Gori, la sfida è governare la città non darsi alla politica politicante

Giorgio GoriCome volevasi dimostrare: il presidente della Regione Roberto Maroni non ha alcuna intenzione di andare a trattare con il Governo maggiori spazi di autonomia e, cogliendo al volo un pretesto, si è lanciato a corpo morto verso il referendum. Un’operazione propagandistica, dal costo tutt’altro che trascurabile per le casse pubbliche (30 milioni), alla quale l’estate scorsa si erano incautamente accodati il presidente della Provincia Matteo Rossi e il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Proprio quest’ultimo negli ultimi giorni ha alzato il tiro nei confronti del governatore lombardo, accusato (seppur non in termini così espliciti) di mala fede. Alla buon’ora, verrebbe da dire, visto che questo epilogo era ampiamente prevedibile, come risulta evidente da un commento sul tema pubblicato su La Rassegna il 3 settembre scorso.
Per Maroni, come per la Lega, il tema dell’autonomia è una bandiera da sventolare davanti agli occhi dei gonzi che si ostinano a volerci credere. E’ demagogia allo stato puro, altrimenti tanti anni al governo, sia nazionale che regionale, avrebbero prodotto ben altri risultati. E invece, dal federalismo alla macroregione passando per la devolution, è stato tutto un unico, colossale, bluff.

Come abbia potuto il Pd accodarsi all’iniziativa maroniana è uno di quei segni che mostrano il livello sottoterra della classe dirigente del partito che al momento ha l’onore-onere di guidare il Paese. Anche in casa nostra c’è di che riflettere. Meglio, il sindaco Gori ha di che riflettere perché questo passo falso sul referendum (anche se la sua colpa è di aver assecondato Rossi più che di aver preso l’iniziativa) fa il paio con l’altra battuta a vuoto accusata quando è uscito pubblicamente, senza concordare la posizione con il partito e la stessa maggioranza, per bocciare la richiesta di revoca della cittadinanza onoraria concessa nel 1924 a Benito Mussolini.
Non basta certo per tranciare giudizi, ma si ha come l’impressione, o forse qualcosa in più, che a Gori si attagli più la dimensione amministrativa che quella politica. Sul primo piano, anche chi non ha mai nascosto le sue riserve non può non osservare che la Giunta sta mettendo sul tavolo una serie di progetti (alcuni ereditati, altri di iniziativa in parte privata) destinati a lasciare un segno profondo sulla Bergamo del futuro: recupero e rilancio di ex Montelungo ed ex Riuniti, ristrutturazione del Donizetti, vendita dello stadio, nuovo palaghiaccio, il parcheggio all’ex gasometro. Se davvero riuscirà ad avviare (o realizzare) questi interventi, Gori potrà a pieno titolo considerarsi meritevole della fiducia che i bergamaschi gli hanno tributato. Le premesse ci sono, i soldi in buona parte anche (e qui c’è anche un po’ di fortuna perché proprio ora si stanno allentando i vincoli di bilancio). Ora si tratta di dar corpo al suo rinomato pragmatismo manageriale.

Forse, a questo fine, gli converrebbe lasciar perdere il movimentismo politico che l’ha tarantolato negli ultimi mesi. C’è chi dice che l’uomo è ambizioso e che fatica a vestire solo i panni del sindaco. Può darsi. Ma visto che è ancora relativamente giovane, specie sul piano politico, sarebbe saggio se si dedicasse anima e corpo alla sua città. Quella è la sfida che ha lanciato un anno e mezzo fa, su quella si deve concentrare, lasciando da parte la politica politicante.  Questa la lasci pure a chi, per darsi un ruolo che non ha, riveste con i panni del “patto costituente” un volgare inciucio mirato solo a gestire il potere e a spartire poltrone.




Niente simboli cristiani a scuola, l’integralismo “suicida” di certi presidi

presidi cristianesimoIl passaggio dall’integrazione alla disgregazione, dal sincretismo al sincretinismo, talvolta può avvenire impercettibilmente: basta che dai vertici si lancino segnali contraddittori, si indichino strade male illuminate, e il rischio di trovare qualcuno un tantino svantaggiato dal punto di vista cognitivo o spirituale, che, per eccesso di zelo o per smania di protagonismo, faccia il proverbiale disastrino, appare proprio dietro l’angolo. E’ il caso di questi presidi preoccupati di offendere la sensibilità dei non cristiani con simboli ed oggetti di origine cristiana: questi zelanti zeloti che hanno introiettato in maniera acritica alcune indicazioni lanciate dal mondo della scuola e della cultura europee, già di per sé imbarazzanti, e le hanno trasformate in decreto. In altre parole, si sono dimostrati degli integralisti, al pari dei Wahabiti, aliter Salafiti, che vedono il Corano come un testo ininterpretabile, ma da applicarsi letteralmente. Integralisti del niente, si potrebbe chiosare: perché, perlomeno, i Salafiti adottano, senza chiosarlo, un testo sacro.

Questi centurioni di una presunta e malintesa correttezza politica, per il desiderio, proprio di ogni gregario privo di fantasia, di mostrarsi più realisti del re, si fanno interpreti dogmatici del nulla, del più assoluto e sconfortante nichilismo. La storia dell’umanità è piena di fenomeni di assimilazione ed integrazione. Noi, la nostra civiltà e la nostra inciviltà, siamo figli di infiniti intrecci: genetici, linguistici, religiosi e culturali. Talvolta questo è avvenuto in modo relativamente pacifico ed altre in modo relativamente sanguinoso, ma, alla fine, il risultato è sempre stato buono o, perlomeno, accettabile: senza troppe parole, senza scomodare chissà quali teorie epistemologiche o antropologiche.

L’uomo cammina su questo pianeta da qualche milione di anni: l’antropologia ha centocinquant’anni di vita e non è che prima di Morgan e Tylor le culture non fossero in grado di integrarsi. Un solo dato è certo: questi sincretismi hanno sempre funzionato per accumulazione e mai per cancellazione. La tragedia greca, che di un sincretismo religioso è la monumentale allegoria, rappresenta egregiamente questo fenomeno: le preindoeuropee Furie, che perseguitano Oreste, macchiatosi di un delitto di sangue, per la mediazione delle divinità olimpiche indoeuropee, ossia Atena, e delle leggi della città, ossia Atene, si trasformano in Eumenidi e proteggono i cittadini.

Mi sento di poter dire che, probabilmente, sarebbe meglio che questi presidi, anziché imparare a menadito le direttive emanate da qualche grigio burocrate del MIUR, andassero a leggersi Eschilo: ne guadagnerebbero in equilibrio e in transaminasi. Non si può pensare che il modo di integrare i non cristiani in una società di origine cristiana, culturalmente creatasi grazie al cristianesimo, sia eliminare ogni afflato tradizionale, ogni identità: così non si fa integrazione, ma si produce un deserto. Anche un bambino capirebbe che cancellare ogni simbolo di qualsiasi tradizione è una scellerata operazione iconoclasta e non un’illuminata azione di accoglienza: un bambino sì, ma, probabilmente, un automa no. E così, vorrebbe che diventassimo questo sistema disumano di intendere l’integrazione e la multiculturalità: macchine, cellule, udarniki o apparatchnik privi di coscienza, di idee, di fantasia, come in un incubo staliniano. O, magari, più semplicemente, siamo governati da degli stupidi: si tratta solo di peggiocrazia che, dai vertici ministeriali, giù giù, a cascata, arriva fino agli istituti comprensivi di periferia.

Stupidi al cubo, perché, in circostanze particolari, quando la capacità di affrontare i problemi viene a galla, offrono ai nostri ragazzi soluzioni che non tamponerebbero una puntura di spillo: dopo la strage di Parigi, la risposta della scuola non è stata organizzare incontri, spiegazioni, confronti, ma stabilire un minuto di silenzio. Una scuola che organizza ogni tre per due workshop e giornate per questo e per quello, dal femminicidio all’educazione alla legalità, dal veganesimo all’omofobia, non è stata capace di radunare gli studenti nelle aule e negli auditorium per spiegare loro la differenza tra un salafita ed un sufista, tra un terrorista ed un fedele. Poi, si vorrebbe combattere il terrorismo con la cultura? La cultura è una cosa viva, che si costruisce e si alimenta un giorno dopo l’altro: e che si nutre di confronti e di continue integrazioni. Non c’è mai stata né mai ci sarà una cultura dell’appiattimento, dell’azzeramento delle specificità, dell’eliminazione dei caratteri individuali: la civiltà del domani dev’essere multiculturale, multireligiosa, multietnica, nel rispetto di tutti. Non incolta, atea, deetnicizzata, nel disprezzo di tutti. Altrimenti, nelle nostre cattedrali avremmo dovuto sostituire gli affreschi con una mano di intonaco: e poi sarebbe stata dura sceglierne il colore, visto che il bianco, per l’Islam è il colore del lutto. Festeggiamo il Natale, le feste islamiche, quelle maori: tutte le feste del mondo: con gioia e con comune rispetto e, fra cento anni, avremo creato un nuovo sincretismo e una nuova cultura. Cancelliamo la nostra identità e, fra cento anni, avremo semplicemente cessato di esistere. Che, dal punto di vista di qualche preside, è comunque una soluzione, immagino.




Quel che ancora non è chiaro del fenomeno Sharing economy

airbnb - sharing economy - turismoLa sharing economy – l’economia della condivisione, con una traduzione forse troppo politicamente corretta, sviluppata intorno a Internet – è considerata il fenomeno emergente dell’economia globalizzata perché presenta alcuni elementi di grande interesse per la clientela: costi bassi se non nulli, comodità, flessibilità, mancanza di intermediari. Ma ad una forte capacità attrattiva, corrispondono un minimo impatto sull’economia, diversi problemi e qualche perplessità sulla sostenibilità del modello.

Start up attive nei servizi di mobilità – da Uber a Car2Go o Enjoy, nei servizi di affitto diretto di case vacanze come Airbnb, o nella ricerca di credito come – stanno strappando alte valutazioni, anche se hanno conti in rosso e danno solo promesse che gli utili arriveranno l’anno prossimo. Eppure, oltre a quello degli utenti, scatenano l’entusiasmo degli investitori. AirBnb ha raccolto tra quest’ultimi 100 milioni di dollari e viene valutata 25 miliardi di dollari. Uber, l’app per servizi di auto con conducente, sta avviando la raccolta di un altro miliardo con trattative che la stimano 70 miliardi di dollari. E la rivale di Uber, Lyft, è valutata 4 miliardi di dollari. Square, società di pagamenti mobili, ha guadagnato quasi il 50% nel primo giorno di quotazione arrivando ad una capitalizzazione di 4,2 miliardi di dollari. Che per inciso è il valore attribuito dalla Borsa a Ubi Banca.

Nonostante le paginate che le dedicano i giornali (che ricorda molto l’attenzione prestata alla New economy prima dello scoppio della bolla) e gli sguardi tra il timoroso e l’interessato che le prestano gli operatori tradizionali, la sharing economy incide però veramente poco sull’economia. Secondo uno studio del Credit Suisse, l’impatto sul Pil è stimabile nello 0,25%, nel caso che i servizi prestati dallo sharing economy siano utilizzato da un terzo della popolazione: potrebbe salire a un punto percentuale nel caso sia utilizzato dall’80% della popolazione.

Ma poi ci sono altri aspetti controversi. “Si sa poco sull’impatto che la sharing economy avrà sulla crescita e le implicazioni di lungo termine sul mercato del lavoro – osserva ancora il Credit Suisse -. Il concetto non è stato ancora completamente analizzato dal punto di vista delle nome legali e comportamentali da applicare”. Uber, ad esempio, è contestato dai tassisti tradizionali che vedono un nuovo concorrente e il punto di forza della loro battaglia è che la sharing economy non rispetta il regime di regolamentazione e di contribuzione e così ottiene un vantaggio competitivo sleale. Ma ci sono cause anche da parte degli stessi “tassisti alternativi” di Uber che chiedono il riconoscimento del loro status: se dovessero vincere, ed essere quindi pagati come i tassisti tradizionali, la sostenibilità del modello Uber sarebbe in pericolo. Del resto il vantaggio che pongono rispetto al modello tradizionale che vogliono destrutturare è proprio quello di una minore remunerazione, una forma di dumping che non riguarda solo i costi.

Nonostante tutto quello che si può sentire, il prezzo in molti casi è la base della scelta. Ma servizi low cost o addirittura gratuiti finiscono per ridurre il Pil, quando distruggono il settore tradizionale per creare un sistema basato su salari più bassi (o nulli) e minori protezioni. E’ vero che i soldi risparmiati da una parte possono essere utilizzati da un’altra e che il consumatore per sua natura tendenzialmente pensa più al suo interesse che a quello generale, ma chi ha la responsabilità dell’interesse collettivo qualche problema dovrebbe anche porselo.

 

 




Caro Gori, ci faccia la grazia! Cambi le regole alle benemerenze

Giorgio Gori
Giorgio Gori

Caro sindaco Gori,

lei che si è posto, e poi imposto, come innovatore, ci faccia la grazia. No, niente di ultraterreno. Ci accontentiamo di molto meno, di qualcosa che è alla portata di una persona pragmatica e di buon senso come lei. Ma ci faccia ‘sta grazia laica: modifichi radicalmente le modalità con cui ogni anno, sul far del Natale, vengono assegnate le cosiddette benemerenze civiche. Qui non si discute delle persone o degli enti e associazioni che vengono premiati. Ma, come diceva il poeta, è il modo che “ancor m’offende”.

Non c’è edizione che non preveda una polemica su questo o quel personaggio escluso o incluso nell’elenco. Non c’è anno che se la Giunta è di centrosinistra la parte avversa non accusi di faziosità chi decide e viceversa quando alla guida della città c’è il centrodestra. E ogni volta i cronisti son costretti a riportare le proporzioni. Per dire: quest’anno 9 riconoscimenti sono stati attribuiti su indicazione della maggioranza che lei governa e 3 della minoranza. L’esatto contrario succedeva fino a poco fa, quando a Palazzo Frizzoni regnava Franco Tentorio.

Non ci vuol molto a comprendere che questo modo di procedere non è serio né corretto né tantomeno in linea con quel valore civico (quindi al di sopra delle parti) a cui ci si richiama. Ma non può che finire così, caro sindaco, fintanto che il compito di decidere a chi assegnare le benemerenze e le medaglie d’oro è la Giunta. Succede a Bergamo come a Milano, dove l’assegnazione degli Ambrogini d’oro si risolve ogni volta in un volgare, per quanto metropolitano, mercato delle vacche.

Chi ha avuto la ventura di seguire le vicende comunali nell’ultimo ventennio ha visto di tutto tra i premiati. Non stiamo qui a rivangare nomi e cognomi per non mancare di rispetto alle persone anche se sono stati assegnati riconoscimenti che gridano vendetta, a destra come a manca. Così come, ci permetta ancora caro sindaco, ci pare davvero un malvezzo, fatte le debite eccezioni, l’assegnare benemerenze a gogò alla memoria. Anche qui, non è che i destinatari non siano degni, ma forse il valore di un riconoscimento è tale se dato in vita, come esempio per i cittadini e insieme gratificazione civica per chi lo riceve. Troppo spesso, invece, le persone di valore vengono riconosciute solo quando passano a miglior vita. Quasi fosse un risarcimento postumo.

No, forse si può cambiare. Ecco perché il richiamo all’innovazione. Non si tratta di cancellare (come pure fece la buonanima del sindaco Gian Pietro Galizzi all’inizio degli anni Novanta) ma di cambiare. Non ci vuole molto. Per non limitarci ad un auspicio, suggeriamo due modifiche. Anzitutto, la scelta dei benemeriti venga affidata ad un comitato di saggi. Tre, o al massimo cinque, non di più, scelti per riconosciuti valori morali, professionali e civici. Lei, sindaco, è uomo di mondo di larghe vedute. Non dovrebbe esserle difficile pescare personalità indiscusse in grado a loro volta di fare scelte che non assumano colorazioni partitiche o personalistiche.

In secondo luogo, riduciamo drasticamente i riconoscimenti. Il regolamento consente fino a cinque medaglie d’oro e dieci benemerenze. Salvo eccezioni (come quest’anno perché le medaglie saranno solo 2), si è sempre toccato il tetto massimo, così da dare ampia soddisfazione al manuale Cencelli. Ma perché, per dare davvero un valore straordinario alla scelta, non limitarsi a 5 in tutto?

Si deve premiare la vera eccellenza, il valore straordinario, quel qualcosa in più che va al di là di aver onorevolmente, e magari ammirevolmente, fatto il proprio dovere, aver ottenuto successo nella professione o dedicato tempo prezioso alla collettività. Solo così si può volare alto, lasciare a terra le meschine polemiche politiche, e consentire alla città e ai cittadini di tributare il giusto omaggio alle sue espressioni, personali o organizzative, migliori.




Contro il terrorismo servono neuroni più che muscoli

terrorismo parigiUna domanda che ricorre di questi tempi e che, talvolta, assume i toni tra il lamentoso e il disperato è: come ci si difende dal terrorismo? Dal terrorismo non ci si difende, gentilissimi lettori: o, perlomeno, non ci si difende come comunemente è inteso questo concetto. Non esiste un sistema antiterroristico abbastanza esteso ed efficace, non ci sono contromisure sufficientemente sicure, nessuna forma di intelligence è tanto evoluta da dare ragionevoli garanzie di successo. Dal terrorismo non ci si difende con la prevenzione a breve termine: il meccanismo stesso dell’operazione terroristica si basa sulla sua imprevedibilità. Perché il terrorismo, in un certo senso, funziona come il diabete o la distrofia: sappiamo che si tratta di malattie che non guariscono, ma di cui possiamo diminuire, fino quasi ad annullarli, i sintomi. Nel caso del terrorismo, i sintomi e la malattia coincidono: e, come per le malattie, un’arma molto efficace per combatterlo sono la profilassi e lo stile di vita, mentre, per i sintomi, possediamo cure che possono ridurne tanto l’incidenza quanto le conseguenze. La causa e l’effetto, per così dire.

Non illudiamoci: il terrorismo è un’arma della modernità, e, finché si manterranno vivi i suoi presupposti, sociali, politici, religiosi, esso continuerà ad esistere. E’ l’arma del debole contro il forte, del povero contro il ricco: dalle bombe dei nichilisti ottocenteschi fino ai kamikaze in nome di Allah, il terrorismo è una guerra asimmetrica, non tanto nelle modalità quanto nei belligeranti. Non voglio arrivare a dire che, finché ci sarà una minoranza che sfrutta senza scrupoli una maggioranza, il terrorismo continuerà a prosperare, ma, per certo, è in quel contesto che esso si è sempre sviluppato, se escludiamo i bombardieri del commodoro Harris ed i loro più recenti succedanei statunitensi. Ma con questo tipo di ragionamenti storico-politici, rischiamo di perderci: vorrei, invece, limitarmi ad indicare alcuni possibili palliativi al terrore, posto che, come ho detto, di cure vere e proprie non ce n’è.

Innanzi tutto, parliamo dell’eventualità di un attacco terroristico, postulando che esso non avvenga in un sito davvero inaspettato, ma contro un bersaglio, diciamo così, più prevedibile, come una stazione, una manifestazione, un luogo d’incontro. La prima arma di difesa non sono le forze dell’ordine, che sono poche, spesso male armate e non addestrate alla bisogna e che, comunque, non possono certamente coprire l’intero spettro dei possibili bersagli: la prima arma siamo noi. Il nostro panico, la nostra incapacità reattiva, il nostro disordine sono un amplificatore degli effetti di un attacco terrorista. Dobbiamo imparare ad essere più ordinati, composti, il più possibile adeguati al difficilissimo compito di affrontare un’esperienza così terribile.

I morti di Parigi, in larga parte, si sono fatti ammazzare come agnelli sacrificali: l’attentatore sul “Thalys” Amsterdam-Parigi, disarmato da quattro comuni cittadini, avrebbe potuto fare una strage. Invece, l’hanno bloccato. Alcuni di questi cittadini erano militari: avevano, se non un addestramento specifico, una certa forma mentis. Ecco, dobbiamo sviluppare questa forma mentis: non girare armati fino ai denti, ma sapere affrontare un pericolo con un po’ più di decisione. Non è mica facile, lo so, ma questo può salvare molte vite. Così come abituarsi a muoversi meno caoticamente, a pazientare, a fare la fila. Di più, come singoli e pacifici cittadini, non possiamo fare.

Invece, a livello profilattico, si può fare molto: lavorare sia sui musulmani per nulla aggressivi, che sono la maggioranza, sia nelle attività di infiltrazione ed intelligence. Perché il terrorismo si batte soltanto con armi non convenzionali: isolando, ad esempio, i buoni dai cattivi. Le brigate rosse furono sconfitte quando la sinistra le isolò: furono i comunisti buoni a sconfiggere quelli cattivi, se mi è concesso. Così deve avvenire per questi integralisti: da una parte, ridurre il loro bacino di arruolamento, dall’altra aumentare la reciproca conoscenza, il dialogo, la comprensione tra le loro possibili vittime. Che, vi ricordo, sono in larga misura musulmane. E questo vuol dire, insieme, controllare e fidarsi, reprimere ed integrare. Insomma, distinguere il grano dal loglio, il che è precisamente ciò che le politiche d’accoglienza e di integrazione praticate dall’Italia hanno evitato accuratamente di fare. Certo, aumentare dotazione ed organico delle forze di polizia serve: ma il terrorista sceglie un bersaglio anche in base al grado di sorveglianza che vi può trovare.

Semmai, bisogna cercare di penetrare il sistema: di infiltrare finti affiliati, di selezionare informatori, di individuare i vivai del terrorismo. E, a più lungo respiro, si deve lavorare su altri presupposti: eliminare, ad esempio, le ragioni profonde per cui un giovane europeo possa avvertire il fascino di certi radicalismi, restituendogli dei valori forti ed un’identità comune. Lo so, sono tante cose insieme, e ci vorrebbe molto più spazio di questa mia rubrichetta. Una cosa, però, vorrei vi fosse chiara del mio pensiero: non è bombardando civili innocenti che si salveranno altri civili innocenti. Qui non occorrono muscoli, quanto neuroni.




Così Uber mette all’angolo anche i mitici black cab

Black_London_CabIl black cab sta a Londra quanto la regina sta a Buckingham Palace. Non stupisce che al lancio di Uber i taxisti abbiano protestato ferocemente, paralizzando la città a più riprese. Nonostante le critiche, il business invece fiorisce e prolifera. Con 500mila utenti, 7mila autisti impegnati quasi a tempo pieno, Uber, che ha appena raccolto investimenti per oltre 5 miliardi, fa rosee previsioni per il futuro, prospettando di arruolare fino a 4.2000 autisti nei prossimi 18 mesi. Si tratta di un affare serio, i numeri sono di peso, anche se gli utili non sono ancora maturati. Il successo di questo servizio è facile da spiegare: Uber è conveniente ed è semplice. Il consumatore guarda alle proprie tasche e alla praticità del servizio. Nonostante queste premesse, Uber gode di una fama non sempre brillante, e non solo tra i taxisti degli iconici taxi neri. I motivi vanno dal suo investitore, la banca d’affari più aggressiva al mondo Goldman Sachs, la sede fiscale in Olanda, le corse che a volte costano ben più del preventivo, il sospetto di sfruttamento dei guidatori, che vengono pagati il minimo salariale o anche meno, controlli non sempre accurati sulle abilità al volante dei propri impiegati.

Segue poi l’accusa di gestire in modo improprio i dati che raccoglie sui percorsi e i suoi utenti, ma lo stesso commento si potrebbe scagliare contro molte altre azienda, con Google e Facebook in pole position. Uber suscita domande scomode sul futuro della nostra economia, a cui non abbiamo ancora trovato risposte convincenti. Domande simili a quelle che nascono dall’ascesa di Amazon o I Tunes. Questi prodotti o servizi vengono chiamati in inglese disruptive, che a noi suona un po’ come distruttivi. E lo sono, perché minano come un terremoto lo status quo. Chi ha vissuto negli ultimi dieci anni nei quartieri residenziali e fuori dal centro benedice l’avvento di Uber, che ha reso la vita molto più facile a chi non può permettersi un appartamento in zona 1, o vivere particolarmente vicino a una fermata della metropolitana. Ai vecchi tempi, se si voleva prendere un taxi la notte per trasportare qualcosa di ingombrante, i famosi black cab spesso si rifiutavano, come declinavano la corse per i passeggeri diretti a Brixton, o più in generale a sud del Tamigi. Non è più cosi, visto che gli autisti di Uber sono ben disposti ad andare nei quartieri periferici, perché sanno che non gli sarà difficile trovare clienti per il viaggio di ritorno. Intanto i taxisti non si arrendono e si stanno organizzando con nuove app che faranno concorrenza a Uber. Stiamo a vedere che cosa accadrà nei prossimi mesi.




Ecco perché sull’occupazione il mercato non sempre ha ragione

lavoroIl mercato non ha sempre ragione. Come si interviene con le norme Antitrust per difendere il supremo interesse per la concorrenza, dato che il mercato per sua natura tenderebbe ad eliminare per arrivare alle distorsioni del monopolio, qualcosa servirebbe anche a difesa dell’occupazione.

Con la concezione sempre più diffusa nelle aziende che quello del lavoro sia un costo da comprimere, esattamente come quello delle altre materie prime, e quindi, con un’estremizzazione, tendenzialmente da ridurre fino all’azzeramento, si mettono a rischio alcuni fondamenti del nostro sistema socioeconomico. La nostra società è basata sui consumi e, nell’impossibilità che tutti siano imprenditori, il costo del lavoro visto, dall’altra parte, rappresenta anche la capacità di acquisto. La difficoltà di avere un reddito fisso, sempre perché essere lavoratore autonomo non è per tutti, complica inoltre la possibilità dei giovani di essere indipendenti e magari crearsi una famiglia, per un più equilibrato demografico. E analogamente la tenuta del sistema previdenziale, ben lontano dall’essere contributivo, è messa a dura prova dal fatto che si riducono le entrate da parte dei lavoratori in attività, mentre aumentano le uscite per le pensioni.

Trovare una soluzione non è facile perché l’interesse collettivo verso la piena occupazione si scontra con la necessità delle singole aziende di essere maggiormente competitive sui costi, incluso quello del lavoro. Qualcosa da un punto di vista politico si può fare: ad esempio rendere sempre più neutra, se non agevolata (ma in maniera strutturale), dal punto di vista fiscale, la componente occupazionale. Ma prima di tutto sarebbe necessaria una condivisione sociale sul fatto che l’intervento sul personale sia considerato come l’ultima opzione, dopo che sono state tentate le altre strade. Cosa che invece non avviene, sia perché il mercato finanziario – nel caso delle aziende quotate in Borsa – generalmente apprezza queste operazioni, sia per la “facilità” di tagliare certi costi rispetto ad altri.

Emblematico è il caso del piano industriale delle Poste, che prevede una riduzione di 22.500 posti entro il 2019, parzialmente compensato da 1.600 assunzioni all’anno, che porterà in ogni caso a un organico in calo da 145 mila a 131 mila persone. Il risultato di tutto questo in realtà non è tanto una riduzione dei costi quanto un loro non aumento dato che alla fine gli oneri del personale, con 14 mila persone in meno, passerebbero dagli attuali 6,2 miliardi a 6,1 miliardi nel 2020. Ma ne vale la pena? Non c’erano altri strumenti per arrivare a questo risultato?




Una società in declino dove nessuno sa più chiedere scusa

parigi_attacco8_afpQualche tempo fa, nel mondo roseo e rarefatto delle filosofie positive, si è affermato il concetto di “regresso sostenibile”: in pratica, di un progressivo ritorno ad alcune abitudini di produzione e consumo meno frenetiche, meno polarizzate intorno alla crescita finanziaria e meno dannose per il pianeta. Sostanzialmente, sarebbe come dire: scusate, ci siamo sbagliati, il turbocapitalismo è un’immensa vaccata che non ci rende più felici e più sani, perciò facciamo retromarcia pianin pianino.

Saper ammettere che si è sbagliato è una qualità tra le più rare e le meno praticate, nella nostra società: se lo si facesse, ogni tanto, assisteremmo ad ammissioni di colpa e ad inversioni di tendenza che avrebbero del clamoroso. Pensate, ad esempio, se i responsabili del progressivo annientamento della nostra civiltà educativa dichiarassero pubblicamente che la scuola nata dalle sperimentazioni post sessantottesche è un fallimento cosmico, domandassero scusa, ed invertissero la marcia: che botta al loro orgoglio di pedagoghi parolai, e che botta di culo per i nostri figli e nipoti! Oppure, se qualcuno ammettesse che le meravigliose prospettive delle privatizzazioni industriali si sono, col tempo, trasformate in una svendita all’incanto dei pezzi più pregiati della nostra industria ad aziende straniere, col solo risultato di impoverirci e cancellarci dal novero delle potenze produttive: provate a pensare ai vari economisti da barzelletta, che fanno mea culpa davanti all’Italia intera. Come quello che diceva che, con l’euro, avremmo lavorato un giorno in meno, guadagnando come se avessimo lavorato un giorno in più: mia mamma, che confonde ancora l’euro con la lira e mi dice che il latte costa mille euro, ha una visione macroeconomica più lucida! Eppure, nessuno chiede mai scusa, per le macroscopiche bischerate messe in campo, in ossequio a qualche teoria, tanto fumosa quanto palesemente fuori baricentro: tutti colpevoli e nessun reo confesso.

Orgoglio, improntitudine, semplice disprezzo per il prossimo, sono gli ingredienti di questa assoluta incapacità di autocritica: di questo negare la propria colpa fino al paradosso. Noi stiamo andando in pezzi: è bene saperlo, un attimo prima della deflagrazione. Il nostro modello di società si sta sgretolando, in uno scenario desolante, in cui i pochi ricchi accumulano e la gente normale non ha un futuro e, talvolta, neppure un presente: il modello del welfare state fa dormire gli Italiani in automobile e fa rovistare i pensionati nei cassonetti. La nostra struttura economica si avvia al crollo: la mancanza di sovranità monetaria, i diktat di un’Europa a trazione anteriore, l’iperfiscalismo isterico che cerca di tamponare la falla di un debito pubblico insostenibile, legato proprio all’impossibilità di pagare gli interessi che la non sovranità ci ha regalato, ci trascinano verso il fondo. E nessuno domanda scusa, nemmeno per sbaglio: nessuno ci racconta dove siano finiti, per davvero, i miliardi che a migliaia hanno preso la via del Mezzogiorno, senza arrivarci mai.

Come si fa a pensare che l’Italia possa sopravvivere, con due zavorre come il debito pubblico e il mancato sviluppo meridionale da risolvere? Eppure, su questo avete sentito parole di scusa? C’è un acquedotto pieno di buchi, che scorre a sud di Roma: è un acquedotto reale, che perde acqua, ma ce n’è anche uno metaforico, che perde denaro a fiumi: miliardi che si diluiscono in mille rivoli, che diventano favori, mazzette, superstipendi, consulenze d’oro, assunzioni inutili. E nessuno paga, nessuno confessa, nessuno domanda perdono alla gente che vive ancora nei container, a più di trent’anni dal terremoto in Irpinia. Perché nel nostro Paese si perdona prima che si confessi: si festeggia la salvezza prima di essere salvi, si annuncia la vittoria prima che la partita sia terminata. In buona sostanza, si mente al popolo perché lo si disprezza: si rifila alla gente qualunque balenga teoria, perché si considera la gente come una massa plastica di poveri deficienti. Benvenuti nell’Illuminismo del terzo millennio!

E, adesso, c’è la questione della guerra: siamo in guerra, il mondo è in guerra, andiamo alla guerra, basta guerre, mai più guerre, la guerra è bella ma è scomoda…E, di nuovo, nessuno chiede scusa: nessuno ammette di avere sbagliato tutto. La politica delle accoglienze, quella dei controlli, quella della leva obbligatoria, quella del garantismo ad ogni costo, quella dell’incertezza della pena: troppe ce ne sarebbero di cantonate micidiali. Ma voglio concludere questo articoletto apocalittico con parole di speranza e di pace. Due perline da Cimmino, prima di lasciarvi a più paludati commenti. Guerra: come si combatte una guerra asimmetrica? Non colpendo dove ve lo aspettate voi, all’Expo, al Giubileo, ma dove decido io: mentre mangiate al ristorante, ad esempio. Il terrorismo funziona così. Guerra: provate ad immaginarvi un terrorista in bicicletta: si è messo d’accordo coi suoi compagni usando normali lettere in normali buste, bucando un intelligence fatta solo di elettronica. Con la sua bicicletta percorre una ciclabile, dalle parti di Grassobbio: aspetta che arrivi un aereo, tira fuori dallo zaino un RPG, prende la mira con calma, spara e se ne va pedalando. E’ questa la guerra di cui stiamo parlando: stavolta, però, non aspettiamo scuse che non verranno mai…




Testimone dell’orrore a Parigi, ma anche dell’abisso tra Francia e Italia

parigiSei a Parigi per una breve vacanza e scoppia il finimondo. Mentre passeggi con la tua famiglia tra i mercatini natalizi degli Champs Elysées, in altri quartieri della città, ma nemmeno troppo lontani, lo scoppio delle bombe e il crepitio dei fucili irrompe con il suo straordinario carico di terrore e violenza nella vivace frenesia del venerdì sera. Lì per lì nemmeno ti rendi conto dell’enormità che sta succedendo e che solo per un disegno del destino (poche ore prima eri passato proprio dalle strade segnate dal sangue) ti ha risparmiato. Ma poi arriva l’onda emotiva degli sms e delle telefonate di parenti, amici e colleghi. Le immagini della TV, le parole dei testimoni, le lacrime per le vittime. E gli sguardi, quegli occhi persi nel vuoto, le teste rivolte al cielo. “C’est la guerre” sussurra guardando le immagini che scorrono sul televisore una addetta di un albergo la mattina dopo. È il primo segno di una Parigi smarrita ma consapevole di essere ormai diventata la nuova frontiera del terrorismo. C’è il dolore, la paura, la rabbia, certo. Ma anche la dignità, la determinazione a non farsi piegare dall’orrore, la forza di stringersi in un abbraccio collettivo per cercare di rispondere alla minaccia terroristica senza distinzioni ne’ divisioni. Si prova un profondo rispetto, un senso di ammirazione che trova ulteriore conforto nel vedere come tutte le forze politiche francesi, di governo come di opposizione, evitano qualsiasi commento, lasciando che parli solo lo Stato. Nelle stesse ore, lo vedi prima via satellite e poi dal salotto di casa, nei programmi televisivi italiani sulla strage parigina va in scena uno spettacolo fra il penoso e il vergognoso. In prima serata, sul canale principale, dallo studio del talk show più famoso rimbalzano le urla scomposte di un agitato segretario di partito contro il ministro dell’Interno che a sua volta non riesce ad andare al di là di una spocchiosa autodifesa del proprio operato. Seguono le dichiarazioni di questo e quell’altro leader, tutti impegnati a trattare il terrorismo alla stregua di una baruffa da cortile. E il giorno dopo, l’abbuffata è completa. C’è il conduttore invasato, reduce da un surreale e criticato viaggio in Iraq, che chiede ad un rappresentante di comunità islamica un’abiura in diretta. La collega esperta in sceneggiate che ripete compulsivamente “basta guerre, basta guerre” e poi spruzza benzina sugli ospiti scelti ad hoc per scatenare guerre (solo verbali, per carità). Il direttore di giornale che prende a capocchia un versetto del Corano, quello che gli è più funzionale per trasformare l’Islam in una ideologia della violenza (come se il cattolicesimo nei secoli avesse sempre solo dispensato ramoscelli d’ulivo…). Il presidente di una associazione umanitaria, un uomo coraggioso beninteso, che demolisce tutte le analisi degli interlocutori con un inappellabile “non avete capito niente”. E dalla strage non sono trascorse nemmeno 48 ore. L’abisso è profondissimo. È morale e culturale insieme, di costumi e usi politici ma anche giornalistici. Francia e Italia, così vicine e così lontane. Il cuore è a Parigi, la mente guarda a questo squallido spettacolo e non può respingere lo sconforto. Prima o poi, inutile illudersi, pagheremo il nostro tributo. Nessuno può dire dove, come e quando, ma va messo in conto. I francesi oggi in ginocchio ci stanno dando una grande lezione. Vogliamo provare a comprenderla, e se possibile a farla nostra, o dobbiamo per forza aspettare di contare i morti per mostrare un sussulto di dignità?




Processo Yara, se il giornalismo diventa uno scontro tra tifoserie

Forse era inevitabile. Dopo quel che si è visto per i casi di Perugia e Avetrana, probabilmente era illusorio pensare che il teutonico contesto bergamasco potesse evitare, attorno al processo per l’omicidio di Yara, il ripetersi di protagonismi e di esibizionismi già ammannitoci in precedenza. E infatti, piano piano, insieme alla inevitabile spettacolarizzazione che innesca una vicenda così drammatica e così sentita dall’opinione pubblica, è arrivato il carico degenerato dello scontro tra opposte tifoserie giornalistiche. Una partita che non è nemmeno più, come pur sarebbe comprensibile, tra colpevolisti e innocentisti (tutti i grandi processi italiani sono stati fonte di vivaci contrapposizioni, è fisiologico), ma tra vendicatori della verità, o supposta tale, e moralisti, magari con qualche scheletro nell’armadio.

Quel che è certo è che, limitandosi a mettere a confronto le cronache delle udienze che si stanno susseguendo dentro l’angusta aula di via Borfuro (il processo assolve ad una funzione pubblica e il presidente del Tribunale dovrebbe facilitare, anziché ostacolare, il lavoro degli operatori dell’informazione), sembra di assistere a film diversi. Ci sono risposte dei testimoni che qualcuno riporta ed altri no, atti che taluno giudica fondamentali e talaltro nemmeno considera, ricostruzioni che impegnano paginate intere e altrove non meritano nemmeno mezza riga. Da lettori, non avendo la possibilità di verificare direttamente quel che avviene nel dibattimento, si rimane straniti e spiazzati. E con il sospetto, o qualcosa di più conoscendo certe umane derive della professione (nessuno ne è immune), che alle diverse interpretazioni diano un fattivo contributo fattori che poco hanno a che vedere con le regole del mestiere.

Ci sono quelli che pensano di guadagnare spazio (copie o ascolti in tv) raccontando il contrario di quel che è la narrazione maggioritaria, magari mescolando elementi veri sottovalutati colpevolmente da altri e suggestioni oniriche. Ci sono quegli altri che, abituati a frequentare il palazzo che fornisce loro spunti di lavoro quotidianamente, magari anche in modo inconsapevole attribuiscono maggiore credibilità e peso all’interlocutore consueto piuttosto che a quello che viene da fuori (e magari, come l’avvocato di Bossetti, usa toni e modi censurabili). E quegli altri ancora che scoprono improvvisamente certi cattivi usi, soprattutto televisivi ma non estranei pure alla carta stampata come quelli di pagare le cosiddette interviste esclusive, e s’ergono ad implacabili vendicatori incuranti di confondere vittima e carnefici.

Sappiamo, così scrivendo, di andare a toccare il nervo scoperto della suscettibilità della corporazione a cui apparteniamo a pieno titolo, ma ciò detto, si può provare a interrogarsi sulla piega che ha preso questa vicenda? Ci si può chiedere se la passione, diciamo così, non abbia in qualche caso sconfitto la ragione e tirato i fatti e le situazioni per la giacchetta? Si può – se si è tutti d’accordo nel ritenere che vadano rispettate le persone (presunti colpevoli e familiari sicuramente incolpevoli compresi) – provare a ritornare alle vecchie e care cronache giudiziarie? Quelle magari un po’ barbose ma inchiodate ai fatti. Quelle che hanno fatto la storia del giornalismo italiano. Le opinioni, invece, anche le più fantasiose, sono sempre lecite. E sono pure utili spesso, perché aiutano a ragionare, al di là che le si condivida o no. Ma teniamole separate dal racconto. Alla ricerca della verità bastano e avanzano i giudici. Sempre ammesso che, almeno loro, ci riescano.