a sostenere il peso della zavorra, ma il sistema creditizio si appoggia su se stesso. Il crollo di un istituto viene sopportato dagli altri, per evitare un effetto domino. Finora questa regola ha funzionato. Dal Banco Ambrosiano al Banco di Napoli, alle crisi degli istituti monosportello c’è sempre stato un cordone di salvataggio che ha permesso di risolvere egregiamente i problemi, a volte anche prima che scoppiassero.

Ma a metà novembre si sono viste le prime crepe di questo sistema, che funziona, ma è oneroso: il decreto per evitare guai peggiori e dare una prospettiva di sistemazione alle quattro banche commissariate (Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti), che tutte insieme valgono l’1% del mercato, ha comportato il ricorso al fondo di garanzia istituito dalle banche italiane proprio per questi casi. Era già stato fatto un anno prima, per risanare la più piccola Banca Tercas-Caripe, poi andata alla Popolare di Bari, senza particolare attenzione dei media, disinteressati alle conseguenze dei maggiori costi sopportati dalle banche. Questa volta però il conto è più salato: 3,9 miliardi, che presumibilmente rientreranno solo parzialmente dall’incasso derivante dalla vendita degli istituti.

In questo momento, con i commissariamenti ridotti a pochi casi e relativi a piccoli istituti, ci si trova in una situazione di equilibrio instabile. I salvataggi degli ultimi mesi appesantiranno i conti del 2015, rendendo più complicato il compito di accantonare risorse per le sofferenze e per irrobustire il patrimonio, ma aprono dubbi anche sul futuro prossimo. Le maggiori preoccupazioni arrivano ovviamente dalle banche più chiacchierate, ma ci si chiede se le banche sane, che già stanno pagando per problemi altrui, saranno in grado di continuare a saldare il conto. Salvataggi avventati possono trascinare nel baratro il volenteroso salvatore, anche se al momento non si presentano grandi alternative e il rischio è che la volatilità (al ribasso) che si è scatenata di fronte alla sistemazione di banche che valgono l’uno per cento del mercato si possa moltiplicare quando l’intervento riguarderà istituti di maggior peso.