Gori punta alla Regione, ma occhio ai passi falsi

Giorgio Gori
Giorgio Gori

Da qualche mese il sindaco di Bergamo Giorgio Gori mostra un insolito attivismo. Abbandonato il low profile dell’inizio mandato, quando prudentemente si è dedicato allo studio dei principali dossier ereditati dal predecessore Tentorio, piano piano, ma in maniera sempre più decisa ed evidente, ha preso da un lato ad intessere rapporti al di fuori della città (per esempio con i sindaci di Brescia e Mantova) e dall’altro ad intervenire pubblicamente su temi di carattere politico o comunque non strettamente legati al suo ruolo di amministratore comunale. Al punto da far sorgere la spontanea domanda: allora sono vere le voci che lo danno interessato a candidarsi alla presidenza della Regione nel 2018, quando terminerà il primo mandato di Roberto Maroni?
Se si dovesse dare retta a quel che si dice negli ambienti del Pd la risposta è scontata: certo che sì. Sul cammino ci sarebbero, sulla carta, due possibili concorrenti. Anzitutto, l’attuale segretario regionale del Pd, Alessandro Alfieri, e poi, il miglior fico del bigoncio piddino orobico, il ministro Maurizio Martina. Ma il primo, pur persona seria ed impegnata, non ha esattamente il carisma del trascinatore di folle, mentre per il secondo, ormai lanciato come leader nazionale della corrente interna “Sinistra è cambiamento” (versione riveduta e corretta dei pontieri di democristiana memoria), un ruolo regionale rischierebbe di apparire un declassamento.

Per Gori, insomma, la strada potrebbe rivelarsi, se non spianata, almeno un pochino in discesa.
E tuttavia, ci sono almeno un paio di nodi da sciogliere. Il primo chiama in causa l’impegno che l’ex produttore tv ha preso con i cittadini che nel 2014 lo hanno eletto perché guidasse per cinque anni (almeno) Bergamo. Se davvero si dovesse candidare alle Regionali, il sindaco sarebbe costretto a dimettersi con un anno di anticipo (così fecero l’ultima volta Silvana Saita a Seriate e Roberto Anelli ad Alzano). Non sarebbe proprio un bel gesto, diciamo così. Intanto perché lascerebbe a metà il lavoro iniziato e in secondo luogo perché finirebbe con il legittimare i maliziosi sospetti di chi, e non sono pochi, ha sempre pensato che per Gori, vista svanire la candidatura a parlamentare alle primarie, l’impegno a Palazzo Frizzoni è stato solo un ripiego (affrontato con la massima serietà, sia chiaro) in attesa di traguardi migliori.

Resta poi da verificare, in seconda battuta, se il sindaco abbia la stoffa per ambire al Pirellone. La risposta, sulla carta, è senz’altro positiva, perché l’uomo è intelligente, preparato, dotato di determinazione e capacità di intessere relazioni con i mondi che contano, oltre ad una consolidata maestria nel gestire la comunicazione. Ma il suo attivismo degli ultimi mesi ha anche messo in luce una certa “impoliticità'” che in un contesto regionale rischia di rivelarsi un handicap. Alcune uscite, come quella sulla proposta di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini o l’ultima che lo ha visto bacchettare polemicamente le categorie economiche per la loro supposta incapacità a marciare d’amore e d’accordo, non gli hanno fatto guadagnare consensi. Nel primo caso si è esposto senza peritarsi di informare almeno il proprio partito, nel secondo si è reso protagonista di una invasione di campo con toni che hanno provocato reazioni risentite.
Nulla di clamoroso, intendiamoci. Possono essere semplici incidenti di percorso. Ma sarebbe sbagliato sottovalutarli. La politica non s’improvvisa. Come dimostrano illustri esempi, aver avuto successo in altri campi non conferisce automaticamente la patente per guidare qualsiasi mezzo. Forse andrebbe sfruttata meglio, e fino in fondo, l’esperienza a Palazzo Frizzoni. Imboccare scorciatoie a volte permette di raggiungere l’obiettivo in anticipo. Ma qualche volta si finisce fuori strada.




Una volta credevo nella Giustizia. Poi è successo che….

tribunale di BergamoUna volta, credevo che la giustizia fosse una cosa magnifica e semidivina: ci credevo per davvero. Erano gli anni cupi del terrorismo, ma per me erano anche gli anni belli e spensierati del liceo. La mia morosa storica di allora era figlia di un giudice e, probabilmente, io i giudici me li immaginavo tutti come lui e, con loro, va da sé, la giustizia che essi incarnavano. Il papà della mia fidanzatina era una persona timida e gentile: scrupolosissimo e modesto, andava al lavoro tutte le mattine in filobus, con puntualità assoluta. Potevi regolare l’orologio sul fatto di vederlo fermo ad aspettare il mezzo pubblico, con la sua borsa di pelle floscia. Ecco, allora, per me, la giustizia era questo: un servitore dello Stato che lavorava duro, senza fronzoli e senza indulgere ad alcuna forma di protagonismo.

Col passare del tempo, cominciai a notare che certi magistrati occupavano sempre più spesso le prime pagine dei giornali, fino a diventare ospiti fissi dei telegiornali: al contempo, cominciai a cogliere i primi segnali di una certa tendenza dei medesimi a prendere cantonate clamorose, e fu per questo che votai senza esitare per la loro responsabilità civile, nel 1987. La velocità con cui il Parlamento cancellò gli effetti di quel voto, e la sostanziale truffa ai danni degli elettori, mi convinsero definitivamente che la giustizia, come la vedevo io, non era poi così giusta. E che i giudici, probabilmente, non erano tutti quanti come il padre della mia morosa. Da allora, continuai a nutrire i miei dubbi, ma la cosa rimase, per così dire, allo stadio latente, giacché, per fortuna, non ho mai avuto a che fare con un giudice, se non per una partita a carte o per una conferenza. Recentemente, però, ho dovuto ricorrere alla giustizia, e l’impressione che ne ho tratto mi ha profondamente deluso, così ho pensato di raccontarvi la mia esperienza.

Non pretendo che si tratti della norma: magari sono stato semplicemente sfortunato, però mi pare che la faccenda sia abbastanza significativa, se non altro come apologo. Circa due anni e mezzo fa, un signore che non conosco, per futili motivi (la solita discussione su Facebook degenerata in battibecco), ha pubblicato nel proprio sito il mio curriculum vitae, leggermente, dirò in maniera eufemistica, chiosato dai suoi commenti. Ne derivava un quadretto piuttosto deprimente: io ero un mezzo uomo (sic), un millantatore, un imbroglione, un analfabeta e un cretino. Il tutto detto con una prosa un tantino più colorita ed imbarocchita. Quel che è peggio, tuttavia, è che il sicofante pubblicò anche il mio indirizzo ed il mio numero telefonico, invitando implicitamente suoi presunti sodali a fare giustizia sommaria sulla mia persona. Naturalmente, lo querelai, tramite il mio avvocato, che presentò subito un’istanza urgente per l’oscuramento della pagina incriminata, con tutte le motivazioni del caso. Aggiungo che, nella mia professione, accade abbastanza di frequente che potenziali clienti cerchino informazioni tramite internet: potete immaginarvi la bella impressione che possono trarre nel leggere, come prima cosa, quella simpatica paginetta di insulti e di diffamazioni. Insomma, per dirla chiara, ci ho smenato anche dei bei soldi.

La pratica mi pareva di quelle che possono essere evase in cinque minuti, senza aggravare il già drammatico sovraccarico della giustizia orobica: fai chiudere la maledetta pagina e, per l’udienza ci sarà tempo. Macchè: i mesi passavano e la paginazza era sempre lì, a campeggiare non appena si digitava il mio nome su Google (sono sicuro che qualcuno di voi lo farà subito ed esclamerà: orca, è proprio vero!). Io tormentavo il mio povero avvocato e lui sollecitava, sollecitava: in fondo, sarebbe bastato leggere quel che aveva scritto il tipo balordo per capire al volo che si trattava di una cosa sgradevole e potenzialmente pericolosa. Sono passati due anni e mezzo, e il blog è ancora al suo posto: in due anni e mezzo, questo magistrato, evidentemente, non ha trovato il tempo di scrivere due righe e mettere una firma.

Ecco, questo episodio ha cancellato in via definitiva l’associazione d’idee: papà della morosa-magistratura. Cari magistrati, avete trasformato un vostro ammiratore in un detrattore: bel risultatone! Tra l’altro, il diffamatore è recidivo: ho scoperto che un mio amico di Roma lo ha a sua volta querelato per tutt’altre diffamazioni. Gli auguro miglior fortuna, naturalmente. Si tratta, lo so bene, di un episodio piccolo, minimo, marginale. Ma, per chi lo vive, non è marginale neanche un po’. A volte, qualche magistrato tende a dimenticarselo.




Tutti contro tutti, così declina la politica bergamasca

Il palazzo comunale di Treviglio
Il palazzo comunale di Treviglio

Che i partiti non siano messi bene a livello nazionale è di tutta evidenza. Ma la crisi, di capacità strategiche e di selezione della classe dirigente, ormai si è estesa anche alla periferia. Come risulta chiaro se solo ci si sofferma a guardare a quel che sta succedendo, in casa nostra, in alcune realtà che saranno chiamate al voto nella tarda primavera prossima.
Il caso più eclatante, sull’onda di una tradizione storica che ne ha fatto un modello di personalismi e contraddizioni politiche, è quello di Treviglio dove entrambi gli schieramenti (dei grillini quasi non c’è traccia…) sono vittime di spaccature e tensioni intestine. Da un lato, c’è un Partito democratico che prima commissiona un sondaggio per capire quale potrebbe essere il miglior candidato e poi inizia una tiritera di confronti con tre possibili aspiranti sindaci, poi ridotti a due, senza arrivare, dopo mesi di discussioni, a cavare un ragno dal buco. Niente di più che il frutto di due debolezze. Quelle dei candidati, che non hanno l’umiltà di capire di non essere evidentemente all’altezza del ruolo (se uno non riesce a conquistare un largo consenso nemmeno nel proprio partito, dovrebbe avere il buon gusto di cedere il passo), e quelle di una segreteria provinciale che, sull’altare di un supposto “ruolo del territorio” abdica ad un ruolo di regia e non è neppure in grado di esercitare quel minimo di moral suasion che in questi casi basterebbe e avanzerebbe per superare l’impasse. Ma evidentemente nel Pd, dove tutti i maggiorenti si sono accaparrati una comoda poltrona (ciascuno nel proprio ambito), di giganti della politica non ce n’è.

Chi sta dall’altra parte non è che se la passa meglio, anzi. Qui, a provocare imbarazzo e tensione è la figura di Giuseppe Pezzoni, il sindaco uscente costretto ad abbandonare il palazzo di Piazza Manara dopo essere stato pizzicato a vantare una falsa laurea. La Lega, immemore di tante battaglie sull’onestà e la trasparenza, per mero calcolo elettorale, vuole continuare a sfruttare il consenso che l’ex preside dei Salesiani (che gli hanno rifilato due denunce) mantiene in città. Anche se, questo il singolare distinguo del segretario provinciale Daniele Belotti (sempre più lontano dal castigamatti duro e puro degli esordi), “siamo pronti a candidarlo come consigliere, non come sindaco”. Per questo ruolo i leghisti sponsorizzano il loro Juri Imeri, vicesindaco uscente. Una scelta che non piace per nulla dalle parti di Forza Italia dove si muove, con impolitica irruenza, il fantasioso assessore regionale ai Trasporti Alessandro Sorte. Il quale, motu proprio, ha da tempo candidato a sindaco Gianluca Pignatelli, indicato come volto del rinnovamento malgrado la pluridecennale presenza sugli scranni del palazzo. Risultato? Rottura totale, scambi di parole forti e scintille continue. Manna per il centrosinistra, se non fosse per lo stato catatonico del Pd.

Ma il quadro è in fibrillazione in altre realtà. Il partito del premier Renzi ha enormi difficoltà a trovare una candidatura condivisa anche a Ponte S. Pietro (un altro dei 39 Comuni chiamati al voto a giugno), dove le rivalità e le gelosie personali fanno premio su tutto il resto. E che dire di Alzano Lombardo? Qui l’Amministrazione guidata da Annalisa Nowak è durata 600 giorni. Il matrimonio tra una lista civica e il Pd è stato un totale fallimento. L’impoliticità del sindaco abbinata alla prepotenza di chi si sentiva investito da un superiore consenso popolare ha prodotto un cocktail micidiale che otterrà l’unico risultato di riconsegnare al centrodestra la cittadina che il centrosinistra aveva conquistato dopo vent’anni di inutili tentativi. Davvero un capolavoro.
Infine, per tornare nell’altro campo, resta da dire di Caravaggio (quest’anno per la prima volta al voto con il doppio turno). La Lega ha scelto di puntare su Ettore Pirovano, non proprio un debuttante, mentre Forza Italia, sempre per volontà del fantasioso Sorte, ha annunciato di voler sostenere Augusto Baruffi. Peccato che costui, fino ad oggi, sia assessore e tesserato della Lega. E così, apriti cielo, botte da orbi (verbali, per carità) e ciascuno per conto proprio, lasciando spazio agli avversari del centrosinistra che a Caravaggio da vent’anni non toccano palla.
Descritte le situazioni, resterebbero da tirare le fila. Come si vede, nessuno sta bene. La debolezza è generale. Sono venute meno anche le regole elementari. Non c’è quasi più la capacità di misurare il consenso tra la gente e tantomeno quella di costruirlo laddove non sia sufficiente. C’è una autoreferenzialità diffusa, al centro come in periferia, che pensa di poter bypassare i faticosi ma consolidati passaggi democratici. L’idea di un passo indietro è vissuto più come un atto di viltà che di saggezza. E così, nel tutti contro tutti da consegnare al lavacro elettorale, la qualità del nostro vivere civile (di cui la politica e l’amministrazione sono tanta parte) si abbassa sempre di più.




Ma a Bergamo i ciclisti sono solo carne da elezioni?

biciclettaL’altro giorno, in vena di sportività, ho tirato fuori la bicicletta. L’aria era tersa, la temperatura relativamente mite, così mi sono detto: cosa c’è di meglio di una bella pedalata? Avevo alcune commissioni in giro per la città e, sinceramente, non mi andava di bardarmi con casco e guanti da moto: in fondo, Bergamo dovrebbe essere una città ideale per il traffico ciclopedonale. Stefano Zenoni, ciclista impenitente, ancorchè, talvolta, un tantino sfortunato negli atterraggi, ha sempre sostenuto la necessità di potenziare l’uso della biciletta in città, ed io sono del tutto d’accordo con lui. Perfino il nostro sindaco, quando non ha problemi di parcheggio, si fa ritrarre a cavallo di una semibicicletta, uno di quei cosi con la pedalata assistita che permettono a chiunque di arrivare a Selvino senza versare una goccia di sudore: da sudatore selvinese, mi repelle l’idea, ma apprezzo il tentativo.

Insomma, la nostra amministrazione cittadina pare molto orientata verso il bike-friendly, perciò, tranquillo e beato, ho tentato di mettere in pratica la loro accattivante teoria. La quale, come moltissime altre teorie progressiste, alla riprova dei fatti si è rivelata una bufala, di quelle da mozzarella dop. Perché girare per Bergamo in bicicletta, se escludiamo l’asse Sant’Alessandro-Santo Spirito, ovvero la passeggiata domenicale dei tamarri inurbati, è qualcosa a metà tra la Soluzione Finale e l’eutanasia: se non ti gassano, ti stirano, insomma. Non esiste una pista ciclabile, là dove ce ne sarebbe più bisogno, vale a dire lungo gli assi di attraversamento urbano e nei quartieri semicentrali: le piste ci sono in periferia, ma lì le saprebbe progettare anche Fuksas, con tutto quello spazio! In altre parole, i ciclisti, a Bergamo, sono carne da elezioni: finita la festa, gabbato lu santu!

 

Ad esempio, l’idea della BiGi è un’ottima idea: giusto potenziare il servizio di Bike Sharing (il solito inglese, che due palle!), però, domandiamoci un po’ a cosa servano le BiGi se mancano le Biste Giglabili. Non esistono soltanto i reduci del Sessantotto che prendono la bici per andare da casa loro (sempre, rigorosamente, in centro che più centro non si può) a qualche libreria di via XX settembre: ci sono anche i cittadini comuni, che usano la bici per spostarsi e non per fare propaganda. E quelli, ve lo posso garantire, uscirebbero in bicicletta tutti i giorni, per andare al lavoro, per fare due spese, anche solo per muoversi un pochino, se la cosa fosse praticabile. Invece, prendono, spesso a malincuore, l’automobile per fare un paio di chilometri: inquinano, si stressano, perdono tempo e denaro. E porca l’oca: ma fatele queste benedette ciclabili! Darete fastidio a quattro automobilisti, a qualche negoziante fermo al Pleistocene, ai soliti che blaterano di politica e poi pensano che il Daesh sia un detersivo: ma farete la gioia di quella gente normale che rappresenta la pratica della vostra grammatica ideologica.

 

Le persone vere: non la Smart City dei Fritz Lang de noantri! E’ la solita vecchia storia: si fanno i parcheggi periferici ma non si fanno i collegamenti, si noleggiano le biciclette ma non si fanno le ciclabili, si fa la casa ma non si costruisce il tetto. Diamo per buono il fatto che ogni nuova amministrazione abbia bisogno di un po’ di tempo per tirarsi insieme: per capire quali sono i bottoni da schiacciare, distinguere la lavanderia dalla toilette, imparare a lavorare. Poi, però, uno si aspetta risultati: non si può amministrare Bergamo come se fosse un laboratorio architettonico e basta. Per carità, il progetto della Montelungo sarebbe bellissimo, se non ci fosse costato la catastrofica cessione dei Riuniti alla Guardia di Finanza, operazione di un’ambiguità assoluta, nonostante le fanfaluche sui miglioramenti urbanistici propinate ai residenti. Ma non c’è soltanto quello: abbiamo bisogno di infrastrutture che migliorino la nostra esistenza e non soltanto di panorami mozzafiato o visioni alla Le Corbusier.

 

Dunque, io, come cittadino, come elettore (ebbene sì: l’ho votato!) e come uno che paga vagonate di soldi in tasse, voglio le ciclabili: le pretendo, non le chiedo per favore! Questa amministrazione ne ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia e, adesso, è tempo che metta in pratica quanto ha promesso di fare. Perché il tempo del consenso sulla fiducia sta per scadere, e la gente comincia ad essere un po’ stufa di chiacchiere. Io voglio poter andare da Longuelo a Redona, da Santa Lucia a Boccaleone, da Colognola allo Stadio, senza rischiare la pelle o i polmoni: in altre città, meno teoricamente Smart e molto più concretamente Clever l’hanno già fatto. Basta stringere qualche carreggiata, allargare qualche strettoia, costruire qualche ponticello: se si vuole fare, si può farlo in tempi brevi. Altrimenti, devo arguirne che non si voglia fare: che questa bella pochade del “tutti in bicicletta” sia soltanto l’ennesima trovata pubblicitaria. E io pago…




Banche, quel mercato più severo degli indici europei

MontepaschiIn un mercato azionario che definire depresso appare un eufemismo, nei giorni scorsi è avvenuto un fatto insolito. Capita che un titolo si trovi a crollare rapidamente del 10% ed oltre: Renault, ad esempio, è precipitata del 20% pochi minuti dopo che si era sparsa la voce di un suo possibile coinvolgimento in uno scandalo di emissioni truccate. Come nel caso del gruppo francese, quando c’è un crollo c’è però anche una spiegazione, solida o meno che sia. Pochi giorni prima del caso Renault, in poche ore i titoli di due banche italiane, Montepaschi e Carige, sono andati a picco, perdendo alla fine della seduta rispettivamente l’11,2% e il 13,6%. La stranezza non sta tanto nella caduta dei titoli quanto nella spiegazione che ne è stata data: colpa della speculazione.

Dire che i titoli oscillano in Borsa per effetto della speculazione è come dire che le quotazioni scendono perché cala il prezzo. E’ curioso che ci si possa accontentare di questa spiegazione, senza andarsi a chiedere perché proprio su questi due titoli si sia concentrata l’attenzione degli speculatori, dei quali si può dire di tutto sul punto morale, che sono cinici, approfittatori e con il pelo sullo stomaco, ma non che sono degli sprovveduti. Non è andato a fondo sul tema nemmeno chi ha sostenuto che su Montepaschi e Carige possa essere stato fatto un test sulla solidità del sistema creditizio nazionale che ha salvato, ma deve ancora sistemare quattro istituti del centro Italia. Eppure proprio in questo caso sarebbe stato di maggiore interesse spiegare perché questi due istituti sono sentiti come gli anelli deboli, oggetto di prova di resistenza.

La speculazione, questa misteriosa entità che in fondo corrisponde al mercato, crede insomma che Montepaschi e Carige siano i primi candidati al “bail in”, al salvataggio anche con i soldi dei grandi correntisti? Eppure la banca senese è sotto il controllo diretto della Banca centrale europea ed ha superato i suoi test sul capitale. E Carige ha giudicato “ingiustificato” e “anomalo” l’andamento borsistico, sottolineando la sua “solidità patrimoniale e finanziaria nel pieno rispetto degli indicatori di vigilanza” attraverso una serie di valori: Cet1 Ratio (rapporto tra il capitale ordinario e le sue attività ponderate per il rischio) al 12-12,2%, rispetto all’obiettivo dell’11,25% richiesto dalla Bce e Liquidity Coverage Ratio (che calcola la capacità di soddisfare in caso di stress predefinito il fabbisogno di 30 giorni di liquidità attraverso attivi disponibili di alta qualità) del 138% rispetto alla richiesta del 90%.

Ma evidentemente non erano queste le risposte che il mercato (o la speculazione) voleva. Infatti ha colpito Carige e Montepaschi (che presenta un Cet1 più alto di Unicredit) non perché siano ritenute deboli dal punto di vista patrimoniale, dato che entrambe sei mesi fa hanno portato a termine aumenti di capitale che li hanno messi in linea con le richieste europee, ma per la questione, sempre più di emergenza, dei debiti in sofferenza. Dopo anni in cui si è stati attenti a rafforzare il patrimonio, a detrimento della redditività, come misura preventiva in caso di difficoltà, si scopre, a dire la verità non da ora, che il problema è meglio valutarlo sotto un altro punto di vista. Carige e Montepaschi sono a posto con gli indici patrimoniali richiesti dall’Europa, ma sono più esposti su un altro, che sta assumendo maggiore importanza, che valuta il rischio sui prestiti inesigibili. Il cosiddetto Texas Ratio, che misura il rapporto tra patrimonio netto tangibile e accantonamenti su crediti, al Montepaschi è circa del 140%, contro una media italiana del 100% e una europea del 53%.

Così si può essere in regola con l’Europa, ma non con il mercato, che a volte è più esigente, ed è arrivato a valutare Montepaschi appena il 30% del valore di libro tangibile. Teoricamente sarebbe un prezzo da saldo, o da immediata scalata (2,7 miliardi è il valore di Borsa complessivo di uno dei primi istituti nazionali, neanche un miliardo quello di Carige), se non fosse che finché non verrà risolto il problema dei prestiti inesigibili, con quella bad bank che l’Europa si ostina a non volere concedere o con una cessione seppure a caro prezzo ai “rivenditori di sofferenze”, tutto l’utile prodotto, e forse anche qualcosa di più, sarà destinato ad accantonamenti sui crediti, con la prospettiva che di fronte al minimo peggioramento sulle sofferenze, che a livello globale si stima dovrebbero avere quest’anno il picco, si debba ricorrere a un nuovo aumento di capitale.




Quarto, il “gioco” pericoloso dei moralisti anti-grillini

Mamma mia quanto fa paura il Movimento 5 Stelle. Da una settimana non si parla d’altro che di Quarto, del sindaco grillino Rosa Capuozzo e delle pressioni subite (ma non denunciate) dalla camorra, della purezza di un soggetto politico che è nato in contrapposizione al sistema partitico vigente sulla base di un supposto dna inattaccabile da virus. Su un caso oggettivamente minore, relativo ad un paese importante ma non certo una metropoli, si sono esercitati plotoni di politici e fior di commentatori, compresa la star vindice di tutte le mafie Roberto Saviano con una delle sue sentenze preprocessuali. A quasi tutti non è parso vero prendere in castagna Grillo e i suoi adepti, per dimostrare che non sono esenti da nequizie come tutti gli altri, che la loro democrazia dal basso non esenta dall’imbattersi in poco di buono, che il loro concetto di democrazia subordina un sindaco al buon nome del movimento.

Rosa Capuozzo
Rosa Capuozzo

Quante belle parole, che delizia di ragionamenti, quanta accigliata riprovazione. Uno spettacolo davvero gustoso. Se non fosse che, anche o soprattutto a chi al Movimento 5 Stelle non concederebbe mai il voto nemmeno sotto tortura, fa ribrezzo vedere nella parte degli accusatori partiti ed esponenti politici che di tutto possono essere modello tranne che di moralità.
E’ stato facile osservare, per esempio, che il Partito democratico vanta la bellezza di 84 amministratori indagati per le più svariate tipologie di reato, compresi uomini vicini al premier Matteo Renzi (il quale, a differenza della descamisada Pina Picierno, una virago della politica da baraccone attuale, non ha affatto invocato le dimissioni del sindaco di Quarto). Ed è altrettanto semplice rammentare che pure dalle parti di Lega (le scope sono già state rimesse dell’armadio) e Forza Italia gli indagati non si contino proprio sulle dita di una mano. Ma Lorsignori, dopo aver ricevuto dal guitto barbuto a cinque stelle contumelie di ogni tipo, non possono certo lasciarsi sfuggire l’occasione per cercare di dimostrare che “anche loro”, gli odiati grillini, sono come tutti gli altri.

Ecco, questa soddisfazione, del sistema dei partiti con il concerto dei grandi giornali, nell’infrangere il presunto mito della purezza, a cui solo i beoti potevano e possono credere, è quel che più deve preoccupare. Una volta dimostrato che “così fan tutti” si pensa forse di aver ripulito le proprie vergogne? O si pensa che aumentare la velocità del ventilatore che spara fango ovunque porti ad una omologazione che tutto confonde e tutto cancella? Cercare di cavalcare il caso Quarto, con tutte le sue ambiguità ancora non chiarite, per sgambettare il Movimento 5 Stelle significa imboccare una scorciatoia per l’inferno. Perché la strumentalità è tanto forte da potersi rivelare, agli occhi di molti italiani, un vero e proprio boomerang.

Qui non è il caso di ricordare la faccenda della prima pietra o della pagliuzza e della trave. Riferimenti troppo aulici. Basta solo osservare che Grillo e amici possono essere combattuti e battuti “semplicemente” ingaggiando la battaglia sul piano politico, lasciando perdere quella morale e affidando le eventuali compromissioni penali alla magistratura. Il Movimento 5 Stelle non ha un’idea di Europa, combatte la moneta unica, è attraversato da contraddizioni enormi e soprattutto ha un personale politico naif che si è raccolto attorno ad un leader più per essere contro qualcosa che per un modello di società diversa. A molti, moltissimi italiani piace il luccichio delle 5 stelle. Al netto delle riserve, alcune battaglie (come quella agli stipendi dei parlamentari) sono sacrosante e meritorie. Uno scossone salutare al sistema italiano Grillo e il guru Casaleggio lo hanno dato. Ma se gli avversari pensano di poter ridurre la contesa ad una sorta di “Quarto  grado” moralistico-giudiziario non si rendono conto che rischiano di scavarsi la fossa da soli.




Ma siamo davvero quel popolo di idioti che vediamo nelle pubblicità?

raffreddore influenzaC’è la frutta di stagione, ci sono le tessere stagionali per gli impianti di risalita e ci sono pure le pubblicità che vengono riproposte a seconda del periodo dell’anno. Quando Orione, declinando, imperversa, ossia quando fa freddo e la gente si mette sciarpe e berrette, nelle agenzie pubblicitarie è tutto un fervere di attività: già dalle prime avvisaglie di maltempo, un esercito di creativi ha cominciato a scervellarsi sull’idea con cui battere la concorrenza. Obbiettivo: rifilare a qualche milione di Italiani, gonzi quanto basta, medicamenti e cataplasmi, effervescenze e capsule contro i malanni di stagione. I quali malanni di stagione, il più delle volte, se ne strafregano della dura fatica di chimici e biologi, e fanno il loro corso, secondo natura, come accade da millenni. Perché, nove volte su dieci, contro raffreddori e virus influenzali, non c’è Dulcamara che tenga: ti metti a letto, tossisci, tiri con il naso o, nei casi più sfortunati, fai un po’ di cacchina molle e, dopo tre o quattro giorni, torni a respirare, a dormire e, se non sei un fanigottone impenitente o un politico, anche a lavorare.

Invece, alla televisione, te la raccontano parecchio diversa: va da sé che semplici palliativi vengano presentati come miracolosi rimedi per raffreddori, tossi ed influenze (furbescamente, di solito, si parla di “sintomi influenzali”, per non essere censurati come emeriti cacciaballe, dato che non si tratta di specifici contro l’influenza, che non esistono), ma il modo in cui l’intera faccenda viene descritta credo meriti un’analisi a parte. La scenetta, comunemente, si apre con qualche tranche de vie di persone apparentemente normalissime: la maestrina bruttina, il giovanottone un po’ sfigato, la donna intelligente che deve andare a teatro, la moglie-mamma tutta famiglia e Lancia Y e così via. Questo selezionato campionario di umanità, a causa del maltempo (nonostante l’aridità da Marmarica di questo scorcio d’inverno, negli spot piove sempre a catinelle) e di un destino ingrato, che si accanisce sui migliori, incappa appunto nel sopracitato “malanno di stagione”: e qui inizia la metamorfosi. La maestrina bruttina si trasforma in una specie di cadavere, in cui le uniche macchie di colore sono il violaceo delle occhiaie e il rosso carnicino delle narici, in un volto del colore del taleggio. Il giovanottone, parla come De Mita: dice “Zono un bo’ ravvreddado e vorze ho anghe un bo’ di vebbre…!”.

La donna intelligente, si spezza, ma non si piega, e, agonizzante e con un tempo da lupi, va al bar e ordina acqua calda, in cui sciogliere il preparato salvifico che si porta sempre in tasca: il barista, anziché mandarla al diavolo, come di solito avviene, le porge, premuroso la tazza fumante. La moglie-mamma, ma anche la fidanzata, l’emancipata, la single vestita come Sbirulino, si accoccolano sul divano in posizione fetale, sbarbellando per la febbre, con addosso un vasto repertorio di sciarpe, scialli, calzettoni vichinghi e berrettoni.

Non si capisce perché le dame non vadano a letto e non si mettano sotto le coperte, evitando tutto il complicato armamentario, ma tant’è: evidentemente, i nostri creativi ritengono che le donne italiane siano tutte delle perfette idiote come le protagoniste dei loro video. Lo Schwerpunkt di tutta la situazione è rappresentato dall’assunzione del prodigioso farmaco: una bustina, un bicchierotto, una pastiglietta e la vita torna a pulsare, prepotente.  Il concetto è che, se butti giù la pasticca, tornerai in un momento più bello e più superbo che pria: il cesso torna in cattedra sorridente e pieno di energia, il decerebrato può dedicarsi al suo corso di cucina con profitto e sfornare una specie di vescica sgonfia, che vorrebbe essere un soufflé , la donna colta può andare serenamente ad addormentarsi guardando l’ultima boiata di Dario Fo senza russare per il naso chiuso, e la moglie-fidanzata-single può sostituire la montura da divano con quella da spesa al supermercato, ossia sciarpa, basco fatto a maglia e cappottino color zuccabarucca, ed uscirsene tutta contenta.

Ora, io comprendo benissimo le ragioni delle aziende farmaceutiche, per cui la brutta stagione rappresenta un picco di vendite irrinunciabile: ciò che mi sconcerta è la desolante assenza di fantasia dei pubblicitari. Un po’come il nostro presidente del Consiglio, descrivono un’Italia che non esiste: una specie di Arcadia popolata da idioti cinguettanti, con ombrelli scozzesi e completini indecenti, che si rapportano tra loro con dialoghi che sembrano scritti da Aldo, Giovanni e Giacomo, ma che, a differenza dell’originale, vorrebbero essere realistici. Un Paese di imbecilli e di mammalucchi che non hanno niente da fare, se non tribolare su dei divani con un termometro in bocca: ma chi è che si mette un termometro in bocca, vivaddio? Oppure, il che è ancora più inquietante, il Paese reale è quello lì: i creativi hanno centrato il bersaglio, e gli Italiani si riconoscono davvero nella maestrina, nel bellimbusto e nella radicaloide inteatrata. Orione imperversa e le farmacie prosperano. Comincio a sentire anch’io qualche brividino e mi gira un tantinello la testa: divano, arrivo! Dove sarà la sciarpa della nonna Gilda?




Credito, perché è bene cominciare a spulciare i bilanci delle banche

credito45541.jpgLa Bce chiede all’Italia di fare al più presto pulizia dei prestiti bancari di difficile rientro. Le ipotesi sono una bad bank, ovvero un istituto deficitario dove concentrarli, o uno smaltimento per altre strade, come la cessione a istituti specializzati nell’immondizia bancaria, che comprano a forte sconto i “non performing loans” (i prestiti non performanti) per procedere poi all’incasso del più possibile con le cattive più che con le buone, abbandonando quel minimo di garbo al quale gli istituti di credito sono comunque costretti. L’importante è che non appesantiscano più i bilanci degli istituti, frenandone tra l’altro l’operatività, dato che la qualità degli attivi condiziona il rispetto dei requisiti patrimoniali

Un rapporto Abi-cerved sostiene che il tasso dei crediti difficili scenderà sensibilmente, ma solo nel 2017. E allora questa “nuttata” lunga almeno un anno sarà ricca di patemi per tutti. Per i debitori, per le banche, per i loro azionisti e anche, per l’effetto del bail in (il coinvolgimento in caso di necessità di risanamento), anche dai correntisti. Il salvataggio dei quattro istituti commissariati (Etruria, Marche, Carife e Carichieti), condotto in maniera accorta e previdente dal governo, nonostante la cattiva pubblicità strumentale che ne è stata fatta, non sarà infatti più possibile. Grazie alla tempestività dell’intervento del decreto sono stati limitati i danni e sono stati colpiti “solo” quanti erano azionisti o avevano strumenti finanziari equivalenti ad azioni, come le obbligazioni convertibili. Dall’inizio dell’anno anche chi è semplice correntista di una banca in dissesto rischia di rientrare nel pagamento del dissesto, almeno per il deposito superiore ai 100 mila euro.

Al momento ci si trova di fronte a “crediti non performanti” per poco meno di 200 miliardi di euro, secondo gli ultimi dati Abi. Ma la Bce sospetta che l’impatto finale sulle banche possa essere peggiore di quanto appare ed ha avviato una serie di verifiche, per capire, tra l’altro, se sono adeguate le garanzie a presidio del credito. Ad esempio, nel settore immobiliare a fronte di mutui ci sono ipoteche accese sulla base di perizia per un importo che si aggira sull’80% del valore dell’immobile a garanzia perché fortunatamente la fase del mutuo facile, a volte anche superiore al 100% della perizia, in Italia è durata poco. Però il calo dei prezzi del mercato degli immobili, specie se di livello non elevato, sta comportando che la garanzia dell’ipoteca è una tutela sempre più parziale. I vigilanti della Bce vogliono capire insomma se ci possono essere sorprese negative per l’istituto in caso si trovino nella necessità di dover vendere all’asta un immobile ipotecato per mutui non pagati per recuperare il credito.

Cosa può fare il governo in questi casi, oltre a raccogliersi gli strali, anche se immeritati? Poco come intervento diretto, mentre può fare molto indirettamente, con una politica che crei veramente le condizioni per una crescita diffusa, a partire dalla tutela della popolazione, tipicamente il ceto medio, che contrae mutui in modo che non si trovino nelle condizioni di non pagare. E potrebbe fare qualcosa per rendere i sistemi di recupero crediti più efficienti degli attuali, dove per principio il debitore ha sempre ragione.

Cosa può fare il cittadino per non trovarsi coinvolti nel bail-in. Il primo dato è quello di ricorrere all’informazione finanziaria: nonostante quello che si dice, è almeno dal 2013 che Banca Etruria è quanto meno chiacchierata. Un altro dato è quello di guardare ai bilanci degli istituti. Lavoro non facile e poco piacevole, ma che può risultare molto interessante. Oppure guardare all’ammontare dei crediti deteriorati e soprattutto alla sua loro percentuale sull’attivo. Tre istituti da soli hanno quasi 190 miliardi di crediti deteriorati lordi: Unicredit 80,7, Intesa Sanpaolo 64,4 e Montepaschi 47,4. Ma mentre per i primi due questi pesano rispettivamente il 4,5% e il 5,1% dell’attivo, per il Montepaschi rappresentano il 14,3%. Tra i grandi istituti solo Carige (6,7 miliardi, pari al 28% dell’attivo) ha una percentuale peggiore. Sopra il 10% sono anche Creval (12,5%), Banco Popolare (11,5%) e Bper (10,9%). Sotto il 10% si trovano Ubi (8,5%), Bpm (7,5%). Popolare Sondrio (6,1%) e Credem (2,3%). Sono crediti lordi e molto dipende da quanto sono coperti dalle riserve e dalle garanzie che ora la Bce vuole verificare. Ma quando non ci sono problemi con il lordo, nel ragionamento con il netto non può che esserci un miglioramento.




Il baldanzoso Renzi non scordi la lezione di Craxi

Matteo Renzi
Matteo Renzi

Povero Matteo Renzi. Voleva inaugurare l’anno mettendo il cappello sulla fiammante Ferrari al suo debutto in Borsa. E invece, ha tenuto a battesimo una settimana semplicemente disastrosa per il mercato azionario, mondiale e nazionale. Fino a far sorgere un pernicioso dubbio: vuoi vedere che a furia di parlare e straparlare di gufi e civette si sta trasformando a sua volta in un uccello del malaugurio? Quasi un “chi la fa, l’aspetti”, se non fosse che si sta parlando di materia stramaledettamente seria, con milioni e milioni di euro di risparmi che vanno in fumo da un giorno all’altro a causa di un’economia mondiale piena di guai e soprattutto insensibile ai retorici e autoreferenziali motti di ottimismo ad uso propagandistico.

Fossimo in Renzi, così attento ai segnali, diciamo così, empirici, non trascureremmo il campanello d’allarme che sta suonando in questi giorni sul fronte economico. Per il premier il 2016 sarà un anno assai complicato. Senza dar retta agli esperti di oroscopi che leggono nei pianeti una difficile congiuntura per il Giovin Signore di Firenze, i prossimi dodici mesi sono ricchi di passaggi che metteranno a dura prova l’esuberanza del presidente del Consiglio. Già a fine gennaio arriverà al pettine il nodo del riconoscimento delle unioni civili e bisognerà fare i conti con il fuoco di sbarramento di Alfano, a capo di un partito al limite dell’insignificanza politica ma assai abile nel far valere il manipolo di voti rappresentati in Parlamento.

Ma la vera sfida dell’anno è quella delle elezioni amministrative. Si vota in grandi città come Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli. Il Pd di Renzi non si presenta in condizioni smaglianti anche se il segretario premier, non a caso soprannominato il Bomba, fa sempre sfoggio di sicurezza. Nella Capitale si preannuncia una batosta di dimensioni epocali, a vantaggio dei grillini, giusta condanna per chi ha dimostrato un dilettantismo assoluto nel gestire la pratica Ignazio Marino. A Torino il sindaco uscente Piero Fassino è alle prese con una violenta spaccatura a sinistra e, rispetto a cinque anni fa, dovrà cercare di sfangarla al ballottaggio, stando attento a non farsi infilare dall’intraprendente candidata del Movimento 5 Stelle, Chiara Appendino, dai sondaggi ufficiosi accreditata come possibile clamorosa sorpresa. A Napoli, perfino un Masaniello tutto “ammuina” come Luigi de Magistris è in condizione di poter essere riconfermato rispetto al deserto di un Pd che per avere qualche velleità di competizione deve subire, perché Renzi non lo vuole (specie dopo aver suo malgrado accettato Vincenzo De Luca alla Regione Campania), il ritorno in scena di un vecchio cacicco come Antonio Bassolino.

Per consolarsi il segretario democratico deve guardare a Bologna (ma sai che sforzo…) e, soprattutto, a Milano. Dove, tuttavia, le chance di vittoria sono affidate ad una figura come quella di Giuseppe Sala, un manager che, sostenuto da salotti e giornaloni, si è improvvisamente scoperto “uomo di sinistra” pur avendo una storia professionale e una cultura (basta sentirlo parlare) da moderato. Per mantenere la poltrona oggi di Giuliano Pisapia, insomma, sta per andare in scena il più classico dei matrimoni d’interesse. Che certifica, ammesso che sia bagnato dal successo, una solare sconfitta politica per il Pd, certificando l’incapacità di trovare al proprio interno una figura all’altezza della sfida. Di questo un segretario di partito dovrebbe preoccuparsi, e tanto più lo dovrebbe fare Renzi che è tanto forte al centro quanto debole nei territori.

La baldanza del premier rischia di uscire ridimensionata in caso di sconfitta a Roma, Napoli e, come detto, a Torino. Ed è proprio per questo che il Bomba ha spostato tutte le sue attenzioni sul referendum confermativo sulle riforme costituzionali che si terrà in autunno. Renzi conta su due fattori: l’assenza di un quorum e la voglia di sbaraccare tutto degli italiani (il ridimensionamento del Senato, altra cosa comunque dall’abolizione tout court, va in questo senso). Ma basterà? Ricordiamoci del precedente infausto per Berlusconi e la sua Devolution, che pure era una riforma molto più avanzata di quella renziana. Gli italiani la rispedirono al mittente. E non trascuriamo l’effetto di trascinamento che potrebbero giocare le elezioni amministrative.
Renzi potrebbe arrivare all’appuntamento con il fiato corto. Soprattutto se continuerà, come sta facendo da qualche settimana a questa parte, ad inseguire le questioni rifugiandosi nelle rodomontate dialettiche anziché gestire i dossier con la serena pacatezza dell’uomo di governo.
Come già sulla Buona scuola lo scorso anno, ora il premier deve stare attento a non giocarsi la fiducia degli italiani sulla gestione dei fallimenti delle banche. Servono comportamenti lineari e scelte trasparenti. E basta svillaneggiare i critici o gli oppositori. Anche la buonanima di Bettino Craxi a suo tempo minacciava le vecchie volpi che non lo assecondavano di farle finire in pellicceria. Ma alla resa dei conti in disgrazia ci finì lui prima degli altri…




Addio 2015, un anno all’insegna del controsenso

Botto_CapodannoQua, tutti si affannano a raccogliere album fotografici del 2015, a ricordare quel che hanno fatto, e cercare di dare un nome ed un carattere a questi 365 giorni: io, dal mio rifugio filosofico-montano, guardando alle cose d’Italia, come la poiana osserva le greggi che sgambettano giù in valle, felicitando di bagole e belati sentieri e tratturi, direi che è stato l’anno del grottesco. Tali e tanti sono stati, infatti, i paradossi, i nonsense, le gioppinate di questo 2015, che altra definizione, davvero, non mi viene. Un anno all’insegna del più assoluto irrealismo: dodici mesi votati al racconto di un mondo che non esiste, di una vita che nessuno vive e, soprattutto, di una cecità trasformata in visione del mondo.

Paradosso dei paradossi: dei ciechi che hanno una visione! Perché, va detto, da anni ed anni ormai, questo nostro Occidente mignolo mignolo, che ristagna fra le Alpi e Lilibeo, ha perso contatto con le cose reali: insegue fanfaluche, frasi ad effetto divenute carne, vangeli da ubriachi. Però, fino a quest’anno, non avevo ancora visto l’idiozia sostituire l’intelligenza e farsene beffe, cancellando con un colpo di spugna tutti i fenomeni reali in grado di smentire i dogmi: va bene raccontarsi che le cose vanno bene, ma non si può fare finta di essere d’estate, quando si è d’inverno, solo perché sul libretto rosso dei pensieri di qualche palamidone rincoglionito c’è scritto che dev’essere estate tutto l’anno, andiamo!

Prendete la scuola, malata terminale d’Italia, origine di tutte le nostre magagne, fucina di disoccupati, di svogliati e di analfabeti: la scuola, rifugio di martiri e lazzaroni, extrema ratio per qualunque laureato senza prospettive. Pensate che sia sempre stata così, la scuola italiana? Ennò: quarant’anni fa ce la invidiavano in tutto il mondo, la nostra scuola: lo so che, detto oggi, sembra fantascienza, eppure era proprio così. Se, oggi, la scuola fa schifo, non credete che, forse forse, si potrebbero prendere in considerazione un paio di riflessioni un tantino fuori del coro? Del tipo: non è che, magari, le teorie didattiche estruse dai baldi pensatori dal ’68 ad oggi si siano rivelate un’autentica, scusate il francesismo, cagata? E non è che, magari, qualcuno possa essersi sbagliato: che il vecchio sistema, riveduto e corretto, con meno cravatte e grembiuli e un po’ più di tecnologia, andasse molto meglio del guazzabuglio facilista vomitatoci addosso dai pedagogisti e dai docimologi coccolati da certa sinistra?

Insomma: possiamo tenere un pochino conto della realtà, oltre che della teoria? E se la teoria produce spazzatura, concludere che, in definitiva, quella teoria stessa è spazzatura? Ho parlato della scuola, perché è l’esempio forse più eclatante di questa cecità volontaria, ma lo stesso si potrebbe dire per la sicurezza, i servizi sociali, la sanità. Per non parlare della cultura, della filosofia, del sapere: parole che, a un dipresso, qui da noi non significano più nulla. Eppure, a fronte di questo irrealismo cretineggiante e frivolo, vi sono esempi di interventismo pragmatista, che si dimostrano, se possibile, ancora più desolanti. Prendiamo l’idea di proibire i botti di Capodanno, ad esempio. Si tenga presente che chi scrive è, da sempre, acerrimo nemico dei botti: fastidiosi, pericolosi, del tutto estranei alla nostra tradizione insubre, che vorrebbe rami d’agrifoglio, semmai, e liete canzoncine. Però, se devi proibire dei prodotti, perché sei convinto che vadano proibiti, fallo a giugno: non lanciare proclami draconiani il 29 dicembre, quando, ormai, un sacco di poveri fessi ha dilapidato patrimoni in miccette e raudi e, soprattutto, quando le fabbriche di fuochi e il loro indotto sono in trepidante attesa del picco di vendite.

Se non sei del tutto scemo o, peggio, del tutto incompetente in materia di realtà, non fare il sindaco: fai il brahmino, stattene in riva al Gange a gambe incrociate e ripeti tutto il giorno frasette senza senso. Perché non si gioca, in nome del coup de theatre, con la vita delle persone. Insomma, vuoi per eccesso di teoria, vuoi per eccesso di prassi, la sensazione è che questo 2015 sia stato il trionfo dell’imbecillità, del mero controsenso, della patente inettitudine, da parte di chi prende le decisioni per noi, di prenderle con un minimo di sale in zucca. E, viste le prospettive, perfino augurarsi reciprocamente un felice anno nuovo assume i toni del paradosso grottesco: come potrà mai essere migliore, se non si cambia radicalmente direzione? Se non altro, potremo incolpare il 2016 di ogni nefandezza per il fatto che è bisestile: è che, in Italia, sono bisestili anche le persone!