Il funerale show di Casamonica? La quintessenza dello spirito nazionale

Roma, funerali di Vittorio CasamonicaL’Italia funziona così: a scandali fittizi. Uno scandalo serve a far dimenticare lo scandalo precedente, in un gioco di scatole cinesi. Tutti fingono di scandalizzarsi, ma è sempre una tempesta in un bicchier d’acqua: alla fine, nessuno fa nulla, segno inequivocabile di come lo status quo, in fondo vada bene a tutti. O, almeno, a tutti quelli che, sopra l’acqua del bicchiere, sono capaci di galleggiare con sugherea leggerezza. Prendiamo quest’ultima faccenda del funerale di Casamonica a Roma. Cosa c’è da scandalizzarsi? In un’Italia pacchiana all’inverosimile, tatuata, con le zeppe e le frasi d’amore sgrammaticate sbombolettate sui muri, un matrimonio con carrozza e cavalli, elicottero che lancia petali rossi, manifestoni sulla chiesa e con la banda di paese che suona l’aria de “Il Padrino”, in fondo, è solo la quintessenza dello spirito nazionale. Voi mi direte: ma quello è stato un segnale inequivocabile del fatto che, a Roma, la mafia fa quello che vuole!

Ma veramente? E chi l’avrebbe detto: in una città in cui ti chiedono il pizzo per i biglietti della metro, in cui metà dei negozi sono centrali di riciclaggio, in cui ogni cosa funziona a mazzette, che la mafia faccia quello che vuole mi pare il minimo. Il punto non è la mafia: il punto siamo noi. Che stiamo sprofondando un poco alla volta, credo che sia un dato sotto gli occhi di tutti: proviamo un po’ anche a chiederci perché stiamo sprofondando. E torniamo al funerale del boss. Dunque: muore un signore che tutti quanti sanno essere in odore di mafia. Uno che viene proclamato “Re di Roma” dallo stesso clan parentale. I consanguinei, presumibilmente affranti, si rivolgono ad una serie di istituzioni, per dare seguito alle esequie. Innanzi tutto, vanno dal prete: il parroco della parrocchia in cui si svolgeranno i funerali. E gli dicono: buongiorno, siamo i parenti del tal dei tali, vorremmo fare un funerale così e cosà, appendere sulla facciata della chiesa un bel manifestone tre metri per quattro, far suonare la banda dei picciotti e così via. Siamo a Roma: vescovo è quel tale che maledice chi non accoglie i migranti e che lancia anatemi contro i mafiosi. Il buon prevosto, però, non se ne dà per inteso, e accorda piena libertà d’azione a decoratori e musicanti. Poi, il parentado si reca in Comune, per i permessi: occupazione di suolo pubblico, manifestazione musicale, sì, insomma, avete presente. Di nuovo, non ci vanno mica in incognito: danno nome e cognome. Come se, a Corleone, chiedessero il nome del defunto e gli rispondessero: Riina, Salvatore, detto Totò.

Il municipio responsabile, senza batter ciglio, concede permessi, annota decessi, permette accessi. Infine, il colpo di genio: l’elicottero. Ci sarà bene un aeroporto da cui lo si faccia decollare, ci sarà pure un permesso speciale per sganciare materiale su di un centro urbano, esisterà un piano di volo, avranno domandato all’aviazione civile…Quando tutto è a posto, con le cartebolle bene in vista, la kermesse può andare in scena: hai conquistato Roma, tarazum zum zum. E scoppia lo scandalo: apriti cielo! Il Sindaco, ossia lo stesso da cui dipende il municipio dei permessi a gogo, lancia la sua intemerata, facendoci la solita figura del fesso che non sa cosa succede sotto il suo tavolo. La chiesa difende il parroco, poi no, poi sì: anche lì, nessuno sapeva con chi avevano a che fare. Tutte le autorità, che prima facevano il nesci, adesso insorgono: i mezzibusti strombettano indignazione da tutti i pori e le reti unificate condannano la provocazione. Avvenuta a Roma, poi: la capitale! Ma capitale de che? Del malaffare, senza dubbio, vista la trafila di cui sopra, che si ripete, invariata, dai parcheggiatori abusivi su su fino al traffico di esseri umani.

E i mezzi di comunicazione, che sono il vero scandalo degli scandali, sentite un po’ come la danno, questa sconvolgente notizia del funerale del boss. Prima di tutto, si aprono dibattiti sul fatto che questa mafia sia romana-romana e non d’importazione: seguono analisi sociali, disamine legislative, aria fritta. A nessuno passa per la testa di dire che il clan in questione è composto da cingani: divieto assoluto di associare a questa brutta faccenda gli zingari. La correttezza politica viene prima di qualunque cosa. Dunque, a Roma esiste una mafia indigena e gli indigeni sono zingari, ma guai a dirlo: la gente potrebbe cominciare ad associare gli zingari alla delinquenza, pensa un po’! Subito dopo, si passa a Mafia-Capitale, dove la colpa di tutto è di Carminati, il neofascista neomafioso, capo dei capi. Tanto capo dei capi che si fa blindare dopo cinque minuti da quattro carabinieri: sveglio, come capo dei capi! Nessuno che dica una sillaba sulle decine e decine di politici filogovernativi implicati: non un fiato sul marciume che trabocca dal Campidoglio e che puzza lontano un miglio di Pd. Infine, promesse di iniziative, minacce di azioni, sogni di giustizia e libertà. E voi vi stupite se un boss si fa seppellire in pompa magna? Datemi retta, andiamo a farci un bel bagnetto nei laghetti della Trucca: nei giorni scorsi è piovuto e la risorgiva promette scintille. A buon intenditor….

 




Degrado alla stazione, a Bergamo non servono le zuffe politiche

Kiss. StazioneNon si sa se siano peggio le zuffe tra extracomunitari sul piazzale della stazione o quelle tra politici di maggioranza e opposizione sui giornali. I primi, se non altro, son poveri disperati. Gli altri, invece, son tutte persone perbenino che si son proposte per governare la città. E lo spettacolo, per quanto non si scambino cazzotti né si impugnino colli di bottiglia, è tutt’altro che edificante. Nel gioco delle parti ci sta che chi sta in minoranza dica che “è tutto sbagliato, tutto da rifare”; e che, al contrario, chi governa risponda che “va tutto bene, madama la marchesa”. Ma il balletto retorico è diventato stucchevole. I giovani, e un po’ acerbi (non si dica “ragazzini”, altrimenti s’offendono), politicamente parlando, consiglieri di opposizione Alberto Ribolla (Lega), Stefano Benigni (Forza Italia), Davide De Rosa e Andrea Tremaglia (Fratelli d’Italia), usano i comunicati stampa e le interrogazioni-interpellanza come armi improprie. Talvolta, come nell’ultimo caso della presunta maxi-rissa alla stazione (che poi era di consistenza molto ridotta), non appena vedono un titolo di giornale, sparano ad alzo zero senza nemmeno peritarsi di fare una verifica sullo svolgimento dei fatti. Ma la superficialità di breve è nulla rispetto ad una banale considerazione che chiunque abbia un minimo di memoria storica, e soprattutto di onestà intellettuale, non può non fare. Il degrado dell’area della stazione (da piazzale degli alpini fino all’ex scalo merci) non è di oggi né di ieri. Negli ultimi vent’anni si sono alternate giunte di centrodestra e di centrosinistra. Tutte, ciascuna con la propria sensibilità, hanno cercato di migliorare la situazione. Nessuna, dicasi nessuna, è riuscita ad incidere in maniera significativa. Il giochino di continuare a ripetere “quando c’eravamo noi era meglio” è da asilo Mariuccia. Basterebbe prendere le collezioni dei giornali e fare un semplice confronto che smentisce i catastrofisti di oggi e ottimisti di ieri. E si potrebbe anche aggiungere, per una valutazione più politica, che i grandi successi della fu giunta Tentorio non devono essere stati granché apprezzati dai cittadini se un anno fa, mica il secolo scorso, la sconfitta del centrodestra è stata tanto netta quanto bruciante. O vogliamo credere che gli elettori siano intelligenti quando votano a favore e degli stupidi quando si spostano dalla parte opposta?

Proprio perché giovani (sia detto con la massima invidia), i battaglieri rappresentanti dell’opposizione dovrebbero sforzarsi di uscire dal banale ping pong ad uso propagandistico. Meglio sarebbe se riuscissero ad essere innovativi, capaci davvero di incalzare chi governa la città con proposte e suggerimenti concreti. E’ sulla sostanza che si può far presa di fronte all’opinione pubblica, non sulle parole. Elementare verità che vale anche per chi oggi guida Bergamo. L’assessore alla Sicurezza Sergio Gandi è bravissimo a non lasciar mai perdere un colpo nella sfida dialettica. Da avvocato, ha sempre una battuta pronta. Ma, appunto, anche per lui vale che le chiacchiere stanno a zero quando alla stazione o davanti a palazzo Uffici vanno in scena risse, aggressioni e quant’altro. Detto che l’ordine pubblico, valeva per Tentorio come vale per Gori, è di competenza delle forze di polizia e non dei vigili (si fa troppo spesso confusione, e non per fini nobili), in un anno l’attuale Amministrazione ha inciso ben poco. Forse il piazzale della stazione è stato migliorato. L’idea di far diventare l’Urban center la casa di Bergamo Scienza non è male (anche se forse il sindaco esagera un po’ nelle aspettative). E tuttavia, serve molto di più e di meglio. A partire dal metodo che deve puntare ad un reale coinvolgimento della città. Il Comune deve trovare il modo di far comprendere a tutti che quel pezzo di territorio in cui ogni giorno transitano migliaia di persone non è terra di nessuno. Vale tanto quanto il Sentierone o Città Alta. Bisogna riappropriarsene costruendo attorno agli interventi architettonici (prima alle Autolinee, ora quello della stazione ferroviaria) operazioni di riconquista sociale. Con eventi no stop, con la presenza quotidiana di presidi di controllo, con iniziative ad hoc che leghino questa tessera al puzzle complessivo della città. Un lavoro, questo, in cui maggioranza e opposizione possono dare il meglio di sé giocando sulla fantasia, sull’intelligenza, sulla lungimiranza. Questa è la vera competizione che farebbe fare a Bergamo il salto di qualità. Non il battibecco a chi la spara più grossa.




Ospedale Papa Giovanni, occhio alla riforma che ne stravolge il ruolo

C’è qualcosa di peggio dell’incompetenza. Ed è la presunzione. Quella che fa ritenere a taluno di saperla più lunga di altri non in virtù di una conclamata professionalità ma solo, magari, per il ruolo rivestito.

Prendete il caso del consigliere regionale di Ncd, Angelo Capelli, investitosi del ruolo, insieme ad un collega leghista, di riformatore del sistema sanitario lombardo (domanda: ma non ci era stato raccontato che era il migliore del mondo?). Chi lo conosce sa che l’avvocato già sindaco di Ponte Nossa e coordinatore provinciale del Pdl ha una discreta considerazione di sé. Le qualità non gli fanno difetto, l’affiliazione all’Opus Dei è di chi di solito appartiene ai giri che contano. E tuttavia, anche per questo, forse nemmeno a lui dovrebbe essere consentito di sbeffeggiare chi osa mettere in dubbio una delle scelte, certo non secondaria, contenute nel progetto di riforma in via di approvazione da parte del Consiglio regionale.

Tanto più se chi chiede una revisione non è un pinco palla qualsiasi ma niente meno che il collegio dei primari dell’ospedale Papa Giovanni. Quello che, secondo Capelli, non dovrebbe più rinchiudersi nella tradizionale (oseremmo dire, banale) eccellenza, per ampliare le sue attività ai distretti e alla sanità di base, come una Asl qualsiasi.

Non entriamo nel balletto delle denominazioni, perché nel gioco delle tre carte i politicanti di palazzo Pirellone ci strabattono. Quel che rileva osservare, e che i dottori dell’ospedale rimarcano con forza, è che si sta correndo seriamente il rischio di stravolgere il ruolo e la funzione di una struttura che non può essere messa sullo stesso piano dei presidi ospedalieri di provincia (Seriate e Treviglio, per intenderci). Il Papa Giovanni è il faro della sanità bergamasca, dispone delle migliori professionalità e dei mezzi più all’avanguardia, ha assorbito centinaia di milioni di investimenti pubblici non per dedicarsi alle appendiciti o alle riabilitazioni cardiache ma per interventi di alta complessità e per i trapianti.

Alle osservazioni dei primari, il consigliere regionale di Ncd ha risposto dando praticamente dell’ignorante ai medici: «Non avendo letto il testo della riforma sanitaria non hanno capito la portata della grande innovazione». Nemmeno il rispetto per la levatura degli interlocutori concede il rivoluzionario Capelli, talmente investito nella parte che non gli riesce di comprendere che non c’è bisogno di leggere pagine e pagine di burocratese per comprendere che quella che si sta imboccando è una strada sbagliata. Secondo lui non si stravolge nulla. Anzi, secondo una logica mercantilista che con la salute non ha molto a che spartire, si compiace di dire che «si aggiunge un ramo d’azienda».

C’è di che riflettere su questo modo di rapportarsi e di parlare. E viene da chiedersi come sia stato mai possibile ritrovarsi, dopo anni di feroci contrapposizioni e di critiche (che a volte hanno trovato riscontro in inchieste giudiziarie), a dover rimpiangere il vituperato Formigoni, uno statista al cospetto dello scialbo Maroni, un ras che sapeva bene dove e come mettere le mani.

Non come questi signori che in pochi mesi hanno messo sul tavolo quattro progetti di riforma diversi, che poi hanno tagliato, ritagliato, modificato senza mai un minimo di confronto vero (non le rituali audizioni fine a se stesse) con il territorio e, soprattutto, con chi le norme poi le deve tradurre in pratica.

Purtroppo, rispetto al Celeste c’è un solo elemento di continuità. Ed è la sfrenata lottizzazione dei direttori generali. Oggi come in passato, conta la fedeltà politica più della preparazione professionale. Anche in Bergamasca (nella Bassa, in particolare). Come prima, più di prima. E forse allora si comprende perché non si riconosca voce in capitolo a chi sa davvero di cosa parla. Il rischio è di dimostrare a tutti che sotto il vestito (la riforma) c’è il nulla.




Dell’Europa siamo l’aliquota selvaggia e “sacrificabile”

L’Italia fa certamente parte dell’Europa. Ne è una porzione consistente e, se mi consentite, ne rappresenta l’aliquota che i generali definiscono “sacrificabile”.

Non sto scherzando: quel conglomerato assortito che decide le linee guida della politica europea, ragiona esattamente come un generale della Grande Guerra. In ogni esercito ci sono perdite: alcune di queste vengono considerate, per così dire, fisiologiche. Si deve conquistare quella quota? Perdere mille o duemila uomini, nella prima ondata d’attacco, è un prezzo ragionevole. Dunque, si manda avanti la carne da cannone: i “sacrificabili” appunto.

Ecco, noi siamo proprio quei poveracci della prima ondata: i sacrificabili. Perché, diciamocela tutta: noi siamo Europa per modo di dire. Un olandese, un tedesco, perfino un francese, non è che ci considerino europei doc, continentali al 100%: siamo degli ibridi, gente con una percentuale creola consistente nel dna, meticci.

Infatti, nei felpati consessi internazionali, ci trattano un po’ con sussiego e un po’ con simpatia curiosa: proprio come avveniva per il negro alla corte di Pietro il Grande. E, se uno di noi parla un inglese accettabile, tutti subito a fargli i complimenti: a dirgli che è bravissimo, ullallà, perché riesce a dire ‘gullible’ anziché ‘idiot’, che per un italiano è più facile.

Insomma, siamo considerati degli imbecilli, dei semiselvaggi: i “terroni” dell’Unione Europea. E veniamo trattati esattamente come i piemontesi trattavano i “terroni” nel 1861: dei selvaggi. In Europa ci accolgono con ceste di braccialetti di perline colorate: ci dicono sì sì, avete ragione. Ma poi non contiamo un belino. E lo sappiamo benissimo. Credete davvero che Renzi, quando va a fare la marionetta davanti agli impassibili burosauri di Bruxelles non si accorga che è lì solo per fare intrattenimento? E di quanto poco conti la signora Mogherini? Lo sa benissimo: ma che ci può fare? Noi siamo “sacrificabili”: e non saranno le battute al pistacchio a cambiare le cose. Perché da noi, come dappertutto, comandano i banchieri: e, per i banchieri, l’Europa è un affare da non lasciarsi sfuggire. Dove lo trovi, per esempio, un governo nazionale tanto stupido da ripianare i debiti delle banche, trasformandoli in debito pubblico? Invece, siccome l’Europa è qualcosa di astrattamente supernazionale, la gente se la beve, ed accetta di stringere la cinghia per aiutare gli arpagoni ad essere sempre più ricchi. E potenti. E la potenza è quella di decidere, appunto, chi sia sacrificabile e chi no.

Guardate cosa succede oggi, con l’incredibile vicenda degli immigrati che cercano di entrare in Gran Bretagna: una storia che sarebbe comicamente surreale, se non fosse vera. Quando, per anni, l’Italia ha chiesto un intervento europeo per arginare il fenomeno dell’immigrazione selvaggia, le hanno riso in faccia: alla fine hanno mandato navi su navi per prendere dall’Africa gli africani e portarceli direttamente qui. Una discreta presa per i fondelli. Adesso, che quattro disperati cercano di forzare i penetrali d’Europa, quelli veri, quelli non sacrificabili, non terroni, non meticci, osservate attentamente dove vanno a finire i diritti dell’uomo, il buonismo, le belle frasi ad effetto sull’accoglienza.

Cameron, quello che ci faceva restare a bocca aperta, perché andava al lavoro con la Tube, parla di muri da innalzare, di frontiere da difendere, di intervento europeo in Africa, di forze armate a vigilare. Se lo dice Salvini, è una carogna xenofoba che cerca voti: se lo dice un nobiluomo scozzese da Downing street, per magia, tutto diventa sensato, comprensibile, molto europeo. Perché l’Inghilterra non è “sacrificabile”: perché per gli Inglesi l’Europa non è un dogma, imposto da un ciccione di economista bolso a suon di tasse, ad un Paese un po’ riluttante e un po’ incompetente. L’Europa, per gli Inglesi è un’opportunità: oppure, non è. Punto. La Gran Bretagna non è “sacrificabile”, innanzitutto perché non permette che la si sacrifichi: infatti, sta nell’Europa senza stare nell’Euro. Mica scemi! Provate ad andare in Provenza a calpestare la lavanda, perché ne producono troppa: rovesciate qualche milione di tolle di latte danese, e guardate come reagiscono gli affabili inventori del Lego!

La gran panzana, l’errore di fondo di questa Europa che, ormai, scricchiola da tutte le parti, è sempre lo stesso: ed è un errore filosofico, politico, antropologico. L’uguaglianza obbligatoria. Nelle teorie liberali, dall’Illuminismo in qua, si è andata via via elaborando questa idea suicida dell’uguaglianza: dell’essere tutti uguali perché è giusto così. Certo, sarebbe giusto: solo che non è affatto così. Non siamo per niente tutti uguali: e questa Europa lo sta dimostrando ad abundantiam. Quando i nodi vengono al pettine, chi sa nuotare si salva e chi annaspa affoga: alla faccia della democrazia liberale. Così, quando gli africani invadono le nostre città, va tutto bene: è il dovere dell’accoglienza fraterna. Quando provano ad entrare in Francia o in Gran Bretagna, diventano una minaccia per il Paese. Perché non siamo per nulla tutti uguali: noi siamo il pavement e loro la penthouse, per dirla alla Cameron. Noi siamo abituati al degrado, alla sporcizia, all’Africa, già per conto nostro: un po’ di degrado in più o in meno cosa volete che ci cambi? È un po’ il ragionamento dei nostri politici, che inondano le borgate di immigrati, ma che vivono ai Parioli: il borgataro all’immondizia è aduso, ohibò! Solo che il borgataro è aduso anche al coltello: occhio. La storia ci insegna che, alla fine, a forza di essere sacrificati, i “sacrificabili” si rivoltano contro i propri generali: e, se va bene, viene Caporetto. Se va male, viene la rivoluzione…




Ci dovrebbero interdire per quanto siamo irresponsabili!

Sosta vietataQual è il principale problema dell’Italia? Se me lo chiedessero, eviterei di indicare questioni pratiche, come l’immigrazione selvaggia o lo spread: quelle sono contingenze, cose che capitano e che, poi, non capitano più, come le invasioni barbariche o le epidemie di peste. Basta saper aspettare dieci o venti generazioni e chi si ricorderà più dello spread o dei barconi? Tanto, fra dieci anni l’Italia sparirà, secondo qualche economista inglese. Dunque, perché prendersela tanto? Perciò, parliamo di caratteri: di indole nazionale, se preferite. Io amo i massimi sistemi: “De minimis non curat historicus” è il mio motto. Mi vien da dire che, per quanto concerne l’indole nazionale, il principale problema dell’Italia sia l’assoluta, endemica, ineluttabile assenza di responsabilità. Fateci caso: tutto, alla fine, dipende da quello. Dalla totale mancanza di responsabilità, tanto individuale quanto collettiva. Perché un economista può permettersi di assumere la guida del Paese e catastrofizzarlo con le sue teorie surreali, se non per il fatto che, alla fine, nessuno mai gli presenterà il conto?

Perché un giudice può emettere sentenze paradossali, demenziali, criminali, se non per il motivo che, per quanto disastrosi siano gli effetti dei suoi svarioni, a nessuno verrà mai in mente di chiedergliene ragione? E lo stesso dicasi per gli insegnanti, i postini, i tifosi del football, i vigili, le infermiere, i primari, i giornalisti, l’esercito: non c’è nessuno, e dico nessuno, che si assuma fino in fondo le proprie responsabilità. Lo scaricabarile è lo sport nazionale: in quello surclasseremmo il Brasile e la Germania ad ogni campionato mondiale.

Ognuno, qui da noi, si sente libero di fare quel che gli pare: tanto, deve dirsi l’interessato, cosa mi può capitare? Ponzio Pilato e non Giulio Cesare è l’antico romano cui tutti facciamo riferimento. Mai un politicante che si dimetta, ad esempio: li inquisiscono, li condannano, li sputtanano, ma quelli, serenamente, continuano ad ammorbarci con le loro vanitosissime idiozie, proprio come se niente fosse. E non succede mai che un assassino che falcia una famiglia sulle strisce vada in prigione per più di due giorni, non capita mai che ti puniscano in modo esemplare.

Ma, pensate per un attimo a come sarebbe l’Italia, se vi regnasse il concetto della responsabilità! Immaginatevi gli impiegati agli sportelli, che galoppano come purosangue, che analizzano con la massima attenzione il vostro caso, perché, altrimenti, la responsabilità della vostra insoddisfazione sarebbe solo ed esclusivamente loro: non del coordinatore, non del funzionario, non del dirigente, ma loro. Pensate a come funzionerebbero gli uffici, i laboratori di analisi, i centralinisti dei call center: tra l’altro, sparirebbero quelle musichine sceme, che vi fanno tanto incazzare quando gli operatori sono momentaneamente occupati. Provate ad immaginarvi come cambierebbero le vostre relazioni con gli amministratori, tanto quelli pubblici quanto quelli condominiali, se ognuno fosse responsabile delle proprie azioni, delle proprie parole o delle proprie negligenze: saremmo un Paese del tutto diverso.

Parcheggi al posto dei disabili? Sequestrata l’auto per sei mesi: e poi vediamo quanti ci parcheggeranno ancora! Hai sbagliato una sentenza, favorendo un delinquente? Dieci stipendi in meno: garantito che, la prossima volta, starai più attento coi codici! Hai spiegato ai tuoi alunni che la radice quadrata è una forma particolare di vegetale? Sei retrocesso al ruolo di scopacessi: questo è il secchio e quello è lo straccio! E non dovete credere che questo regime draconiano dovrebbe andare avanti all’infinito: basterebbe qualche annetto, tanto per abituare gli Italiani ad assumersi la propria responsabilità.

Una volta avviata, la macchina si alimenterebbe da sola, perché la gente, dopo che ha imparato a rispettare e a farsi rispettare, ben difficilmente ritorna a comportarsi come una mandria di buoi. File ordinate, lavori ben fatti, strade pulite, notti sicure e silenziose: il paese di Bengodi, insomma. E tutto questo, semplicemente grazie a questa paroletta magica: responsabilità. Il che è precisamente il punto da cui siamo partiti: ciò che ci vorrebbe è precisamente ciò che più manca, la cosa più complessa da ottenere da un popolo come il nostro. Forse, perché, psicologicamente, siamo abituati a tifare per Pulcinella: ci sono simpatici i ladri più che le guardie e i furbi più che gli onesti. Oppure, perché siamo passati da una servitù nazionale ad una servitù politica: una volta c’erano gli Spagnoli, i Francesi, gli Austriaci, che ci mungevano. E noi muti: non contavano nulla. Adesso, ci mungiamo tra noi: e chi non sta dalla parte giusta, conta nulla, tale e quale. Sia come sia, siamo un popolo a responsabilità limitata: esprimiamo una sorta di incapacità civile. Dovremmo essere interdetti, probabilmente. Ma chi se ne assumerebbe la responsabilità?




La replica / Zenoni: “Sui diplay siamo in linea con le altre esperienze italiane ed estere”

Parcheggi displayEgregio Cesare Zapperi,

mi permetto di scriverLe in merito all’articolo “Belli i display, ma senza indirizzi è una caccia al tesoro” apparso qualche giorno fa su La Rassegna.it. Nel ringraziarLa per aver posto l’attenzione sul sistema di indirizzamento ai parcheggi in struttura della città, una significativa miglioria implementata da questa Amministrazione, Le vorrei dire che ho letto alcune considerazioni che richiedono chiarimenti da parte mia. Innanzitutto, mi pare emerga dal Suo testo una sensazione che non credo corrisponda alla realtà, ovvero che l’Amministrazione abbia inaugurato un sistema “immaturo”, imperfetto, tanto per fare alla svelta. Non è così e vengo spiegarmi. Il progetto del sistema di indirizzamento ai parcheggi é stato elaborato nel suo insieme e nei dettagli da professionisti del settore ed é stato oggetto di molti mesi di lavoro, senza alcuna fretta. La sensazione di “immaturità ” che Lei descrive pare derivare essenzialmente dall’assenza sui pannelli dell’indicazione dell’indirizzo dei parcheggi. Orbene, tale indicazione non è stata inserita consapevolmente dai progettisti e, non a caso, è assente in quasi tutti i sistemi di indirizzamento esistenti in Italia.

Le ragioni sono varie. Innanzitutto lo spazio sui cartelli é limitato e la dimensione del carattere non può scendere sotto certi limiti per ragioni di leggibilità. Le dizioni riportate sui cartelli non sono le ragioni sociali dei parcheggi, scelte in modo acritico dall’Amministrazione, ma invero sono le dizioni scelte dai parcheggiatori stessi, nei limiti dello spazio disponibile. Ogni gestore avrebbe potuto scegliere l’indirizzo al posto della ragione sociale, ma in piena autonomia ha scelto quello che oggi compare. Inoltre, i pannelli con le informazioni in tempo reale sono solo un tassello del sistema di segnaletica, poiché alle postazioni dinamiche seguono alcuni cartelli statici che guidano l’automobilista ai parcheggi. Anche su questa tipologia di segnali l’Amministrazione sta svolgendo un lavoro di riassetto per renderli più frequenti.

Infine, nei molti navigatori satellitari oggi disponibili, il nome ufficiale del parcheggio é quasi sempre indicizzato nel database, tanto quanto l’indirizzo. Alla luce di tutto questo, concluderei interpretando diversamente il riferimento del Sindaco all’assenza dell’indirizzo sui cartelli, pronunciato durante la conferenza stampa. Non si è trattato dell’autodenuncia di un “errore madornale”, quanto dell’invito a valutare la fattibilità di una miglioria per un servizio già oggi perfettamente in linea con le altre esperienze italiane ed estere. Inoltre, le mie parole su possibili miglioramenti in futuro, si riferivano essenzialmente alla possibilità di installare nel tempo nuovi pannelli dinamici su altre strade della città, con ulteriori investimenti.

La ringrazio e la saluto cordialmente.

Stefano Zenoni

Assessore alla Pianificazione territoriale e Mobilità del Comune di Bergamo

 

Caro assessore

anzitutto grazie per la cortesia e la puntualità della risposta, segno di attenzione non scontato. Le spiegazioni, tuttavia, ci convincono poco o nulla. Un punto, in particolare, risulta singolare: lei dice che le “dizioni riportate sui cartelli non sono le ragioni sociali dei parcheggi, scelte in modo acritico dall’Amministrazione, ma invero sono le dizioni scelte dai parcheggiatori stessi”. Ecco, è anche peggio di come paventavamo. Il Comune, o meglio l’Atb, scuce 200 mila euro ma la scelta del contenuto la delega al privato. Tutto legittimo, per carità, ma ci pare una procedura un po’ così… Giusto, poi, osservare che lo spazio a disposizione sui pannelli è limitato e quindi richiede una indicazione sintetica.

Ci permettiamo sommessamente di far osservare che per l’automobilista seguire, per esempio, la freccia “via Paleocapa” sia più agevole (e comprensibile) che quella che indica “Central parking”. Nessun dubbio, inoltre, che i database dei navigatori siano aggiornati su indirizzi e denominazioni sociali dei parcheggi, ma converrà, caro assessore, che non tutti sono dotati di tecnologia (o ne hanno dimestichezza) e che una richiesta volante per strada sull’ubicazione, per esempio del “car service fly”, riceverebbe come risposta una scena muta. Queste, almeno, sono le nostre perplessità, da uomini della strada. Se si riveleranno eccessive o infondate ne saremo solo lieti perché ciò che conta è la bontà del servizio.

È apprezzabile, infine, il tentativo di una interpretazione autentica, post conferenza stampa, delle parole del sindaco. Ma lei stesso conferma che auspicava una miglioria del servizio con l’aggiunta degli indirizzi. Ergo, non si vede dove stia l’equivoco. Ma tant’è. Pur da punti di vista diversi, condividiamo l’idea che sul fronte della viabilità sia necessario investire per mettere Bergamo al passo con le città più evolute. A differenza di qualche suo predecessore, lei sembra avere le idee più chiare, al di là di talune timidezze. Aggiustamenti e incidenti di percorso sono fisiologici, l’importante è andare avanti tenendo la barra dritta.

C.zap.




Orio al Serio, i destini di un aeroporto di “confine”

aeroporto-di-Orio-al-Serio-2013-129Apparentemente un aeroporto, soprattutto in Italia dove realizzare una nuova infrastruttura è quanto meno “complicato”, ha una formidabile barriera all’ingresso nel mercato data dalla sua collocazione. Perdere i clienti naturali del proprio bacino d’utenza è sempre possibile, soprattutto se si è particolarmente inefficienti, ma in generale se un passeggero vuole arrivare in un determinato posto tenderà ad andare nell’aeroporto più vicino o quasi. In altre parole, se la destinazione finale è Milano, Bergamo è più concorrenziale di Verona e molto più concorrenziale di Treviso.

Su questo vantaggio competitivo Orio al Serio ha costruito la sua fortuna e ha utilizzato buona parte degli utili ricavati per potenziarla. Ma nelle politiche delle alleanze la strategia degli ultimi anni sembra essere stata più quella di cercare di evitare di indebolire questo punto di forza che di trovare un partner per renderlo ancora più decisivo.

Il continuo rinvio della scelta tra Linate e Montichiari in fondo ha giovato a Orio al Serio perché ha evitato che la mancata prescelta diventasse pericolosa. Adesso però questo precario equilibrio della non decisione si è rotto. Si è perso il vantaggio della prima mossa: non appena Montichiari è stata presa dall’alleanza veronese-veneziana immediatamente dopo Orio ha avviato le pratiche per l’alleanza con Linate. Restare sola, del resto, avrebbe voluto dire essere schiacciata su due fronti.

Fatte le scelte, è ancora prematuro capire come andrà a finire. Quello che è certo è che negli aeroporti è terminata l’era del campanile, così come nelle banche, nelle università o nelle multiutilities. Le aggregazioni e le alleanze sono diventate una necessità per potersi confrontare con gli altri operatori che stanno diventando più grandi o stanno creando poli regionali (si pensi alla Toscana, ma anche al Veneto) anche per evitare l’arrivo di concorrenti che possano scalfire il vantaggio dello “scalo di vicinato”.

Orio al Serio, che ha il limite insuperabile dell’unica pista e per crescere nei passeggeri deve trovare una nuova collocazione nelle merci, questa situazione adesso la dovrà affrontare. Se l’obiettivo è il traffico da e per Milano, ormai Bergamo, con la Brebemi, vale più o meno Montichiari e la forza degli accordi rinnovati con grandi operatori come Ryanair e Dhl vale per la loro durata oltre ad essere un vincolo di dipendenza che si può anche rivelare una debolezza. Lo studio affidato da Sea (gestore di Malpensa e Linate) e Sacbo (gestore di Orio) all’Università di Bergamo per valutare la possibile creazione di un polo unico aeroportuale lombardo vedrà alla fine in ogni caso Orio come scalo di “confine”. Con l’alleanza a Milano sarà il confine orientale, con l’alleanza con i veneti sarebbe stato il confine occidentale. In ogni caso quello più esposto sul fronte della concorrenza con il polo “avversario”, nella speranza di aver scelto il versante giusto

 




Belli i display, ma senza indirizzi è una caccia al tesoro

Parcheggi displayDicono che grazie a quei cartelli per gli automobilisti sarà un giochetto da ragazzi sapere in tempo reale in quale parcheggio della città sarà possibile lasciare la macchina, evitando inutili e inquinanti giri a vuoto. Ottimo investimento, quindi, quello fatto da Atb. E pazienza se per vederlo realizzato, mentre in diverse città italiane (a partire da Bolzano fino a Siena e Perugia) è realtà da tempo, ci sono voluti suppergiù dieci anni. L’importante è che quei 40 display ora ci siano e funzionino come garantito. Purtroppo, però, i complimenti non possono essere pieni e carichi di quel superficiale entusiasmo che ha caratterizzato la cronaca della pomposa conferenza stampa che ha visto protagonista il sindaco Giorgio Gori, l’assessore alla Mobilità Stefano Zenoni e i vertici dell’azienda di trasporto pubblico. Perché se si passa dalla teoria alla pratica ci si imbatte immediatamente in un difetto, non lieve, del sistema.

Alcune delle indicazioni dei parcheggi, infatti, sono incomprensibili. Alzi la mano, per esempio, chi sa dire dove sia il silos che viene indicato come “car service fly”. E un premio in gettoni d’oro lo garantiamo a chi sa dare le coordinate geografiche precise del “Preda parking” (e chi sa la risposta esatta, non si confonda con il parcheggio “palasport”). Ma non è nemmeno di comune e facile soluzione scoprire che il frequentatissimo silos di via Paleocapa sui nuovi cartelli viene indicato come “Central parking”. Che dire, infine, del parcheggio genericamente definito “Del centro”? No, davvero, anche senza aver voglia di trovare per forza qualcosa di negativo, il difetto è troppo grande per essere taciuto.

A naso, si capisce che le indicazioni fornite si riferiscono alla denominazione sociale dei singoli parcheggi, ma se così è viene da chiedersi come questa possa essere un’informazione alla portata degli automobilisti. Difficilmente lo possono sapere quelli di città, figuriamoci quelli che vengono da fuori (per i quali, in teoria, il servizio sarebbe pensato). Sembra quasi banale dirlo ma i cartelli, di qualunque genere, hanno l’elementare funzione di far capire immediatamente il loro contenuto, specie se questo serve a orientare delle scelte. Molti di quelli posizionati in queste settimane sono adatti agli appassionati della Settimana Enigmistica più che agli utenti della strada.

Che l’annotazione non sia né peregrina né frutto di pregiudizi nei confronti di chi lavora per la collettività, lo confermano le parole che gli stessi Gori e Zenoni hanno pronunciato in sede di presentazione. Il sindaco ha detto: “Sarebbe interessante indicare sul display anche l’indirizzo del parcheggio in modo che l’automobilista possa programmare il navigatore”. E l’assessore ha aggiunto: “Le indicazioni potranno un domani essere ancora più precise e puntuali, ma per ora era importante far partire il progetto”. Ecco trovata la spiegazione: per l’Amministrazione era fondamentale avviare l’intervento, il resto son particolari che si sistemeranno. Un errore madornale, tanto più grave se, come detto, da parte del Comune c’era la perfetta consapevolezza che con quel tipo di indicazioni non si fornisce un servizio efficiente.

Quel che ha detto Gori è elementare: sul cartello doveva essere messa la via. Quanti sanno, per fare un altro esempio, in quale zone precisa si trova “Il Triangolo”? Con la via, che si ricorra al navigatore o al passante, forse sarebbe più facile per chiunque arrivare a destinazione. Converrà provvedere ad una correzione (si è aspettato tanto, non si poteva pensarci prima?) perché al di là del difetto i display possono svolgere veramente una funzione utile. Così come va apprezzata la sperimentazione su Città Alta. Lì, più che altrove, è importante trovare il modo, con un pacchetto di interventi su vari fronti, di evitare che continui il selvaggio assalto al colle. Come nel caso dei display, non c’è granché da inventare, ci sono città simili alla nostra che hanno individuato soluzioni efficaci. Avanti con forza, allora, se possibile con un pizzico di attenzione in più oltre che alla forma anche al contenuto.




La dura vita del polemico “costretto” a raccontar balle

migranti - CopiaIl Polemico? E perché mai dovrei essere polemico, scusate? Tutto va bene, Madame La Marquise! In questo Paese benedetto da Dio e felicitato dalla più eletta e fattiva classe dirigente del pianeta, bisognerebbe essere dei begli ingrati per polemizzare. E, d’altronde, bisogna pure che qualcosa m’inventi, se voglio continuare a tenere questa rubrichina. Dunque, ricapitoliamo: il Paese è appena uscito da una fase congiunturale piuttosto complicata, ma la sagacia dei timonieri e la perseveranza dei rematori è stata tale da portarci in porto, nonostante le insidie del pelagoso inferno. Ci siamo dati una bella sgrullata e abbiamo, finalmente, affrontato tutta una serie di questioncine che, da decenni, mercè l’ignavia di governi infingardi, ci pendevano sul coppino.

La spesa pubblica, in primis, che è stata drasticamente tagliata. In secundis la voracità delle amministrazioni locali, che ha avuto il giusto ridimensionamento. Terzo, il debito, malanno endemico della nostra economia, che ha visto una consistente riduzione. Quarto la sicurezza, che è aumentata vertiginosamente. Quinto l’immigrazione, finalmente regolata, assistita e selezionata. Sesto la scuola, tornata ad essere luogo di civiltà e cultura e non di pugnette didattichesche. E settimo venne il corvo: ovverosia il Cimmino, che, come vi ho detto, deve pur guadagnarsi la pagnotta e, pertanto, si trova nella sgradevole necessità di polemizzare. Così, siccome i successi di Renzi e della sua selezionata compagine di saltimbanchi sono dati inconfutabili, abbiate la compiacenza di sciropparvi una serie di panzane a scopo detrattivo: immaginate per un attimo che il nostro presidente del consiglio, anziché essere quel politico serissimo, rispettato nel mondo ed autorevole appo il Paese tutto, sia un ciarlatano di piazza, che racconta sequenze pirotecniche di cazzate, senza avere la minima idea di come si risolva mezzo problema. Ecco, a me tocca di far finta che le cose stiano così, pena la squalifica.

Cominciamo dalla spesa pubblica: dei preannunciati tagli, che avrebbero dovuto drasticamente falcidiare il numero e l’entità delle prebende, nulla si sa. O, meglio, si sa che il fratello di Alfano è stato assunto in Posta come dirigente, senza concorso. Abbiamo ancora mille parlamentari e un milione di persone che ci gira attorno ingrassandosi. Un ex presidente, peraltro ex comunista, che porta a casa quasi novecentomila euro all’anno ed ha un esercito di maggiordomi che nemmeno Luigi XIV: alla faccia degli atteggiamenti da Cincinnato. Insomma, nulla è mutato, se non in peggio. Le amministrazioni locali si dividono ancora in tre categorie: i Comuni, che sono le uniche ad avere un senso, che si vedono tagliare i fondi ogni giorno di più; le Province, che dovrebbero essere state eliminate, ma, come si fa a lasciare a casa tanta brava gente? E, infine, le Regioni: vera sentina di ogni vizio italico e pozzo senza fondo. Le Regioni sì che andrebbero eliminate, a cominciare da quelle a statuto autonomo. Tra le quali, peraltro, si verifica il bizzarro fenomeno di un Sudtirolo ricco a dismisura ed una Sicilia che fa buchi miliardari con la scioltezza di una sciuretta che fa shopping, e non ha nemmeno gli occhi per piangere. Pensate che al suo presidente hanno perfino sbiancato il sedere, poveretto!

Il debito pubblico cresce costantemente, ad onta delle mirabolanti dichiarazioni dei vari economisti da talk show: da gennaio altri 83 miliarducci in più, per un totale di 2.218 miliardi e spiccioli. Ma chi se li mangia? direte voi: sono interessi miei cari. Perché noi non siamo padroni dei nostri soldi: ce li prestano le banche. Si chiama perdita della sovranità monetaria. Quanto alla sicurezza, come si risolve la questione? Col sistema fascista, è chiaro: durante il regime, era proibito scrivere di delitti, stupri, furti, scippi e rapine. Oggi è uguale: una bella fetta di reati passa sotto silenzio, censurata, silenziata. E guai a scrivere che i delinquenti sono zingari, albanesi e africani! Se la gente percepisse anche solo la sensazione che qualche profugo, in realtà, è un mascalzone venuto qui a fare marachelle, si potrebbe arrabbiare e l’odiato razzismo diffondersi. Solo che la gente vive nel mondo reale, e la situazione la vede coi propri occhi: vedrete che botto, quando scoppierà la bomba!

Allora, però, Renzi sarà già alle Bahamas, a raccontare agli altri turisti barzellette sull’Italia, facendoli scompisciare dal ridere. Ne consegue il discorso sull’immigrazione: il fenomeno ha un solo autentico imperativo, per il nostro governo, ossia che nessuno tocchi il gigantesco giro d’affari legato ai flussi migratori. Per questo gli immigrati sembrano essere sempre una priorità rispetto agli Italiani: perché gli Italiani sono la vacca da mungere e gli immigrati la mungitrice. Razza e religione non c’entrano un belino: qui si tratta solo di palanche. E, infine, la scuola: mi limiterò a dire che la Giannini capisce di scuola come la Pinotti s’intende di aerei da combattimento. Ecco, ce l’ho fatta: ho finito il mio pezzullo polemico. Ho mentito per la gola, diffamando tanta brava gente, ma, almeno, mi sono garantito una settimana di requie. Sapete che non è poi tanto male raccontar balle? Quasi quasi mi candido come sindaco alle prossime elezioni!




Con Zaira se ne va un esempio. Oggi ci restano gli arruffapopoli

Zaira Cagnoni
Zaira Cagnoni

Che coincidenze, la vita. Zaira Cagnoni, al culmine di un percorso lungo quasi novant’anni, ci lascia nelle settimane in cui infuria la polemica sull’accoglienza ai migranti che a migliaia sbarcano sulle coste italiane. Chissà cosa avrebbe detto, lei che si ritrovò nei primi anni Novanta ad affrontare la prima emergenza extracomunitari attrezzando l’ex caserma Galgario ed altre strutture reperite ad hoc, della sbracata e talvolta volgare propaganda di tanti amministratori locali che anziché assumersi le proprie responsabilità (compresa quella di assecondare il rispetto delle convenzioni internazionali che impegnano lo Stato) preferiscono soffiare su pur comprensibili paure emotive nella speranza di lucrare qualche consenso.

Lei che era cresciuta a latte e Democrazia cristiana, imbevuta fino al midollo di fede cattolica, non si era posta alcun problema e, semplicemente, si era data da fare per trovare una soluzione. Donna del fare, impegnata fin dalla gioventù sui fronti del sociale e dell’assistenza, traduceva la politica in opere concrete. Non aveva una famiglia sua, ma tante famiglie. La più importante, quella che l’ha vista in trincea per quarant’anni come direttrice, è stata la Casa della lavoratrice di via Autostrada. Quante donne in cerca di un letto o di una sistemazione dimessa ma dignitosa hanno trovato in lei una risposta pronta ed accogliente. E che dire dei quindici anni passati nella trincea dell’assessorato ai Servizi sociali del Comune di Bergamo? Se ancora oggi è vanto e fiore all’occhiello della città lo si deve in buona parte a questa signora dalla messa in piega maestosa, il rossetto vistoso, il piglio autoritario.

A prima vista, dava l’idea di quelle vecchie (non s’offenda, Zaira, si fa per dire) zie che incutono timore e soggezione ma che sanno sempre dare una risposta, un consiglio, una parola buona. In realtà, era fatta d’una pasta d’altri tempi. Quella di chi concepiva la politica come servizio, anzitutto per gli altri. Quella di chi raccoglieva il consenso non con la propaganda ma con la presenza nei luoghi della fatica e della sofferenza. Non che non ci tenesse ad avere un ruolo di visibilità. Le si farebbe un torto se la si dipingesse come una mammoletta. No, Zaira Cagnoni amava “comandare”, come ben sa chi ha avuto la ventura di interagire con lei, e rivestire un ruolo era la conditio sine qua non per esercitare il potere di guida. Se c’era da tirar fuori gli artigli, non si risparmiava, sempre con modi vellutati, naturalmente, secondo gli usi della Real casa democristiana.

Ha assistito alla fine della Dc, cui ha dato tanto ricevendo in cambio moltissimo, con composta rassegnazione. Ricordiamo l’amarezza di quei giorni, il dolore nel vedere travolto dagli scandali tanto impegno profuso per i più deboli. Per parte sua, dando sostegno all’allora sindaco Gian Pietro Galizzi, si spese fino in fondo per tenere in piedi l’ultima Giunta della Prima repubblica (un pentapartito). Anche allora, tra inchieste che lambivano (ma non colpivano) gli amministratori e emergenze varie, prevalse in lei il senso del dovere, la necessità di garantire a Bergamo un governo stabile in una situazione politica in preda all’impazzimento.

Oggi simili ragionamenti suscitano scandalo, ad ogni stormir di fronda si invocano elezioni e referendum come se non fosse dovere di chi è stato eletto assumersi la responsabilità di governare. Certo anche Zaira Cagnoni ha commesso i suoi errori, di sicuro ha condiviso scelte discutibili o sbagliate. Ma dopo una vita di incarichi e impegni pubblici si è congedata in silenzio e nella semplicità che sono stati i tratti distintivi della sua vita. Di sicuro in tanti decenni di politica non è mai stata sfiorata da scandali ne’ si è mai arricchita. Basta ad indicarla ad esempio di fronte agli spregiudicati arruffapopoli di cui abbiamo pieni gli occhi e le orecchie?