Spegniamo i riflettori su Calderoli: il paese non merita le sue burle

Roberto Caledroli
Roberto Caledroli

Roberto Calderoli lo conosciamo bene. Pur essendo persona dotata di intelligenza non comune, ha costruito la sua carriera politica sulle battute, sull’iperbole, sull’esagerazione elevata a condotta di vita. Calca i velluti del Parlamento ormai da più di vent’anni e non si può dire che non abbia saputo propinarci un cartellone di trovate quantomai variegato e variopinto. Gli 83 milioni (ma sono subito diventati 85 e oltre) di emendamenti alla riforma del Senato rappresentano solo l’ultimo exploit. Non il più clamoroso e, malgrado sia già partito il coro dei moralisti, nemmeno il più esecrabile. Inutile star qui a ricordarli tutti: dalle magliette anti-islam alle battutacce a sfondo razziale (i bingo bongo extracomunitari e la Kyenge derubricata a orango).

Stavolta ha tenuto la bocca chiusa preferendo affidarsi alle risorse dell’informatica, con quell’algoritmo che gli ha permesso di scaraventare addosso a Palazzo Madama decine di milioni di emendamenti. Roba che se fossero stampati comporterebbero lo spreco di tonnellate di carta. Davvero un curioso paradosso per chi una volta si è erto a novello Nerone dando letteralmente fuoco a migliaia di leggi inutili (che poi siano state effettivamente cancellate è tutto da dimostrare). Senza dire che già poche settimane fa, quando le proposte di modifica erano poco più di 500 mila, aveva pensato bene di utilizzarle come merce di scambio per la concessione della grazia ad Antonio Monella, l’imprenditore di Arzago d’Adda in carcere per aver ucciso un ladro albanese. Operazione abortita, salvo che poi è rientrata, grazie alla compiacenza dei senatori del Pd, per ottenere una autorizzazione a procedere mutilata dell’aggravante della discriminazione razziale per il greve insulto riservato all’ex ministro di colore.

Ed è proprio qui il punto su cui occorrerebbe riflettere se non prevalesse l’istinto ad abbandonarsi ad un emotivo, seppur motivato, senso di vergogna per le sue gesta. Bisognerebbe infatti mettersi d’accordo una buona volta sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Calderoli. Scusateci la brutale semplificazione: è un saltimbanco, un guitto che usa la politica come palcoscenico oppure è l’uomo che conosce alla perfezione i regolamenti parlamentari, che assolve al meglio la funzione di vice-presidente del Senato, che è considerato da molti un valido interlocutore su materie costituzionali? In questi anni ha dimostrato di saper essere l’uno e l’altro, una sorta di dottor Jekyll e mister Hide, con il quale di volta in volta abbracciarsi o litigare furiosamente. Ma si può continuare ancora così? Non sarebbe invece arrivato il momento di stabilire un discrimine, cioè il rispetto delle istituzioni (e magari pure del buon gusto), oltre il quale non si può andare?

In fondo, Calderoli vive e prospera fintanto che viene considerato dagli altri inquilini del palazzo. Se lo si lascia a divertirsi nel suo brodo, interrompendo qualsiasi forma di dialogo, forse lui per primo potrebbe chiedersi l’utilità di perseverare nel buttare in burla quanto di buono riesce ad elaborare. Spegniamo i riflettori e smontiamo il palcoscenico. Una buona dose di indifferenza può essere davvero l’unica arma letale.




Sea-Sacbo e Faac di Grassobbio, gli ultimi scivoloni della Lega

Matteo-Salvini-1Forse non hanno molti torti quelli che dicono che il tallone d’Achille dei leghisti è l’economia. Nel senso che quando devono passare dalle declamazioni tonitruanti ai fatti mostrano idee pasticciate e contraddittorie, certo non riassumibili in una vera e propria piattaforma programmatica come si converrebbe ad una forza politica che aspira, assumendo la leadership del centrodestra, a guidare il Paese. Due casi fra i tanti, presi dalle notizie degli ultimi giorni, aiutano a capire cosa intendiamo.

A proposito dell’ipotesi di aggregazione tra Sea e Sacbo, per le quali si profila la nascita di una nuova società partecipata in maniera diversa da entrambe (quella che si definisce “newco”), il presidente della Regione Roberto Maroni ha fatto sapere che sarebbe interessato ad entrare nella compagine azionaria. “Non per comandare – ha tenuto a precisare con involontario umorismo – ma per favorire lo sviluppo del sistema aeroportuale lombardo”. Di qui la disponibilità ad investire svariate decine di milioni di euro per acquisire una partecipazione. Benissimo. Ma c’è da chiedersi dove viva il governatore leghista e se non possa spendere qualche minuto del suo preziosissimo tempo per cercare di capire cosa sta avvenendo nel mondo aeroportuale italiano ed europeo. Perché è l’esatto contrario di quel che pensa lui. La parola d’ordine è privatizzare, altro che investire nuovi soldi pubblici nelle società di gestione. Che poi si scelga la vendita di pacchetti azionari a grandi realtà che fanno quello di mestiere o si preferisca la via della quotazione in Borsa, quel che è certo è che la stagione delle partecipazioni statali, o regionali in questo caso, è irrimediabilmente, e giustamente, finita. Senza dire che, per quanti soldi possa metterci Maroni (per conto dei contribuenti lombardi, non scordiamocelo), la quota che potrebbe arrivare a detenere la Regione sarebbe comunque modesta, non tale da influire in alcun modo nelle decisioni. E allora, cui prodest? Non è gestendo aeroporti, come un tempo lo Stato produceva panettoni, che il Pirellone può essere utile. Semmai bisogna lavorare per creare tutte le condizioni, infrastrutturali e non, perché gli scali possano svilupparsi al meglio. A ciascuno il suo, insomma. La Regione si batta e investa per strade e autostrade, per collegamenti moderni e tecnologicamente all’altezza dei tempi. Alla gestione del traffico aereo baderà meglio chi ha come sua ragione di vita (e di business) questo compito. Solo così ognuno è in grado di essere utile e complementare all’altro, senza quelle invasioni di campo tra controllati e controllori che anche nella modesta realtà bergamasca hanno dato e danno parecchi problemi.

Ma il singolare modo di vedere l’economia da parte dei leghisti emerge anche dalla discussa vicenda della chiusura dello stabilimento della Faac di Grassobbio. Come è noto, il leader del Carroccio Salvini ne ha fatto un cavallo di battaglia dopo aver scoperto, con ritardo di qualche mese, che la proprietà della società appartiene alla Curia di Bologna (che l’ha ricevuta in eredità). Il ragionamento leghista è semplice: se il padrone è la Chiesa, per sua natura il soggetto che aiuta i deboli e censura chi non lo fa (vedi le polemiche sui rifugiati), come fa a lasciare per strada 50 lavoratori? E’ uno scandalo, qui si predica bene e si razzola male, hanno gridato a più voci dal palco della Bèrghem Fest. La fabbrica avrebbe dovuto rimanere aperta, comunque. Ma visto che il danno è stato fatto, pur avendo la Faac conti floridi, beh allora, è stata l’ultima trovata di Salvini, si devolvano ai lavoratori licenziati gli utili che la società genera. Davvero un gran bel ragionamento, che verrebbe quasi voglia di sottoscrivere entusiasticamente se non fosse che qualche dubbio si insinua nella mente. Per esempio, la Faac è una società per azioni che opera sul mercato, soggetta alla concorrenza del libero mercato, e quindi obbligata a muoversi secondo le leggi dell’economia, oppure è un ente di volontariato, di assistenza ai lavoratori, un mutuo soccorso? Per stare in piedi e svilupparsi (e quindi continuare a garantire occupazione a centinaia di persone) la società deve seguire una sua strategia, certo non unica e quindi soggetta a legittime critiche, che può magari comportare anche qualche soluzione dolorosa, o deve perseguire logiche assistenzialistiche? Se un giorno dovesse accusare delle perdite potrebbe chiedere ai lavoratori di contribuire al ripianamento con i loro stipendi? E ancora, come è già stato osservato, perché la Lega stessa quando si è trovata a non avere più quattrini in cassa ha messo sul marciapiede una settantina di lavoratori? Non potevano, Salvini e i suoi, tagliarsi un pezzo del lauto stipendio che ogni mese incassano per assicurare ai loro (ex) dipendenti un salario? I grillini, per esempio, destinano buona parte del loro emolumento a un fondo destinato alle piccole e medie imprese. Qui, in definitiva, si trattava di una operazione minore. Ma non è stata nemmeno presa in considerazione. E allora viene il sospetto, o qualcosa di più, che pur di scatenare contro la Chiesa una polemica velenosa si sia lasciata da parte la coerenza. Vizi privati e pubbliche virtù, si diceva un tempo. Per Salvini vale ancora oggi.




Sea-Sacbo, un’ integrazione con troppi punti interrogativi

Orio-al-serio-aeroporto ritSe il frutto dello studio fosse tutto nella “Relazione di sintesi in merito alle condizioni di realizzabilità del processo di integrazione tra le società Sea e Sacbo” diffusa lunedì non si capirebbe assolutamente perché siano stati necessari più di tre mesi, sforando addirittura la data di scadenza prevista, per partorire quindici pagine utili a dimostrare, su dati storici, che l’unione tra Sea e Sacbo, gestori degli scali di Milano (Linate e Malpensa) e di Bergamo (Orio al Serio) è cosa buona e giusta.

Dal punto di vista industriale, non ci voleva molto per capire che l’integrazione era una “prospettiva valida”. Anche perché non poneva alternative. Dato che Sacbo ha tirato troppo a lungo sulla scelta tra alleanza a Est (con Brescia e i veneti) o a Ovest (con Milano), alla fine ha trovato gli altri che hanno scelto per lei. Dopo la rottura con Save, gli aeroporti di Venezia, non è rimasto alla Sacbo che restare da sola, con il rischio di essere stritolata tra due giganti, oppure andare con Milano. Un partner sicuramente non alla pari, dato che Sea nel 2014 (curiosamente nello studio sono stati riportati i dati del 2013 e non quelli dell’ultimo bilancio già ampiamente disponibili) ha realizzato ricavi sei volte superiori, utile dieci volte superiori ed ha trasportato il triplo di passeggeri.

Quello che infatti non si conosce ufficialmente è il lato segreto, che non si può immaginare non sia stato esaminato, nello studio, ovvero come realizzare concretamente questa integrazione. In altre parole, decidere chi comanda, quanto si conta e quanto ci si guadagna. Ufficialmente è un muro di silenzio, dal quale trapelano alcune indiscrezioni, come l’ipotesi di stampa della creazione di una nuova società dalla fusione dei due gestori dove i futuri ex soci Sacbo potrebbero avere il 35% o addirittura fino al 40%. Sono percentuali che effettivamente, se confermate, spiegherebbero le buone ragioni per tenerle segrete, perché piuttosto imbarazzanti per il Comune di Milano, azionista di controllo della Sea con il 54,8%, che dovrebbe spiegare ai suoi cittadini, chiamati a votare in primavera il nuovo sindaco, le ragioni di questa sopravvalutazione dell’aeroporto di Orio.

Ma l’offerta generosa diventa imbarazzante anche per la parte bergamasca proprio perché allettante e difficile da rifiutare. L’unione con un partner più grande di fatto farà inevitabilmente scomparire la peculiarità territoriale di Orio che diventerebbe a tutti gli effetti un aeroporto milanese, come già viene considerato a livello internazionale, tanto bergamasco quanto Malpensa è uno scalo varesino. Questo è inevitabile, dato che non si può pretendere una fusione alla pari, e l’offerta generosa è il compenso della inevitabile rinuncia alla sovranità. Una quota che in ogni caso è destinata con ogni probabilità a cambiare in un futuro prossimo. Concedere ai soci Sacbo anche il 40% del capitale della nuova società che nascerà dalla fusione vuol dire in realtà (dato che Sacbo è partecipata al 30% da Sea) che agli azionisti bergamaschi (considerando come tali anche il veronese Banco Popolare e Ubi che da soli hanno ora quasi un quarto del capitale della Sacbo) resterebbe il 28% della Sea-Sacbo. Ma è anche dichiarata l’intenzione di procedere a una futura quotazione in Borsa, operazione già tentata in passato senza esito dalla Sea in solitaria, per portare nuove risorse. Una ricapitalizzazione di questo genere non si fa vendendo azioni già in circolazione, anche se non si esclude che qualche socio potrebbe approfittare dell’occasione, ma con emissione di nuove azioni e si può facilmente immaginare che gli enti pubblici bergamaschi (Comune, Provincia e Camera di Commercio), che insieme hanno ora circa il 40% della Sacbo, vedranno diluire ulteriormente la loro quota perché hanno problemi di bilancio che non permettono ulteriori sottoscrizioni. E’ facilmente ipotizzabile, tra l’altro, che questo discorso sia già stato inserito nella parte “segreta” dello studio relativo alle modalità di integrazione.

L’operazione, comunque, se la si guarda allontanandosi dal territorio è difficilmente contestabile dal punto di vista industriale: fa nascere la seconda società italiana del settore, a poca distanza dal polo romano in termini di passeggeri, fa diminuire il rischio di impresa, permette sinergie di efficienza e migliora il ventaglio di servizi per i passeggeri. Anche quella che viene considerata una criticità, l’allentata pressione competitiva sul bacino territoriale, è tutta da dimostrare. Può essere anzi un punto di forza, se non se ne abusa, che contrasta l’attuale strapotere delle compagnie aeree nell’imporre le condizioni. Ryanair che in pratica è il vero proprietario di Orio dato che assicura nove voli su dieci e se dovesse lasciare lo scalo gli toglierebbe l’ossigeno vitale, vede male le concentrazioni degli aeroporti proprio perché rafforzano la sua controparte. Questa, in pratica, è la traduzione del pensiero dell’amministratore delegato Michael O’Leary, quando ha dichiarato “è meglio avere aeroporti in concorrenza tra di loro, perché i monopoli non fanno bene ai consumatori e al mercato e aumentano i costi”.

Ma Sea-Sacbo non potrebbe comunque tirare troppo la corda, perché un vicino concorrente ce l’ha, seppure al momento solo potenziale, ed è Montichiari, l’aeroporto bresciano attuale estrema propaggine occidentale del grande polo che si è creato tra gli aeroporti veneto. Attuale perché il suo destino è legato al ricorso presentato proprio da Sea contro la concessione assegnata alla veronese Catullo, ora nell’orbita della Save di Venezia, senza una gara europea. Non è detto che in caso di nuova gara poi Sea risulti vincitrice e riesca a completare con Montichiari il cerchio della gestione di tutti gli aeroporti lombardi. Di certo in ogni caso la logica alla quale si deve guardare non è più quella provinciale alla quale ci è abituati, ma quantomeno quella regionale, se non una ancora più grande.

 




Renzi vola a New York e il mio fegato s’ingrossa

Renzi Pennetta VinciBerlusconi non mi piaceva: non gli ero ostile politicamente e nemmeno m’infastidiva il suo esibizionismo da ganassa. Però, le ferite che è riuscito ad infliggere al Paese, involgarendolo, introducendo la sua logica secondo cui la cultura non conta nulla, perché non produce guadagni immediati, e la sua idea utilitaristica e bottegaia di umanità, davvero non posso perdonargliele. E ancor più, se possibile, non mi piace Renzi. Ci sono azioni che, pur nella loro assoluta ininfluenza sul piano politico e storico, rappresentano, per così dire, delle icone epocali: quella di Renzi che vola, con un aereo di Stato, a New York a vedere la finale degli Open, secondo me, è il marchio che bolla questo politicante toscano, che governa l’Italia senza che nemmeno un Italiano gliel’abbia chiesto, come un monumento assoluto alla più spensierata arroganza, alla più indifferente, teatrale ed egoistica gestione del potere. Devo, a questo punto, fare due premesse.

La prima è che io gioco, con esiti catastrofici, a tennis da tutta la vita: amo questo sport psichiatrico ed individuale e credo di conoscerne ed apprezzarne molte sfumature. Ne ammiro le regole civilissime, le abitudini sportive ed eleganti e il pubblico, educato e, quasi sempre, competente: in poche parole, lo trovo uno sport perbene. Proprio per questo, lo contrappongo da sempre al football, sport bellissimo, ma afflitto da un retromondo di una volgarità e di una scorrettezza impressionanti, oltre che da un pubblico tra i meno competenti e più incivili. Inevitabilmente, in Italia, questo mi ha portato a lamentare sempre l’insopportabile deriva calciocentrica delle televisioni: soprattutto di quelle pubbliche, che dovrebbero tener conto dei gusti e delle esigenze di tutti. Per fortuna, di riffa o di raffa, i tornei ATP e WTA sono visibili in chiaro su reti specialistiche, e, quando posso me li guardo con grande godimento. Tutti, tranne gli Slam, che sono esclusiva delle Pay TV e che, perciò, sono preclusi a chi non sottoscriva qualche abbonamento.

In seconda battuta, sono del tutto certo che Renzi non distingua una racchetta da tennis da un colapasta: dirò di più, che non gliene freghi nulla di chi vinca Wimbledon o il Roland Garros, fosse pure il suo dirimpettaio. Ora, un presidente del consiglio, non si dice bravo, ma, almeno, normale, dovrebbe pensare agli Italiani e non a se stesso: sempre, solo, esclusivamente a se stesso. Non dovrebbe considerare l’Italia come il proprio parco giochi e gli strumenti istituzionali come i suoi passatempo. Questo, nello specifico, significherebbe preoccuparsi di quegli Italiani che non possono mai vedere il proprio sport preferito sulle tv di Stato (e sono milioni di praticanti), facendo pressioni perché la Rai diventasse un tantino meno parziale nei propri, già desolanti, palinsesti. Invece, cosa fa il Nostro? Prende l’aereo e va a vedersi la finale, tanto per fare un siparietto ad usum delphini. E noi? Dovremmo applaudire? Sentirci felici per lui? Ma chissenefrega se Renzi si vede la finale a scrocco? Se stringe due mani, bofonchia due imparaticci in un inglese da film comico, proclama la grandezza dell’Italia, del tennis italiano, delle tenniste italiane, risale a bordo e torna a casa sua, nella nostra vita non cambia un bel nulla. Anzi, semmai il nostro fegato s’ingrossa, nel vedere dei privilegiati che non sanno neppure chi siano le finaliste degli Open, volare a New York a fare un po’ di cabaret. Ecco, per questo Renzi davvero non mi piace: perché dimostra una totale, abissale, irresponsabile mancanza di rispetto per la gente. Denuncia un’arroganza degna, non di Berlusconi, ma di qualche dittatorello nordafricano d’altri tempi. E, domani, spenti i riflettori e smaltita la sbronza di felicità, sulla Pennetta, sulla Vinci e su tutte le bravissime atlete che fanno onore al nostro Paese, calerà di nuovo il sipario: torneremo a sorbirci interviste, moviole, dirette, di partite di serie A, B, C e D. Mentre lui, Renzi, siederà in soglio, idol placato. Ecco, io questo modo di concepire le istituzioni, la politica, l’amministrazione del Paese, proprio non riesco a digerirlo: mi pare ignobile, inaccettabile. E, a volte, anche una semplice partita di tennis, che, in fondo, non cambia nulla, può essere la cartina tornasole di un Paese di sudditi e non di liberi cittadini. E di satrapi, travestiti da uomini di governo. Perché a New York, Renzi non ha rappresentato l’Italia, ma solo se stesso: non puoi rappresentare qualcuno di cui ignori tutto e di cui niente ti importa. Così, l’Italia vera si stringe attorno alle nostre due bravissime tenniste, abbracciandole e condividendone la gioia, da lontano, senza voli di Stato e comparsate da due lire. E, mannaggia, senza nemmeno poterle vedere.




Il “mistero” Sorte, fenomeno o sovraeccitato dalla poltrona?

L'assessore Alessandro Sorte
L’assessore Alessandro Sorte

L’assessore regionale alle Infrastrutture Alessandro Sorte è un giovanotto che aborre la normalità. Lavorare in silenzio, con umiltà, per cercare di portare a casa i risultati è cosa che non fa per lui. Troppo banale e scontato. Non in sintonia con questi tempi in cui basta sparacchiare dichiarazioni ad effetto, magari senza alcun contatto con la realtà, per guadagnarsi ampi spazi sui giornali. L’ultimo esempio è di pochi giorni fa e per il ragazzo di Brignano è stato un vero trionfo. Roba da stomaci forti. Per chi non avesse avuto la ventura di imbattersi nella strabiliante performance, provvediamo noi ad un breve riassunto, con l’avvertenza di tenersi le mascelle per non slogarsele nella sganasciata che inevitabile si scatenerà alla lettura delle parole del prode assessore. In un sol botto, infatti, Sorte ha annunciato che ha trovato i 15 milioni che mancano per portare a termine la ormai leggendaria variante di Zogno (con tipico umorismo da paese il Nostro ha detto che non può diventare “la Salerno-Reggio Calabria in salsa orobica”…); che la Regione è pronta a comprare le azioni di Sacbo che la Provincia vuole vendere (ma subito il presidente Matteo Rossi ha precisato che non ci pensa nemmeno…) e che comunque il Pirellone vuole fare da regista del sistema aeroportuale lombardo (senza nessun potere normativo e magari con una piccola quota? Davvero una min… colossale); e infine che arriveranno tre nuovi treni sulla linea Bergamo-Milano (ennesimo annuncio di una serie che pare non avere mai fine mentre le condizioni in cui viaggiano i pendolari, e chi scrive lo constata di persona ogni giorno, sono indegne di un paese civile). Ora, delle due l’una: o Alessandro Sorte è un fenomeno, uno statista in sedicesimo destinato a diventare un padre della Patria vista la capacità rabdomantica di trovare una soluzione per ogni problema; oppure, siamo in presenza di un caso di sovraeccitazione da poltrona che rischia di provocare da un lato profonde delusioni in chi (incautamente) dovesse fidarsi di tante facili promesse e dall’altro un senso di prostrazione in chi un giorno, guardandosi allo specchio, potrebbe rendersi conto di aver abusato sia della propria intelligenza che della pazienza altrui. E’ già capitato in passato di occuparsi in maniera critica delle gesta dell’assessore. Qualche servo sciocco vi ha visto antipatia personale o pregiudizi. Nulla di tutto ciò. Semmai, visto che il rinnovamento (che passa anche dal ringiovanimento, pur se non limitato alla carta d’identità) della classe politica è quanto mai auspicato, si vorrebbe evitare che l’eccessivo ardore o l’inevitabile mancanza di esperienza possano indurre a commettere grossolani errori. Tali da spingere, come è già capitato, a dover rimpiangere che “si stava meglio quando si stava peggio”. Poiché Sorte ama circondarsi di vecchi cacicchi della Prima Repubblica ha a portata di mano l’occasione per farsi spiegare come e qualmente una classe politica che pure, complessivamente intesa sia chiaro, aveva saputo far crescere e sviluppare il Paese si è autodissolta fra scandali, malgoverno, promesse non mantenute. Un breve ripasso di storia, buono anche a impedire per qualche giorno altre sparate propagandistiche, al nostro assessore non potrà che fare bene.




Dopo Italcementi, riflettori puntati sulla Dalmine

tenaris (2)La cessione dell’Italcementi da parte della famiglia Pesenti, dopo lo smembramento dell’impero commerciale Lombardini, ha aperto gli interrogativi su quale potrebbe essere la prossima vendita di una grande azienda bergamasca da ritenere impossibile fino al giorno prima. Nel campo delle ipotesi il primo posto dove guardare sembra essere la carta d’identità: tra i grandi proprietari d’impresa bergamaschi abbondano quelli nati quando c’era ancora il Regno d’Italia e sono tutte da capire le decisioni che prenderà chi andrà al loro posto. La cessione non è da escludere come soluzione per il problema della successione generazionale. Un discorso particolare merita la Dalmine, complesso storico dell’industria bergamasca, che pure, formalmente, una proprietà veramente bergamasca non l’ha mai avuta, dalla Mannesmann alle Partecipazioni statali alla Tenaris dei Rocca, a conferma che in fondo quella dell’origine autoctona delle famiglie imprenditoriali è in buona parte retorica provinciale.

In ogni settore, con la domanda che precipita e quindi un eccesso di produzione, gli operatori cercano di difendersi contraendo l’attività, che vuol dire anche interventi di riduzione del personale. Alla ricerca del mantenimento dei margini spesso si realizzano aggregazioni e quando avviene la prima in genere ne seguono delle altre perché i più deboli e i più piccoli cercano in questo modo di non essere messi fuori da un mercato che anche così ritrova un suo equilibrio. E’ quello che è successo nel cemento, dove la fusione Lafarge-Holcim ha spinto verso l’acquisizione dell’Italcementi da parte di Heidelberg. Ma una situazione di sovrapproduzione simile si vede anche nei prodotti per l’industria petrolifera. Il settore dei tubi è abituato ad andamenti ciclici, ma questa volta oltre che per una domanda crollata per il calo dell’attività provocato dalla caduta del prezzo del petrolio, la sovrapproduzione è provocata anche dall’aggiunta di capacità produttiva dalla Cina. Tenaris, il gruppo della Dalmine, ha partecipato da protagonista, a metà dello scorso decennio, al precedente consolidamento del settore, con l’acquisizione di Maverick e Hydril. Una nuova fase sembra essere partita quest’estate con l’acquisizione da parte della Schlumberger della concorrente texana Cameron, un’operazione da 15 miliardi di dollari che crea il più grande operatore mondiale (59 miliardi di dollari di giro d’affari) nei servizi al settore petrolifero, in risposta alla precedente fusione da 35 miliardi di dollari tra le americane Halliburton e Baker Hughes, che erano la numero due e la numero tre del settore. Non si può escludere che la febbre delle fusioni investa anche le tecnologie del tubo per il petrolio, dove al momento tutti i grandi operatori, dalla Tenaris alla francese Vallourec ai gruppi giapponesi – l’industria cinese resta avvolta nel mistero – stanno attuando interventi vari, dalla riduzione di personale alla chiusura temporanea di impianti, per cercare di andare oltre la crisi.

Questa è comunque una di quelle situazioni dove sono stimolate le aggregazioni. Nel caso, Tenaris ha una solida posizione finanziaria (e la famiglia Rocca non manifesta intenzione di lasciare il campo) e quindi dovrebbe essere acquirente, più che venditore. Questo farebbe felici i campanilisti delle acquisizioni, ma, sempre nel campo delle ipotesi, essere dalla parte del compratore, opzione che in genere tutela il quartiere generale, paradossalmente non sarebbe una garanzia per lo stabilimento di Dalmine. In caso di aggregazione ci sarebbe comunque una valutazione sul piano industriale, per vedere se anche nello stesso gruppo c’è spazio per tutti, sempre ammesso che non ci siano richieste da parte dell’Antitrust. L’unica garanzia per la salvaguardia industriale alla fine non è nella cittadinanza del proprietario, ma nell’efficienza e nella competitività dell’impianto.




Chi se ne importa di padania o fanfaluche identitarie. Voglio strade senza buche!

buche-cartelli-rovinati-e-strade-dissestate_18La politica si nutre di uno striminzito vocabolario: qualche slogan da quattro soldi, due o tre ipotiposi che evochino, a seconda, serenità o rabbia, e un mazzetto di concetti buoni per tutte le stagioni. Salvini, oggi, usa un linguaggio “aderenziale”: gli hanno spiegato che enumerare le cose, contando sulla punta delle dita, fa molto pragmatico (e anche un tantino sensale di bestiame, il che non guasta), e lui conta, anche quando non c’è nulla da contare. Renzi e tutta la sua congrega, giù giù, fino agli assessori comunali, applica sistematicamente l’otomercanzia, ossia il fare orecchie da mercante quando gli si sottopone una questione: il loro vocabolario si fonda su termini anfibolici, mimetici, insomma insaponati al punto da essere inafferrabili. Vero è, però, che i preoccupanti scricchiolii della cadrega hanno indotto perfino i più mielosi ed imbelli a mettersi l’elmetto e scendere in battaglia: Marino, che è uno cui potresti fregare l’automobile mentre la sta guidando, ha riscoperto gli slogan grevi dell’antifascismo militante, mentre Renzi sintetizza le sottili differenze ideologiche tra PD e Lega paragonandole a quelle che separano gli uomini dalle bestie. Ma sono saldi di fine stagione: vedrete che le omelie ritorneranno, insieme alle rondini, a primavera. Ogni politica ha le sue parolette magiche: ogni politico ha un suo sistema, ed uno soltanto, per affrontare quella partita di briscola chiamata, che è l’amministrazione dell’Italia. Poi, c’è la gente. Alla gente non importa nulla delle parole che usi, se, alla fine, non combini una cippa.

Che tu sia un disutile che declama martelliani o che tace come un ghiozzo, per il popolo non cambia nulla: è la disutilità il dato sensibile, se rendo l’idea. Così, la gente ascolta e guarda: e, quasi mai, ciò che ci dicono le nostre orecchie coincide con ciò che ci mostrano i nostri occhi. Prendiamo, ad esempio, il problema dei problemi: il federalismo. Oggi, i più improbabili tiratori a campare hanno riscoperto le autonomie, mentre di federalismo non parla più nessuno: ieri, sembrava il pensiero dominante di tutti quanti. Cosa voglia dire federalismo si può scoprire in due modi diversi: il primo, che è il meno efficace e il più complicato, è quello di prendere un dizionario e cercarsi il lemma. Il secondo, enormemente più semplice ed istruttivo, consiste nel prendere l’automobile e andare a farsi un giretto. Percorrete la Valsugana, per esempio: a Caldonazzo, seguite le indicazioni per gli altipiani e godetevi serenamente il bel panorama. Ad un certo punto, la vostra attenzione sarà attirata da due diversi e contemporanei fenomeni: il primo sarà la comparsa di un cartello, che vi comunica che state lasciando il Trentino per entrare in Veneto; il secondo sarà un progressivo aumento del rollio e del beccheggio della vostra vettura. Perché, incredibile ma vero, un metro dopo il cartello confinario, cominceranno le buche: la strada sarà una specie di groviera.

Ripetete l’operazione a Ponte Caffaro, in Vallagarina, nel Primiero: il fenomeno si ripeterà con spaventosa esattezza. Ecco, questa è l’autonomia: questo sarebbe il federalismo, se a qualcuno venisse in mente di federarci. Di là, una strada liscia come un biliardo: di qui, un percorso di guerra. Ovviamente, il dato si potrebbe estendere a quasi tutti gli aspetti della vita pubblica: dai marciapiedi ai gerani sui balconi, dai finanziamenti per chi ristruttura agli investimenti nell’istruzione. Se si trattasse di fare un paragone tra Sudtirolesi e Siciliani, capirei qualche remora di ordine antropologico: regioni autonome, stessi vantaggi, due mondi contrapposti. Merano e Messina si somigliano come Lucerna e Katmandu. Ma qui stiamo parlando di una società del tutto affine: di popolazioni provenienti da una cultura affatto identica. La differenza sta nei soldi: nell’autonomia, appunto. Quell’autonomia che crea una sperequazione talmente clamorosa da saltare all’occhio, appena, in macchina, varchi quella linea immaginaria che separa la PAT dalla provincia di Belluno, di Verona o di Brescia.

E, dunque? Dunque, credo che, se la Lombardia o il Veneto godessero degli stessi privilegi di autonomia del Trentino, le strade venete e lombarde sarebbero come quelle trentine: non ci vedo grosse difficoltà. E i gerani, i marciapiedi, le scuole e le ristrutturazioni andrebbero di pari passo. Le regioni autonome, a mio modesto parere, sono un’ingiustizia intollerabile: non perché sia contrario all’autonomia, quanto perché sono favorevole all’autonomia di tutti e non solo di qualche privilegiato: id est il federalismo. Così, per me, che politico non sono, la parola ‘federalismo’ significa, essenzialmente, strade senza buche, e via discorrendo: non mi importa nulla di fanfaluche identitarie, di celthia, di padania o di brembania. Tanto, ormai, siamo una pasta e fagioli globale: che identità dovremmo difendere? Io parlo di privilegi, che, una volta estesi anche a noialtri, figli della serva, cesserebbero di essere tali. E si convertirebbero in denaro sonante. Quando Cappelluzzo propose un referendum per rendere Bergamo provincia autonoma, noi versavamo allo Stato, ogni anno, 1.900 miliardi di lire, e ce ne tornavano 90: provate a fare un paio di conticini. Con 1 miliardo di euro all’anno, immagino che qualche buca si potrebbe riempire: perfino se la si riempisse di banconote…




Referendum sull’autonomia della Regione, l’autogol di Rossi e Gori

Per guadagnare qualche titolo sui giornali la trovata è stata senz’altro efficace. Ma puzza di strumentalità lontano un miglio l’uscita con cui il presidente della Provincia Matteo Rossi (a cui si è subito sorprendentemente accodato il sindaco Giorgio Gori) ha annunciato di voler fare campagna a favore del referendum per una maggiore autonomia della Regione promosso dai grillini ma diventato cavallo di battaglia della maggioranza lega forzista del Pirellone. Lo stupore, e in taluni casi l’irritazione, del Pd e dei suoi principali esponenti (a partire dal segretario provinciale Gabriele Riva che ha parlato di “fuga in avanti”) mettono già in evidenza anzitutto la prima contraddizione. Rossi e Gori hanno preso l’iniziativa senza coordinarsi, e tantomeno informare, il partito che pure li ha portati dove sono. Tutto lecito, per carità, i tempi del centralismo democratico sono un lontano e non rimpianto ricordo, ma in Consiglio regionale il Pd si era espresso duramente contro il referendum e, non foss’altro che per un elementare dovere di coerenza, prima di cambiare posizione forse sarebbe stato utile e necessario discuterne per poi, eventualmente, spiegare le ragioni di una così vistosa virata ad U. Ma Rossi e Gori, evidentemente, ritengono di potersi muovere con le mani libere, inseguendo una strategia che chiunque può comprendere quanto possa essere a rischio suicidio. Perché affiancarsi a chi la battaglia per l’autonomia se l’è già intestata lascia comunque in una posizione di subalternità. Alla brutta copia, peraltro convintasi della presunta bontà dell’operazione con notevole ritardo, il cittadino preferirà sempre l’originale. Lo dice la storia: tutte le volte che qualcuno ha provato a mettere in cantiere iniziative para-leghiste, nell’illusione di scavalcare il Carroccio, è finita male. Il presidente della Provincia e il sindaco sottovalutano un altro aspetto che è strettamente legato all’oggetto della campagna referendaria. Poiché si tratta di pura propaganda (il quesito non punta ad ottenere una maggiore autonomia, come l’uomo della strada è portato a pensare, ma impegna la Regione ad avviare una trattativa con lo Stato per avere maggiori libertà di movimento in campo economico e finanziario), ingenererà nella pubblica opinione aspettative che poi andranno deluse e chi ne pagherà dazio saranno anzitutto coloro che, alla guida di Provincia e Comune, hanno la responsabilità di dare risposte concrete. Maroni e sodali potranno sempre cavarsela dando la colpa al governo (che è in mano al Pd), “brutto, sporco e cattivo” e conculcatore della volontà popolare. Rossi e Gori, invece, se non vorranno trovarsi ad attaccare il loro premier e segretario nazionale Matteo Renzi si scopriranno chiusi in un grottesco cul de sac. Cornuti e mazziati. Davvero una bella operazione per chi, forse vittima di un sogno di mezza estate, si è messo in testa di giocare al piccolo politico. Il referendum è un bluff, non può portare da nessuna parte perché non ci sono le condizioni normative affinché espleti gli effetti desiderati ma in compenso costerà 30 milioni alle casse regionali. Soldi che è delittuoso di questi tempi buttar via per consultazioni che hanno il valore di un exit poll da bar sport. I primi a doverlo sapere, e a doversi battere per evitare l’inutile spreco, dovrebbero essere proprio Rossi e Gori.




La vendita di Italcementi e i campanilisti di retroguardia

 

L'impianto Italcementi di Calusco
L’impianto Italcementi di Calusco

Già prima della globalizzazione il campanilismo economico aveva cambiato dimensione. Una volta esistevano vere banche (non semplici filiali) di quartiere. C’era anche fino alla fine degli anni Sessanta una ora impensabile Cassa Popolare di Depositi e Prestiti dell’Alta città di Bergamo. Poi anche la dimensione di un singolo paese è diventato troppo piccolo. Resiste come simpatica e ancora valida eccezione che conferma la regola la Bcc di Mozzanica, ma se si amplia il discorso si vede che ci sono ormai addirittura intere province che non hanno una vera banca di “campanile”. Come a Varese, ad esempio, per responsabilità della Popolare di Bergamo che prima ha acquistato il Credito Varesino, poi ha incorporato la Comindustria e la Popolare di Luino. Si vedrà adesso come andrà a finire con Ubi, mentre già la regione inizia a diventare una dimensione minima con la prospettiva futura che anche l’Italia finirà per diventare stretta.

Le aziende sono già più avanti rispetto al processo in corso nel credito. Adesso qualcuno piange, in maniera anche poco dignitosa, la “perdita” dell’Italcementi, come già aveva fatto quando il Credito Bergamasco è stato fuso nel Banco Popolare. In un campanilismo a senso unico e dalla memoria corta aveva però osannato in precedenza quando il Creberg aveva incorporato il veneziano Banco San Marco e quando la stessa Italcementi aveva preso il controllo di Ciments Français.

Se si festeggia quando si comprano i francesi e ci si straccia le vesti quando si viene comprati dai tedeschi è perché cambia la visuale di prospettiva di uno stesso fenomeno. L’Italcementi è arrivata alle attuali dimensioni attraverso una serie di acquisizioni, prima in Lombardia, poi in Italia, infine in Europa e quindi nel mondo. Lo stesso ha fatto Heidelberg. Alla fine sono i tedeschi che comprano gli italiani (perché nonostante tutti gli eufemismi che parlano di matrimonio, questa è una acquisizione a tutti gli effetti). Avrebbe potuto anche essere viceversa – e allora ci sarebbero i commenti sulla brillante operazione di conquista – ma non lo è stato. Forse perché sono mancate le forze, più che la volontà: lo si capirà meglio probabilmente tra qualche anno. L’operazione industrialmente ci sta, considerato che in questo modo nasce il secondo gruppo cementifero europeo, dietro al risultato di un’altra aggregazione, in questo caso più alla pari, ma non del tutto, tra la svizzera Holcim e la francese Lafarge. E ci sta anche finanziariamente, perché Italcementi non viene pagata poco, anche se, in altri tempi, forse irripetibili, le sue quotazioni borsistiche erano ben superiori al prezzo dell’offerta.

Non è quindi una svendita, né un’operazione che si pone l’obiettivo di distruggere valore, nonostante sposti il baricentro dell’azienda fuori dall’Italia con possibili ripercussioni occupazionali nel quartiere generale, anche se con ogni probabilità più limitate di quanto viene temuto e nel complesso gestibili senza particolari traumi.

Il problema più ampio diventa a questo punto quello di una progressiva perdita di potere decisionale non tanto bergamasco quanto italiano all’interno delle grandi aziende. Italcementi segue Pirelli, dove prenderà il timone ChemChina. Ma è solo l’ultimo anello di una lunga catena, che comprende tra i tanti casi Merloni-Indesit, Telecom (dove da poche settimane il primo azionista è la francese Vivendi) o AnsaldoBreda. Anche se i casi sono differenti uno dall’altro, viene sfatato il mito degli anni scorsi, quando allo spostamento di produzioni fuori dall’Italia si raccontava che un conto erano le braccia e un altro era il cervello, che invece restava saldamente in patria. Dopo alcuni anni però inevitabilmente il cervello sta seguendo le braccia, perché non ha più ragione di stare staccato, in una separazione tra l’altro che facilita le successive operazioni di vendita.

Ad ogni acquisizione di un’azienda da parte di un’impresa straniera, in ogni caso parte il ritornello sull’Italia in svendita, dimenticando che questo avviene prima di tutto per l’incapacità degli italiani di tenersele. E anche se non ci si può lamentare in fondo se per acquisire le aziende italiane arrivano le classiche offerte tanto generose da non potere essere rifiutata, le continue cessioni ricordano molto la fine degli anni Sessanta, quando tanti hanno ceduto l’azienda perché poco fiduciosi sul futuro del fare impresa in Italia. E questo sarebbe più preoccupante delle vendite in sé.

Dato che si parla di globalizzazione però è bene anche avere uno sguardo globale. Nei giorni scorsi la Cgia ha diffuso dei dati dove si rileva che nel 2014 solo in Italia, Slovenia e Finlandia, su tutta l’eurozona, c’è stato un aumento degli investimenti stranieri diretti. Ma se si guarda al contributo dello stock degli investimenti diretti esteri questi risultano essere in Italia pari al 17,4% del Pil, come all’inizio della crisi, il dato più basso di tutti, con l’eccezione della Grecia (8,5%). La presenza di tante Pmi spiega parzialmente questo ritardo, ma in quest’ottica la cessione dell’Italcementi potrebbe essere solo l’inizio di un riallineamento che interesserà inevitabilmente la vendita di altre aziende. I campanilisti di retroguardia preparino i necrologi nei quali sono specializzati.

 




Caro Franceschini, investa sui giovani e non sugli stranieri

museiIl ministro Franceschini è, probabilmente, una bravissima persona. Certo, visto così, non dà l’idea di essere un’aquila o un pozzo di scienza e, dovendogli affidare un ministero, forse forse sarebbe andato meglio quello delle riforme, che, data l’assoluta mancanza di riforme, è un’assoluta sinecura. Però, lui, da bravo soldatino, ha cercato di aggiornarsi, di rendersi degno dell’alto incarico: si è fatto crescere una barba da filosofo, che, nell’ambiente della politica, che è tutto apparenza e niente sostanza, a un dipresso vale quanto una laurea in filosofia; e, adesso, si sente pronto per l’arduo compito di radere al suolo Pompei.

Tanto, deve aver pensato, in Italia di cultura non si parla mai, quindi, anche se combino qualche bischerata, non se ne accorgerà nessuno! Non immaginava, il malcapitato, che proprio lui avrebbe creato lo scoop destinato a portare la cultura sulle prime pagine dei giornali. La notizia è che sono stati nominati i direttori di venti musei italiani. Anzi, la notizia è che, di questi venti, sette sono stranieri. In realtà, non è una gran notizia: però, siccome qui da noi, ormai, la tifoseria si divide tra internazional-europeisti, che accusano di misoneismo gli avversari, e identitar-nazionalisti, a loro volta pronti a dare dell’antitaliano al nemico, anche una non notizia può trasformarsi nel solito circo equestre. E così è, puntualmente, accaduto.

Da una parte, ci sono dei fessi che pensano che faccia straordinariamente figo affidare ad uno straniero l’amministrazione del nostro Paese: gente che parla di governance, di startup e di jobs act, come se si trovasse a Petaluma o a Nantucket, anziché sul Sentierone. Dall’altra parte, ci sono quelli che hanno scoperto il patriottismo quando gli è arrivato il primo stipendio da parlamentare: gente che non sa nemmeno cosa sia uno studio severo, un lavoro indefesso, ma che farnetica, ugualmente, di studio e di lavoro, facendo leva sull’orgoglio nazionale di un popolo di bruti, che si risveglia solo ogni quattro anni, per i mondiali di calcio. Insomma, una bella gara tra gonzi. E, in mezzo, c’è lo ieratico Franceschini, con la sua barbetta da Cacciari, la sua faccia da Cacciari, le sue giacchette da Cacciari: se avesse anche il quadro neurologico di Cacciari, saremmo a cavallo: purtroppo, invece, i neuroni sono quelli di Franceschini, e ci dobbiamo un tantino accontentare. Si vede che, di fronte alla vexatissima quaestio delle nomine dei direttori dei musei (ossia, di una delle pochissime istituzioni culturali italiane che portino a casa quattro palanche), il povero ministro ha deciso di usare il sistema della brava madre di famiglia: un colpo al cerchio e uno alla botte. Su venti, sette saranno, si fa per dire, raccomandati, enfants du pays, direttori di museo scelti “alla bergamasca”, per intenderci. Altri sei (venti, ahimè, non è divisibile per tre) saranno gente che sta in coda da trent’anni e, infine, sette li prendiamo all’estero, dove, com’è noto, non si ruba, non si bara e, soprattutto, si fa lo storico dell’arte studiando la storia dell’arte. Dunque, i giochi sono fatti.

In realtà, l’idea di andarsi a prendere i direttori all’estero è derivata semplicemente dal football, che è l’unica realtà culturale che i nostri governanti devono avere in qualche modo presente: i giocatori più forti (Franceschini direbbe ‘top players’) me li vado a cercare a Londra, Parigi o Madrid, quando non in Gambia o in Argentina. Una volta, la cosa pareva funzionare: costavano meno e giocavano meglio. Oggi, nove volte su dieci, ti porti a casa un brocco clamoroso, pagandolo come il fuoco, ma tant’è. Se funziona per un centrocampista, deve aver pensato il filosofico Franceschini, perché non dovrebbe funzionare con i musei? Certo, si potrebbe obiettare che, forse forse, un po’ di sano patriottismo ogni tanto non guasterebbe; oppure che in Italia ci sono centinaia di bravissimi storici dell’arte costretti a fare i supplenti liceali o a inventarsi lavoretti per campare. Ma diamola per buona, questa bubbola dei direttori stranieri: ammettiamo che il pensiero debole, per una volta, sia forte. Ebbene, io vorrei un prefetto prussiano: avete presente quei granatieri pomerani alti due metri e cattivissimi, dallo sguardo d’acciaio? Io lo vorrei così, il mio prefetto. E vorrei un sindaco parigino: che trasformasse il lungomorla nella spiaggia dei bergamaschi. Il Donizetti lo affiderei ad un viennese, così, se a Vienna si strimpella a Capodanno, noi faremmo il concerto di metà Quaresima, con tanto di rasgamento della ecia e Marcia di Gioppino finale: e tutti a battere le mani ritmicamente. Alla viabilità ci metterei Indurain: alla cultura qualche Guggenheim, anche se, in mancanza di meglio, basterebbe qualcuno che distinguesse i centenari dai settantennali. Insomma, anche a me piacerebbe prendere l’eccellenza dall’estero e metterla qui: e, forse, sarebbe anche efficace, come sistema. Ma non sarebbe giusto, perché gli Italiani dovrebbero imparare, una buona volta, a coltivare il proprio orto, se vogliono mangiare le proprie verdure. Investire nei giovani, anziché negli stranieri. Perché non basta una barba, purtroppo, per fare un filosofo: mentre per fare un ministro, a quanto pare, sì.