Legge di Stabilità / Le tasse calano, ma resta il nodo delle coperture

renzio2.jpgSi può parlare male di una manovra che riduce le tasse in maniera trasversale un po’ a tutti gli italiani? Sì, se non si capisce da dove arrivano i soldi che permettono questo taglio. Perché per distribuire soldi presi a prestito non ci vogliono grandi statisti.

Il problema della legge di Stabilità presentata giovedì dal governo sta tutto in queste cifre. Come interventi siamo nell’ordine del perfettibile. Si possono preferire, come fa l’Europa, le imposte sui consumi e sui patrimoni (come la casa) a quelle sul lavoro e sui redditi che frenano la ripresa oppure si può ritenere più efficace, come fa il governo, l’abolizione di una tassa che in Italia tocca due terzi della famiglia, come Tasi e Imu, per alimentare i consumi piuttosto che fare interventi sulle pensioni. Sono valutazioni di priorità e di opportunità politica sulle quali è inevitabile che non ci sia l’unanimità. Qualcuno sarà anche scontento, perché avrebbe preferito puntare più su una voce che su un’altra, ma nel complesso, tenuto conto anche delle situazione generale delle finanze pubbliche, che non si possono permettere più di tanto, si può considerare che il governo si sia mosso nella direzione giusta di una riduzione delle tasse che dovrà necessariamente avere, come promesso, una nuova puntata l’anno prossimo per la riduzione delle imposte sui redditi.

Un altro risultato incontestabile della legge di Stabilità è che ha disinnescato un’altra trappola delle clausole di salvaguardia. Almeno per il 2016 gli aumenti automatici di imposte, come l’Iva, e accise, come quelle sui carburanti, per assicurare la tenuta dei conti non ci saranno: sono 16,8 miliardi di euro di tasse risparmiate. Formalmente non sono tributi tagliati, ma tributi non introdotti: c’è una certa differenza non solo semantica. Quando si sente parlare di riduzione di tasse si pensa che si dovranno pagare meno tributi, non che non si dovranno pagare gli aumenti. Quasi due terzi della manovra (il 63% circa) se ne vanno quindi per evitare uno svantaggio, più che per portare un vantaggio ai contribuenti. Può essere deludente, ma considerata la nostra situazione è già un risultato. Certo, adesso restano da trovare i 55 miliardi per il 2017 e il 2018 per chiudere definitivamente la tagliola delle clausole di salvaguardie, ma il primo ostacolo almeno è stato superato.

Il problema è su come è stato ottenuto ed è il tema sul quale si accentrano le perplessità concrete relative a questa manovra. Il premier Matteo Renzi si è divertito a presentare la manovra con 25 tweet, una versione sintetica delle slide, sicuramente più noiose, ma che avevano il vantaggio di far vedere meglio i numeri. Le cifre parlano di un’operazione complessiva da 26,5 miliardi che potrebbe salire a 29,5 con un anticipo del taglio dell’Ires e interventi per l’edilizia scolastica, nel caso che venga accettata la richiesta avanzata alla Ue di utilizzare uno 0,2% di spazio di patto in più per la clausola “migranti”. Tolti i 16,8 miliardi della eliminazione della clausola di salvaguardia, la legge di Stabilità si riduce a 9,7 miliardi (più gli eventuali 3 miliardi, se autorizzati dalla Ue) e metà di questi sono effettivamente legati a reali abolizioni di tasse sulla prima casa (3,7 miliardi), sull’Imu agricola (400 milioni) e sugli impianti imbullonati (500 milioni).

Il vero nodo però è su come si intendono trovare le risorse a copertura. Dalla spending review si aspettano 5,8 miliardi. In pratica la riduzione delle spese riuscirà a finanziare poco più dell’abolizione delle tasse sulla casa, sull’Imu agricola e sugli impianti imbullonati. Per il resto ci si affida a 2 miliardi previsti dalla sanatoria una tantum del rientro dei capitali, la voluntary disclosure, a un miliardo che arriverà da imposte sui giochi e nuove gare e ad altri 3,1 miliardi legati ad ulteriori efficientamenti (tra i quali circa due miliardi del mancato aumento del fondo sanitario). In questo modo si riescono a finanziare tutti gli altri provvedimenti della manovra (pacchetto enti locali, contrasto povertà, interventi per sviluppo e sugli ammortamenti e sulla contrattazione aziendale, sgravi contributi sulle assunzioni e così via) e anche una parte dell’eliminazione delle clausole di salvaguardia. Ma solo una parte, perché restano fuori 14,6 miliardi di euro. Per questi ci si affida al buon cuore dell’Europa. Quella stessa Europa che ci aveva imposto la clausola di salvaguardia per contenere il deficit dovrebbe insomma concederci la flessibilità di aumentare il deficit per evitare che scatti la clausola di salvaguardia. Ci vuole una bella faccia tosta italiana solo per pensarlo, a è paradossale che alla fine i presunti cattivoni alfieri del rigore ce lo concederanno anche. E così, come sempre, la riduzione delle tasse e soprattutto la mancata riduzione della spesa, la faremo pagare a chi verrà dopo. Del resto in qualche modo il quinto maggiore rapporto tra debito e Pil a livello mondiale dobbiamo pure essercelo costruiti.




Caso Mantovani, le avventurose teorie del presidente Maroni

Mario Mantovani e Roberto Maroni
Mario Mantovani e Roberto Maroni

Roberto Maroni non deve sottostimare la pur modesta intelligenza di noi poveri tapini. E’ lecito, anche se nient’affatto scontato, che il presidente della Regione voglia difendere il suo vice (nonché assessore alla Sanità fino ad agosto) Mario Mantovani, trasferito a San Vittore con pesanti accuse, dalla corruzione alla turbativa d’asta, ma gli argomenti che utilizza dovrebbe sceglierli meglio. Nell’immediatezza dell’arresto, colui che a colpi di scopa tolse la Lega dalle mani di Umberto Bossi, ha osservato che buona parte delle accuse rivolte all’esponente di Forza Italia non riguardavano “il suo ruolo istituzionale”. Come se uno potesse essere contemporaneamente un imprenditore corrotto e corruttore e uno specchiato amministratore pubblico. Ma con il passare delle ore è apparso evidente che i “magheggi” di Mantovani avvenivano in buona parte in forza dell’incarico rivestito al Pirellone. E quindi l’argomento è caduto. Così, Maroni si è lanciato in una difesa ancora più avventurosa. “Nella vicenda Mantovani non c’è un euro di tangenti» ha scritto su Twitter, del tutto incurante che le mazzette non s’usano più da lunga pezza, essendo state sostituite (come peraltro prevede il codice penale che parla non a caso di “denaro o altra utilità, anche di natura non patrimoniale”) da scambi di favori in diverse declinazioni. Quel che Antonio Di Pietro ha icasticamente definito “ingegnerizzazione della tangente”.

Tutte le accuse, naturalmente, vanno dimostrate, ma il tenero Maroni non può non provare un minimo di imbarazzo nel leggere con quale disinvoltura uno dei suoi principali collaboratori ha utilizzato i suoi molteplici ruoli (assessore, senatore, sottosegretario, sindaco) per una gestione del potere a fini di tornaconto personale che fa impallidire i ras di Mani Pulite. Adesso che Mantovani è finito nella melma è facile per molti tratteggiarne la figura come una sorta di “faraone”, compresi taluni cronisti che alle spregiudicatezze del forzaitaliota non hanno mai fatto nemmeno il solletico e che ora sfoderano articolesse al curaro. Eppure, il male ha radici antiche e anche il presidente della Regione ne deve rispondere, politicamente parlando. Perché era evidente a tutti che c’era un conflitto d’interessi gigantesco nell’affidare la delega alla sanità (che in Lombardia significa l’80 per cento delle spese correnti) ad una figura che contemporaneamente, da patron di case di cura e di centri di assistenza con un fatturato annuo di decine di milioni di euro, incassa soldi dalla Regione. Dicevano i nostri vecchi che chi va al mulino s’infarina… Non sarà il caso di Mantovani, certo, ma un minimo di cautela e di attenzione, al di là degli equilibri di coalizione, non avrebbe guastato.

Così come il moralizzatore Maroni s’è guardato dal modificare quel meccanismo che fa dipendere le nomine dei direttori generali delle Asl e delle Aziende ospedaliere dai voleri dell’assessore (e tutt’al più dello stesso presidente). Il contenuto di taluni sms e di certe telefonate tra Mantovani e alcuni dirigenti mostra senza alcun bisogno di commento come la doverosa cortina di distacco tra i diversi ruoli è stata più e più volte spazzata via. Passare dalla familiarità al servilismo (sempre ben retribuito, naturalmente) fino allo scambio di utilità è un giochetto che può comprendere anche il candido presidente della Regione rimasto senza scope di ricambio.

Alla luce di tutto ciò, parlare di giustizia ad orologeria, di complotti, di tentativo di nascondere gli scandali romani significa semplicemente rinchiudersi in un fortino, nella speranza che il temporale passi e tutto possa scorrere come prima. Pia illusione, i conti alla fine dovrà farli anche Maroni e la sua mancanza di coraggio, pena capitale per chi fa politica, gli costerà cara. Certo più degli strilli e delle agitazioni delle minoranze che ora cercano di prendersi la rivincita dopo la sonora sconfitta di due anni fa. Bisogna conservare un minimo di memoria. La Regione a guida formigoniana crollò, proprio per mano della Lega, tra gli scandali. Il centrodestra in Lombardia toccò il punto più basso. C’erano tutte le condizioni per conquistare il Pirellone. A condizione di schierare un candidato all’altezza. Ma i vertici del Pd, a partire dall’allora segretario regionale Maurizio Martina con la testa già rivolta a Roma (dove adesso sta facendo molto bene), decisero di suicidarsi affidandosi al tenero Umberto Ambrosoli. Una figura tanto perbene quanto priva di carisma e di personalità. E così Maroni ha vinto la partita. Oggi che se ne criticano giustamente le scelte occorre avere l’onestà intellettuale di ricordare che scelte più adeguate e lungimiranti avrebbero potuto togliere la terra sotto i piedi, senza aspettare ancora una volta l’intervento della magistratura, a chi ha usato e usa il Pirellone per i propri comodi.




Bene i nuovi parcheggi in stazione, ma ora pensiamo al resto della città

strisceA nessuno piace fare la figura del pirla: a quelli che scrivono sui giornali e che, anche se pubblicano i propri borborigmi sul bollettino parrocchiale, si credono latori di una verità rivelata, piace ancor meno. Invece, io vi confesso che, una volta tanto, sono contento di avere fatto la figura del fesso: di avere scritto, denunciato, pontificato, e di essere stato clamorosamente smentito dai fatti. Avevo scritto un pezzullo sulla faccenda delle multe ai motorini, fuori dalla stazione ferroviaria: uno dei soliti anatemi cimmineschi, in cui argomentavo, accusavo, giustificavo, concludendo l’epifonema con l’augurio che, anziché i vigili, l’amministrazione mandasse i pittori a dipingere le strisce di nuovi parcheggi (sottintendendo che ciò non sarebbe mai avvenuto). Invece, proprio mentre io, tutto tronfio e soddisfatto del mio capolavoro, lo stavo inviando al mio direttore, gli imbianchini comunali stavano dipingendo dei nuovi posti per le moto, accanto alla stazione. Come dire: l’era mei fa sito!

Che aggiungere? Mi sono sbagliato e faccio pubblica ammenda. Avevo la convinzione che quella dei giorni scorsi fosse stata un’operazione di bassa macelleria, per fare cassa a spese dei pendolari e, invece, si trattava di una manovra orchestrata, per rimettere un po’ le cose a posto: da una parte ti bastono se sgarri e, dall’altra, ti do l’occasione di non sgarrare. Almeno, spero che sia così, e che questa lettura, tardiva e penitenziale, non sia un altro clamoroso errore d’interpretazione: ossia che tutta la faccenda non sia solo fumo negli occhi. Gori uno Cimmino zero, comme d’habitude. Intendiamoci, alcune delle considerazioni che avevo scritto nell’articoletto incriminato le riscriverei seduta stante: un po’ perché sono un rompiballe recidivo e un po’ perché il problema rimane, nonostante la lodevole operazione pittorica.

I tifosi dell’Atalanta, i frettolosi di via Nullo e le sciurette della Montessori continuano a parcheggiare dove, come e quando non dovrebbero, sanzionati poco o nulla. E l’organico dei vigili rimane troppo basso per una città come Bergamo, specie quando c’è la calata dalle valli: troppo basso e male organizzato, certe volte. Insomma, la questione dei parcheggi è una di quelle sistemiche, centrali, enormi, per la nostra ridente cittadina: però, non si può pretendere che la si risolva in un colpo, come per la solerte pingitura dei nuovi spazi per i motorini alla stazione. Ci vuole un impegno costante e faticoso, nel trovare nuovi metodi e nuovi strumenti, nel potenziare ciclabili e navette: le prime, oggi come oggi, hanno un andamento psichiatrico e le seconde sono un tantino sottodimensionate per le reali esigenze. Ma, se, soltanto qualche ora fa, avrei concluso dicendo: ecco, quella delle multe ai pendolari è solo la punta di un iceberg che si chiama disinteresse nei confronti dei bergamaschi alle prese coi parcheggi, oggi mi viene, piuttosto da dire che è un primo, sia pur esile, segnale di attenzione.

In fondo, da qualche parte si deve cominciare. Così, rinuncio serenamente al mio amor proprio di articolista da operetta, vulnerato dall’incalzare degli eventi e dalla smentita del mondo fenomenico nei confronti delle mie proprie e personalissime accidie, per applaudire, serenamente, ad un atto di civiltà e di premura, nei confronti di una delle categorie più bastonate del, pur bastonatissimo, panorama orobico. Adesso, non rimane che proseguire con la stessa solerzia nei confronti dei moltissimi snodi critici del parcheggio cittadino: organizzare meglio e potenziare la polizia locale, multare salatissimamente chi contravviene con dolo e clamorosamente, soprattutto i recidivi, cui non basta una multa per decidere che non conviene contravvenire, ma ce ne vuole una bella batteria. E, poi, un passino alla volta, creare le cerniere tra i vari monconi di ciclabili, acquistare navette elettriche, distribuirle oculatamente sul territorio, stabilire orari ragionevoli.

Insomma, fare quello che si fa nei paesi civili. Siccome una sola scottatura a me, a differenza dei superuomini del parcheggio selvaggio, basta ed avanza, per capire l’antifona, mi asterrò da critiche sataniche e da corsivi avvelenati: darò tempo al tempo e fiducia a questa amministrazione, sul versante dei parcheggi. Aspetterò di vedere se questa rondinella pellegrina avrà fatto o meno primavera. E, mi sento di dire che, insieme a me aspetteranno, con la meravigliosa pazienza che li contraddistingue, anche i Bergamaschi. Ocio, però, che pazienza non vuol dire letargo: adesso che i pittori ci hanno fatto la mano, vediamo di farli trottare a dipingere righe bianche qua e là. Bianche eh, mica azzurre o gialle. Bianche. Perché va bene fare la figura da pirla una volta, e chiedere scusa ai lettori: ma non è che mi sia completamente pecorizzato. Iterum rudit leo…




Pezzoni si ritiene indispensabile e a Treviglio il clima s’avvelena

Giuseppe Pezzoni
Giuseppe Pezzoni

Bontà sua, il sindaco con laurea falsa Giuseppe Pezzoni ha annunciato che il 25 novembre lascerà il Comune di Treviglio. Prima, ha tenuto a far sapere, vuole far approvare l’assestamento di bilancio, in modo che il commissario che subentrerà fino alle elezioni della primavera prossima avrà la strada già tracciata. Forze politiche con un minimo di senso dell’etica e di rispetto delle istituzioni avrebbero dovuto imporgli di sparire al più presto. Ma tant’è, hanno preferito cercare di tenere in piedi l’altarino, del tutto incuranti del discredito che questa vicenda ha gettato e continuerà a gettare sull’immagine dell’ente pubblico. Non a caso Matteo Salvini, che forse non sa elaborare alte strategie politiche ma è dotato di innegabile fiuto, a specifica domanda ha risposto: “Pezzoni se ne deve andare”. Eppure, a Treviglio i leghisti per primi vogliono eccedere in realismo e così l’agonia continuerà.

In quale clima di tutti contro tutti è lì da vedere. Hanno fatto scalpore, per esempio, le dure parole usate contro la cittadina della Bassa (“è la vergogna d’Italia, è tutta un’orditura d’intrighi da cui la gente perbene si tiene alla larga”) nella lettera di dimissioni dall’architetto Daniela Lubreto, che proprio il Beppe de ‘noantri aveva messo a capo di “Treviglio unica”, la società che dovrà realizzare il parcheggio sotterraneo di piazza Setti. Naturalmente, tutti o quasi si sono scandalizzati per il giudizio forse ingeneroso ma non del tutto fuori luogo nei confronti della città, evitando così di entrare nel merito su due aspetti ben più rilevanti. Anzitutto, chi ha scelto la professionista che ora sputa nel piatto? E se è vero che c’erano già contrasti da diverse settimane tra lei e il Comune, perché è stato messo tutto a tacere? E qui veniamo al secondo punto: Daniela Lubreto nella sua lettera denuncia comportamenti quantomeno disinvolti (chissà se non c’è anche qualche rilievo penale…) nella procedura per l’assegnazione dell’incarico per il progetto preliminare di piazza Setti. Non è il caso di chiarire se si tratta di accuse infondate? I cittadini di Treviglio hanno il diritto di sapere la verità. E se anche l’architetto avesse raccontato un sacco di bugie, ritornerebbe la prima domanda sul modo in cui sono state valutate le sue capacità.

Dopo l’inchiesta sul caso Blister, con il sindaco Pezzoni e quattro assessori accusati di abuso d’ufficio, ecco quindi un’altra tegola. Non siamo sicuri sarà l’ultima perché l’esperienza insegna che quando la terra ha preso a tremare (politicamente parlando, s’intende) le scosse di assestamento si susseguono. I calcinacci possono cadere in testa a chiunque.

Ecco perché sarebbe stato meglio, di sicuro più responsabile, fare tutti un passo indietro, lasciando nelle mani di un commissario una doverosa fase di decantazione prima di gettarsi, ognuno con i propri argomenti e i candidati migliori, nella accesissima campagna elettorale che si scatenerà l’anno prossimo. Ma come dimostra il caso, pur diversissimo, del sindaco di Roma Ignazio Marino, sulla razionalità prevale sempre un senso di onnipotenza che fa sì che ci si ritenga indispensabili a prescindere. Con il risultato che quella che poteva essere un’uscita di scena dignitosa si riduce ad una ritirata tra i fischi e gli insulti.




Ubi Banca, la ragione in più per diventare spa

Ubi BancaA questo punto nulla osta a che sabato come da convocazione e da previsioni iniziali, Ubi Banca celebri a Brescia la sua assemblea e si trasformi in società per azioni, se così vorranno i soci. La terza sezione del Tar del Lazio ha respinto la richiesta di sospensiva cautelare della circolare della Banca d’Italia avanzata da alcuni soci, convocando l’udienza per la discussione al 10 febbraio, quando si terrà la riunione relativa anche ad altri ricorsi che la richiesta di sospensiva non l’hanno presentata. Quindi quest’oggi, giovedì 8 ottobre, quando si riuniranno i consigli di Ubi, convocati prudenzialmente in precedenza proprio per valutare le decisioni del Tar, non resterà che prendere atto che la situazione legislativa è esattamente quella di quando è stata indetta l’assemblea e che non ci sono ragioni per cambiare il programma.

Quella del Tribunale infatti non è stata una “non decisione”, ma ha stabilito quale è la normativa in vigore e quindi con quali regole si può tenere l’assemblea di sabato. A dire una qualsiasi Popolare un’assemblea per la trasformazione in società per azioni avrebbe potuto tenerla anche se non ci fosse stato l’obbligo di lasciare lo status di cooperativa entro la fine del 2016. E Ubi avrebbe potuto tenerla anche in caso di sospensiva dell’intera riforma delle Popolari. Il chiarimento necessario, arrivato in conseguenza della non sospensiva del Tar, è che sabato sarà possibile la limitazione del diritto di recesso deliberata in 350 milioni, pari al 5% del capitale e concessa dalle disposizioni attuative della Banca d’Italia. Se la norma fosse stata sospesa, il gruppo si sarebbe esposto al rischio di dover comprare a circa 7,2 euro l’una tutte le azioni presentate dai soci non favorevoli all’operazione. Considerato che ieri, mercoledì 7 ottobre, la quotazione in Borsa di Ubi era di 6,64 euro, il “premio” garantito di una sessantina di centesimi rispetto a quanto un’azionista potrebbe ottenere sul mercato, avrebbe potuto alimentare qualche speculazione ed esporre la banca a un improvvido depauperamento patrimoniale. Forse il rischio non sarebbe stato così alto – ma lo si saprà solo quando il diritto verrà effettivamente esercitato – e l’assemblea si sarebbe potuta tenere anche con diritto di recesso illimitato. In ogni caso l’udienza dal Tar ha tolto anche questa preoccupazione.

Quello che il Tribunale amministrativo regionale non ha potuto cancellare, e che inevitabilmente sarà il tema dell’assemblea, sono i dubbi sulla tempistica scelta da Ubi, oltre ovviamente alle perplessità, di fatto accademiche, sulla bontà di una legge, che però la banca non ha scelto, ma si trova a dover rispettare. Senza entrare nelle sterili elucubrazioni sul fatto che questa imposizione possa essere tutto sommato gradita a parte dell’azionariato, rompendo gli indugi e i tabù della intoccabile cooperativa, o sia una prevaricazione, la concreta discussione riguarderà la decisione di Ubi di trasformarsi subito in Spa e non aspettare, come sono orientate le altre Popolari, la primavera o addirittura l’autunno 2016.

La prima obiezione è che, in caso di accoglimento dei ricorsi o di qualsiasi modifica della legge, c’è la possibilità che Ubi si trovi ad essere una società per azioni, anche se avrebbe potuto evitarlo. Non si vedono i motivi di possibile impugnazione di una libera delibera dell’assemblea straordinaria secondo la normativa in vigore e quindi Ubi si sarebbe in quel caso effettivamente condannata a una natura che ufficialmente non desiderava.

Ma nel caso, non improbabile, che in futuro la normativa non cambi, il risultato di rinviare la trasformazione sarebbe stato per la banca quello di trovarsi in una situazione di precarietà e di debolezza di fronte, ad esempio, alle possibili aggregazioni. Risolvere la questione “cooperativa o spa” vuol dire trovare almeno un punto fermo in un mondo bancario dove anche le regole apparentemente stabili sono in continuo movimento. Ma Ubi ha una ragione in più, rispetto alle altre popolari, per una trasformazione precoce ed è quella del rinnovo cariche in programma in primavera. Appare un controsenso rinnovare con le logiche della cooperativa un consiglio che dopo pochi mesi si troverebbe a guidare una società per azioni. Più lineare sarebbe affidare una spa a un consiglio nato con le regole della spa. Su questo però non è d’accordo chi ritiene che in una cooperativa con il voto capitario, dove ogni socio vale un voto, possa sperare anche di conquistare il vertice, nella consapevolezza che in una spa, dove si contano le azioni, non avrà più alcun peso. Che questo vada nella direzione dell’interesse della banca è tutto da dimostrare: per sapere se questo scenario è veramente possibile, non c’è che da aspettare l’esito del voto.

 




Cari imbrattatori di fontane, la guerra è finita da 70 anni

Fontana LocatelliQuanto vale un eroe: quanto vale un vigliacco? Difficile dire: si tratta di due concetti plastici, per nulla identificabili con uno stato esistenziale, quanto, piuttosto, con uno stato dell’animo, che, come è noto, è ondivago nei sensi e nei sentimenti. Insomma, per farla corta, eroi o vigliacchi non si nasce e, forse, neppure si diventa: dipende dalle circostanze, dall’epoca in cui vivi, dall’educazione che ti impartiscono, dalle prove cui vieni sottoposto, dall’età, dal momento, da come ti sei alzato al mattino. Questo, in genere. Esistono, poi, persone o, meglio, personaggi, dotati di una maggior vocazione, eroica o vigliacca, degli altri: sono, in un certo senso, dei predestinati, per indole e per genetica. Antonio Locatelli era uno che, ad un certo punto della sua esistenza, dopo una vita tutto sommato comune, fatta di studio, di lavoro e di camminate in montagna, si è messo a fare l’eroe, e l’ha fatto per tutta la vita: fino a morirne, di eroismo. Cosa lo mosse non so dire: partito da via Paglia, che allora non si chiamava ancora così, approdò alla ricognizione aerea, e divenne il più bravo di tutti. Fece il podestà di Bergamo, ma lo silurarono, perché, già allora, se pestavi qualche callo importante, duravi pochino su quella cadrega.

Trasvolò le Ande, fece il deputato. Poi, venne la guerra d’Abissinia e il nostro, ormai in età da mettere la testa a posto, andò volontario: bombardò gli Abissini, cercando di accopparne il più possibile, come fa un qualunque soldato in qualunque guerra e, negli ultimi scampoli di una ribellione fuori tempo massimo, atterrò in territorio ostile e ci lasciò le penne. Detto così, sembrerebbe l’apoteosi dell’andarsela a cercare. Ma cosa ne sappiamo di come funziona un eroe? Cosa possiamo dire di uno che, dopo aver perso il carissimo fratello sulle groppe del Presena ed aver svolazzato per mezzo mondo, aveva ancora voglia di mettersi in gioco, a quarant’anni suonati, ed è andato a farsi ammazzare in Africa orientale? Magari, da bravi borghesi, potremmo anche fare spallucce e chiuderla lì: ma il Locatelli è anche il militare italiano più decorato d’oro che ci sia. Tre medaglie d’oro: Luigi Rizzo, l’affondatore della Vienna e della Santo Stefano, se n’ebbe due, si fa per dire, soltanto. E, allora, hai poco da fare spallucce, caro borghese: giù il cappello e alè!

Oggi, c’è il suo busto nella torre dei caduti, c’è una strada intitolata al suo nome, c’è una fontana che sembra un po’ un cifone di marmo, ci sono parchi, lapidi: c’è perfino il suo aeroplano, restaurato così e così, e conservato ad Almenno, mercè la sensibilità del museo del falegname “Tino Sana” (si vede che a Bergamo di gente sensibile ce n’era troppo poca!). Locatelli, da un po’ di tempo in qua, ossia da quando il solito organetto di Barberìa dell’antifascismo e della Resistenza si è un tantino sfiatato, un po’ per l’oggettiva senescenza dei suoi suonatori, un po’ per l’altrettanto oggettiva indigestione collettiva, che ha reso un filo inappetente il pubblico, è diventato il nuovo oggetto di culto delle vestali antifasciste. Va detto che queste vestali sono sempre alla cerca di qualche vulnere alla democrazia e che, come cani da trifola, si gettano con rara bramosia su qualunque soggetto possa prestarsi alle loro geremiadi o alla loro indignazione. In fondo vanno capite: leva loro l’indignazione e cosa ti resta? Qualche camicia dal colletto un po’ al limite, dei pantaloni di velluto a coste, due o tre libri che nessuno mai leggerà e un’autentica miniera di materiale d’archivio, composta, perloppiù, da indignazioni precedenti. Roba buona da conservare ad una posterità che, con perfetta nonchalance, al momento opportuno, adibirà alla ruera tutto il malloppo indignativo, unitamente alle camicie lise e a tutti i maledetti velluti. Eppure, nonostante l’incombere del bargnìf ed il mutar dei tempi, questi malmostosi professionali trovano sempre qualche battaglia da combattere, qualche trincea da difendere: in senso figurato, ovvìa, giacchè sono tutti rigorosamente antimilitaristi, obiettori o riformati alla leva. E si sono inventati l’antilocatellismo, nella parata di antiquesto ed antiquello su cui hanno costruito le proprie fortune: Locatelli era un fascista, la sua memoria è indegna di un paese civile! Eggià che era fascista: come lo erano quasi tutti gli Italiani di allora. Come lo era Eugenio Scalfari, che si pavoneggiava in divisa della GUF, come lo era Dario Fo, volontario della Rsi, come lo erano Bobbio, Bocca, il recentemente defunto Ingrao e via discorrendo. E così, care le mie vestali?

L’Italia era fascista, durante il fascismo: fatevene una ragione. Così come è diventata antifascista subito dopo. Volete sradicare le memorie del fascismo? Benissimo: faremo a meno delle Poste, del Lussana, della Borsa: cosa volete che sia? E andiamo, care le mie vestali: fatela finita! Pensate al futuro, anziché crogiolarvi in una guerra che è terminata da settant’anni: voi e i ragazzini che ascoltano le vostre bambocciate come fossero vangelo, e poi imbrattano fontane e monumenti. Tra non molto, sarete di fronte al Padreterno: e lì non sarà questione di fascismo o antifascismo, ma di umanità ed inumanità. Pensateci.




UBI Banca, le incognite sull’assemblea straordinaria

ubi45.jpgAnche se l’udienza del Tar del Lazio del 7 ottobre non dovesse decidere, come appare probabile, la sospensiva sui ricorsi presentati dagli oppositori alla riforma delle Popolari, ci saranno comunque ripercussioni sull’assemblea di Ubi prevista tre giorni dopo. Le organizzazioni alternative all’attuale governance dei presidenti Andrea Moltrasio e Franco Polotti hanno sempre avuto un cavallo di battaglia basato su un preciso “sospetto”, quello che sarebbe stata colta la prima occasione per trasformare la cooperativa in una società per azioni e consegnarne il controllo alla componente bresciana, ex Banca Lombarda.

Basare le critiche sui sospetti e sui “se” ha il vantaggio di non consentire smentite: di fronte all’osservazione che nei sette anni successivi alla nascita di Ubi non c’è mai stato un atto o una dichiarazione che prendesse in considerazione la trasformazione in Spa, c’è sempre stata l’obiezione tronca-repliche: “Sì, ma in futuro?”. Alla fine il futuro è arrivato con un obbligo di legge: la trasformazione in Spa imposta più che prevista, dato che l’unica reale alternativa sarebbe quella di ridimensionare drasticamente l’attivo (e l’attività). Il fatto che dalla banca, e più in generale dalle Popolari, non si siano alzate le barricate contro questo diktat è stato inizialmente visto come la conferma del sospetto. Poi a dire il vero, a parte i ricorsi al Tar che si aspetta adesso di vedere come andranno a finire, è prevalsa la generale consapevolezza che il dibattito tra cooperativa e spa non scalda più di tanto. Per essere schietti, della retorica della popolare interessa a pochi, e sicuramente non alla stragrande maggioranza dei soci che a perdere un sabato mattina in un’assemblea, fosse anche per un buffet di Vittorio, non ci pensano minimamente, preoccupati semmai se quotazione e dividendo restano strutturalmente bassi.

I ricorsi al Tar però hanno anche fornito l’imprevista occasione, la controprova finora mai resa possibile, di cancellare il sospetto che in fondo la Spa era l’obiettivo nascosto. I presidenti e l’amministratore delegato Victor Massiah hanno confermato che verrà valutato l’eventuale rinvio dell’assemblea in base alla decisione del Tar. Il messaggio è chiaro, come ha sintetizzato Massiah: “Se impongono la trasformazione, trasformiamo. Se non c’è l’imposizione, eseguiremo le norme”. Questo anche se, in via teorica, con il nulla osta della Banca d’Italia al nuovo statuto, l’assemblea straordinaria potrebbe comunque approvare la proposta di trasformazione in Spa, come è nelle sue competenze, e come hanno fatto in passato tante Popolari (anche se poi tutte subito, o poco dopo, hanno perso la loro autonomia, finendo per essere acquisite o entrando in altri gruppi), dalla Banca Agricola Mantovana all’Antonveneta o agli stessi istituti ora federati in Ubi. Sarebbe una conta che servirebbe a chiudere una volta per tutta la questione, dimostrando con ogni probabilità che gli stessi soci alla bandiera della Popolare preferirebbero una Spa se questa prospetta più efficienza e quindi più utili, più dividendi e quotazione più alta.

In caso di sospensiva da parte del Tar però l’operazione sarebbe oltremodo rischiosa, non tanto per i possibili cavilli sulle maggioranze che si dovessero comporre in un’assemblea poco partecipata, quanto per le conseguenze relative alla limitazione del diritto di recesso, concessa dalle disposizioni attuative che potrebbero essere sospese dall’udienza del Tar. Ubi ha stanziato un massimo di 350 milioni di euro per il riacquisto dei titoli oggetto di diritto di recesso al prezzo fissato secondo le norme a 7,288 euro. A decidere la convenienza del diritto di recesso è la quotazione: se è superiore è improbabile che venga esercitato, ma se è inferiore si crea un’occasione speculativa. Quando è stato annunciato il valore, la quotazione era poco più bassa e si poteva ipotizzare anche un recupero che avrebbe sterilizzato il rischio di un esercizio massiccio. Il calo delle Borse delle ultimissime settimane però ha allargato il divario tra quotazione e valore garantito di 7,288 euro: l’occasione di un recesso che “regali” quasi un euro (da moltiplicare ovviamente per il numero di azioni), senza lo scudo delle disposizioni attuative, in caso di sospensiva da parte del Tar, che prevedono la possibilità di limitarne il diritto, esporrebbe Ubi Spa al rischio di un’emorragia patrimoniale improponibile in tempi di Srep, l’esame degli indici europei. Così la controprova della popolarità della Spa sarà rinviata, mentre resta la dichiarazione di buona volontà per il mantenimento dello status quo da parte dei vertici di Ubi.




La brutta pagina di Pezzoni e i difensori dell’indifendibile

Giuseppe PezzoniUna rissa da saloon e il sindaco che lascia il municipio scortato dalle forze dell’ordine tra urla e fischi. Uno spettacolo davvero penoso quello andato in scena tra il tardo pomeriggio e la sera di martedì a Treviglio, degna conclusione di un Consiglio comunale al calor bianco. Non poteva che finire così, forse, perché è mancato, in un’Italia in cui la politica è ridotta a perenne lite da ballatoio, l’unico gesto di civile responsabilità che doveva essere fatto: le dimissioni di Giuseppe Pezzoni, il primo cittadino costretto ad ammettere (altro che gesto spontaneo, confessato su Facebook) di non aver mai conseguito la laurea grazie alla quale per oltre dieci anni ha insegnato e poi è diventato preside ai Salesiani di Treviglio. E così è toccato sentire, da parte di chi si è confessato un bugiardo e un truffatore, che non lascerà la poltrona per “senso di responsabilità nei confronti del Comune” e per portare a termine alcuni progetti avviati.

Parole vuote, giustificazioni che nulla valgono di fronte ad un principio elementare, evocato anche in una bellissima lettera del Provveditore agli studenti traditi dal finto laureato: il principio di legalità, al di sotto e al di sopra del quale non vi è nulla che possa esservi subordinato, l’unico cardine che può regolare una società civile. Per chi tradisce la fiducia della comunità, in questo caso “rubando” il posto ad altri che ne avrebbero avuto i titoli, esiste una sola soluzione: togliersi di mezzo, sparire, rinchiudersi in casa a meditare sulla propria incapacità a rispettare le regole. In America, dove amano semplificare le situazioni (e dove il falso è ritenuto sempre e comunque imperdonabile), si chiederebbero: compreresti un’auto usata da Pezzoni? Facile e scontata la risposta: un secco no. E allora, a maggior ragione, può chi ha depositato alla segreteria dell’Istituto scolastico un documento falsificato continuare anche per un solo giorno a vestire i panni del sindaco, cioè di colui che rispetto alla cittadinanza è il simbolo della legalità? No che non può. E’ venuto a mancare il presupposto principe, come se si volesse tenere in piedi una casa a cui sono crollate le fondamenta.

Ma il problema non è solo di Pezzoni, che comunque vada pagherà a caro prezzo la sua furbata. E’ soprattutto, verrebbe da dire, dei tanti che in questi giorni si sono esercitati in distinguo, fra l’ingenuo e lo strumentale, per cercare di sminuire la vicenda. “L’essere una bravo insegnante non dipende dalla laurea”, “Come sindaco è bravissimo, non vedo cosa c’entrino i suoi problemi professionali”: ecco due fra i concetti più ricorrenti tra i buonisti. Ai quali bisogna aggiungere gli esponenti delle forze politiche che hanno sostenuto Pezzoni. Si rimane basiti a leggere le dichiarazioni equilibriste del leghista Daniele Belotti, uno noto per essere implacabile castigamatti degli avversari ma evidentemente vittima di una doppia morale quando la marachella appartiene ad uno del proprio schieramento. E che dire di Andrea Cologno, che chiede il rispetto degli elettori che hanno votato il sindaco contaballe, del tutto incurante di una tradizione della destra che sul rigoroso rispetto della legalità senza se e senza ma ha costruito tante battaglie?

Sono questi i segni più evidenti di un nodo tanto più grande delle sorti di Pezzoni e dell’Amministrazione comunale di Treviglio. Fino a che non sarà consapevolezza diffusa che osservare le regole non è un fastidioso orpello ma un esercizio quotidiano su cui si fonda una società non usciremo mai da quella condizione di minorità rispetto alle altre principali democrazie del mondo che inaridisce tante energie. Peccato che a non rendersene conto siano per primi quelli che cercano di difendere l’indifendibile.




Dalle false lauree alla Vw, meglio convivere col verosimile

vw-logoManzoni, sull’onda del Romanticismo imperante, ci rifilò il Verosimile: cose che non erano la realtà, ma che, pure, si lasciavano scambiare tranquillamente per la realtà. A nessuno, ad esempio, suona strano che una contadina ed un operaio brianzoli, agli inizi del XVII secolo, si esprimessero come un avvocato o un ingegnere fiorentino dell’Ottocento: questione di verosimiglianza. D’altronde, se Renzo e Lucia fossero stati creati in ossequio alla realtà, non avrebbero insegnato niente a nessuno: anzi, quasi tutti i lettori non avrebbero neppure capito cosa dicevano. Il punto è che il Verosimile esiste in una visione educativa della rappresentazione delle cose: è funzionale ad un utilizzo esemplare della storia e delle vicende umane. Però, in fondo, rimane una balla. Una balla ben confezionata, ben infiocchettata, ben camuffata, ma pur sempre una balla. La verosimiglianza sta alla nostra mente come il trompe l’oeil sta ai nostri occhi: ci apre orizzonti nuovi, spalanca finestre inesistenti, dilata paesaggi, simula architetture. E’ tutto bello, ma è tutto finto. D’altronde, proprio il Manzoni postulava essere la bellezza uno strumento per conseguire l’utile: il maledetto utile, che ha sempre affossato certa letteratura, certi libri, certe idee didattiche in bocca a certe professoresse, con certe borsette. Ora, la questione dell’oggi non è più quella dell’uso didascalico della verosimiglianza: il problema si è fatto più semplice e più stringente ad un tempo. La questione è quella del riconoscere il Verosimile dal Vero. Perché, a pensarci bene, uno a capire che una contadina secentesca che parla il toscano dei Benparlanti sia un caso patente di verosimiglianza manzonica ci può ben arrivare per conto suo. Però, se la balla è circostanziata, ubiqua, onninamente invasiva, alla fine, il poveraccio non la distingue più: come fa a sapere che è una balla? E qui cade l’asino: ossia noialtri, generazione di somari digitali.

A forza di relativismi, di chomskismi, di benaltrismi e di tutto il variegato assortimento di –ismi che quest’epoca progressiva e magnifica porta seco, abbiamo perso la capacità di riconoscere la panzana, quando ce l’ammanniscono in carta argentata. Siamo talmente costretti a dubitare quotidianamente della nostra vista, dell’olfatto, del tatto, dell’udito, del gusto, che, esausti, abbandoniamo le difese, caliamo la guardia, ed accettiamo supinamente il declino della realtà, la vittoria del Verosimile. Vediamo cose che non sappiamo giudicare: un missile che parte e che esplode. Chi l’ha lanciato? Chi se l’è beccato in testa? Dobbiamo fidarci, anche se, dentro di noi, percepiamo vagamente di stare prendendola in saccoccia. E questa carne sarà carne? Quest’olio verrà da olive italiane? La fanciulla possiede davvero quel clamoroso decolleté, o è il prodotto di bisturi ed ingegneria plastica? Vedete bene che, alla fine, ci si deve arrendere: non si può fare analizzare ogni cucchiaio d’olio, non si possono palpare le tette a tutte le donne del mondo! Così, il Verosimile vince: per forza vince, per abbandono, esaurimento, fate voi. E il ciarlatano prospera, coccolato, garantito e giustificato da un intero sistema di pensiero: addirittura, la denuncia di certune palesi contraffazioni della realtà giova al Verosimile, come il prosperare delle cellule giova alle neoplasia.

Prendiamo il caso della Volkswagen, che sembra rallegrare tutto quell’esercito di sciovinisti deboli di logica e di meningi che vedono nella figuraccia degli spocchiosi alemanni solo una sorta di rivincita dei poveracci, dei vituperati Welschen: o che vi credete, grulli, che si tratti della verità che, alla fine, vince sempre? E’ una versione attualizzata della seconda guerra mondiale, anime sante: gli Usa che sgambettano la Germania, per vendere loro quel che non vendono gli altri. Pensate davvero che l’ideuzza di gabbare gli ecologisti sul tema delle emissioni sia venuta solo ai Tedeschi? Ovvero, un Paese che ha usato il protocollo di Kyoto per nettarsi il fondamento, vi pare l’accusatore ideale, in una causa per inquinamento? Dubito ergo sum, avrebbe chiosato il Descartes. Niente è come sembra: dalle marmitte ai titoli di studio, dai bilanci alle bilance. Per questo, miei cari lettori, vi invito a rassegnarvi: a convivere serenamente con il Verosimile. Piegate il capo, di fronte alla dittatura della bugia: non si può evitare, in un mondo come questo, di essere ingannati, raggirati, presi per i fondelli. Ma, perlomeno, abbiatene coscienza: rassegnatevi a mente lucida, per così dire. Questo vi eviterà di cadere dal pero, le rare volte che le panzane verranno svelate: non resterete con la bocca aperta, come un bambino davanti alla vetrina di un giocattolaio. E, infine, vi incazzerete di meno, se le cose non vi giungono inaspettate. Non c’è figura più da fesso di quella di chi dice: e chi l’avrebbe mai detto?




Perché è tempo di tagliare i privilegi ingiustificati

calcolatrice - fisco - tasseSe la politica avesse dedicato ai problemi dell’economia reale un centesimo dell’attenzione prestata a una riforma importante, ma così lontana dagli interessi della collettività, come quella del Senato, forse la ripresa potrebbe essere più consistente. E’ però auspicabile, adesso, che nelle prossime due settimane ci sia maggior concentrazione sulla preparazione della “manovra” che deve essere presentata entro metà ottobre, tirando le somme su quanto ipotizzato negli ultimi mesi, in modo da vedere cosa si potrà concretizzare e cosa invece resteranno

chiacchiere estive, buone per riempire i giornali nel momento del calo di notizie agostano. Un’indicazione saggia è arrivata. “Se si decide di fare riduzioni fiscali, bisogna che si faccia anche la riduzione delle spese corrispondenti: bisogna fare la cosa più efficace dal punto di vista economico”. A dirlo, purtroppo, è stato Pierre Moscovici, commissario europeo per gli affari economici e monetari. Si premette il “purtroppo” perché i consigli di Bruxelles sono sempre maldigeriti a Roma che a volte si ostina a fare il contrario quasi per partito presto. E in effetti l’orientamento è quello di arrivare a una legge di Stabilità ingannevole fin dal nome. L’idea di stabilità è infatti legata all’equilibrio che in un bilancio dovrebbe vedere un pareggio tra entrate e uscite, dando per scontato che queste siano relativamente contestuali anche dal punto dei finanziamenti. Invece il governo rende instabile la legge di stabilità trovandone l’equilibrio grazie al finanziamento in deficit, cioè rinviando al futuro il pagamento con interessi delle spese attuali, a seguito di un mix di maggiori oneri (alcuni resi obbligatori da sentenze che cancellano tagli precedenti), di minori entrate (la riduzione di tasse previste) e di mancate riduzione di spese. Il principale taglio che si prospetta è infatti alla Spending review che, secondo le promesse pre-estive, doveva essere la fonte di finanziamento per la riduzione delle imposte, come del resto ricorda Moscovici nell’ingrato ruolo di “grillo parlante” per la politica Pinocchio, suggerendo tra l’altro che soluzioni fiscali efficaci per la competitività sono quelle che riducono le tasse sul costo del lavoro e sulle imprese. Sottintendendo: “Non quelle che tagliano Imu e Tasi sulla prima casa”.

Attualmente dai 10 miliardi attesi dalla revisione degli sprechi o della spesa superflua si è già scesi a 6-7, ma il taglio probabilmente non si fermerà, come non si è fermato negli anni scorsi. Resteranno soprattutto alcune agevolazioni a categorie speciali nate in condizioni diverse dalle attuali e che a questo punto sono diventati dei privilegi. E’ il caso, ad esempio, degli sgravi sulle accise per i carburanti (valore 1,4 miliardi) giustificabili per non mettere l’autotrasporto in ginocchio quando il petrolio era salito a 100 dollari al barile, ma meno comprensibili, anche inserendo il fattore cambio, quando il prezzo è sceso a meno della metà. E’ il caso delle 13 esenzioni per l’agricoltura (valore 2,3 miliardi), è il caso dei crediti d’imposta concessi per quasi 200 milioni agli armatori per metterli in condizioni pari ai concorrenti greci (che però i loro li stanno per perdere come condizione per il salvataggio di Atene da parte dell’Europa) ma lo è soprattutto per una serie di detrazioni concesse apparentemente in base al reddito, ma che rappresentano ancora, nonostante l’introduzione dell’Isee, un “premio” a chi pratica quell’evasione fiscale che l’agenzia delle Entrate stima in 91 miliardi di euro per le sole imposte erariali, una cifra che rappresenta quasi tre volte la manovra in arrivo.

Chi si “autoriduce” la dichiarazione infatti può ancora scaricare sulle spalle di chi compila onestamente il suo 730 le spese per il veterinario o le rette nelle scuole private, godendo di sconti, tariffe agevolate o anche di autentici regali, come i “buoni scuola”, ai quali non avrebbe diritto in base al reddito-patrimonio reale. Questa situazione è l’immagine che sintetizza la schermaglia riguardo al fatto che la “sinistra sia il partito delle tasse”, come ha continuato a proclamare per anni in tutte le sedi possibili Silvio Berlusconi, oppure al contrario che “tagliare le tasse sia di sinistra” come twitta Matteo Renzi: di sicuro non è di sinistra chi non si preoccupa di abolire privilegi ingiustificati.