Aziende in mani straniere, così finiamo per fare la figura dei fessi

lactalisLa vicenda Telecom solleva un dubbio. Ma i francesi sono proprio stupidi? Perché continuano a recuperare quello che gli italiani buttano via? Lo hanno fatto con la moda e con il lusso, con la grande distribuzione, con buona parte dell’alimentare, insieme agli svizzeri, che secondo la vulgata xenofoba sono dei francesi (o dei tedeschi) venuti male. Lo hanno fatto con un’ampia serie di aziende meccaniche, con l’energia e adesso lo fanno con la telefonia.

Come quando si sente parlare del pazzo che va in contromano in autostrada, al quarto o quinto francese che si incontra in direzione opposta, forse si potrebbe iniziare a pensare che ad essere un po’ stupidi sono gli italiani. Il rapporto con i cugini d’Oltralpe è sempre stato complesso, tra la loro presunzione da grandeur e la nostra cialtroneria con complessi di inferiorità che ci fanno vedere solo il peggio di noi stessi. Però all’aforisma autocritico di Jean Cocteau sul fatto che i francesi sono degli italiani di cattivo umore dobbiamo aggiungere con umiltà che saranno anche incazzati, quando vince Bartali o qualsiasi altro italiano (e il sentimento è cordialmente ricambiato), ma un po’ più furbi o almeno lungimiranti lo sono.

Un altro dei vizi italici è quello della geniale improvvisazione, ma sempre vivendo un po’ alla giornata. Ed è così che si perdono le occasioni e anche le aziende. Non c’è da demonizzare l’acquisto straniero: l’operazione può essere un’opportunità quando fa arrivare nuove risorse e nuovi stimoli in un’azienda ferma e in più riempie gli ex azionisti italiani di denaro che può essere reinvestito in altre attività. Ma più che sugli acquisti esteri vale la pena di riflettere sulle vendite italiane. La questione si ripropone ora con Telecom, con la novità che per una volta sembra che sia stata tentata una reazione con la proposta della conversione delle azioni di risparmio che con la diluizione del capitale ordinario potrebbe rimescolare le carte. Ma anche questa inedita difesa apre dei dubbi.

Non è chiaro quello che accadrà quando l’imprenditore Xavier Niel, l’anno prossimo, potrà trasformare le sue opzioni nel 15% del capitale e così, aggiungendo il 20% detenuto dalla Vivendi del finanziere bretone Vincent Bolloré, un terzo di Telecom sarà in mano francesi. Niel attraverso la controllata Free in Francia ha fatto tremare le compagnie telefoniche tradizionali tagliando i prezzi dei servizi. Se ripetesse l’esperienza in Italia, forse ci sarebbe per la prima volta quell’influsso positivo sulla concorrenza sempre auspicato, ma mai manifestatosi, nella calata di nuovi proprietari stranieri. Finora infatti ci sono state solo delusioni e invece di una ventata di liberalizzazione c’è stata una sostituzione nelle precedenti rendite di posizione, con un sostanziale mantenimento dello status quo.

In pochi anni intanto le telecomunicazioni italiane sono diventate straniere. Vodafone è una public company britannica, Wind ha capitali russi e norvegesi, H3 cinesi, mentre Fastweb è svizzera. Telecom di fatto era già francese prima della scalata di Niel, senza che ci fossero state reazioni, anche perché Bolloré era già parte dell’establishment nazionale. Per questo si può pensare che la contromossa attraverso le azioni di risparmio non sia rivolta a evitare una francesizzazione di Telecom, che comunque c’è già stata, ma piuttosto ad allontanare Niel. Il fatto che Bollorè sia “contento” di vedersi diluire la quota e quindi appoggi la proposta lascia pensare che abbia qualche asso nella manica. Magari anche un pacchetto di risparmio per ricostituire la quota. In ogni caso la contesa appare adesso tra un francese dell’establishment e un francese non dell’establishment: in ogni caso non ci sono italiani tra quelli che si disputando il controllo di attività strategiche per il Paese come la rete a banda larga. Certo, ben venga chi ci pensa al posto nostro. Ma nella continua delega all’esterno spesso si pensa di essere furbi, ma si finisce per fare la figura dei fessi. La vicenda di Lactalis, che ora qualcuno chiede di “nazionalizzare” sulla scia delle polemiche per il prezzo del latte , sta lì a dimostrarlo,

 

 




Se Bergamo finanzia chi è fuori dalla “normalità sociale”

Il sabotaggio dell'Alta Velocità a Bologna
Il sabotaggio dell’Alta Velocità a Bologna

Un tempo, c’erano i nazionalismi: erano il modo di sentirsi vivi, di appartenere a qualcosa, degli europei del primo Novecento. Non erano soltanto questo, intendiamoci: i nazionalismi si declinavano in molti modi, dall’irredentismo di chi si sentiva parte di una Nazione cui non corrispondeva uno Stato, fino allo sciovinismo di quelli che pensavano di essere migliori degli altri, solo perché erano Tedeschi oppure Francesi o Italiani. Questa visione del mondo partorì la prima guerra mondiale, con quel che ne consegue. Finita la guerra e cicatrizzate, almeno in parte, le ferite del mondo, la cosiddetta dottrina Briand-Kellog postulò che la guerra non fosse un modo di risolvere le controversie internazionali: era il 1928, e dieci anni dopo eravamo ancora alla vigilia di un conflitto planetario. Questa volta, a determinarlo non furono i nazionalismi quanto le ideologie: partiti-stato che sacrificarono la propria popolazione sull’altare di visioni aberranti di nuovi ordini mondiali, tanto fascisti quanto comunisti. Ne uscimmo ancora più martoriati di quanto non lo fossimo stati nel 1918 e, per di più, senza avere cancellato il virus ideologico che, anzi, mantenne il mondo in uno stato di semi-guerra permanente, per decenni.

Se, grazie al cielo, questo scontro ideologico non sfociò mai in una guerra mondiale, ma, al massimo, in conflitti periferici, come nel caso della Corea o del Vietnam, tuttavia esso scatenò in Italia una piccola guerra generazionale: una stagione di ribellismi e di ribellioni che, oggi, definiamo semplicemente “Sessantotto”, ma che si protrasse a lungo, con una scia di violenze e di morti che, se pure incomparabilmente minori per numero rispetto ad una guerra tradizionale, pure segnarono profondamente l’unità nazionale e il tasso di umanità del nostro Paese. Poi, come per la fine di un incubo, anche la stagione delle ideologie si esaurì: il sogno delirante del comunismo sovietico si infranse contro la realtà dell’economia globale, costringendo i leader comunisti ad ammettere il proprio fallimento e ad avviarsi ad una progressiva regressione del totalitarismo, mentre la formidabile impostura degli opposti estremismi, un poco alla volta, smise di essere di stretta attualità, per consegnarsi alla storia.

Eppure, oggi, una parte di quest’odio, qualche scampolo di disumanità, tracce minuscole dei lager e dei gulag continuano ad esistere: il mondo democratico a qualcuno dà ancora fastidio, incredibilmente. Per questo, io giungo a sostenere che, alla luce della mia esperienza di storico e di uomo, vi sono atteggiamenti che qualcuno si ostina a definire politici e che, viceversa, sono semplicemente delle patologie: delle vere e proprie malattie mentali. Intendiamoci, gli estremismi sono sempre esistiti, nell’età moderna: io non sto parlando di posizioni estreme, sia sul versante reazionario che su quello anarco-libertario. Io parlo di una forma di demenza di quelle che necessitano di una cura specifica in regime di TSO. Perché non saprei in quale altro contesto collocare, ad esempio, l’atteggiamento di un sedicente democratico che, in nome della democrazia, pretenderebbe che avessero diritto di parola in pubblici consessi solo ed esclusivamente coloro i quali la pensino come lui o facciano pubblica dichiarazione di condividere la sua visione del mondo e della storia, se non in quello delle aberrazioni psichiche.

Eppure è capitato a me di imbattermi in questo signore, a Bergamo, nell’anno di grazia 2015. Farò un altro esempio: come catalogare quei signori che, inneggiando ad un mondo democratico ed antirazzista, interrompono una linea ferroviaria per danneggiare una manifestazione pubblica, autorizzata, di gente che non la pensa come loro, se non antidemocratici e razzisti? Razzisti ideologici, razzisti etici, ma cosa cambia, se il risultato è identico: non permettere al diverso di esprimersi? Alla faccia delle citazioni a vanvera di Voltaire e di Rousseau! Credo che si debba prendere atto che vi sono, nella nostra società, alcune frange politiche, alcune sensibilità ideologiche, che, in realtà, sono soltanto una forma molto particolare di psicosi: una malattia mentale mascherata da ideologia, insomma. Altrimenti non si spiega: qualunque cretino capirebbe che non si può difendere la libertà negandola a qualcuno e che non può esistere una democrazia oligarchica, in cui soltanto pochi e politicamente selezionati possano esprimere liberamente il proprio pensiero.

Qui non è questione di opinioni: è questione di sistema nervoso, di meccanismi mentali, di semplicissima capacità logica. La conclusione che ne traggo è che questi individui o questi gruppi di persone siano insani di mente e vadano trattati come tali: si debbano ricondurre nell’alveo della normalità sociale. Come? Bella domanda: lobotomizzarli non si può, anche se, forse, sarebbe una soluzione ottimale. Magari, circoscrivendone l’azione, isolandoli, levando loro la possibilità di nuocere. E non finanziandoli coi soldi dei cittadini, come succede a Bergamo, tanto per dire…




Terzi, l’imbarazzante teatrino di chi non sa accettare la sconfitta

Claudia Maria Terzi, assessore regionale all'Ambiente
Claudia Maria Terzi, assessore regionale all’Ambiente

Se vuole davvero essere originale Claudia Maria Terzi deve fare una bella proposta. Semplice quanto secca: “Aboliamo il Consiglio regionale”. Sicuramente guadagnerebbe consensi a secchiate. E altrettanto certamente, indicando a chiare lettere quale è il suo obiettivo, l’assessore regionale all’Ambiente in quota Lega eviterebbe lo sgradevole teatrino di cui è stata protagonista nei giorni scorsi.
Meglio parlar chiaro e affrontare a viso aperto le battaglie piuttosto che calpestare, come è stato fatto, le più elementari regole della democrazia rappresentativa. L’ex sindaco di Dalmine, infatti, ha reagito in modo perlomeno sgraziato al voto con cui l’aula del Pirellone, a voto segreto certo (34 a 28), ha bocciato il provvedimento con aveva deciso di tagliare i fondi al Parco dei Colli, reo di aver accolto la richiesta della Prefettura di dare ospitalità temporanea ad un gruppo di profughi a Cà della Matta. Anziché prendere atto che nemmeno la sua maggioranza condivide una misura stupidamente ritorsiva nei confronti di un ente caro ai bergamaschi, l’assessora ha subito rovesciato il tavolo. “Non arretreremo di un millimetro – ha esclamato con il turgore dei giorni migliori -. Siamo pronti a ripresentare immediatamente un altro provvedimento di pari contenuto”. Come a dire: del Consiglio regionale non so che farmene e le sue votazioni sono esercitazioni fini a se stesse. Salvo aggiungere una postilla che ha lasciato di stucco: “Perché ci sono delle regole ben precise, e non si possono rispettare solo quando fa comodo”.

Terzi si riferiva allo statuto del Parco dei Colli che non prevede, tra i compiti dell’ente, l’accoglienza dei profughi. Ma anche le regole delle istituzioni, forse, son degne di analoga attenzione. E allora, se l’assemblea del Pirellone, che fino a prova del contrario è composta dagli eletti dal popolo (a differenza degli assessori come la Nostra che sono nominati dal presidente), decide di cassare un provvedimento, prenderne atto dovrebbe essere il minimo. Tutt’al più ci si può scagliare contro gli assenti e i consiglieri di maggioranza che nel segreto dell’urna hanno votato contro (salvo chiedersi, con un pizzico di umiltà, le ragioni del gesto), ma il verdetto non dovrebbe essere messo in discussione. Altro che annunciare la volontà di riproporre il taglio cassato, utilizzando in modo improprio un emendamento al bilancio.

La disinvoltura con cui anche il più banale galateo istituzionale viene calpestato è imbarazzante. Succede quando, dimentichi che si è al governo della cosa pubblica, cioè di tutti (di chi ti ha votato e di chi no), si procede a colpi di ideologia.  Claudia Maria Terzi ha alle sue spalle un’esperienza amministrativa a Dalmine che non è stata esaltante e che è finita tra le macerie. L’anagrafe è dalla sua parte, l’intraprendenza non le manca. Perché buttarsi via così? Perché intestardirsi in una battaglia propagandistica che non serve a nessuno se non a gonfiare le vele del Carroccio? Davvero crede che adottare provvedimenti faziosi sia il modo migliore di fare l’interesse dei lombardi? Ma soprattutto, non pensa che non considerare il voto del Consiglio sia un pessimo modo per delegittimare un organo istituzionale? In politica, come nella vita, ci sono le vittorie ma anche le sconfitte. E’ segno di intelligenza saper trarre lezione dalle battute d’arresto. L’assessora ne ha l’occasione. Non la butti via per il gusto di sventolare una bandierina.

 

 

 

 




Quella domanda senza risposta sui tagliagole dell’Isis

IsisVi ricordate l’Isis? Massì, quei simpaticoni vestiti di nero che, ogni tre per due, rapivano un europeo e gli segavano le canne: come potete averli dimenticati? Jihadi John, col suo inglese perfetto, i malandrini che dalle coste della Libia preparavano una seconda operazione Husky, la minaccia globale, il nemico più nemico che ci sia: l’Isis, mica noccioline! Non vi viene, ogni tanto, da domandarvi che fine abbiano fatto? Stavano avanzando ovunque, come una marea inarrestabile: adesso avrebbero dovuto già essere arrivati ad Oslo e piantare lo stendardo del Profeta a Holmenkollen. Invece, improvvisamente, mezzebuste ed anchormen, hanno smesso di parlarne: come se non fossero mai esistiti. La televisione ci abitua, per la verità, a queste ciclotimie: per settimane ci bombarda con allarmi per uragani che, alla fine, si trasformano miracolosamente in tempeste tropicali, e scopri che a Rimini è piovuto una mezz’oretta. Fa parte, per così dire, del sistema televisivo inventarsi una notizia, spolparla fino all’osso e poi gettarla nella spazzatura, in attesa del prossimo scoop: questa dell’Isis, però, sembrava una faccenda un tantino diversa, un tantino epocale. Si sono sprecati gli speciali: i soliti esperti, le solite inchieste, il repertorio solito di stupidaggini miste ad ovvietà. Poi, du tac au tac, l’Isis è scomparsa dai telegiornali: niente più decapitazioni, niente più paura. Uno, preso così alla sprovvista, potrebbe pensare ad una resipiscenza dei cattivoni: un pentimento tanto immediato quanto tardivo. Chessò, toccati dalle profondissime parole di papa Francesco, intimiditi dalla bellicosa decisione della Mogherini, i tagliagole avrebbero davvero potuto fare retromarcia. Però, pensandoci bene, l’ipotesi appare alquanto remota, soprattutto per la questione Mogherini: evidentemente, qualche fenomeno soprannaturale dev’essere, comunque, intervenuto. Io un’ipotesi ce l’avrei: anzi, se permettete, ce l’avevo anche prima. Forse, qualcuno tra i miei due o tre lettori avrà la bontà di rammentare ciò che scrissi in tempi non sospetti, ossia che l’Isis era semplicemente un babau – uno dei tanti – confezionati ad arte per tenere l’Occidente col fiato sospeso: un esercito di straccioni, parlandone militarmente, senza copertura aerea, senza logistica, senza volumi di fuoco apprezzabili, senza tecnologia. Gente che vinceva combattendo contro altri eserciti militarmente risibili, ma che non avrebbe retto cinque minuti contro una forza militare moderna e modernamente equipaggiata. Ve lo ricordate? La solita minaccia creata ed impacchettata dalla sciaguratissima politica estera statunitense, come i vari Bin Laden o i jihadisti: frutto avvelenato di un modo malsano di intendere l’intelligence internazionale, abbattendo ed innalzando tirannelli, organizzando e disfacendo rivoluzioni e primavere arabe.

D’altronde, gli Usa hanno sempre cercato di governare il proprio vastissimo impero con questi sistemi: la Guerra Fredda, forse rammenterete anche questo, in Italia andava da nord a sud e non da est a ovest. E a noi è costata una stagione che qualche furbacchione in vena di creatività, imbeccato al momento opportuno, ha chiamato “strategia della tensione”: quando riscriveremo la storia di quegli anni, vedrete come ne usciranno puliti i nostri amiconi d’oltreoceano! Ma lasciamo perdere le bombe e le stragi: torniamo all’Isis. Sembravano invincibili, dicevo, finché a contrastarli c’erano le ragazze curde che tiravano dai tetti col Barrett: hanno conquistato qui, sono avanzati là. Tutti esperti di cose militari, da Saxa Rubra a Cologno Monzese: un esercito di strateghi esentati dal servizio di leva. Finché, ad un certo punto, questi dell’Isis hanno pestato un callo (non chiedetemi quale) a Vladimir Putin, che è un tipetto piuttosto fumantino, in materia di calli: lo sappiamo tutti che è in gioco una gigantesca campagna planetaria per decidere i prossimi equilibri mondiali, ma facciamo finta di essere anche noi come i giornalisti televisivi, ossia del tutto incapaci. Fatto sta che Putin è intervenuto in Siria: come dire “guardate che lì non comandate voi!”.

E, insieme a lui, si è mossa la Cina, vale a dire il terzo incomodo fra i colossi prossimi venturi. Da una parte, adesso, c’era l’Isis, con qualche Toyota donata dagli Usa, con qualche proiettile comprato in Italia, con un ampio corredo di coltellacci da macellaio: dall’altra c’erano gli incrociatori lanciamissili classe Kirov, i caccia ed i bombardieri di ultima generazione, i modernissimi T90, la “Morte Nera” e gli “Spetsnaz”. C’era perfino il celebre “Buratino”, che, in barba al nome ridicolo, è un carro lanciamissili che spara testate termobariche da 220 mm a raffiche di trenta alla volta sulla testa del malcapitato tagliagole, riducendolo a ragù. E l’Isis si è disciolta come burro, sulla padella della Siria: si è semplicemente sfaldata. Per questo non la sentite più nominare. Ora, la vera domanda, però, rimane quella di sempre: perché non l’abbiamo fatto noi, subito? O, se preferite la citazione colta: cui prodest questa Isis del cavolo? Ah, Sigonella: quanta nostalgia!




Contante, il limite a 3mila euro e i comportamenti dei consumatori

eurosito.jpgCi si è creati un falso problema. Innalzare il tetto all’uso del contante va nella direzione dell’abbandono della lotta all’evasione oppure in quella di uno stimolo ai consumi? Forse verso entrambi, ma questo non deve dare scandalo, perché un po’ di “nero” è fisiologico e può essere da stimolo anche ad un’economia sana. Il problema insorge semmai quando un’economia si basa sul “nero” come fattore concorrenziale, ma su questo l’innalzamento del limite al contante da mille a tremila euro non incide più di tanto. La lotta al contante che sta dietro lo sviluppo della tracciabilità si fa forza del fatto che nei Paesi basati su economie sommerse è maggiore l’utilizzo di soldi liquidi, che, come si dice, non hanno odore. Ma se anche ci fosse la tracciabilità totale, con memoria anche dell’acquisto più insignificante, e quindi con la scomparsa totale del contante, al di là dei problemi tecnici dell’operazione, il “nero” troverebbe comunque il modo per ritornare. Ad esempio, con una valuta straniera, i bitcoin o qualche altra forma di economia parallela.

Se la tracciabilità parziale degli acquisti ha comunque effetti parziali nella lotta all’evasione, almeno fino a quando sono numerosi gli acquisti esclusi dal controllo, di certo ha un effetto deprimente negli acquisti sia da parte di chi ha contanti a vario titolo “irregolari”, sia da parte di chi per diffidenza preferisce tenersi sotto il materasso soldi regolari come provenienza e nel rapporto con il fisco, sia da parte di chi è infastidito dal sentirsi sotto controllo “perché non si sa mai”.

In ogni caso, come i negozianti possono testimoniare, da quando c’è il redditometro, che si abbina alla tracciabilità degli acquisti, c’è stato un calo in particolare negli acquisti “impegnativi”. E se si tiene per buono il report sulla fedeltà fiscale che calcola il “nero” in Europa come il 15% sul Pil – e in Italia al 17%, come media tra il 13% del Nord (la Germania è al 12%), il 16% del Centro e il 27% del Sud -, si può pensare che la flessione negli acquisti, con la riemersione anche ai fini tributari, attraverso l’Iva, del denaro circolato in “nero”, faccia sì che il gioco non valga la candela.

La sindrome da Grande fratello per la quale in Italia l’uso della carta di credito (anche perché poco stimolata dal fatto che è un costo più che un vantaggio) è poco utilizzata va oltre la diffusione del “nero”. Complici le frodi e i furti d’identità, in Italia c’è più diffidenza per una carta di credito che per una banconota in contante (che una volta, quando c’era la lira aveva anche scritto esplicitamente “pagabile a vista al portatore”) mentre negli Stati Uniti avviene il contrario e chi paga cash, anche un pacchetto di chewing gum, è visto come un probabile riciclatore.

 

Da questo punto di vista, alzare il tetto della tracciabilità a un livello che non viene considerato opprimente, quello dove in ogni caso non si utilizzano i contanti, ma gli assegni, elimina un disincentivo agli acquisti da parte di chi ha l’idiosincrasia del controllo. Può sembrare irrazionale la scelta di rinunciare ad un acquisto solo per non farsi notare, anche se non c’è niente di irregolare, ma è solo uno dei tanti aspetti poco razionali nei comportamenti dei consumatori. E la politica fa bene a tenerne conto.




Altro che Marino! Da cambiare ci sono soprattutto i romani

Ignazio Marino
Ignazio Marino

Naturalmente, è finita all’italiana: cioè in caciara campanilistica. L’affondo del presidente dell’Autorità anticorruzione (“Milano è la nuova capitale morale, Roma non ha gli anticorpi necessari”) ha dato il la ad una stucchevole competizione tra tifoserie che si sono date battaglia a suon di luoghi comuni, del tutto incuranti di approfondire il tema sollevato dal magistrato. In qualche modo è stata colpa anche di Raffaele Cantone, perché fare raffronti del genere è improprio, specie se l’autore rappresenta una istituzione. E ancor di più, suona surreale assegnare la palma di modello di virtù ad una città in cui le inchieste e gli scandali non si sono certo esauriti ai tempi ormai lontani di Mani Pulite (è ancora fresco l’arresto del vicepresidente della Regione Mario Mantovani).

Ciò detto, lasciando che i milanesi smaltiscano l’euforia per il successo (di numeri più che di contenuti) di Expo, è però utile prendere un verso della provocazione cantoniana per qualche riflessione sul caso Roma. Dove da mesi è finito nel tritacarne, delle forze politiche come dei commentatori, il sindaco Ignazio Marino. Anche qui molto italicamente, pare che il primo cittadino sia la sentina di tutti i mali. Decenni di malgoverno e di degrado gli sono stati addebitati con gli interessi. Tutto ciò che non funziona è per sua responsabilità. La città è sporca? Colpa di Marino. La metropolitana va in tilt? Colpa di Marino. Gli autisti degli autobus fanno flanella? Colpa di Marino. I vigili si danno malati in massa? Colpa di Marino.

E’ un crucifige che fa comodo a molti. Di sicuro alle opposizioni di centrodestra che devono far dimenticare i disastri e le vergogne della Giunta Alemanno, ma anche al Partito democratico che vuol evitare che si ricordi come Marino è stato utilizzato come foglia di fico per celare lo stato penoso (come ha denunciato l’ex ministro Fabrizio Barca) del partito e della sua classe dirigente locale. Così come fa comodo ai tanti autorevoli editorialisti che cercano di rifarsi una verginità dopo anni di dolce vita nei salotti gomito a gomito con quelli che hanno sgovernato la Capitale.
E i cittadini? Anche per i romani è un comodissimo alibi scaraventare addosso al sindaco ogni nefandezza. Così non devono rispondere delle loro responsabilità. Quelle di chi si rifiuta di pagare il biglietto dell’autobus o della metro, quelle di chi getta in strada ogni genere di rifiuto, quelle di chi veste i panni del dipendente pubblico e fa l’assenteista. Inutile star qui a stabilire se ci siano o meno gli anticorpi, quel che è certo è che il marcio non sta solo nella testa del pesce ma anche nella coda. Ed è questa la consapevolezza che manca.

Alla fine, seppur con grande fatica, si riuscirà a far saltare Marino (che pure le sue sciocchezze le ha fatte). Ma fino a che non vi sarà una piena assunzione di responsabilità da parte di tutti, a partire dai cittadini romani che devono aumentare il tasso di rispetto delle regole di convivenza civile, sostituire un sindaco con un altro sarà solo l’ennesimo remake del Gattopardo (cambiare tutto per non cambiare nulla).




Questa politica ha perso stile anche nelle capriole

gianfranco-finiLes temps changent et nous changeons avec eux: in altre parole, ci si adatta, ci si accomoda. Tempora mutantur et nos mutamur in illis, dicevano i latini: e circa la capacità di accomodarsi, diciamo così, molti di loro la sapevano lunga. Gli scartati alla leva, prevalentemente. Così e non altrimenti pare essersi espresso l’ineffabile Charles Maurice Talleyrand-Périgord, quando gli venne rimproverato il fatto che aveva servito, indifferentemente, Luigi XVI, il Direttorio, Napoleone, Luigi XVIII e Filippo d’Orleans: oggi, sarebbe una specie di eroe nazionale, dalle nostre parti, terra di Girella quant’altre mai. Però, cari lettori, vi voglio dire che c’è modo e modo di fare capriole: un conto sono le capovolte sul prato e altro il Cirque du Soleil. Talleyrand, in un certo senso, capriolava con molto stile e con molto stile capriolavano gli antichi.

Guardateli oggi, i piroettatori: con quale mancanza di eleganza si rotolano e si avvitano! Come dire, per metterla giù piatta, che un conto è la classe di un ladro internazionale che ti sfila il collier mentre balla impeccabilmente un valzer di Strauss e altro il grassatore col piede di porco, che ti svuota i cassetti: sempre delinquenti sono, ma che differenza! Insomma, ai nostri voltagabbana manca un filino di eleganza: vanno, vengono, a volte si fermano, come le Nuvole di De André. E ne escono sempre con le tasche piene di pasticcini, arraffati al buffet. Guardateli, dunque: un giorno sono di destra e quello dopo di sinistra, una settimana sono per le unioni civili e quella successiva sembrano il cavalier tentenna.

Vogliono la buona scuola, il che è legittimo avendone, evidentemente, frequentate di pessime: però con le varianti, altrimenti cambiano parrocchia. Ricattini, piccole meschinità poltronite: come definire la somma delle attività quotidiane di questa classe dirigente che non dirige un bel nulla e che pare ossessionata dall’unico obiettivo di rimanere in sella? Miserabili: ecco la parola. Si tratta di un’accolita di poveracci dediti ad iniziative miserabili, il cui solo scopo nell’esistenza è, appunto, esistere. Il mondo delle cose e degli uomini va avanti: la gente si incontra, si sposa, si lascia, fa dei figli; e loro continuano a rotolare sullo stesso scampolo di prato, indifferenti a tutto, insensibili a tutto. Sono disposti, con l’imperturbabile improntitudine dell’ignorante e del guappo, a sostenere qualunque insostenibile fregnaccia, senza muovere un sopracciglio: si parli di economia o di vaccinazioni, di costituzione o di videopoker, questi ossessi del potere e del soldo affrontano le telecamere senza vacillare, senza dubitare, con uno sprezzo del grottesco che la dice lunga, non tanto sul loro coraggio quanto sulla loro completa incoscienza di sé.

Il mondo, intendiamoci, è sempre andato avanti così: la differenza è, per così dire, intrinseca. Un tempo, tra una capriola e l’altra, c’era chi si guardava intorno e capiva che era venuto il momento di fare qualcosa di serio, pena la giravolta definitiva, che è quella che si fa appesi ad un capestro: in altre parole, mancava, forse, l’onestà, ma c’era la stoffa. Il confronto, non si dice con un Talleyrand, ma perfino (Dio mi perdoni) con un De Michelis, per i nostri politici apparirebbe imbarazzante: una Pinotti, una Giannini, una Mogherini con quelle borsette fuori luogo, con quelle facce serie e comprese, con quella sesquipedale assenza di competenze e capacità, più che una quota rosa ricordano una quota bassa. Il Mar Morto. Ma sono lì: folgoranti in solio, incredibilmente. E ci stanno perché sono nelle grazie del capo: il quale capo appare come il capriolatore ottimo massimo.

Uno che ha fatto sempre e solo il contrario di quel che andava dicendo: quello che mai avrebbe governato senza il voto degli Italiani, che mai avrebbe scaricato il suo amico Enrico Letta, che mai sarebbe rimasto al governo un giorno più del necessario. Non insisto per non infierire, ma è chiaro che uno così non possa che circondarsi di gente come lui: sonnambuli della politica. E non è che sull’altra sponda si rida, con Fini che, nonostante rappresenti il più colossale catalizzatore d’odio della destra italiana, vaneggia in televisione (e non si capisce perché non lo invitino solo in programmi che parlino di fantasmi, stile “Mistero”) di possibili ritorni, con Berlusconi che confonde Palazzo Chigi con il palazzetto dello sport e fa le flessioni per dimostrare che è ancora politicamente in forma, con i convegni, le fondazioni, le assemblee costituenti in cui tutti si detestano e tutti si insultano, ma sono costretti ad unirsi per mettere le mani sul malloppo di Alleanza Nazionale. Capriole, soltanto capriole: scoordinate, scomposte, sguaiate capriole. E noi stiamo a guardare: sempre più schifati e sempre meno disposti a partecipare alla vita politica. Come un pubblico annoiato da un film squallido, come la curva quando la squadra del cuore schiera soltanto i panchinari in un’ultima di campionato, a risultato deciso. E il risultato di questa partita è la catastrofe, purtroppo.

 

 




Ubi, le strategie per non perdere la Popolare di Bergamo

banca_popolare.jpgTra i discorsi da bar, qualunquisti per definizione, si sente, generalmente espresso in dialetto, anche questa sorta di aforisma: “Prima ci hanno portato via il Credito, adesso l’Italcementi, la prossima che se ne andrà sarà la Popolare”. Nel senso, ovviamente di Ubi che, diventata Spa, sarebbe adesso esposta agli appetiti della speculazione e di non meglio precisate mani forti straniere.

In queste prime settimane da società per azioni in realtà non è successo nulla di particolare in Ubi. L’operatività e la gestione, come scontato, è proseguita secondo lo spirito primigenio da cooperativa. L’unico movimento è stata la crescita della quota del fondo americano Blackrock, sempre più primo azionista, per avere superato la soglia del 5%. Ma dato che era già accreditato del 4,95%, il fatto che sia arrivato al 5,022%, questo acquisto sembra essere più legato alla convinzione di un prossimo rialzo del titolo più che l’inizio di una scalata. Anche il rimbalzo del titolo sopra i 7 euro avviando la chiusura del divario dai 7,288 euro previsti dal diritto di recesso (che anche per questo, soprattutto se la tendenza proseguirà entro la scadenza del 27 ottobre, sarà esercitato soprattutto per questioni di principio) non sembra legato alla questione della Spa, quanto al miglioramento del clima bancario e a una rinnovata attenzione al processo di concentrazione bancaria.

Al momento anche su quest’ultimo piano però ci sono solo parole e voci. Un recente rapporto di Fitch sul settore delle (ex) Popolari ritiene che tutto sarà rimandato all’anno prossimo. Poco conta che nello stesso rapporto l’agenzia abbia già sbagliato la previsione che quella di Ubi sarebbe stata l’unica trasformazione in Spa del 2015, dato che poi Veneto Banca ha convocato la sua assemblea a dicembre. Il fondamento del motivo per cui Fitch ritiene che si deve aspettare per le aggregazioni è la necessità di avere un quadro più chiaro. E per questo è necessario avere almeno i risultati dei test europei sugli indici patrimoniali. Questo non toglie che nell’attesa i colloqui continuino, nel famoso “tutti parlano con tutti”, che, sulla base dei “rumors”, tra veri, verosimili e lanciati ad arte, più che a un “risiko bancario” sembra piuttosto a un “kamasutra creditizio”, considerate le combinazioni, spesso contraddittorie che vengono proposte.

Ubi non ha dato comunicazione di incarichi ad advisor per le trattative, al contrario ad esempio del Banco Popolare, che viene dato da più analisti come il suo partner ideale, trascurando magari un po’ le implicazioni delle sovrapposizioni sull’area dell’ex Creberg. Il gruppo veneto infatti già a luglio ha dato mandato a Mediobanca e Bank of America Merrill Lynch di fare consulenza “per la definizione delle più opportune strategie in relazione a possibili sviluppi nel processo di consolidamento”. Questo non sembra essere un disinteresse di Ubi sulla questione, quanto una constatazione del fatto che non ha un bisogno spasmodico di aggregazione, anche perché il gruppo si trova in una posizione di forza che le permette, come polo aggregante riconosciuto, di poter scegliere. Anche se non può comunque perdere troppo tempo nella decisione, dato che con ogni probabilità, una volta avviato il risiko, ci sarà un effetto a catena. Ma sui tempi della partenza c’è assoluta incertezza, nonostante le indiscrezioni che danno ora come in pole position l’unione Bpm-Carige. Ma per tornare alla questione di inizio: è vero che “la Popolare andrà persa”? La questione ricorda molto la discussione su chi è attualmente il “padrone” di Ubi. Sono passati più di otto anni da quando nell’aprile 2007 è nato il gruppo e ancora i bergamaschi sostengono che lo sono diventati i bresciani e i bresciani dicono lo stesso dei bergamaschi. Probabilmente queste accuse reciproche sono la miglior conferma che effettivamente la fusione è avvenuta su basi paritarie. Con la Spa gli equilibri sono sottoposti a una nuova prova, insieme alle diverse modalità di voto. Contrariamente a quanto sta avvenendo in altri istituti, il discorso di un consolidamento dell’azionariato, anche attraverso patti di sindacato, se c’è, sta viaggiando molto sottotraccia. Da qui alla prossima assemblea, dove contrariamente a quanto si profila nelle altre popolari gli attuali vertici si giocheranno le cariche con il rischio delle nuove regole, mancano ancora diversi mesi, ma il tema dovrebbe essere affrontato quanto prima, probabilmente non più su una logica provinciale, ma quanto meno regionale, per assicurare la continuità.




Rossi si appella a Facebook, ma non è col populismo che si salva il trasporto locale

Matteo Rossi
Matteo Rossi

A volte, il presidente della Provincia Matteo Rossi pare una versione maschile di Alice nel paese delle meraviglie. Per quanto relativamente giovane, conosce i marosi della politica da almeno un paio di decenni e certo non può dirsi estraneo alle logiche e ai giochetti di quel mondo. Eppure, ogni tre per due lo si vede saltar su a lamentarsi perché l’abolizione dell’Amministrazione di via Tasso, voluta dal premier e segretario del Pd (il suo partito) Matteo Renzi e firmata dall’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio (anch’egli del Pd), si è rivelata un pastrocchio che ha lasciato in vita un simulacro quasi privo di competenza e con risorse ridotte ai minimi termini. Farebbe un torto alla sua e nostra intelligenza, Rossi, se dicesse che non sapeva, al momento dell’accettazione della candidatura, che questa era la situazione. Il contrario porterebbe a considerarlo uno sprovveduto, cosa che non è.

Proprio perché non è un principiante alle prime armi, sapeva a cosa andava incontro ed ora deve far fronte all’impegno preso con i modi e i toni che si confanno ad un rappresentante delle istituzioni. Stona, a volere essere generosi, imbattersi in una riflessione-appello postata su Facebook, dove pare sia molto attivo, a proposito dei continui tagli che stanno mettendo in ginocchio il trasporto pubblico locale. Il nostro Matteo-Alice si è scoperto improvvisamente solo di fronte alle proteste sempre più vibranti degli utenti e allora se ne è uscito con un attacco general-generico che non pare molto coraggioso. “C’è uno scandaloso silenzio su questa vicenda” tuona il presidente. “Chi parla lo fa solo per dare la colpa a qualcun altro, senza approfondire” affonda il colpo senza precisare il destinatario, per poi sottolineare: “Aspettiamo un segnale, un ordine del giorno, una mozione, una convocazione da parte di qualcuno” (chi?). Fino all’appello finale ai cittadini-fan di Fb: “C’è un muro di gomma che dobbiamo rompere, e vi chiedo una mano. Condividiamo l’appello, facciamoci sentire, chiediamo risposte, pretendiamole”.
Roba da applausi, a prima vista, se non fosse che Rossi sa benissimo chi sono gli interlocutori a cui dovrebbe rivolgersi. E non da cittadino, ma da presidente della Provincia. Uno è il governo che è guidato dal suo segretario e che vanta, tra i ministri più in vista, il bergamasco, nonché suo capocorrente (“Sinistra è cambiamento”), Maurizio Martina. Gioca in casa, se non riesce a parlarci direttamente, veda di scambiare con loro almeno un tweet. Se non trova udienza, abbia il coraggio di dirlo ad alta voce, non limitandosi a parlare di un generico “scandaloso silenzio”.

L’altro soggetto da chiamare a render conto è la Regione. Qui Rossi è perfino avvantaggiato perché all’assessorato ai Trasporti c’è quell’Alessandro Sorte con cui, quando questi vestiva i panni di coordinatore provinciale di Forza Italia, ha firmato nientemeno che il “patto costituente” (perifrasi nobile di quello che non è altro che un inciucio) su cui si regge la maggioranza di via Tasso. Visto che si vedono anche in momenti di relax, forse è il caso di approfittarne. Non foss’altro per richiamare chi da un lato sostiene la Provincia e dall’altro, legittimamente dal suo punto di vista, attacca Renzi come l’affamatore degli enti locali. La lettera che gli ha mandato è opportuna, ma gli esercizi epistolari spesso si rivelano retorici e, alla fin fine, stucchevoli.

Insomma, detto in termini terra terra, Rossi deve decidere che ruolo vuole giocare. Se davvero crede fino in fondo in quello che fa, e ritiene che si sia arrivati ad un punto di non ritorno, non deve far altro che alzare la voce, chiamare ciascuno alle proprie responsabilità e, sulla base delle risposte, agire di conseguenza. Compresa la possibilità di rimettere il mandato. Se il gioco non sta in piedi chiamarsi fuori non è un gesto di vigliaccheria. E’ l’unico modo di dimostrare che il re è nudo. Darsi al populismo forse aiuta ad accrescere la popolarità su Facebook, non certo a risolvere i problemi.




Cari lettori, ecco il rimedio per sconfiggere il doppiopesismo

Roberto Benigni
Roberto Benigni

Oggi vi voglio parlare di una cosa quasi rapsodica: di una peculiarità autoctona, che si chiama doppiopesismo. Da un punto di vista storico, ho ragione di ritenere che si tratti di un portato, sia pure alquanto muffoso, della cara vecchia guerra civile, origine e matriarca di tutti i mali italici. Stabilito che fu negli anni della guerra civile, e in quelli immediatamente successivi, che la verità, da una parte come dall’altra, venne ritenuta più un orpello luccicante che la materia essenziale della storia, ne deriva che il nostro bravo doppiopesismo altro non sia che l’ipocrisia storica trasferita nella realtà fenomenica, ovvero la sua applicazione tangibile. Mi spiego: in Italia esiste una percezione delle cose, di quelle materiali quanto di quelle spirituali, che, in determinate circostanze, trascura serenamente tanto il dato fisico che quello metafisico. A seconda di chi sia l’autore di un’azione, ad esempio, questa azione non solo diviene buona o cattiva, ma perfino vera o falsa, trascurabile o essenziale: insomma, non solamente le umane cose, qui da noi, appaiono relative, ma financo il loro baricentro, perfino lo Schwerpunkt. Prendiamo uno dei vati del pensiero democratico nazionale, che, essendo noi un Paese di giullari, non può che essere un comico: mi riferisco al miliardario comunista Roberto Benigni. Lo so che miliardario comunista è un po’una contraddizione in termini, un ossimoro, ma non stiamo tanto a sottilizzare.

Benigni, dicevo, qualche anno fa, ma nemmeno tanti, sosteneva che la nostra Costituzione è la più bella del mondo, e che nessuno può pensare di metterci impunemente mano. Ora, che la nostra Costituzione sia la più bella del mondo, mi pare un filino esagerato, date le evidenti pecche della Carta: ma diamogliela per buona, postulando che conosca le leggi superprimarie come conosce la Divina Commedia, ossia per annasamento, più che per studio. Quel che colpisce è che, quando l’attentatore costituzionale era Berlusconi, ossia, per Benigni, l’incarnazione del nemico, la sua attenzione in difesa della Costituzione era assolutamente vigile: oggi, che la medesima Costituzione viene modificata di brutto da uno che, peraltro, è stato scelto da un Parlamento dichiarato incostituzionale dalla Consulta, senza nemmeno il lasciapassare di un’elezione vinta, tutto va bene, Madame la Marquise.

Benigni, intanto, pisola e sonnecchia, nel suo dorato buen retiro, con la foto di Che Guevara e quella di Paperon de’ Paperoni: i suoi due modelli. Facciamo un altro esempio: parliamo di malaffare. Quando il malaffare pertiene ad una certa parte politica, si tratta di inquinamento mafioso, di tangentopoli 2, di dimissioni richieste a gran voce dall’altra parte politica. Quando sono i moralizzatori a finire nel mirino dei giudici, quelli che, fino ad un attimo prima erano i cattivi, impugnano la spada del diritto e reclamano le dimissioni di questi altri. Con una differenza di fondo: che quelli di centrodestra rubano e basta, mentre quelli di centrosinistra, oltre a rubare, ci tengono anche dei sermoncini sull’etica politica, da cui si evince che loro sono quelli bravi ed onesti, anche se li beccano con le mani nella marmellata. Doppiopesismo.

Sono doppiopesisti i politici, lo sono i giornalisti, lo sono perfino i giudici che, se sei un maschietto, in una causa di divorzio, ti danno torto quasi per presupposto; che, se sei uno straniero, ti fanno uscire di galera, ammesso che ci sia mai entrato, in tempi rapidissimi rispetto ad un Italiano. Alla fine, la gente si abitua al doppiopesismo, come si è abituata all’euro e, prima ancora, al passaggio dalle pertiche e dalle brente ai metri e ai litri: perché la gente si abitua a tutto. E su questo giocano proprio i doppiopesisti: una cosa, a forza di dirla, diventa vera: una regola, a forza di applicarla, diventa giusta. Dunque, non siamo più capaci di dubitare e, per conseguenza, di valutare: accettiamo le scempiaggini politichesi dei comici e delle soubrettes, come ne accettiamo gli svarioni ermeneutici in materia dantesca o gli errori di refilling delle labbra. E questo lo dobbiamo, in parte, proprio al doppiopesismo: all’idea che ciò che provenga dalla parte che percepiamo come ostile sia il male assoluto, l’errore, la volgarità. Mentre tutto ciò che porta la nostra targa è buono, bello, utile.

Questo, cari lettori, è l’esatto contrario della capacità critica: è l’acriticità faziosa. E su questo contano quelli che ci vogliono rimbambire, per poterci dare in pasto qualunque scemenza, senza che storciamo la bocca schifati. Il rimedio? Il rimedio è uno solo: la cultura. Contro la jattanza del settarismo culturale, ritornare alle origini: reimparare a leggere e a scrivere, per così dire. Capisco, tuttavia, che non è mica facile. Tutto rema contro: dalla scuola, che è una sentina di relativismo delirante, per cui se sbagli accenti ed apostrofi, ma esprimi due idee che collimino con quelle dell’insegnante, tutto va bene, per arrivare alla società civile, che raggiunge gradi di inciviltà inimmaginabili fino a qualche tempo fa. Oppure, c’è un’altra soluzione al doppiopesismo: eliminare i pesi. A cominciare dal Parlamento. Ma come si fa?