Pagnoncelli e Piccinelli, i trasformisti che rischiano di aver ragione

Enrico Piccinelli
Enrico Piccinelli

Uno, Marco Pagnoncelli, se n’era andato a luglio, ammaliato dalle sirene dell’ex enfant prodige della politica pugliese, quel Raffaele Fitto che, avendo come modesta ambizione di ricalcare le orme del premier inglese David Cameron, si è creato il suo partito pret à porter, Conservatori e Riformisti. L’altro, Enrico Piccinelli, da sempre uomo più tormentato del suo sodale-avversario di tanti anni in camicia azzurra, ha rotto gli indugi solo martedì, a pochi giorni dal Natale, in concomitanza con due pezzi da novanta come Sandro Bondi e Manuela Repetti (sua consorte), per andare a rimpolpare le fila parlamentari di Denis Verdini, il Gran Visir toscano già plenipotenziario di Berlusconi, inseguito da inchieste e trame oscure ma assurto a novello demiurgo delle riforme in virtù dei rapporti territorial-familiari con Luca Lotti e i giovani rampanti del cosiddetto Giglio magico.

Travolti da un insolito destino, per dirla alla Wertmuller, i due senatori eletti per miracolo nel 2013 (furono inseriti in fondo alla lista dell’allora Pdl solo per fare numero e non fecero nemmeno campagna elettorale tanto erano certi che non sarebbero mai entrati a Palazzo Madama) hanno fatto ciao ciao al partito che li ha cresciuti e pasciuti nell’ultimo ventennio. Da Forza Italia, di cui sono stati entrambi coordinatori provinciali (si sono passati il testimone), hanno avuto tutto e di più. L’uno, forte dello stretto legame con Roberto Formigoni, poi mollato appena il Celeste è caduto in disgrazia, ha cavalcato la stagione ciellina facendosi assegnare incarichi da assessore comunale a Bergamo, poi assessore regionale, quindi consigliere di amministrazione di Sea fino allo scranno vellutato di senatore. L’altro, invece, ha costantemente fatto leva sulla sponda laica del partito azzurro (in ultimo guidata da Mariastella Gelmini) e ne ha riavuto in cambio a sua volta ruoli da assessore a Palazzo Frizzoni e in Provincia, prima di sbarcare a Roma.

Una caratteristica hanno avuto in comune: entrambi, sia detto come mera osservazione da cronista, ovunque sono stati non hanno mai lasciato un segno tangibile del loro passaggio. Inevitabile per chi ha sempre preferito la politica politicante al fare, il posto al caldo allo studiare i problemi, l’ufficio extra large al marciapiede. Di che stupirsi, allora, se di fronte alla caduta massi dell’edificio berlusconiano cercano di mettersi al sicuro? In fondo, assecondano un istinto primordiale. C’è voluta tanta fatica per arrivare in alto, perché rinunciarvi? E poi: la vita mica finisce con l’esaurirsi della spinta propulsiva di Forza Italia. Dopotutto, la politica esisteva anche prima della discesa in campo del Cavaliere (quando l’uno stava nelle retrovie socialiste e l’altro nelle quinte file democristiane).

Inutile guardare all’indietro, il mondo va avanti. La coerenza, ammesso che sia mai stata un virtù, può inorgoglire solo i paracarri, quelli che non cambiano mai idea. Loro, Pagnoncelli&Piccinelli, sono due menti fini, hanno tanto ancora da dare. Poco importa se rischiano di montare su cavalli dagli scarsi garretti. Fitto e Verdini non sono che dei mezzi. Servono a guadagnar tempo, a coltivare il sogno di traghettare verso lidi che in futuro si immagina paradisiaci. Sulla carta sembra un’impresa disperata. O meglio, una manovra spudoratamente opportunistica. Ma vai a sapere. Nel paese dei trasformisti finirà che, poco poco, avranno ragione loro.




Quella nostra sicurezza ormai appesa a un filo

furto-dautoTo be thus is nothing, but to be safely thus. Così e non altramente scriveva il Bardo, nella più cupa delle sue tragedie britanniche. E così, a un dipresso, dovremmo ragionare noi pure, gente di cazzuola e di conto corrente, dieci secoli dopo il sire scozzese, dalle mani lorde di sangue. Ciò che importa è la sicurezza: sicurezza dell’oggi e del domani. Invece, pare che proprio sul versante della sicurezza, sia pure attraverso le trame, non sempre limpidamente realistiche, dell’algoritmo, noialtri lasciamo a desiderare. O, meglio, una parte di noialtri dia il patema all’altra parte.

Io, lo premetto, non mi dedico granchè a strologare sulle statistiche: la storia trilussiana del mezzo pollo ce l’ho sempre ben presente. Però, la visione della solita classifica delle città vivibili ed invivibili, stilata da Il Sole 24 ore da un quarto di secolo a questa parte, in questo caso mi pare piuttosto veritiera: collima, insomma, con le mie riflessioni, come, rade volte, il meteo collima con le mie ginocchia giacomette. Certo, si tratta di statistica: non di un fotogramma di vera vita: però, è verosimile come statistica e, d’altra parte, Renzo e Lucia mica parlano il dialetto secentesco di Calolzio, eppure il romanzetto funziona che è una meraviglia. Ciò detto, mi sembra che ci siano validi motivi per essere soddisfatti di questo 2015 all’insegna della goricrazia: lunga amicizia mi lega al sindaco, ma questo non mi ha mai impedito di mandarlo al diavolo, laddove ne sentissi la necessità. In alcuni campi, Gori e la sua squadretta di volonterosi mi pare abbia bene operato: nella cura dell’ambiente e del paesaggio urbano, nei servizi, fatti salvi anagrafe e stato civile, catastrofizzati dalla più demenziale delle riforme, e, in generale, negli aspetti gestionali ed amministrativi, voci per cui ci piazziamo abbastanza in alto nella classifica solare.

Come sapete, a me duole il dente per la straziante gestione della cultura, però, non esistendo una voce statistica per la ricaduta culturale, ma solo quella per le presenze alle mostre, le amene sembianze prevalgono, ed io mi arrendo. La nota più che dolente dell’analisi de Il Sole 24 ore, però, è quella legata alla sicurezza, per cui la classifica ci vede precipitare fino all’ottantesima posizione su 110 territori valutati. Ottantesimi, in effetti, non è che sia questo gran risultato: soprattutto se pensiamo che, a cinquanta chilometri da noi, c’è il Paese con meno criminalità al mondo. E poi dicono che le frontiere esistono solo nella mente degli uomini: sì, vaglielo a dire a quelli di Pontresina! Certo, anche questo dato va analizzato ed inserito in un quadro generale: non è che a Bergamo ci siano i mafiosi con la coppola e la lupara, come farnetica qualche rimbambito su Facebook. Però, la sensazione diffusa è quella di una sicurezza appesa ad un filo: furtarelli, magari, scippettini, piccoli ladrocinii tra amici. Però, quando la bicicletta la rubano a te, quando la casa svaligiata è la tua, il furtarello diventa una tragedia e tu diventi una belva.

Quando ti spaccano il parabrize per rubarti una borsicina con dentro tre euro frusti e un cellulare vecchio, dentro di te si risveglia l’ispettore Callaghan che dorme in ognuno di noi: e stringi i pugni, con un ghigno bestiale, immaginando di avere tra le mani il ladruncolo, come a stritolarlo. Solo che, tra le mani, non ce l’hai e, con ogni probabilità, non ce l’avrai mai: perché è su quella che viene definita, stupidamente, microcriminalità, che il sistema fa più acqua. Contro i grandi racket, contro i più pericolosi boss, sovente si segnano vittorie: è contro la pletora di piccole violenze contro di noi ed i nostri beni che la polizia e, soprattutto, la magistratura sono pressochè inerti. E qui Gori c’entra poco.

Io, ad esempio, ho querelato due anni fa un pazzo scatenato, che mi aveva pesantissimamente insultato e minacciato su internet, diffondendo perfino il mio indirizzo ed additandomi al pubblico linciaggio: dopo due anni, nonostante la mia individuazione come parte offesa ed infiniti solleciti del mio avvocato, il magistrato bergamasco che ha in mano la faccenda non ha ancora ordinato di chiudere il blog incriminato. Due anni! Non oso pensare che ne sia dei vetri spaccati, delle serrande forzate, delle biciclette ablate dal loro palo lucchettato. Da questo deriva il dato sull’insicurezza: che non è panico, né sindrome da giustizieri della notte, ma è perdita di fiducia in chi dovrebbe proteggerci. E’ assenza dello Stato: per perdonismo cattocomunistoide, per strettezza di mezzi, per ignavia, per italianeria, se volete. Ma il dato vero è che, alla domenica, in giro per il centro non ci sono bergamaschi, ma solo stranieri, dall’aria torva e per nulla indomenicata: Aldous Huxley e non Shakespeare ci viene in soccorso, in clausola, con il suo Brave new world. E, come facilmente immaginerete, quello distopico non è un libro che finisca tanto bene, esattamente come la storia di Macbeth. Quello per cui la sicurezza era la cosa fondamentale. Dimenticavo: buon Natale.




Anche per le Bcc è tempo di rivoluzioni

bcc1Forse neanche la fase di aggregazione che si è aperta nell’ultimo anno/anno e mezzo tra le banche di credito cooperativo, le ex casse rurali, non solo bergamasche sarà sufficiente per salvarle, almeno per come sono strutturate attualmente. Chi è riuscito a commentare le ultime trasformazioni solo con interpretazioni legate al superamento della logica del campanile, può iniziare a capire quanto sia miope anche la dimensione provinciale di fronte all’esplicita manifestazione del pensiero in merito alla riforma del credito cooperativo da parte del presidente del Consiglio Matteo Renzi: “Vorrei che ci fosse un gruppo bancario delle Bcc sul modello del Credit Agricole che è la terza banca francese”.

Probabilmente non si arriverà, almeno inizialmente, a un’unificazione nazionale, ma quello che è certo è che il legislatore sta lavorando, e non dagli ultimi mesi, per arrivare a una concentrazione molto spinta. E’ una richiesta esplicita della vigilanza – Banca d’Italia e Banca centrale europea – che preferisce tenere sotto controllo un pugno di holding piuttosto che perdere tempo con 368 singoli istituti. Finora l’ha fatto in maniera implicita imponendo una mole di controlli difficili da sopportare per microbanche, adesso sta procedendo in maniera diretta “spingendo” per le aggregazioni formali o di sostanza.

Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha spiegato che la riforma delle banche di credito cooperativo a cui sta lavorando il Governo, e che dovrebbe essere presentata a breve, verrà attuata “affinché gli istituti più piccoli possano aggregarsi in una casa comune e facilitare efficienza ed economia di scala”.

Si va insomma verso la creazione di un gruppo in tempi rapidi, approfittando anche della sensibilità al problema creatasi sull’ondata mediatica provocata dal “salvataggio” delle quattro banche commissariate (di queste, nessuna Bcc, che però nell’infermeria di Bankitalia hanno altri istituti), per piegare le resistenze all’operazione. Come il sistema delle popolari è stato di fatto disarticolato e quindi indebolito con l’obbligo di trasformazione in spa per gli istituti principali, così anche il mondo del credito cooperativo, diviso al suo interno sulle modalità della riforma, incapace di procedere nell’autoriforma, vedrà alla fine prevalere una decisione presa dall’esterno. La replica che il comparto è solido è confortante, ma conta poco: alla fine, come sempre, per colpa di qualcuno, che magari non c’entra niente, si finisce per non fare credito a nessuno.

Il progetto del governo punta alla creazione di una holding capogruppo con forma di società per azioni, che faccia da “banca centrale” del sistema controllando e supportando le banche cooperative sottostanti, con la possibilità di approvvigionarsi di capitale sui mercati internazionali. Per evitare il proliferarsi di gruppi regionali o interregionali la soglia minima per la costituzione del gruppo dovrebbe essere fissata con requisiti abbastanza elevati, ma c’è anche la possibilità di un innalzamento dei requisiti patrimoniali necessari per il mantenimento dell’autonomia di un istituto, che ora può essere costituita con 5 milioni di capitale.

Tra Bergamo e Brescia nell’ultimo anno sono maturate diverse operazioni per cercare di prepararsi per ogni evenienza. Sono nate così la Bcc dell’Oglio e del Serio (dall’unione della Ghisalba con la Calcio e Covo), la Bcc Bergamasca e Orobica (dalla fusione dei due omonimi istituti), la Bcc Bergamo e valli (dall’aggregazione della Valle Seriana con la Sorisole e Lepreno), la Bcc di Brescia ha incorporato quella di Verolavecchia, mentre si stanno preparando l’unione della Bcc di Caravaggio con la consorella dell’Adda e del Cremasco e la nascita della Banca del territorio lombardo che dalla somma della Bcc di Pompiano Franciacorta e della Bcc di Bedizzole-Turano-Valvestino porterà al terzo istituto nazionale per dimensione nella categoria. Fuori dai valzer restano a questo punto, nella Bergamasca solo la Cassa rurale di Treviglio (dove il cda ha bloccato una fusione con la Caravaggio che appariva ormai fatta) e la Mozzanica, e, nel Bresciano, la Cassa Padana (che però tra il 2010 e il 2012 ha incorporato BCC Camuna, Banca Veneta 1896 e Bcc Valtrompia), la Borgo San Giacomo, la Garda, l’Agrobresciano e la Basso Sebino (che ha rinviato a dopo la riforma l’esame di un’unione con la Banca dell’Oglio e del Serio). In ogni caso in pochi anni la ventina di istituti orobico-bresciani si è praticamente dimezzata. Ma non sembra finita e soprattutto potrebbe non bastare.




Sanità, con Maroni siamo ormai alla burla

Roberto Maroni
Roberto Maroni

Dicono che la sanità lombarda è la migliore che ci sia. Chissà come son messi gli altri, vien da dire. Soprattutto ora che dalla Regione Lombardia rimbalza la notizia che due su tre dei 49 direttori generali attualmente in carica sono stati bocciati ai test psicoattitudinali promossi per compilare la lista dei 100 manager tra cui il presidente Roberto Maroni sceglierà i nuovi vertici delle strutture sanitarie. Tradotto con il linguaggio dell’uomo della strada, ciò significa che la sanità lombarda funziona, spesso e volentieri, “malgrado” chi la governa. Ma può essere vero? Evidentemente no, e allora forse sarà il caso di sottrarsi alla suggestione del test fintamente meritocratico per andare al cuore della questione. Quel che Maroni sta cercando di fare è semplicemente il gioco delle tre carte: sostituire in buona parte i direttori generali nominati, con rigorosa logica cencelliana, dal suo predecessore Roberto Formigoni con altri di sua osservanza. Cogliendo al balzo una proposta del Pd si è acconciato ad utilizzare il metodo dei test per dare una parvenza di credibilità alle sue scelte. Ma solo gli illusi possono pensare che il responsabile di un ospedale o di un’azienda sanitaria possa essere valutato attraverso quiz poco più complessi di quelli che si devono superare per la patente. E infatti, basta scorrere l’elenco dei bocciati per scorgere anche nomi di professionisti, certamente con targa politica riconoscibile, stimati e apprezzati per il loro lavoro di questi anni.

Quella che si sta consumando, quindi, è nulla più che una presa in giro. Tant’è che, come è già stato osservato su L’eco di Bergamo da un profondo conoscitore di cose sanitarie come Alberto Ceresoli, al Pirellone stanno comunque procedendo nella valutazione delle candidature con il solito bilancino delle appartenenze a partiti, correnti e conventicole. Per cui, per esempio, sull’ospedale Papa Giovanni XXIII è in corso un violentissimo braccio di ferro tra Forza Italia e Lega per accaparrarsene la guida (con il corollario, a cascata, delle caselle da occupare a Seriate e Treviglio). Tutto cambia ma nulla cambia, insomma, anche la Padania perpetua gli usi e costumi gattopardeschi che tanto dovrebbero inorridire gli highlander leghisti.
Del resto, che tutto sia una burla lo dimostra una piccola notizia che è scivolata via nell’indifferenza generale. Un nutrito drappello di manager bocciati ai test maroniani solo sette giorni prima avevano ricevuto dalla medesima Regione un premio di risultato (!) variabile tra un minimo di 17 mila e 500 euro ad un massimo di 29 mila e 400. Prima premiati e poi bocciati: alzi la mano chi ci capisce qualcosa.

Ma probabilmente il bello deve ancora venire perché l’ineffabile Maroni solo pochi mesi fa ha patrocinato una riforma della sanità lombarda che da più parti è vista con timore perché rischia di buttare all’aria un sistema che, con le sue criticità (dovute soprattutto alle commistioni tra politica e affari), ha dimostrato di funzionare. Il nuovo modello è stato varato a fine agosto. Da allora, pensate un po’, dopo le dimissioni dell’assessore Mario Mantovani (che da questa partita era stato esautorato e che nelle settimane successive è finito in carcere con accuse pesanti), la Lombardia non ha un delegato a seguire in prima persona e in via esclusiva questo delicatissimo settore. “Basto io” ha detto il piccolo Napoleone lombardo Maroni.
Ecco perché quello che sembrava un paradosso (la sanità funziona malgrado chi la governa) è un’amara verità. Senza l’impegno di chi sta in prima linea, di chi dedica tutte le sue forze a chi ha bisogno, di chi profonde tutte le sue energie per dare risposte alle esigenze di cura non avremmo la “migliore sanità che ci sia”. Che forse potrebbe essere ancora più efficiente se i politici, quelli ufficiali e quelli mascherati da manager, venissero messi alla porta. Ma questa è l’unica riforma che non vedrà mai la luce.




Banche, sulle obbligazioni subordinate siamo passati dalla tragedia alla farsa

Banca EtruriaDa un provvedimento serio e responsabile si è scivolati nella solita farsa. Se non si vuole scadere nella demagogia da bar e nella banale demonizzazione delle banche – dimenticando che se crolla il sistema creditizio crolla anche l’economia e quindi la società – va riconosciuto che il governo Renzi ha emanato un decreto che, nella situazione che si era creata, e della quale, fino a prova contraria, non si può ritenere responsabile, era quanto di meglio si poteva fare. Ha evitato la chiusura degli istituti, che avrebbe creato un’onda dagli effetti imprevedibili, ha salvato posti di lavoro, ha permesso di mantenere le linee di credito alle imprese ed è riuscito a contenere il numero di risparmiatori coinvolti.

E’ stata finalmente rovesciata l’applicazione del consueto principio della privatizzazione degli utili e della nazionalizzazione delle perdite. Adesso che il “bail in” dice proprio questo, cioè che il salvataggio di una banca non avverrà più con i soldi dello Stato e quindi dei contribuenti (“bail out”), ma di azionisti, obbligazionisti e correntisti oltre i 100 mila euro, si cerca di fare marcia indietro. Perché uno fa due conti e inizia a temere di essere coinvolto direttamente, mentre la politica cavalca strumentalmente tutta la vicenda.

Gli obbligazionisti con titoli equivalenti al capitale di Banca Marche, Etruria, Carife e Carichieti hanno il non piacevole privilegio di essere i pionieri tra quanti in Italia hanno perso tutto per una banca andata a gambe all’aria (per gli azionisti è già successo). Ma il clamore deriva dal fatto che quella che avrebbe dovuto essere da tempo una regola del libero mercato lo è diventato in concreto solo adesso. Anche per questo il governo Renzi aveva iniziato la gestione del salvataggio delle quattro banche commissariate in modo rigoroso e inappuntabile. Poi si è fatto prendere dai dubbi e forse, se si può essere maliziosi, dai timori di perdere consensi in territori che considerava finora elettoralmente protetti. E si è inventato l’intervento umanitario, creando un’odiosa discriminazione in figli e figliastri, attraverso quella che di fatto si può considerare una “legge eccezionale”.

Se ci sono state truffe si poteva e si può procedere nelle modalità previste dalla legge. Ma non si capisce perché deve essere creato un fondo per rimborsare seppure parzialmente l’obbligazionista subordinato di questa banche, che ha perso il suo investimento in titoli che promettevano interessi superiori a quelli di mercato, dimenticando la regola aurea che a maggior rendimento corrisponde maggior rischio, mentre, ad esempio, un’azienda costretta a chiudere perché non viene pagata da una società che finisce in fallimento non è da considerare un caso almeno altrettanto socialmente rilevante. In fondo, in entrambi i casi si ha a che fare con un debitore ritenuto affidabile che non paga.

Come spesso accade si scivola dalla tragedia alla farsa. Dopo le iniziali sparate sull’enormità di risparmiatori coinvolti, che si confondeva quasi con il numero di tutte le famiglie di Ancona, Arezzo, Ferrara e Chieti, il numero dei risparmiatori che potrebbero rientrare nei criteri del “ristoro umanitario” per un rimborso parziale, sta scendendo sotto il migliaio. E’ la premessa che il fondo da 100 milioni si rivelerà sostanzialmente un buon espediente promozionale per il governo e anche un minore onere per le banche sane, che si può immaginare quanto siano contente a correre in giro per l’Italia a pagare i guasti altrui, ma sono costrette a questo pedaggio nella giusta convinzione che lasciare malati in giro sia la premessa per lo scoppio di un’epidemia.

 




L’arma contro babygang e ladri di bici? Un bel paio di “civette”

Furto bicicletta-3Ormai da tempo, sento alzarsi, qua e là, lamenti per l’insostenibile aumento della microcriminalità a Bergamo, per il senso di insicurezza, per mille piccoli episodi di quotidiana violenza contro i cittadini: furti, risse, scippi, babygang. Insomma, tutto il repertorio già visto a Los Angeles quarant’anni fa, a Londra trent’anni fa, a Parigi vent’anni fa, a Milano dieci anni fa, e adesso, da buoni ultimi, anche a Bergamo. Se c’è una cosa che la storia militare ti insegna è che i generali non sono quasi mai capaci di imparare dai propri errori: viceversa, la pedagogia definisce l’errore un “ambito di apprendimento”.

I pedagogisti, evidentemente, sono molto più ottimisti degli storici. Dunque, fatta la tara a quelli che si accorgono solo adesso della malattia, ma non fecero un tubo per occuparsi dei sintomi, quando era in loro potere farlo, di fronte ad un problema che, obbiettivamente, sta dilagando, vorrei offrire il mio modestissimo contributo. Va da sé che vi sono ragioni profonde per cui, oggi, se percorri il sottopasso della stazione, rischi la rapina: dev’essere per questo che i nostri lungimiranti progenitori hanno tanto esitato ad aprirlo: poca polizia, leggi ultragarantiste, magistrati in vena di paciocconerie, paura di passare per razzisti se si dice che questi furboni sono al 99,99% stranieri e così via. Si è detto fin troppe volte e ve lo risparmierò. Mi limiterò, perciò, a suggerire un sistemino facile facile, per sgominare due tra le più odiose attività seriali che prosperino nel centro del capoluogo: i furti di biciclette e la gang giovanili che molestano coetanei ed adulti.

Proprio la storia militare insegna che, se il nemico è ben asserragliato nel suo fortino oppure gode di indubbi vantaggi logistici, la cosa migliore da fare è attirarlo in un’imboscata: tutto sta nel trovare un’esca che lui non sospetti essere tale. In questo caso, proprio la sensazione di onnipotente immunità che anima questi delinquentelli di terza categoria potrebbe essere la chiave per fregarli: alla sicurezza, al buonismo, al perdonismo totale, corrisponde, per solito, nei beneficati, la rassicurante sensazione di vivere in un mondo di fessi. Di essere gli unici vedenti nel regno dei ciechi di H.G. Wells, tanto per capirci.

E, allora, ecco il semplice sistema per incastrarli, con bassissimo dispendio di forze dell’ordine e soltanto un pochino di pazienza. L’attività dei ladri di biciclette, intorno alla zona della stazione, ad esempio, è palesemente seriale: ci sono dei nullafacenti, appostati dove, di solito, si parcheggiano le bici (in via Mai, dove ci sono le scuole, ad esempio), che segnalano ad un’équipe altamente organizzata la presenza di un velocipede rubabile. Immaginiamo una mamma che va di fretta, perché ha il consiglio di classe del figlio: chiude con un lucchetto normalissimo la sua bici fuori dal “Lussana” ed entra. Oppure uno che deve fare una commissione veloce: non può perdere un’ora a cercare un paletto in zona sicura e chiude la bici dove capita. L’osservatore, che sembra un perdigiorno un po’ rincoglionito, non è affatto un perdigiorno e, soprattutto, non è punto rincoglionito: tira fuori il cellulare, chiama, e in dieci minuti arrivano i soci col tronchese che, senza dare nell’occhio procedono all’ablazione del prezioso velocipede, che, poi, venderanno su e-bay, come se niente fosse.

Succede ogni giorno, più volte al giorno: è una banda, e io ho ragionevoli dubbi che la polizia sappia anche perfettamente di chi si tratta. Li volete acchiappare con le mani nella marmellata? Prendete una signora sui quaranta, elegante quanto basta, con una bella citybike: fatele lasciare la bici, chiusa con un lucchetto da poco, in uno dei luoghi caldi, e aspettate. Mettete quattro cinque apparenti perdigiorno con cellulare a farsi gli apparenti affari loro, tutto attorno: fate, insomma, come fanno i ladri. Si chiama riallineamento di una guerra asimmetrica. Garantisco che, alla seconda o terza volta, beccherete la banda al gran completo: se, poi, qualche magistrato li rimetterà fuori in dieci minuti, questo è un altro discorso, che bisognerebbe affrontare in Parlamento.

Lo stesso dicasi per le babygang: di solito, quattro bulletti incazzatissimi per il fatto di non avere i capelli biondi e gli occhi azzurri. Nemmeno io li ho, ma non per questo vado a pestare la gente, ma sorvoliamo. Mandiamo la solita civetta a passeggiare per i luoghi che i giovani mentecatti considerano loro territorio esclusivo: al terzo passaggio, il nostro ragazzino, con aria un po’ ebete e vestito all’ultima moda, sarà sicuramente agganciato. E, con questo, sarà agganciata anche la temibilissima babygang: saranno scoperti i loro genitori, saranno prese le loro impronte e così via. Penso che, nella maggioranza dei casi, basterà come deterrente il sapere che Bergamo si difende, per evitare che questi, che sono poi ragazzini, non ci ricaschino. Il punto è che Bergamo non si difende, perchè pare poco bello difendersi: in questo mondo rovesciato, difendersi equivale ad aggredire. In ogni caso, io un modo per salvarsi le chiappe senza troppe tragedie ve l’ho suggerito: adesso fate voi.




Il “cugino” da eliminare per un fisco più equo e leggero

fiscoA Roma tutti abbiamo “un cugino”. Non nel senso di una parentela, né di una presenza reale, ma nello spirito di una rete di familiarità, tra il favoritismo e la complicità, un po’ “aumma aumma”, si direbbe a Napoli in maniera onomatopeica. Di fronte a un incidente o a un qualsiasi problema, i romani, intesi come categoria dello spirito, più che come abitanti di Roma, hanno sempre un “cugino” o in subordine un “amico mio” al quale rivolgersi per far sistemare le cose. Non importa se poi rivolgendosi al “cugino” la sistemazione viene male o risulta più cara rispetto a quanto potrebbe fare un perfetto estraneo, pagato per la prestazione professionale. Il valore aggiunto è quello di avere un apparente privilegio, quello, appunto, di un “cugino” a cui rivolgersi che, si presume, altri non hanno. Il “cugino” degli italiani è il governo. In materia fiscale, efficienza e pragmatismo, ma in fondo anche la Costituzione (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”), vorrebbero che le tasse fossero pagate in maniera equa ed egualitaria. Ma se fosse veramente così, il “cugino” cosa ci starebbe a fare? Perderebbe il suo ruolo, perché se tutti fossimo uguali, non potrebbe far valere la sua strizzatina d’occhio e l’apparente vantaggio della familiarità. Lo sconto delle tasse, insomma, piace (anche) perché è esclusivo. Se fosse per tutti darebbe meno soddisfazioni.

Ci sono due grandi tipologie di benefici, quelli che danno qualcosa e quelli che permettono di non pagare. Nella prima categoria, c’è la regalia. L’ultima trovata è il bonus, come i 500 euro che saranno dati a quanti compiranno diciotto anni nel 2016 in modo che possano comprare cultura e in questo modo combattere l’avanzata del terrorismo. A parte il rapporto un po’ azzardato, c’è l’incertezza su cosa si intende con comprare cultura- Si parla di libri, ma chi valuta se sono sullo stesso piano “Guerra e Pace”, un romanzetto Harmony e le avventure di Peppa Pig? E’ sempre l’aleatorietà che ci rovina e qui ce n’è parecchia, accentuata dal fatto che il premier Renzi replica piccato che questa non è una “mancia, ma un dovere” e a chi sostiene che si tratta di una manovra elettorale ribatte che “gli italiani non sono stupidi”. La stessa risposta, peraltro,  che aveva dato quando si inventò il bonus degli 80 euro per i lavoratori dipendenti a basso reddito prima delle elezioni europee (vinte) nel 2015. Nel frattempo ci sono stati altri bonus: quello per i bebè, quello ancora da 80 euro per le forze dell’ordine e quello ancora da 500 euro (si vede che alcuni numeri gli portano buono) per gli insegnanti. Un po’ per uno, insomma, fa bene a quasi tutti, anche se forse sarebbe stato meglio provvedere in maniera più razionale e sistematica con una reale riduzione generale delle aliquote senza favoritismi.

Accanto alla regalia, c’è una seconda modalità di azione del “cugino” che quasi tutti, anche senza saperlo, hanno al Fisco. E’ quella dello sconto, dove il grande favore dell’eccezione è di lunga tradizione. In questo campo il governo aveva annunciato una grande azione moralizzatrice, ma l’impeto rottamatore si è infranto forse anche perché il “cugino”, si sa, è una potenza in chiave elettorale. Così non solo il governo ha accantonato i proclami  di voler disboscare la giungla di sconti e agevolazioni fiscali, ma ne ha aggiunto altri 15, portando il totale a quota 296.  “Le tax expenditures” introdotte valgono 634 milioni per il 2016, 1,3 miliardi per il 2017 e 1,2 miliardi per il 2018 e tra queste ci sono l’art bonus, per spingere gli investimenti in cultura o il bonus mobili per le giovani coppie che comprano casa. Tra i compiti costituzionali c’è la redistribuzione dei redditi, che passa anche attraverso la gestione del fisco. Per questo alcune detrazioni, come quelle per i carichi familiari, sono considerate intoccabili. Ma le agevolazioni fiscali valgono più di un terzo delle entrate tributarie complessive (161 miliardi contro 442) e alcune, come l’agevolazione per l’estrazione del sale dal magnesio, sembrano più che altro “sussidi impliciti”. Molto meglio recuperare queste risorse per procedere ad una generale riduzione delle imposte, seppure contenuta. Con buona pace del “cugino”.

 




“Bergamo è senza padri”, Zonca mette il dito nella piaga

Cesare Zonca
Cesare Zonca

“Bergamo è rimasta senza padri” dice in una lunga, e non priva di spunti (alcuni condivisibili e altri molto meno), intervista al sito Bergamopost.it l’avvocato Cesare Zonca. In occasione del suo ottantesimo compleanno, il legale d’affari più famoso e influente della città, colui che con l’ex presidente della Banca Popolare di Bergamo (poi Ubi) Emilio Zanetti ha rappresentato lo snodo obbligato di tante vicende, economiche ma anche dai risvolti politici, è chiamato a tracciare un quadro della situazione e ad offrire al lettore un punto di vista sulle condizioni dello scenario bergamasco. E spicca, pur nella ritrosia forse dettata da carità (il vero signore non infierisce mai), la constatazione di una terra rimasta orfana di padri, cioè di figure di riferimento.
E’ un’osservazione da condividere in pieno. La sua, anzi, è la certificazione di quanto da anni andiamo sostenendo a proposito della dilagante mediocrità che ha investito pressoché ogni ambito della vita bergamasca, da quello economico a quello politico non trascurando quello culturale come quello sociale. Certo è paradossale ritrovarsi in questa situazione di sostanziale assenza di leadership dopo aver sentito per anni auspicare da più parti la fine, fisiologica, della lunga stagione dei cosiddetti “grandi vecchi”.
Zonca, bontà sua, individua nel sindaco Giorgio Gori una “figura promettente”. In nuce, alcune caratteristiche ci sono: la visione di lungo periodo, la capacità di coltivare rapporti con i mondi che contano, le doti comunicative. Indubbie qualità che tuttavia forse non bastano per farne un vero leader se non addirittura un “padre”. La leadership è qualcosa di più e di più complesso che al momento, ma è ancora ai primi passi della sua esperienza politico-amministrativa, Gori lascia soltanto intravedere. Ma anche ammettendo che il sindaco abbia tutto per diventare una guida riconosciuta, o quantomeno stimata, anche da chi politicamente la pensa in modo diverso, resta che la realtà bergamasca ha bisogno come il pane di tante, e diverse per cultura e estrazione sociale, figure di riferimento.
Proviamo a volgere per un attimo lo sguardo all’indietro, così forse il discorso risulta più comprensibile. Fino a poco più di vent’anni fa la scena orobica era calcata da personaggi che oggi, al di là di come la si pensi, appaiono come autentici giganti: accanto a Zonca e Zanetti, ciascuno nel proprio ambito, c’erano Filippo Maria Pandolfi e Mirko Tremaglia, don Andrea Spada, Roberto Sestini e le famiglie Radici, Pesenti e Mazzoleni. Oggi che per le più disparate ragioni (chi si è ritirato, chi ha solo lasciato la prima linea, chi ha fatto scelte diverse, chi non c’è più) queste figure sono venute a mancare, è chiaro a tutti quanto Bergamo sia più povera.
Non si tratta di coltivare inguaribili nostalgie né di immaginare che possano esistere uomini per tutte le stagioni. Resta l’osservazione di Zonca: non ci sono più padri. E a partire dai padri, che per primi avrebbero potuto agevolare (ma forse ci hanno provato, non riuscendoci) la nascita di “figli” all’altezza, tutti sono chiamati ad una seria riflessione. Quel vuoto va riempito, quel quid in più va trovato. Assodato che i leader non nascono in provetta e tantomeno lo diventano per cooptazione, prima si creano le condizioni per la nascita e la crescita di una classe dirigente adeguata alle sfide meglio sarà per tutti. A partire dagli ignari nipotini.




La polemica su Mussolini? Una banale e triste storia di provincia

mussoliniCerte notizie sono come il maiale: non si butta via niente. Le notizie che riguardano la figura di Benito Mussolini, poi, sono come il maiale al cubo: possono essere insaccate, affumicate, conservate per anni ed anni, e, quando le servi in tavola, fanno sempre la loro – è il caso di dirlo – porca figura.

Mussolini, a settant’anni dalla sua morte, è ancora uno scoop: ogni tre per due, salta fuori qualcosa che riattizza l’interesse intorno al Duce. Una volta è la vera storia della sua morte, un’altra un reportage sull’oro di Dongo, un’altra ancora un epistolario che non vuole saltare fuori: in un modo o nell’altro, Mussolini fa ancora notizia. E vende. Qualunque direttore di giornale sa perfettamente che una copia in cui si parli di lui, in cui si offrano gadget del Ventennio, speciali sul fascismo, volumetti da due soldi su qualche carattere ducesco, vende cento volte più di una copia qualunque. E mi sento di dire che anche tutta questa polemica, all’apparenza vieta e fuori tempo massimo, sulla revoca della cittadinanza onoraria concessa dal comune di Bergamo a Mussolini, nel 1924, appartenga al medesimo filone degli speciali sul fascismo e degli inserti sul Duce: è una questione di vendite, in un certo senso.

Tant’è che, ultimamente, tutti quanti, e specialmente quelli che, altrimenti, non si filerebbe nessuno e che nessuno sa chi diavolo siano, cercano di appendere il cappello all’attaccapanni della revoca. Lo dico bello chiaro, a scanso di equivoci: per me, la cittadinanza onoraria a Mussolini potreste toglierla anche domani: in primo luogo, perché delle benemerenze in genere mi frega men che zero, in secondo luogo perché Mussolini mi pare tutto meno che un benemerente e, in terzo luogo, perché le onorificenze concesse dal Comune di Bergamo mi sembrano più o meno tutte quante prodotto di piaggerie e consorterie, non soltanto quella assegnata al Duce. Sicché, valgono quanto il due di coppe con la briscola a denari, a chiunque vengano appioppate: parenti, amici e benefattori.

Ma qui, in questo accanimento su di un tema che, evidentemente, alla stragrande maggioranza dei cittadini importa pochissimo, ci vedo qualcosa di diverso da una banale diatriba, di quelle che ci fanno sbadigliare da decenni, tra destra e sinistra, buoni e cattivi, ricciolini e crapepelate: mi pare di riconoscere i segnali di una precisa campagna di marketing. Marketing politico, ma pur sempre marketing. Rivediamo dall’inizio tutta la faccenda.

L’antefatto è che i temi della scorsa maturità hanno dimostrato che agli studenti italiani la Resistenza, coi suoi annessi e connessi, a furia di venir bombardati da celebrazioni e discorsi, è decisamente venuta in uggia. Ahia, devono essersi detti i professionisti della memoria partigiana: qui rischiamo di restare disoccupati! Di questo passo, a qualcuno di questi signori, che hanno costruito una salda fortuna ed una carriera sulla propria vocazione antifascista, avrebbe potuto toccare di andare a lavorare: e magari dover perfino esibire il proprio curriculum, anziché basarsi sulla fiducia. Ed ecco scattare l’operazione di marketing: Mussolini, orrore, ha ancora la cittadinanza onoraria! Quale miglior occasione per dimostrare al mondo la propria vitalità e la propria indiscussa competenza negli affari in cui storia e morale vanno a braccetto? Così, è partita la polemica, opportunamente amplificata dalla stampa locale, che, su cose come questa, va a nozze, sempre per ragioni di numeri: fare degli speciali sul Duce per aumentare la tiratura sarebbe politicamente scorretto, ma, se qualcuno ti offre la notizia su di un vassoio d’argento…ci siamo capiti.

Così, mentre i Bergamaschi se ne fregavano serenamente di tutta la questione, la polemica è rimbalzata sui muri della città: hanno detto la loro tutti i malati di protagonismo del comprensorio, ci si sono ficcati tutti i padrini della storiografia locale, hanno abbracciato la santa causa politichini di terza e quarta linea, sperando, probabilmente, di venir promossi in cavalleria. Questa, se ve la devo dire piatta, è la mia impressione sull’affaire Mussolini: una banale, tristissima, storia di provincia. Un siparietto tra gente culturalmente e politicamente sorpassata, che non vuole accettare la realtà del sorpasso e che cerca, in ogni modo, di restare sotto il riflettore, di tenere il palcoscenico un minuto di più. Una questione di caratteri e non di revisione della storia, insomma. E, allora, caro Gori, compi un atto di generosità verso questi protagonisti delle ribalte orobiche del tempo che fu: è un po’ come la legge Bacchelli, che soccorre gli artisti in disarmo. Revoca questa benedetta cittadinanza: sarà un’opera di bene. Per questi uomini che non sanno accettare la propria giubilazione politica e, forse, neppure l’incalzare del dato anagrafico; ma, soprattutto, per noi, gente normale, che non sa che farsene di riflettori e di ribalte e che, soprattutto, vorrebbe occuparsi dei cittadini vivi, non dei dittatori morti.




Tra salvataggi e trasformazioni in spa per le banche sarà un 2016 movimentato

a-ubi.jpgIl decreto che permette di salvare quattro banche di media taglia commissariate non risolve definitivamente i problemi. E’ previsto infatti che questi istituti debbano essere successivamente venduti. E il problema è: chi potrà comprarle? Messe insieme Banca Etruria (una delle dieci popolari obbligate alla trasformazione in Spa), Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti rappresentano l’1% degli asset del sistema bancario nazionale. Non devono necessariamente essere acquistate in blocco, ma è un’operazione comunque impegnativa. I big non sembrano molto motivati. Alcuni capiazienda, in Intesa, Unicredit, Montepaschi e Banco Popolare, hanno dichiarato esplicitamente di non essere interessati. La Bpm non ha escluso di fare una valutazione, mentre l’ad di Ubi Victor Massiah si è limitato ad escludere Banca Marche per la sovrapposizione con la Popolare Ancona già nel gruppo. Ci sono poi gli istituti medi: l’anno scorso in effetti l’acquisto da parte della Popolare di Bari ha permesso di risolvere i problemi di Tercas e Caripe, ma adesso i bocconi appaiono un po’ grossi.

L’operazione di salvataggio costa circa 3,6 miliardi, interamente a carico del sistema bancario (mentre azionisti e possessori di obbligazioni subordinate hanno perso il loro investimento) anche se azionisti e possessori, in maniera proporzionale attraverso il neonato Fondo di risoluzione nazionale, la cui liquidità è stata anticipata al 33% da Unicredit, Intesa e Ubi (non è una premessa ad una futura acquisizione, ma un prestito a prezzi di mercato). Questi 3,6 miliardi serviranno per 1,7 miliardi alla copertura delle perdite, 140 milioni per la bad bank (dove saranno trasferiti crediti difficili per 8 miliardi svalutati a 1,5 miliardi, con la prospettiva di un  parziale recupero attraverso la cessione a istituti specializzati) e 1,8 miliardi per la ricapitalizzazione delle nuove banche. Quelle che in futuro dovranno essere vendute anche per recuperare le risorse da restituire al Fondo. Novità del decreto, oltre all’utilizzo del Fondo, è però proprio il fatto che, attraverso la disposizione di successiva vendita, il tema delle aggregazioni diventa per la prima volta “obbligatorio”.

Lo stesso decreto sulle Popolari, che era stato giustificato con l’obiettivo di favorire le aggregazioni, in realtà ha solo cercato di scompaginarne l’assetto, imponendo la trasformazione in società per azioni per quelle con il maggiore attivo patrimoniale, senza imporre fusioni. E infatti, a parte l’unione, peraltro già avviata prima del decreto, tra Volksbank e Marostica che ha creato l’undicesimo istituto soggetto all’obbligo di futura trasformazione, di unioni non ne sono ancora viste. Anzi, paradossalmente proprio il decreto ha rallentato anche le trattative in corso già da anni, dato che la trasformazione in Spa crea anche una sorte di “semestre bianco”: diventa infatti difficile per un Cda destinato a modifiche anche radicali nel possibile cambio di maggioranza determinato dal passaggio da società cooperativa a società di capitali proporre operazioni che potrebbe non essere approvate da chi prenderà le redini dell’istituto dopo pochi mesi.

Per questa ragione è più che probabile che solo dopo la trasformazione in Spa – che finora ha effettuato solo Ubi e che Veneto Banca prevede questo mese – gli istituti potranno veramente procedere nelle aggregazioni. Ma oltre ad unioni tra di loro adesso c’è anche da risolvere la vendita dei quattro istituti. Il decreto a dire il vero non stabilisce date precise, ma si limita a disporre la vendita “quando le condizioni di mercato sono adeguate”. Una premessa per un 2016 molto movimentato su questo fronte.