Quell’Italia che ha voltato le spalle al “bene comune”

bene comuneSapete quelle inchieste demoscopiche, che ti fanno delle domandine da niente, del tipo: sei triste o felice, Dio esiste, cosa serve all’Inter per vincere la coppa dei campioni? Se ne facessero una chiedendo agli Italiani qual è il problema principale dell’Italia, un leghista esclamerebbe: gli immigrati! Il razzismo! Replicherebbe la pasionaria. E ognuno ne indicherebbe a casse: la mafia, i politici corrotti, la polizia assassina, le tasse, il fascismo, l’antifascismo, l’antiantifascismo. A seconda di orientamenti più o meno ideologici, del mestiere, del sesso, della religione e perfino del numero di scarpa, si sentirebbero risposte varie e variopinte. Io dico che il problema dell’Italia sono, semplicemente, gli Italiani: o, meglio, sarebbero gli Italiani se esistesse questa categoria fenomenologica. Perché gli Italiani, in realtà, non esistono: esiste, senza dubbio, l’Italiano, come archetipo, ma gli Italiani come popolo, lasciatemelo dire, non ci sono e, forse, non ci sono mai stati. L’archetipo è quello delle barzellette: ci sono un Italiano, un Tedesco e un Francese…

E’ un’idea astratta, un’immagine translucida che ci fa intravvedere una specie di beduino che, invece del burnus ancestrale, indossa un ‘vestito gessato sul blu’ e s’ingozza di pizza e di spaghetti. Al di là di un certo folklore da film americano degli anni ’50, di quelli in cui il gondoliere veneziano canticchia “Santa Lucia” mentre rema, noi, in quanto comunità, non esistiamo proprio. E questo, a mio parere, è il motivo di ogni nostra sfiga: tutti i nostri dolori, piccoli e grandi, ci riconducono a questo difetto originario. Perché, in una comunità, la gente ha delle direttrici comuni di pensiero: ha, per così dire, un concetto di fondo, che è, magari, un tantino egoista, ma che serve a difendersi, che è quello del bene comune. Noi questa parola, comune, non sappiamo nemmeno cosa sia: per noi, il mondo si divide in due sole categorie che corrispondono a ciò che è mio e a ciò che non è mio. Ciò che è mio è il mio minimo ‘particulare’: la mia villetta d’angolo, ingresso indipendente, tavernetta e doppio box. E’ tutto ciò per cui vale la pena di ottenere vantaggi, raccomandazioni, spintarelle e scorciatoie. Ciò che non è mio, ossia tutto il resto, esula da ogni mio interesse: è pubblico, per cui, in quest’ottica distorta, non è di nessuno, è res nullius. Perciò non mi importa di buttare una cartaccia in terra: la terra non è di nessuno, visto che non è mia. Per questo sporco i muri dei gabinetti, rompo le cabine telefoniche, parcheggio come mi pare: perché è tutta roba non mia, ossia di nessuno. Se dovessi dirla in maniera un po’ meno ciabattona, dovrei scrivere che lo Stato, da noi non esiste, perché ne mancano i presupposti fondamentali.

Il primo è di rappresentare l’unione dei cittadini, mentre in Italia lo Stato rappresenta qualcuno che cerca di rubarti il portafogli: non solo un estraneo, ma anche un estraneo da cui guardarsi. In secondo luogo, perché, dopo decenni di antitalianismo, di contropatriottismo, di deculturalizzazione, l’idea stessa di Stato appare come un rottame di un buio passato: la gente si identifica di più in una squadra di calcio, in un cantante, in una cartolina, che nella propria bandiera. Infine, perché non avere uno Stato, anche se, alla lunga, si paga, sulla breve distanza è più comodo: nessuna responsabilità, nessun dovere, nessun sacrificio. Un pubblico ufficiale, ad esempio, non si sente investito da una responsabilità individuale: per capirci, è l’esatto contrario del burocrate asburgico, che credeva di rappresentare fisicamente l’imperatore e, quindi, doveva esprimere decoro e rettitudine assoluti. Da noi, un funzionario dello Stato rappresenta il nulla cosmico: che gli frega del decoro e della rettitudine? Non vuole grane, non accetta di essere personalmente coinvolto: per quei pochi soldi che mi danno, deve pensare, chi me lo fa fare di assumermi questa responsabilità? E il dovere, quello proprio ce lo scordiamo: non supero la coda, perché non si deve, non frego sul resto perché non si deve, non sono un maleducato perchè non si deve: capite?

Perché non si deve: non perché è pericoloso né perché è poco redditizio. Semplicemente perché non si deve. Perché sono Italiano e gli Italiani non fanno certe cose: orgoglio, dignità, senso dello Stato. Kaputt: lo so bene, non statemelo a ricordare. Infine, il sacrificio: la parola, in sé, ha un senso ieratico. Fare qualcosa di sacro. Magari, semplicemente, fare delle cose normalissime, per uno scopo che sia sacro: per la tua famiglia e per quella famiglia più grande che è la tua Nazione, il tuo popolo. Parola abusata e, per questo, del tutto depotenziata. Oggi, se lo Stato ti domanda un sacrificio, t’immagini che i tuoi soldi finiscano in sprechi, privilegi, abbuffate. E il sacrificio equivale a un’asinata: chi me lo fa fare? L’Italia? Ma io sono cittadino del mondo: ascolto il rap, mangio street food e il mio inno nazionale è una canzone di Jovanotti. Il problema peggiore dell’Italia, dicevamo: no problem!




Gestione profughi, le battute a vuoto del prefetto

Il prefetto di Bergamo, Francesca Ferrandino
Il prefetto di Bergamo, Francesca Ferrandino

Forse si è ricreduta. Il sospiro di sollievo che tirò, poco meno di due anni fa quando, dopo aver gestito dalla prima linea di Lampedusa l’emergenza sbarchi, il ministero degli Interni le comunicò il trasferimento a Bergamo, oggi Francesca Ferrandino se lo terrebbe ben serrato in gola. L’esperienza da prefetto in via Tasso, infatti, si sta rivelando ben più impervia di quanto potesse immaginare. Il problema da affrontare è il medesimo con cui si è fatta le ossa sull’isola, ma seppure il numero dei migranti da gestire sia infinitamente minore le difficoltà che sta incontrando sono notevoli. Anche per responsabilità sua, bisogna dirlo chiaro. Che non potesse trovare il tappeto rosso da parte della Lega era evidente, anche se la virulenza e la volgarità di certe manifestazioni dovrebbe far riflettere chi pensa che l’attuale dirigenza del Carroccio (a partire da quel segretario che va in giro in bermuda e t-shirt come un perditempo qualsiasi incurante che anche la forma è sostanza) abbia le capacità per passare dalla protesta al governo delle situazioni complesse e delicate. Così come non c’è da stupirsi, dato il livello a cui è precipitata anche la politica locale, nell’assistere alla spregiudicatezza con cui il coordinatore provinciale di Forza Italia Alessandro Sorte accorre con le truppe cammellate nei luoghi in cui si presenta Salvini per cercare di dimostrare di non essere da meno nella caccia allo straniero. Il soggetto in questione, che per soprammercato è pure assessore regionale ai Trasporti, forse cerca di distogliere l’attenzione dalle vergognose condizioni in cui versa il servizio ferroviario, messo sempre peggio nonostante le quotidiane sparate propagandistiche del medesimo Sorte a cui una parte della stampa locale riserva spazi a profusione in barba alle prese per i fondelli inflitte ai poveri lettori.

Ma proprio perché il livello di chi alza le barricate è questo, chi rappresenta le istituzioni ha il dovere di muoversi con accortezza e sensibilità, cercando di non offrire ai detrattori occasioni per alzare la voce con qualche valida ragione. Purtroppo, il prefetto, per ragioni che non è dato conoscere, ha mostrato più di una battuta a vuoto. Che senso ha costringere i sindaci ad aspettare mesi prima di essere ricevuti? Perché comunicare ai primi cittadini l’arrivo dei migranti con poche ore di preavviso mentre altri soggetti da giorni erano a conoscenza della sistemazione? Più in generale, è mai pensabile pensare di gestire il tema dell’accoglienza a prescindere, se non contro, il territorio e i soggetti che, democraticamente, lo rappresentano? Sono domande che anche chi non condivide né modi né toni della campagna leghista si deve porre. Il prefetto è il rappresentante del ministero degli Interni, un funzionario di alto grado cui spetta indubbiamente un ruolo delicato. Ma non è e non può trasformarsi in una sorta di plenipotenziario che tutto decide è tutto dispone. Perché il risultato di un modo di procedere così inutilmente decisionista è di infoltire la schiera degli “avversari” (vedi il fuggi fuggi di molti sindaci del Pd…), di alzare ulteriormente una temperatura già torrida e di rendere ingestibile una situazione che, Dio non voglia, potrebbe anche sfociare in qualche gesto sconsiderato.
Nessuno discute il valore e le qualità di Francesca Ferrandino. Chi scrive ha avuto l’opportunità di intervistarla per il Corriere della Sera in occasione del suo insediamento a Bergamo. Una chiacchierata veloce ma intensa, uno scambio di opinioni su diversi problemi che avevano messo in luce una personalità forte, la determinazione di una donna che si era fatta valere su un terreno in cui tanti avevano fatto flop. Non vorremmo che la becera accoglienza di qualcuno che le aveva ricordato le sue origini meridionali le abbia fatto scattare una reazione d’orgoglio che, magari inconsciamente, l’ha portata a coltivare un disagio rispetto al territorio in cui si è trovata a lavorare. Se così è, si tolga ogni preoccupazione. La stragrande maggioranza dei bergamaschi rispetta fino in fondo il ruolo del prefetto e la persona che lo riveste. Ma ci vuole collaborazione, confronto, apertura al dialogo. Senza condivisione anche il potere più forte, sulla carta, non costruisce nulla di duraturo.




Finalmente l’Ateneo “pesa”, ma ora facciamo concorsi pubblici più seri

Università EconomiaSiamo alle solite, sempre alle solite: realtà e teoria. Un pochino mi sono stufato di scriverlo e immagino che anche voi, a forza di leggerlo, sì, insomma…Eppure è così: ci sono due italie, l’una contro l’altra armata. Una vive nel mondo dei fenomeni: si scontra con l’inefficienza, l’incongruenza, l’ingiustizia, che dominano anche le mignole questioni di questo povero Paese. L’altra, invece, si libra nel mondo astratto: per lei la realtà non esiste o, al massimo, è un prodotto dello spirito, plasmabile con atti di volontà o, più spesso, di velleità. Ma ve la faccio più semplice: qui c’è un sacco di gente che non vuole vedere le cose come stanno, e che preferisce chiudere gli occhi e viaggiare con la fantasia, piuttosto che chiudere le mani a pugno e battersi per un futuro migliore. Ad esempio, è recentissima la proposta, che, una volta tanto, vede d’accordo centrosinistra e centrodestra, di tenere conto, tra tutti i mille altri parametri di valutazione nei concorsi pubblici, anche dell’ateneo in cui ci si è laureati: insomma, un 110/110 preso a Chissadove varrebbe meno di un 97 strappato a Guardaunpo’. Per la verità, non è chiaro come una proposta di emendamento alla legge quadro si sia trasformata in un caso da pugnale tra i denti, tuttavia, da cronista lo rilevo e da docente ci faccio sopra un paio di considerazioni.

 

Comincio col dire che sono del tutto a favore di un simile provvedimento: ho constatato a mie spese, più di una volta, che voti di laurea stellari e risultati accademici eclatanti erano frutto di meschine pastette e di maniche larghissime. Sono d’accordo, anche se so benissimo che questo emendamento non passerà mai, nella forma suddetta: nel caso, verrà depotenziato ed aggiustato in modo da renderlo del tutto ininfluente. Aggiungo che, in trent’anni di cattedra, concorsi, convegni, conferenze e dopo aver scritto qualche libruccio qua e là, un tantino mi sento autorizzato ad esprimere un’opinione sulla vexata quaestio. E io la esprimo: tra un’università e l’altra, tra un corso di laurea e l’altro, esistono differenze talmente abissali da rappresentare degli autentici valori scalari, di cui tener conto. Perché non è possibile che i vertici di certe graduatorie siano intasati da aspiranti docenti con voti di laurea altissimi e che, una volta insigniti della docenza, costoro si dimostrino capre totali, di quelle che scrivono “innoquo” e “collocquio”. Guardate che non sto scherzando e non esagero: la settimana scorsa, indossavo una maglietta che mi ha regalato il mio amico Luca De Carlo, sindaco di Calalzo di Cadore, con su scritto: “Io amo Calalzo!”. Orbene, uno di questi cosi da lode, abbraccio e pubblicazione, serio serio, mi ha domandato: scusa, collega, ma chi è ‘sto Calalzo? Capito bene?

In Italia, mercè una tradizione cinquantennale di scempi culturali ed educativi, si è arrivati a ritenere la scuola migliore quella che ha il maggior numero di promossi: il criterio, evidentemente, si è trasferito alle università. Così, oggi, ci sono atenei che toccano livelli da scuola dell’obbligo. E studenti universitari che, in sede di esame, ti raccontano che Leopardi è vissuto nel XIII secolo: e anche qui non sto scherzando, ma mi riferisco all’Unibergamo, mica al Burkina-Faso, anno domini 2015. E il fronte dei contrari e degli incazzati chi raduna? I rettori, che temono un drastico calo dei finanziamenti. La Cgil, che è contro qualunque forma di meritocrazia a prescindere. Qualche meridionalista irriducibile, di quelli che citano il Gravina quando gli parli dei problemi dell’oggi. Questi e moltissimi altri, che parlano di classismo o, peggio, di antimeridionalismo. Già, perché le migliori quindici università italiane sarebbero tutte al nord: io trovo, per converso, più sensibile il dato secondo cui le quindici peggiori sarebbero tutte al sud, da cui proviene la maggioranza dei centodieci e lode.

Analizziamolo questo benedetto dato: se gli studenti che vengono dagli atenei considerati peggiori hanno i voti migliori, mi pare se ne possa dedurre una semplice ed aurea regoletta, ossia che il voto di laurea non deve essere l’unico parametro per giudicare le capacità di un neolaureato. Almeno secondo logica: perché, poi, interviene quell’assoluta assenza di senso della realtà che caratterizza la metà del Paese che ci zavorra e ci sta affondando. Va da sé che le università dovrebbero essere tutte di pari livello e i loro titoli del tutto equivalenti: solo che non è così. Sarebbe bellissimo che fosse così: la realtà, però, torno a dirlo, è diversa dalle astrazioni dei mastri pensatori. Ridicolo, infine, mi pare un commento secondo cui questo emendamento finirebbe col penalizzare uno studente bravissimo ma meridionale: mi limito a notare che, evidentemente, per lo stesso ragionamento, oggi è inevitabilmente penalizzato il bravissimo studente settentrionale. Non si potrebbe tener conto di entrambe le cose, tanto per non penalizzare nessuno. E, magari, fare dei concorsi seri e uguali per tutti, tanto per non favorire questo o quello? Così, il bravissimo studente meridionale e il suo equivalente settentrionale potrebbero dimostrare all’universo mondo la loro bravura. E la scuola italiana si ritroverebbe degli insegnanti che, del nord o del sud, garantirebbero almeno il rispetto dell’ortografia.




Ubi e la trasformazione in Spa, tutti i benefici di una partenza sprint

ubi45.jpgIl tempo è denaro, anche e soprattutto per i banchieri. Nella decisione di Ubi di rompere gli indugi e aprire ufficialmente per prima l’iter di trasformazione in Spa – seguita poi a distanza dalla Vicenza, non quotata in Borsa – c’è anche l’opportunità di essere i primi. In questo caso non c’è la necessità di competere su un mercato affollato, come è avvenuto alcuni anni fa, con l’aumento di capitale. Però c’è la possibilità di mettersi maggiormente in luce di fronte agli investitori, così che il titolo può beneficiare di una ripresa o comunque – anche nella fase di tensione per la crisi greca – di un andamento migliore rispetto ad altre popolari.

Finché sarà una cooperativa, e comunque Ubi lo sarà sicuramente fino alla assemblea di trasformazione, la formula per fare felici i soci resta essenzialmente una: dividendo e aumento della quotazione. Tutta la retorica sulla bergamaschità, la storia, il legame con il territorio e altri aspetti sentimentali sono temi che possono valere per una minoranza rumorosa. Ma la maggior parte dei soci guarda oggettivamente e pragmaticamente ad altro. Sul dividendo i tempi non permettono più di tanto, ma la rivalutazione è possibile ottenerla – anche per evitare che la proposta di trasformazione arrivi in un’assemblea mal disposta -, grazie al superamento dello sconto pagato delle cooperative rispetto alle spa per la mancata contendibilità. Per questa ragione, quindi, partire per primi ed essere più visibili diventa un vantaggio.

In ogni caso la finanza, pur vivendo di turbolenze, non le ama. E questo è vero soprattutto quando ad essere volatile, per non dire confusa, è la legislazione. L’amministratore delegato di Ubi Victor Massiah ha più volte insistito sul fatto che prima di ogni operazione bisogna avere le regole certe. Anche per sapere a che gioco si sta giocando. Le disposizioni attuative hanno fatto ulteriore chiarezza, se ce ne fosse stato bisogno, circa il fatto che l’unico modo per evitare la trasformazione in Spa per una popolare è quella di scendere sotto gli 8 miliardi di attivo consolidato. Le regole, insomma, non permettono di dividere fittiziamente un gruppo in tante banche più piccole, come facevano le industrie, prima del Jobs Act, quando non volevano far scattare le soglie per l’applicazione dello Statuto dei lavoratori. E non vale neanche la cooperativa di soci che controlla una società per azioni.

L’alternativa, suggestiva, ma sicuramente distruttrice di ricchezza, oltre che di molto corto respiro, sarebbe una reale divisione di Ubi in tante piccole banche autonome. Sognare il ritorno alla vecchia Popolare di Bergamo mutua cooperativa potrebbe alla fine ad una società territoriale, come qualcuno sogna, ma senza l’efficienza delle dimensioni e paradossalmente ancora più esposta a scalate. Trascurando tutti i problemi tecnici per realizzare questa ipotesi, si può infatti ipotizzare che il capitale della rinata Popolare di Bergamo cooperativa dovrebbe essere assegnato pro quota agli attuali azionisti di Ubi che attualmente ne controlla il 100%. Ma dato che una quota importante degli azionisti di Ubi sono grandi investitori istituzionali e risparmiatori di altri territori che sarebbero poco interessati a una banca locale bergamasca, è molto probabile che queste azioni verrebbero rapidamente rivendute sul mercato, facile preda di un possibile raider che, impegnando cifre più basse di quelle necessarie in Ubi, potrebbe rastrellare il tutto con l’aiuto di soci compiacenti, per poi cedere al migliore offerente, previa ritrasformazione in Spa.

DI fronte a strade impraticabili, una volta definita l’ineluttabilità della conversione, bisogna rassegnarsi: o si ottiene la modifica della legge, eventualmente anche con il ricorso alla corte costituzionale o la si deve applicare. E in questo caso, tanto vale non perdere tempo, se si possono ottenere benefici migliori del temporeggiare.




Alleanza con Sea, per Sacbo è il momento di aprire il recinto

aeroporto-di-Orio-al-Serio-2013-129Per Sacbo potrebbe essere arrivato il momento di decidere cosa fare da grande. Più o meno quello che capitò, agli inizi degli anni Duemila, alla Bergamo Ambiente e Servizi (Bas). Fondersi con una pari grado (allora il partner prescelto era l’Acsm di Como, salvo che il Consiglio comunale sconfessò clamorosamente il sindaco Cesare Veneziani) oppure entrare in un soggetto più grande (l’Asm di Brescia, come avvenne, oggi A2A) per competere sui mercati nazionali e internazionali sempre più consolidati? Anche l’aeroporto di Orio al Serio è arrivato ad un punto di svolta. Lo sviluppo in loco non è più possibile, si è detto, occorre spostare buona parte del traffico merci, sia per alleviare i problemi ambientali che per creare spazio a nuovi voli passeggeri. E la soluzione che sembrava più a portata di mano, anche se non necessariamente la migliore, era l’utilizzo delle potenzialità inespresse di Montichiari. Sull’asse Bergamo-Verona-Venezia (cui fa capo lo scalo bresciano) era stato imbandito un bel banchetto nuziale, ma sul più bello i promessi sposi hanno litigato e son volati i piatti. Risultato? I veneti han deciso di far tutto da sé, i bergamaschi hanno cominciato a comprendere che lo sbocco immaginato fino a quel punto non era per nulla scontato né esclusivo. Perché, come è stato scritto anche su queste colonne in tempi non sospetti mentre il solito coro superficiale dei politici pret à porter che governano Comune e Provincia esaltava l’ipotesi in campo senza peritarsi di valutare eventuali alternative, se si guarda ad ovest anziché ad est c’è un sistema, quello milanese, che ha necessità e potenzialità che possono perfettamente integrarsi con quelle di casa nostra. Di qui la decisione, presa nei giorni scorsi, di affidare al rettore dell’Università, Stefano Paleari, l’incarico di “valutare la possibilità della costituzione di un unico soggetto a cui afferiscano, anche indirettamente, le gestioni degli aeroporti di Malpensa, Linate e Orio al Serio”.

Certo, il rapporto in questo caso non sarebbe alla pari. Sea è molto più grande di Sacbo. Proprio come Asm lo era rispetto alla Bas. Ma qui si tratta di capire che cosa si vuole. Mettiamola in termini calcistici, così forse ci spieghiamo: meglio essere titolari nell’Atalanta, società nobile ma perennemente condannata ad evitare di retrocedere in serie B, oppure fare i rincalzi nella Juventus, club che lotta per conquistare scudetti e Champions League? Ogni scelta è legittima e, come ovvia, presenta sia aspetti positivi che negativi. Il lavoro che si appresta a svolgere il rettore sarà importante perché li metterà tutti sul tavolo e forse per la prima volta si potrà sviluppare un ragionamento compiuto, radicato su numeri e analisi tecniche, su quale possa essere il migliore sviluppo di Orio.

Sul tavolo, inutile che ce lo nascondiamo, c’è l’ipotesi di una fusione. Quando fu prospettata per la prima volta qualche anno fa, certo in maniera un po’ improvvida e unilaterale da parte dell’allora dirigenza di Sea, scatenò una virulenta levata di scudi da parte dei soci di Sacbo. Si sa, da queste parti, a dispetto di un mondo in cui le frontiere sono state spazzate via, continua a permanere un discreto culto della “bergamaschità”. A prescindere. Forse è arrivato davvero il momento di aprire il recinto, di giocarsi la partita in campo aperto, senza presunzione ma nemmeno riverenze. Da cittadini vogliamo solo augurarci, visto che l’aeroporto appartiene al patrimonio collettivo, che soprattutto i soci pubblici (ma non solo, evidentemente) si aprano al confronto con la massima trasparenza. La sfida è difficile e non priva di insidie. Se qualcuno pensasse di giocarla in un salotto commetterebbe un clamoroso errore.




Galera o pacca sulla spalla? Il dilemma di fronte ai criminali stranieri

L'aggressione al capotreno che ha rischiato di perdere un braccio
L’aggressione al capotreno che ha rischiato di perdere un braccio

Il relativismo è una dottrina affascinante: è nato come una sana e sincera obiezione al dogmatismo e ha finito per diventare la foglia di fico del nostro suicidio civile e culturale. Si è cominciato con qualche timido “dipende”, con degli sporadici “però”, e si è arrivati al più smaccato giustificazionismo. Anche il giustificazionismo, d’altronde, è una dottrina affascinante: non a caso, è nato per giustificare gli olocausti novecenteschi ed ha finito per essere l’argomento principale dei più sinceri, pacifici e devastanti democratici. Proviamo un pochino a vedere come funziona. In tempi bui, di dogmi e di inquisizione, esisteva una sola verità, incontestabile, inconfutabile, e guai a chi la pensava diversamente: se il Papa avesse proclamato che i sassi sono buoni da mangiare e tu avessi obiettato che mangiare i sassi è cosa poco sensata, ti avrebbero messo ipso facto in gattabuia e, se recidivo, magari ti avrebbero grigliato con tutti i crismi.

Oggi, il Papa si domanda chi è lui per giudicare: e se lo dice lui, possiamo pure porci qualche dubbio anche noialtri, che non possediamo le virtù carismatiche di un pontefice. Dunque, chi siamo noi per giudicare? Ed ecco che, come ho più volte postulato, la religione e il diritto si sono felicemente mescolati, in una confusissima e sciropposa mistura, in cui il peccato e il peccatore si sovrappongono al delitto e al delinquente. Il relativismo, dicevamo: tutto è relativo. Se alle tenerezze papiste aggiungiamo questo superlativo portato dell’illuminismo, possiamo cominciare a spiegarci perché siamo conciati così.

Un delinquente abituale, strafottente e violento, che tagli via un braccio ad un controllore che gli chiede il biglietto, osservato attraverso il duplice filtro del neocristianesimo e del neorelativismo, diventa semplicemente una pecorella smarrita, che noi non possiamo giudicare e che, in fondo, dobbiamo giustificare, perché è un ultimo, un reietto, in sostanza una vittima del colonialismo e della brutalità della decadente e crudele società occidentale. Chi siamo noi per giudicarlo? Noi, figli del benessere e della prevaricazione. Noi, che, a ben pensarci, siamo i discendenti di coloro i quali hanno posto le premesse della pericolosità sociale del cicagno: gli abbiamo violentato la bis-bis-bis-bis-bisavola, gli abbiamo portato l’influenza e il colera, gli abbiamo rubato l’oro e le banane. La storia siamo noi: i colpevoli siamo noi. Dunque, chi siamo noi per giudicare?

Chiediamo scusa, anzi a tutti: ai cinesi e ai venezolani, ai turchi e agli africani. Se, oggi, la feccia del pianeta si riversa sui nostri treni e nei nostri quartieri, non dobbiamo prendercela che con noi stessi. E, comunque, se la papistica versione della storia umana non vi accontenta, c’è sempre il relativismo a convincervi definitivamente: perché ogni cosa va giudicata contestualizzandola. Questo presupposto, già di per sé, negherebbe la tesi, giacchè lo stesso relativismo parte da un postulato di tipo dogmatico, ma non facciamo troppo i sosfisticati. Il cicagno di cui sopra, che all’occhio rozzo e monocromatico dell’occidentale inculto appare come una specie di orrenda bestia tatuata, tetragona a qualsiasi incivilimento, ferocemente violenta e di una stupidità senza eguali, trasferito in un contesto appropriato si trasforma, come per incanto, in un personaggino ammodo. Perché il relativismo fa miracoli: una canzoncina scema, opportunamente contestualizzata, vale l’opera omnia di Mozart.

Le subamputazioni a colpi di machete degli avambracci altrui, nei barrios di Caracas sono pane quotidiano e, allora, perché dovremmo stupirci: dobbiamo, anzi, studiare e comprendere. Dunque, ricapitolando, noi non solo non possiamo giudicare, ma non dobbiamo nemmeno valutare, perché non possiamo sperare di capire. Ed eccoci impacchettati per benino. Per stabilire se un giovane criminale straniero, pluripregiudicato e che odia bestialmente tutto ciò che siamo e che rappresentiamo meriti la galera o una bella pacca sulle spalle, bisogna essere, come minimo, dei filosofi di scuola wittgensteiniana: e, anche in questo caso, la voce dalla cattedra ci ammonisce circa il fatto che non siamo attrezzati a giudicare. D’altronde, chi è senza peccato scagli la prima pietra. La soluzione mi pare evidente: o ci si iscrive tutti quanti ad un corso universitario a Tubinga o a Heidelberg o ci si procura un saio, un paio di sandali e si va in giro a perdonare meretrici e a ridare la vista ai ciechi. O, alla meglio, a riattaccare radii ed ulne ai controllori delle ferrovie, che, dati i tempi, sembrerebbe una taumaturgia più d’attualità. Machiavelli, mezzo millennio fa, era stato chiarissimo circa le nostre jatture: aveva esattamente inquadrato il problemino fondamentale del rapporto tra stato e chiesa. Solo che non poteva prevedere che ci si sarebbe messo anche il relativismo: era Machiavelli, mica Nostradamus…




Grecia, la scarsa credibilità e il rischio svalutazione

GrexitDue Paesi, due obiettivi diversi. Da un lato c’è lo Zimbabwe che abdica definitivamente alla sua sovranità monetaria e dall’altro c’è la Grecia che, se non riuscirà a risolvere il problema del pagamento della quota del debito in scadenza a fine mese, dovrà trovarsi un’altra moneta, uscendo dalla “sovranità monetaria condivisa” alla base della rinuncia alle valute nazionali in favore dell’euro. C’è un banale problema tecnico che ostacola il ritorno della dracma. In Grecia non ci sono stampatori di cartamoneta e tra gli operatori esteri non risultano ordini di questo genere. Diventa probabile in questo caso che la Grecia continuerà ad utilizzare l’euro “abusivamente”, da esterno, senza fare parte della Banca centrale europea, come avviene del resto nel vicino Montenegro.

 

A rinunciare volontariamente alla sua moneta è invece lo Zimbabwe, che ha scelto di passare ufficialmente al dollaro americano, come già ha fatto nel settembre 2000 l’Ecuador, dove il biglietto verde ha assunto corso legale e poi ha sostituito definitivamente il 30 marzo 2001 il sucre con il rapporto 25 mila a uno. In effetti il dollaro americano è già dal 2009 la moneta corrente dell’economia zimbabwana, dove circola insieme al rand sudafricano e alla rupia indiana. Le valute straniere hanno ormai completamente sostituito quella locale, tanto che è giunto il momento di ufficializzare la situazione. Fino alla fine di settembre è prevista la possibilità di cambiare il dollaro zimbabwano nel rapporto di 175 milioni di miliardi per 5 dollari americani. A questa schiera di trillionari (in zim-dollari) che con il loro patrimonio non riuscirebbero a comprarsi un hamburger, si è arrivati per problemi di insostenibilità del debito pubblico. Una riforma agraria disastrosa che dopo il sequestro delle terre agli ex coloni della Rhodesia ha ridotto in tre anni il Paese da esportatore a importatore, corruzione, aumento delle spese militari hanno reso lo Zimbabwe insolvibile, con l’azzeramento del credito. A quel punto la prima soluzione è stata quella di stampare moneta, fino ad arrivare alla banconota da 100 trillioni (100 mila miliardi), con conseguente svalutazione e iperinflazione. La seconda soluzione a quel punto è diventata la totale perdita della sovranità monetaria.

 

Quella dello Zimbabwe non è peraltro la maggiore inflazione della storia. Quella si è avuta in Ungheria nel 1946. A luglio di quell’anno i prezzi raddoppiavano ogni 15 ore, con un tasso di inflazione giornaliero superiore al 200% e la banconota di taglio più elevato mai stampata: “Un miliardo di b-pengo”, ovvero mille miliardi di miliardi di pengo, che si scrive con un uno seguito da 21 zeri. La riforma monetaria di agosto con l’introduzione del fiorino che sostituì 400 quadriliardi di pengo (4 seguito da 29 zeri) chiuse quella drammatica fase economica.

Appare difficile che la strada ungherese possa essere percorsa in Grecia, mettendo in atto con la dracma le riforme che non sono stati in grado di far per restare nell’euro. Attualmente ad Atene, come nel caso dello Zimbabwe, ci sono debito pubblico e situazione di possibile insolvenza, ma non c’è inflazione, dato che anzi i prezzi stanno calando per effetto del calo dei consumi dettato dalla austerity. La scarsa credibilità del Paese nell’ottenere credito internazionale una volta dichiarato il default, anche solo per la necessità di pagare gli stipendi pubblici, rischia di condurre inevitabilmente a una svalutazione, fenomeno che la Grecia ha già ben conosciuto durante la Seconda guerra mondiale, dando il colpo di grazia ai risparmi dei cittadini greci (quelli non portati via negli ultimi giorni di caccia al bancomat) e alla sua economia.




La Regione riforma la sanità, ma intanto prenotare un esame resta un’odissea

Bright lights at the end the hospital corridor. The concept of lA furia di sentirsi ripetere che “La Sanità lombarda è la migliore d’Europa” e che quello di cui noi bergamaschi disponiamo è “un modello di efficienza” finisce quasi che ci credi. Pensare bene, in fondo, aiuta a vivere meglio. Solo che poi, ottimismo della volontà a prescindere, ci sono le variabili indipendenti che si chiamano malattie e acciacchi vari. Quelle che nessuno vorrebbe (“l’importante l’è la salute” ti dicono fin da ragazzino, e solo in età adulta capisci che non è solo un luogo comune) ma che inevitabilmente funzionano da “crash test” nei confronti dei tanti venditori di fumo che magnificano un sistema tutt’altro che impeccabile.

Mettiamo il caso di aver bisogno di una risonanza magnetica. Il problema fisico che ti affligge è doloroso, vorresti cercare di capirne al più presto le cause. Se vai per vie tradizionali l’esame ti viene fissato “tranquillamente” a distanza di 3-4 mesi. “Se vuole può andare in privato – rassicura al telefono l’addetta di un ospedale -. In due giorni fa tutto. Ecco, però, deve mettere in conto che l’esame le costa 600 euro…”. Quando star male è un privilegio, vien da dire. Allora, siccome il dolore persiste e non c’è troppo tempo da perdere, si torna dal medico curante che ha la possibilità di avviare l’esame su una corsia preferenziale grazie al cosiddetto “bollino verde”. (Il camice bianco sbotta: “son stanco di dover mettere ‘sti bollini, tutti hanno fretta di fare i controlli prima di andare in ferie…”, il che lascia intravedere quanta e quale discrezionalità, oltre che responsabilità, si lascia al povero tapino). Con il “bollino verde” sulla ricetta (prestazione da erogare entro 72 ore, dice la normativa) si parte per un nuovo giro di giostra. Si parte dal call center regionale che dovrebbe, sì dovrebbe, avere sotto controllo tutto. Prima di parlare con una operatrice si trascorre un quarto d’ora a digitare numeri per stabilire se si è di Milano o della Lombardia, se di Pavia o di Bergamo, se della città o della provincia (quasi una lezione di geografia a scalare). Poi ecco la vocina della “sventurata” (suo malgrado). “Noi possiamo verificare solo la disponibilità del Bolognini di Seriate” dice. E tutte le altre aziende? “Non ci fanno avere i dati… Mi spiace”. E a Seriate quando si può fare l’esame? “Adesso verifico. Prima mi dia i suoi dati, il codice fiscale, il codice a barre, la patologia, la diagnosi… Ecco, no, guardi, non c’è posto. Mi dispiace…”. E cosa posso fare? “Deve andare a verificare di persona nelle singole strutture”. La rabbia monta a picchi himalayani, ma non serve prendersela con chi sta all’altro capo del telefono. Resta la sostanza: una persona che fatica a camminare e che proprio per questo ha bisogno di un esame urgente non è in condizione, nell’Anno Domini 2015 quando con un tablet si ordina il caffè al bar dell’angolo, di sapere dove, fosse anche lontano 20 km, ha la possibilità di usufruire della prestazione di cui ha necessità e che, ca va sans dire, è pagata con le tanto amate tasse. No, deve andare a fare il giro delle sette chiese, senza peraltro avere alcuna certezza di fare l’esame entro le famigerate 72 ore. Nemmeno un tentativo disperato di evitare la trafila sortisce risultati. Anzi, va anche peggio. Al telefono di una clinica la risposta è: “O viene di persona allo sportello oppure ci manda un fax”. Un fax? Un fax!!!! La posta elettronica pare non sia ancora stata inventata…

E allora? Si parte per la “caccia all’esame”, nuova disciplina olimpica inventata dagli stessi (o dai loro padri) che in questi giorni in Regione stanno discutendo la Riforma della Sanità. Il modello d’efficienza va ricalibrato, dicono, per renderlo ancora migliore. Come? Semplice, con il solito giochetto all’italiana del cambiare le parole. Spariscono le Asl (quelle che prima si chiamavano Mutua, poi Saub, poi Ussl, poi Usl, quindi Asl) e diventano Ats (Agenzia di tutela della salute, ciumbia!). Via le Aziende ospedaliere ed ecco le Asst (aziende socio sanitarie). Tutto cambia ma nulla cambia. Grande operazione di ingegneria parolaia che casca miseramente, agli occhi del modesto cittadino malato o acciaccato, di fronte all’impossibilità di prenotare un semplice esame come si converrebbe in un paese civile. E allora torna in mente quella frase (“l’importante l’è la salute”) come unica speranza perché continuare ad affidarsi agli apprendisti stregoni che ci governano significa avviarsi sulla strada dell’inferno.




Emergenza migranti / La soluzione c’è. Basta leggere Confucio

Una statua di Confucio
Una statua di Confucio

Più o meno quando gli Ateniesi stavano combattendo contro i Persiani, tra Salamina e Platea, in Cina un signore che si chiamava Confucio stava elaborando un sistema di pensiero piuttosto interessante, basato, essenzialmente, su di una visione saggia e pacifica della vita. Se in riva al fiume vedi qualcuno che ha fame non regalargli un pesce, ma insegnagli a pescare, diceva il nostro cinesino: se un uomo ti chiede del riso, non dargliene una ciotola, ma insegnagli a coltivare la terra. E’ un ragionamento talmente piano, ovvio, sensato, da non necessitare di grandi spiegazioni: i più grandi pensatori della storia si esprimevano così, in modo da fare comprendere, anche ai meno attrezzati, verità talvolta assai complesse. L’esatto contrario di quel che accade oggi, quando il più miserabile dei ripetenti ginnasiali si riempie la bocca di altisonanti polisillabi, per stupire, annientare, meravigliare l’interlocutore. Che, in compenso, non capisce nulla di quel che gli si dice.

Ordunque, partiamo da Confucio ed arriviamo a noi. La soluzione finale, epocale, millenarista, del problema dell’immigrazione non può che essere una: importare in Africa un modello di sviluppo che permetta a quelle popolazioni di vivere in pace e con la pancia piena a casa loro. Naturalmente, c’è qualche controindicazione: innanzitutto, il fatto che, per realizzare una specie di gigantesco piano Marshall per l’Africa ci vogliono risorse enormi, che al momento scarseggiano, e tempi medio-lunghi, che oggi, ahinoi, non abbiamo. Va da sé che, poi, bisognerebbe un tantino intenderci sul modello di sviluppo: esportare il modello fastfood, il “produci, consuma, crepa”, non sarebbe aiutare l’Africa, ma l’America, creandole un nuovo mercato bello e pronto. Inoltre, in Africa, prima di far partire gli aiuti sostanziali, si dovrebbe accertare in che tasche finirebbero questi aiuti, giacché, da almeno cinquant’anni, i soldi della cooperazione internazionale ingrassano ducetti e dittatorelli vari, sempre pronti ad indossare giganteschi orologi d’oro e a farsi la guerra.

Quindi, si dovrebbe prima stabilizzare il continente: ossia l’esatto contrario di quello che hanno sempre fatto i paesi occidentali, che, coi suddetti dittatorelli, fanno affari formidabili. Insomma, bisognerebbe invertire la rotazione terrestre, da un punto di vista geopolitico: campa cavallo! E, infine, c’è l’emergenza: grazie alle disastrose campagne euromericane, alle primavere arabe e a tutto l’assortimento di stati canaglia messi in piedi dalla Cia per giustificare il bilancio dell’Unione in materia di armamenti, noi l’Africa ce la troviamo alle porte, che freme, si agita ed urla, chiedendo di passare. E il problema è un problema italiano: non illudiamoci e non diamo retta alle fanfaluche del duo comico Mogherini & Renzi, che, in Europa, viene considerato per quello che è, ossia un gradino sotto Stanlio e Ollio e uno sopra i Fichi d’India.

L’Europa non è l’Italia, e le regole che si è data le fa rispettare: per i Francesi o gli Spagnoli, un clandestino è un clandestino e un rifugiato è un rifugiato. Siccome siamo noi la sponda di sbarco, siamo noi che dobbiamo, immediatamente e capillarmente, distinguere tra le due categorie, accogliendo e smistando nel continente i profughi e respingendo senza tentennamenti chi profugo non è: tutta la confusione semantica creata ad arte da certi politicanti, di sicuro, non aiuta a comprendere l’entità del problema. Però, rimandare a casa un esercito di clandestini non è praticabile oppure sarebbe costosissimo: quindi, si creino dei centri di selezione sulle sponde africane, sotto la bandiera dell’Onu. Così, almeno, avremmo la sensazione che il carrozzone nuovayorkese serva a qualcosa. Lì, si dovrebbero identificare tutti i migranti, definirne lo status, sottoporli a controlli medici e, nel caso, avviarli verso le nostre coste, da cui spiccherebbero il volo per le varie mete europee. Anche in questo caso, però, la logica si scontra con l’interesse di chi, sull’arrivo di milioni di poveracci, mangia, beve e gavazza, magari tenendoci sermoncini sulla bontà e l’accoglienza.

Dunque, concludendo, le soluzioni sono lì, da vedere: tra noi e loro, però, si erge un muro di sordidi interessi, nazionali, continentali e personali. In definitiva, l’emergenza immigrazione, per qualcuno è effettivamente un’opportunità, come ci vanno belando le vestali del terzomondismo: però, per tutto il resto degli Italiani è semplicemente la peggior catastrofe sociale che ci si sia presentata davanti, dal tempo di Alarico e di Alboino. Nel frattempo, mentre noi affondiamo, governati da un manipolo di inetti e di delinquenti, gli eredi di Confucio se la ridono, aspettando il momento buono per prendersi tutta la posta. La soluzione? Quella vera? Una rivoluzione culturale, direbbe Mao Dse Dong, che, non a caso, Confucio se l’era studiato per benino.




Infrastrutture, se Bergamo sceglie di non scegliere

Variante ZognoE’ sempre una questione di priorità. Lo è ancora di più quando ci trova di fronte a risorse scarse. Dovrebbe essere il fine ultimo della politica quello di incasellare le istanze verso il pubblico interesse e il bene comune. Invece ci si perde in mille rivoli non sempre condivisi.

A livello nazionale, le priorità sembrano essere rivolte a temi politici importanti, ma scollegati dalla quotidianità. Italicum, patto del Nazareno, modifica del titolo V della Costituzione non sono sicuramente in testa alle richieste della maggioranza degli italiani, che, più che riforme o annunci di riforme, vorrebbe fatti concreti. L’esito non brillante della coalizione di governo alle recenti amministrative potrebbe essere collegato anche a questa divergenza di priorità.

Scendendo a livello locale, si ha un ulteriore esempio di strani comportamenti della politica. Quando si presenta un elenco di priorità il buon senso richiede che questo abbia un ordine a scalare.

L’atteggiamento pragmatico punta a realizzare i progetti e non lasciarli incompiuti. Con i soldi disponibili si inizia a realizzare quello che è in cima alla lista. Accantonata la prima somma, se ci sono altre disponibilità si destina quanto avanza alla seconda in graduatoria. E poi si passa alla terza e alla quarta, così via fino ad arrivare in fondo alla lista. Ma questo richiede una scelta. E una scelta vuol dire accontentare qualcuno e scontentare qualcun altro. Un’eresia per i politici che non vogliono perdere consenso. Allora si fa un calderone unico. Altro che gattopardo: volere fare tutto è il miglior modo per non fare niente, dato che un’opera non finita – un esempio, a caso, la variante di Zogno – è inutile, è come non averla.

La politica, specialmente quella di piccolo cabotaggio, resta legata al mito delle opere di regime e alla posa della prima pietra a tutti i costi. Ognuno vuole aprire il suo cantiere, considerato una miniera di voti, anche se non si sa se quanto questo sia ancora vero. Ecco allora il teatrino che si è creato per la corsa all’aggiornamento del Documento di economia e finanza che sarà presentato dal ministero dopo le ferie, per ottenere finanziamenti su opere immediatamente cantierabili. Un’opportunità rara, vista la carenza di risorse a livello territoriale, che però viene trasformata nel solito irrealizzabile libro dei sogni. Un’inedita alleanza tra Regione (l’assessore Alessandro Sorte, di Forza Italia) e Provincia (il presidente Matteo Rossi del Pd) ha individuato come priorità per la Bergamasca il completamento della variante di Zogno. E questo appare ragionevole e condiviso in maniera pressoché unanime perché, senza entrare nel merito di come sono lievitati i costi, in questo modo si rende finalmente utilizzabile un investimento altrimenti perso. Ma poi vanno oltre e iniziano a spendere i soldi degli altri (in questo caso il ministero e Rfi) per quella che ritengono la successiva priorità, l’investimento di 3 milioni per una fermata ferroviaria all’ora, dalle 9 alle 17, all’ospedale.

Una certa area di pensiero per la quale la vita si limita a girare intorno alla malattia e ai funerali è entusiasta. Ma fortunatamente non è maggioritaria. L’idea in sé, anche se si può discutere sulla sostenibilità economica, non è da scartare. Potendo, andrebbe sicuramente fatta, anche potenziata, come tante altre cose, come una galleria con parcheggi sotto Città Alta. Ma i soldi sono pochi e quindi bisognerebbe decidere quali sono le priorità. Il sindaco Giorgio Gori ha ricordato che prioritario sarebbe il collegamento ferroviario con l’aeroporto. Altri suggeriscono il raddoppio della linea Ponte San Pietro-Montello. Alberto Bombassei spinge per infrastrutture adeguate alle esigenze di una provincia industriale. Ma ci sono anche le varianti di Cisano, di Trescore e di Comun Nuovo, e la linea due del tram Bergamo-Ponteranica (fa niente se la prima non riesce ad avere conti in equilibrio senza il supporto dei contributi pubblici).

Senza dimenticare poi l’interconnessione Pedemontana-Brebemi e l’interporto, priorità degli anni passati ancora nel limbo. E meno male che qualcuno non ha riesumato l’autostrada della Valle Seriana per il collegamento Milano-Monaco, in fondo anche questa utile e potendo necessaria, ma non indispensabile.

Questa però è una lista della spesa, non un elenco di priorità. Qual è la differenza, in particolare quando ci sono poche risorse? Quello di non avere il coraggio di decidere. Che vuol dire anche scontentare qualcuno. Una maggioranza che cerca di non tagliare fuori la minoranza è democrazia, ma è anche un diritto (e un dovere) che si assuma la responsabilità del ruolo, senza tavoli per cercare apparentemente di coinvolgere tutti, ma alla fine un alibi per non combinare nulla. In effetti i migliori alleati di politici senza soldi e senza il coraggio delle decisioni sono i comitati anti opere. “Noi avremmo fatto, ma loro ce l’hanno impedito”: uno slogan pronto per le prossime elezioni.