Esami di Stato / Errori e strafalcioni, l’ennesima figuraccia del Miur

maturita_materie2Degli esami di Stato e della suprema vergogna. Non voglio parlare di Resistenza: di immarcescibile, iperinvasiva, asfissiante mitologia di questa benedetta Resistenza: lo so che nella scuola cercano di farne sopravvivere il culto idolatra, con tutti i trucchetti possibili ed immaginabili, dai finti temi su Calvino agli interventi obbligatori di bassaridi (che immagino ormai decrepite) della gloriosa epopea. Non voglio parlarne: sono stufo di vivere in un Paese che non si libera dai propri odi, in una città in cui ancora si concede la ribalta a pagliacci travestiti da studiosi, che sbraitano e ragliano contro tutto e contro tutti, perché non possono prendersela con il trascorrere del tempo, che, inesorabile, li condanna. Che gli esami di Stato siano, in realtà, gli esami di uno Stato, inflitti ai giovanissimi cittadini di uno Stato diverso, è di pubblico dominio da decenni: ma non di questo voglio dire. Non è questa la vergogna finale: si tratta di una vergogna perfino più miseranda, fatta di pressapochismo, di ignoranza, dell’arroganza di chi crede di potersi permettere di trascurare perfino la nozione più basica, in virtù della propria immagine di boiardo ministeriale.

Oggi, i boiardi hanno varcato il segno e superato il punto di non ritorno: di questa congerie di incapaci io voglio i nomi, voglio sapere chi ringraziare. E dovreste volerlo anche voi, padri, madri, fratelli degli esaminandi: voi che, con le vostre tasse, pagate le prebende di ogni disutile che affligga la nostra pubblica istruzione. Domenica sera, al telegiornale ho dovuto assistere all’autocelebrazione di un esperto del MIUR incravattato a festa, che faceva la ruota come un pavone: centinaia di addetti – si vantava – decine di superesperti, sei mesi di lavoro, una selezione finale accuratissima per i titoli dei temi. E il risultato è questa imbarazzante porcheria? Ma chi sono questi esperti: dove li hanno pescati, quanto li hanno pagati? Per raccogliere delle prove come quelle proposte quest’anno ai candidati bastavano quattro maestrine di terza elementare: l’adolescenza, la Resistenza, i ponti anziché i muri, i social network che fanno bene, male e anche così e così.

Ma per mettere insieme degli strafalcioni come quelli radunati nelle sei paginette delle consegne d’esame, non sarebbe bastato un asinificio al completo: non sarebbe stato sufficiente prendere dei ripetenti di terza media e far scrivere loro i temi. Ci volevano dozzine di superincapaci per estrudere perle di tale grandezza.

“La lettrice in bianco e giallo” di Matisse che diventa “La lettrice in viola”, con buona pace dei daltonici: il 1919 che diventa il 1898, con buona pace degli storici dell’arte. E la minaccia dell’integralismo che diventa una minaccia all’integralismo: immagino i poveri studenti, preoccupatissimi per i loro amici integralisti, così rudemente minacciati! Chissà che salti mortali retorici avranno dovuto affrontare, per abbracciare la delirante teoria di un integralismo minacciato da noi, anziché viceversa: non avranno osato immaginare che tutte le loro difficoltà potessero discendere da un cretino che ha sbagliato una preposizione. Da un superesperto talmente sicuro di sé da evitare perfino la più banale delle operazioni: la rilettura di quello che ha scritto. E, infine, perla assoluta, il Colbricon, notissimo sito della prima guerra mondiale, vicino a Passo Rolle, diventato, nelle menti bacate dei boiardi, che, evidentemente, la storia l’hanno studiata su Topolino, il “Col Briccon”. La collina dei bricconcelli! Immagino che lo zio Agostino, che sul Colbricon si beccò una medaglia d’argento, lasciandoci le penne, abbia gradito il lavoro di questa formidabile équipe di analfabeti professionali: questa è l’Italia per cui si è fatto accoppare. Tanto valeva restare a casa a giocare a pepatencia! Insomma, questi esperti presuntuosi, designati non si sa da chi, ma pagati, per certo, con i nostri soldi, sono riusciti ad infilare una serie di topiche da fare impallidire Pierino, Richetto e Franti messi assieme. E, poi, pretenderemmo precisione, attenzione, serietà, dagli studenti, quando al vertice di questo cumulo di macerie che ci ostiniamo a chiamare scuola (e qualcuno, anzi, “buonascuola”) ci sono personaggi del genere? Exempla trahunt, scrivevano i nostri antenati, ed è verissimo. Solo che gli esperti ministeriali, probabilmente, pensano che sia una frase in inglese e che voglia dire “divieto di transito”.

 




Migranti, le quattro verità che vanno dette

migrantiQui, fra teste che rotolano e braccia che volano, fra gente che pensa di vivere asserragliata nella “Ridotta Lombardia” e sventatelli che garriscono per ogni infornata di disperati che arriva in Italia, forse forse è il caso di fare un po’ d’ordine e di cercare di mettere in fila due ragionamenti. Quando devo spiegare agli studenti un fenomeno storico di vasta portata, durativo, incidente, importante, la prima cosa che dico loro è che ogni grande evento è, per definizione, molto complesso e, per solito, controverso: la tentazione di risolverlo con una spiegazione facile è forte, ma è estremamente fuorviante. Lo stesso vale per questa terribile contingenza, che qualche burlone definisce “emergenza immigrazione”, ma che, in realtà, è un insieme di elementi che formano un fenomeno epocale. Partiamo dalle idiozie.

Idiozia numero uno: la fuga dall’Africa è una conseguenza del colonialismo. Sciocchezze: il colonialismo, senz’altro riprovevole come la schiavitù sul piano morale, semmai tenne a freno conflitti etnici e migrazioni selvagge. E’ la decolonizzazione senza regole, messa in atto con la tecnica dell’ “adesso arrangiatevi!”, che ha permesso l’insorgere di regimi nazional-sociali, in epoca di guerra fredda e, in seguito, di stati confessionali. Al colonialismo, da quando la guerra fredda non c’è più, si è sostituita la gendarmeria globale americana, che ha abbattuto e creato dittatori e capi carismatici, a seconda delle proprie esigenze, coi bei risultati che vediamo oggi.

Idiozia numero due: i migranti fuggono da guerre, carestie e dittature. Certo, una parte di loro fugge senz’altro da scenari di guerra: sono quelli che fanno come faremmo anche noi, ossia caricano moglie e figli su di un carretto e scappano via. Chi fugge da una guerra si porta dietro ciò che ha di più caro, ossia la propria famiglia. Altro è chi fugga da una vita di povertà, disperazione, disoccupazione, fame: costoro, esattamente come i nostri emigranti di cent’anni fa, partono da soli, leggeri, disponibili ad arrangiarsi, a rischiare e a tentare la sorte. La maggioranza dei poveracci che stanno sbarcando sulle nostre coste risponde a questo identikit: maschio africano, giovane, in forze, desideroso di migliorare la propria condizione economica. Del tutto lecito, intendiamoci, ma non parliamo di profughi, perché sarebbe come paragonare “Dagli Appennini alle Ande” al diario di Anna Frank.

Idiozia numero tre: stabilire basi di selezione e di accoglienza in Africa è impossibile, perché c’è la guerra e non esistono interlocutori certi cui rivolgersi. Amici belli, se c’è una guerra e non ci sono dei governi con cui fare accordi, si assuma l’egida dell’Onu, la stessa Onu che protegge i rifugiati e le stesse forze che hanno fatto il diavolo a quattro in mezzo mondo, senza che nessuno ci trovasse da ridire: si crea una zona di sicurezza sulle coste libiche e si sbarca. Credete davvero che, di fronte ad uno spiegamento di forze militari, anche dieci volte inferiori a quelle utilizzate per abbattere Saddam o Gheddafi, con tutte le conseguenze del caso, non si riuscirebbe a garantire un corridoio sanitario per i profughi? Suvvia, creduloni: i combattenti libici, ribelli o antiribelli che siano, sono quattro gatti, armati da far ridere: alla vista di cento carri Abrams o di venti elicotteri Apache correrebbero ad intrunarsi nella sabbia. E poi, miei ingenui amici, gli F35 cosa li compreremmo a fare: per farli scontrare in volo nelle manifestazioni aeronautiche?

Idiozia numero quattro: la situazione è sotto controllo. In Italia non è sotto controllo un bel nulla, e la gente lo sa perfettamente. Non basta proclamare che quest’anno diventeremo tutti ricchi e felici: ad un certo punto, bisogna pure fare i conti con la realtà. Dirò di più: tanti disperati scelgono l’Italia proprio perché in Italia nulla è sotto controllo. Ormai la cosa è di dominio universale: si passano parola dicendo che, da noi, ognuno può fare quello che vuole e nessuno la paga mai. Siamo il paese di Bengodi, la pattumiera dell’umanità, altro che sotto controllo! I nostri governanti non hanno la più pallida idea di quanti siano i clandestini in giro per le nostre strade: figuriamoci se sanno come arginare il fenomeno. Fanno come fa qualunque irresponsabile: si affidano al caso, finché la barca va lasciala andare.. E mentono per la gola, tutti i giorni, dalle televisioni, dai giornali: mentono sapendo di mentire. E la confusione aumenta, insieme al disagio: non si distingue più, come sarebbe doveroso e utile, tra immigrato ed immigrato, fra provenienza e provenienza, diritti e doveri, cultura e cultura. O si amano tutti, fideisticamente, oppure si odiano tutti, esattamente con la stessa caparbia ottusità.

Invece, come scrivevo all’inizio, distinguere è fondamentale: un bravo lavoratore, una casalinga, una persona perbene è una ricchezza per il nostro Paese, sia che provenga da Clusone sia che arrivi dalle Isole Vergini. Un delinquente, un tagliagole, un mendicante, un incivile, sono una jattura, quale che sia la loro origine. Lo so che è più semplice risolverla con gli slogan, ma non è così che se ne esce: bisogna usare il cervello, non la pancia. E distinguere, sempre, faticosamente, caso per caso: esattamente ciò che i nostri politicanti non sono capaci di fare. Basta, vi ho indicato qualche idiozia: la prossima volta cercherò di proporre qualche soluzione. Alla buona, certo: ma sempre meglio che niente.




Ballottaggi, ora Renzi provi a scendere dal piedistallo

Matteo Renzi
Matteo Renzi

Che legnata per Matteo Renzi. Inutile girarci intorno e rifugiarsi dietro l’alibi stantio “erano elezioni locali”. Chi per un anno ci ha riempito le orecchie, per tacer del resto, con il ritornello “ho preso il 40%, devo cambiare l’Italia” ora, dopo la botta della Liguria e le sonanti sconfitte di Venezia e Arezzo (ma su sette capoluoghi al ballottaggio il centrosinistra ne ha conquistati solo due…), sarà bene prenda atto che gli italiani sono tanti bravi ad innamorarsi follemente del fenomeno, vero o presunto, del momento, salvo scaricarlo non appena avuto il modo di verificare se ai proclami sa far seguire i fatti. Altro che sparare a salve contro gufi e civette, altro che piagnucolare per i dispetti dell’opposizione interna (masochista di suo ma obbligata in qualche modo a reagire alle frequenti smargiassate del Giovin signore di Firenze).

Le dinamiche locali hanno un peso, negarlo sarebbe ingiusto oltre che disonesto. E tuttavia il chiaro segnale dell’edizione 2015 delle amministrative (antipasto di un menù che di qui ad un anno metterà nel piatto città del calibro di Milano, Torino e Napoli) e’ duplice. Da un lato, indica che il metodo da one man show di Renzi mostra la corda. La sua corsa forsennata da battistrada isolato, auto investito del ruolo di salvatore della Patria, attira sempre meno sostenitori. Pensare di risollevare un Paese mettendosi sistematicamente contro tutto e tutti (ora i partiti, ora i sindacati, ora i giornali) può forse vellicare l’istinto solipsistico di chi, ricordate l’unto del Signore?, ha una visione della società da marchese del Grillo (“io so’ io, voi non siete un c…”), ma non aiuta a mettere in circolo tutte le energie di cui ci sarebbe bisogno. Tanto più in un momento di così gravi difficoltà.

E qui si passa all’altro segnale. Se dal metodo si passa al merito, beh il leader del Pd ha evidenziato parecchi limiti. Sulla gestione dell’ondata immigratoria, che tocca nella carne viva gli italiani e chiama in prima linea proprio i sindaci e i presidenti delle regioni, Renzi ha passato giorni a lanciare messaggi buonisti (mentre francesi e tedeschi, senza parlare degli inglesi, chiudevano le frontiere) senza prendere alcuna iniziativa. Pensava forse che gli elettori lo avrebbero premiato? Che nel centrodestra ci sia chi soffia beceramente sul fuoco e’ innegabile, e purtuttavia alle desolanti scene che arrivano dalle stazioni di Milano e Roma, oltre che dalle spiagge di Ventimiglia, non si può replicare con fervorini da boy scout. Anche l’accoglienza ha dei limiti e, soprattutto, delle regole. Ma Renzi ha di che rimproverarsi anche sul piano delle scelte dei candidati per le Regionali e le Comunali. Lo si è visto chiaramente: non è in grado di controllare il partito in sede locale. Di più: come dimostrano i casi Emiliano in Puglia e Rossi in Toscana, vincenti sono solo le figure provenienti dalle aree che il segretario Pd avversa. Si capisce che tutto votato com’è alla dimensione planetaria faccia fatica ad occuparsi dei cortili, ma non era lui che fino a poco fa si vantava di essere il “sindaco d’Italia”?

E infine, che dire dell’atteggiamento vagamente ondivago sulle tante inchieste che coinvolgono uomini del Pd, da Mafia Capitale in giù, o di altri partiti di governo? A seconda dei casi e delle convenienze Renzi fa il garantista o il giustizialista. Nella singola circostanza magari riesce anche ad arrivare dove vuole (per esempio, far fuori Lupi che pure non ha mai ricevuto un avviso di garanzia), ma alla lunga non riesca a gabbare gli italiani stanchi di vedersi investiti, ogni giorno che passa, da sempre nuove inchieste sul malaffare di chi campa su e attorno alla politica. Ci pensi bene, il premier, la vera sfida per lui inizia forse adesso. Metta da parte le ribalderie, si apra al confronto vero, si scelga collaboratori in grado di dargli un supporto più consistente della mera fedeltà sempre e comunque. Proprio dalle elezioni amministrative rimbalzano tante storie di italiani, spesso giovani, che hanno voglia di impegnarsi per cambiare le loro città e, quindi, il Paese. Le energie ci sono. Se Renzi scende dal piedistallo magari se ne accorge pure lui.




Fisco, quando pagare diventa una corsa a ostacoli

fiscoTra Imu, Ires, Irpef, Irap, Ires e Cedolare secca entro martedì 16 giugno gli italiani sono chiamati a pagare al fisco più di 45 miliardi di euro. Ogni anno è così, ma ogni anno è sempre diverso. Sembra impossibile, ma quello che, con la morte, è ritenuto secondo l’aforisma attribuito a Benjamin Franklin, una delle poche certezze della vita, il pagamento delle imposte, in realtà è quanto di più impreciso ci sia. Almeno in Italia.

C’è sempre qualche cambiamento che complica l’operazione, tanto che anche la data non è mai del tutto sicura, di fronte a inevitabili prospettive di proroga, sulla quale è meglio non contare, ma che contribuisce a creare confusione. Non si sa esattamente quando pagare (un caso per tutto è quello della revisione delle aliquote Tasi che richiede la ricerca della aliquota e della delibera comunale, in genere non ancora emanata), a volte non si capisce se bisogna pagare (basti pensare all’intreccio tra Tasi e Imu), spesso non si sa come pagare. Le due novità che avrebbero dovuto semplificare la vita ai contribuenti, il 730 precompilato e il bollettino Tasi consegnato a casa pronto per essere pagato sono diventate fonte di ulteriore complicazione. Con il 730 precompilato, ma lacunoso (mancano ad esempio le detrazioni per spese sanitarie) ci si è trasformati in correttori di bozze perché, ad esperienza dei commercialisti, più di due terzi dei modelli non sono completi: dovrebbe essere solo il problema dell’esordio e di un sistema non rodato, per cui si può confidare che l’anno prossimo il problema verrà risolto, ma intanto adesso tocca arrangiarsi. Come sempre. Sul bollettino Tasi che sarebbe dovuto arrivare a casa – ma c’è chi aspetta ancora quello annunciato l’anno scorso e mai visto – non si sa se dare la colpa al servizio comunale o a quello postale. Più probabile che si sia persa ancora una volta qualche controcomunicazione. Le amministrazioni hanno annunciato a gran voce, tanto per avere un titolo positivo da mettere nella rassegna stampa, che avrebbero fatto arrivare ai contribuenti i bollettini, ma poi sottovoce si sono smentiti – complice, sembra, il costo dell’operazione – e hanno annunciato che il servizio è stato annullato. Inutile quindi chiedersi perché il bollettino Tasi poteva arrivare a casa e quello dell’Imu no: tanto, nella maggior parte dei comuni, non si avrà né uno, né l’altro. Una confusione che rende velleitario anche lo sforzo delle poche amministrazioni virtuose che hanno deciso di mandarlo: la maggior parte dei contribuenti nel dubbio che arrivi o meno stanno provvedendo da soli. Anche in questo caso, come sempre.

Eppure è proprio la mancata semplificazione che diventa ulteriore complicazione che rende ancora più oneroso il pagamento delle tasse, al di là dei 45 miliardi che verranno pagati nei prossimi giorni e di una pressione fiscale che nel 2014 è salita di un altro decimale, raggiungendo il 43,5%. Ma la percentuale lieviterebbe se si inserissero i costi aggiuntivi legati al rispetto delle scadenze fiscali: ulteriori spese, tempo perso, ansia da compilazione, preoccupazioni per errori involontari. Uno studio del Sole 24 Ore ha recentemente stimato in oltre 17 miliardi di euro il costo annuo dei principali adempimenti, tra dichiarazioni, comunicazioni e versamenti. Sono piccole cose, ma dover pagare anche la posta o la banca per poter pagare le imposte dà la sensazione spiacevole di doversi piegare a una tassa sulla tassa. In ogni caso 173 milioni di operazioni fiscali richiedono a professionisti e Caf, secondo il quotidiano economico, oltre 19 milioni di giornate di lavoro. Un dato che fa pensare che il fisco complicato sia un’idea perversa per combattere la disoccupazione. La predisposizione dei documenti e l’onorario al professionista in alternativa al tempo richiesto per studiare la normativa, sempre ammesso che sia possibile, sono operazioni che in buona parte potrebbero essere risparmiate a molti contribuenti – e questo era lo spirito del 730 precompilato – non solo sulla dichiarazione dei redditi, ma sulla quasi totalità delle imposte. La tracciabilità delle operazioni dovrebbe dare una mano non solo sui controlli contro l’evasione, ma anche per alleviare i compiti ai contribuenti.

Sarebbe giunta l’ora di ripensare all’impostazione della riforma fiscale del 1973. Poco più di quarant’anni fa il calcolo delle imposte era eseguito dagli uffici del Fisco che facevano il conto e ne chiedevano il pagamento. Con il nuovo sistema si è capovolto il sistema. Da allora è il contribuente che procede all’autoliquidazione, versando in base alla propria situazione e poi, semmai, è il Fisco a fare controlli, tra l’altro, ormai praticamente automatici, almeno sul piano formale, grazie a computer ben più efficienti di quelli degli anni Settanta.

Tutto questo però ha comportato un maggiore aggravio ai compiti del contribuente. Così che il Fisco, in senso lato, parlando di imposte sugli immobili, si risparmia anche la fatica di fornire dati che ben conosce, come i valori catastali e le aliquote, e scarica sul cittadino la responsabilità di recuperare le informazioni, fare i calcoli e magari sbagliare o dimenticarsi qualche scadenza. Non costerebbe molto utilizzare i computer per ritornare al buon vecchio mondo antico, con l’esattore che dice quanto il contribuente deve pagare e il contribuente che paga, ma non deve fare altro.




Compiti per le vacanze, avercene di “prof” come Catà

2a01e68d09a54067069e4978af65a5a4Anche quest’anno, puntuale come un orologio svizzero, il tormentone è cominciato: “compiti per le vacanze sì, compiti per le vacanze no”. C’è la fazione dei modernisti, che afferma che dopo nove mesi sui banchi di scuola, non abbia senso trascorrere il tempo libero impegnati in traduzioni, equazioni ed esercizi vari e c’è la fazione dei tradizionalisti, che invece sostiene come i compiti siano importanti, perché aiutano a tenere in allenamento il cervello e a non dimenticare quello che gli alunni hanno appreso nei mesi precedenti.

Come se non bastasse, ad infiammare la questione, c’è l’insolita lista dei compiti per le vacanze del professor Cesare Catà, insegnante al Liceo delle Scienze Umane “Don Bosco” di Fermo, che spiazza tutti, modernisti e tradizionalisti.

Consegnata agli studenti l’ultimo giorno di scuola, invece di ordinare letture obbligatorie o esercitazioni di grammatica e matematica, il professore consiglia di contemplare il mare in solitudine, di ammirare l’alba, di sognare la vita futura e di leggere, perché la lettura rappresenta la migliore forma di rivolta. Suggerimenti e consigli di vita che riportano l’attenzione al benessere psicologico e spirituale degli alunni piuttosto che al mero nozionismo e che per certi versi fanno venire in mente il prof. Keating del film L’Attimo Fuggente, interpretato da Robin Williams, che incitava i propri studenti a rendere straordinaria la propria vita. Ma prima di ogni considerazione, ecco che cosa prevede la speciale lista di compiti assegnata per l’estate 2015:

 

  1. Al mattino, qualche volta, andate a camminare sulla riva del mare in totale solitudine: guardate come vi si riflette il sole e, pensando alle cose che più amate nella vita, sentitevi felici.
  2. Cercate di usare tutti i nuovi termini imparati insieme quest’anno: più cose potete dire, più cose potete pensare. E più cose potete pensare, più siete liberi.
  3. Leggete, quanto più potete. Ma non perché dovete. Leggete perché l’estate vi ispira avventure e sogni, e leggendo vi sentite simili a rondini in volo. Leggete perché è la migliore forma di rivolta che avete (per consigli di lettura, chiedere a me).
  4. Evitate tutte le cose, le situazioni e le persone che vi rendono negativi o vuoti: cercate situazioni stimolanti e la compagnia di amici che vi arricchiscono, vi comprendono e vi apprezzano per quello che siete.
  5. Se vi sentite tristi o spaventati, non vi preoccupate: l’estate, come tutte le cose meravigliose, mette in subbuglio l’anima. Provate a scrivere un diario per raccontare il vostro stato (a settembre, se vi va, ne leggeremo insieme).
  6. Ballate senza vergogna; in pista, sotto casa o in camera vostra. L’estate è una danza ed è sciocco non farne parte.
  7. Almeno una volta, andate a vedere l’alba; restate in silenzio e respirate. Chiudete gli occhi, grati.
  8. Fate molto sport.
  9. Se trovate una persona che vi incanta, diteglielo con tutte la sincerità e la grazia di cui siete capaci. Non importa se lui/lei capirà o meno. Se non lo farà, lui/lei non era il vostro destino; altrimenti, l’estate 2015 sarà la volta dorata sotto cui camminare insieme (se questa va male, tornate al punto 8).
  10. Riguardate gli appunti delle nostre lezioni: per ogni autore e ogni concetto fatevi domande e rapportatele a quello che vi succede.
  11. Siate allegri come il sole, indomabili come il mare.
  12. Non dite parolacce e siate sempre educatissimi e gentili.
  13. Guardate film dai dialoghi struggenti (possibilmente in lingua inglese) per migliorare la vostra competenza linguistica e la vostra capacità di sognare. Non lasciate che il film finisca con i titoli di coda. Rivivetelo, mentre vivete la vostra estate.
  14. Nella luce sfavillante o nelle notti calde, sognate come dovrà e potrà essere la vostra vita: nell’estate cercate la forza per non arrendervi mai e fate di tutto per perseguire quel sogno.
  15. Fate i bravi.

Allora, comincio con il dire che io un professore così non l’ho mai avuto e mi sarebbe piaciuto incontralo; non perché al posto delle equazioni, consiglia di ammirare l’alba, ma perché riporta l’attenzione su un aspetto che forse la scuola ha dimenticato: i lavoratori di domani sono i giovani di oggi e vanno aiutati non solo a tradurre dal latino in maniera impeccabile, ma anche a ri-conoscere le proprie passioni, a coltivare la creatività e ad avere dei sogni, perché a 15 anni sognare è il primo passo per imparare a pianificare degli obiettivi. Non dico che non ci sono professori che non lo facciano, sia chiaro, ma sono convinto che non sia ancora una consapevolezza universalmente riconosciuta tra gli addetti ai lavori. Oggi più che mai il mondo del lavoro ha bisogno di lavoratori flessibili, passionali, creativi, fantasiosi, estrosi e fecondi e non solo preparati nel senso canonico del termine. Se si vuole combattere davvero la crisi del mercato, tornare ai lustri del “made in Italy” e non abbassare la qualità del proprio operato, è necessario essere competitivi e cooperativi, maturare sensibilità nei confronti dei sentimenti e dei diritti altrui, imparare ad ascoltare e lasciare spazio alle divergenze di opinioni, ai cambiamenti di idee e ai compromessi senza che nessuno soffra. È un’esperienza che va costruita fin da subito, discussa, adattata, compresa e vissuta in prima persona con perseveranza e anche con fatica. E la scuola serve anche (e soprattutto) a questo.

In mancanza di una solida cultura alla consapevolezza il rischio è quello di perdere l’opportunità di affrontare con serietà e professionalità la vita e di condurre un’esistenza poco soddisfacente; ma non ne vale pena.

Quindi, tornando all’annosa questione “compiti per le vacanze sì, compiti per le vacanze no”, se questi stimolano l’autonomia, il pensiero laterale, la complessità e l’individualità dei giovani, come accade con la lista del professor Catà, la mia risposta non può che essere “sì, tutta la vita”.

 

 

 

 




Caro Renzi, non faccia lo spiritoso ad oltranza

Di cosa abbiamo bisogno, noi Italiani? Cosa ci serve davvero, per trasformarci in un popolo normale? La risposta è semplice, anche se non risolve un bel nulla, come gli slogan sugli striscioni degli studenti. Ci servirebbero, partendo, come si dice, ab ovo, dei servizi e delle facilitazioni per le famiglie: tanto per quelle in prospettiva che per quelle che si sono già formate. Aiuti concreti per trovare una casa, per gli asili nido, per le maternità: in questo modo, magari, alla gente verrebbe voglia di sposarsi e di fare dei figli, e non ci toccherebbe gioire per una crescita demografica d’impulso esclusivamente extranazionale. Poi, bisognerebbe trasformare il mondo della scuola: evitare che si limiti a sfornare diplomi purchessia e ad assumere disoccupati, pure purchessia, ma far sì che prepari buoni cittadini, lavoratori capaci, uomini perbene. Lo stesso dicasi per l’università: servirebbero dottori preparati, a prescindere da corso, latitudine e parentele. Una classe dirigente che diriga: una classe subalterna che esegua con coscienza e merito. Avremmo tanto bisogno di leggi semplici e giuste e di magistrati che le applicassero senza filtri ideologici: senza rabbia né volontà di rivoluzionare la società, ma da bravi servitori dello Stato e del diritto. Ci occorrerebbe più ordine: che non vuol dire meno libertà, ma semplicemente meno casino. Ci servirebbe più sicurezza: per le strade, nelle case, sul lavoro. Avremmo bisogno di un mondo meno complicato, meno inquietante, più umano. E ci vorrebbe una politica che lavori per i cittadini e non per gli interessi di una categoria, di un gruppo familiare, di una congrega: gente normale che si adoperi per altra gente normale. Ecco, di normalità, soprattutto, avremmo bisogno: siamo stufi di sentirci ripetere che siamo dei fenomeni. Giorgio Armani, magari, sarà pure un fenomeno: la Juventus, la Ferrari, il Parmigiano Reggiano saranno anche strabilianti realtà che il mondo ci invidia: però, lo stipendio del ragionier Rossi, la pensione della sora Lella, le code agli sportelli, la sanità, la corruzioncella quotidiana, la vita normale di un cittadino italiano qualunque, state pur sicuri che non ce le invidia nessuno. E non ci consola sapere che Giorgio Armani veste le star del cinema, se non arriviamo a fine mese o se non troviamo da parcheggiare. Non abbiamo bisogno di ‘circenses’: ci accontenteremmo del pane.

Insomma, le cose che ci servirebbero per diventare grandi, per maturare come comunità e come cittadini d’Europa, non sono mica tanto difficili da indicare: sono lì, da vedere. Basta confrontarci con gli altri: con quelli che camminano spediti sulla strada della civiltà. Difficile immaginare Mafia Capitale a Stoccolma o gli esami passati per telefono alla Sorbonne. Certo, cose facili da individuare, ma difficilissime da realizzare. Però, ce n’è almeno una di cosa, di cui davvero non sentiamo la minima necessità e che, con un po’ di buona volontà e di impegno individuale, si potrebbe risolvere: le intollerabili pagliacciate di Matteo Renzi. Basterebbe che qualcuno gli spiegasse che, se dà il “cinque” ad un premier straniero in un incontro ufficiale, se sorride a vanvera facendo le smorfie sotto gli obiettivi della stampa internazionale, se fa la marionetta o il bambino svampito per posa e per fare lo spiritoso, gli altri lo prendono per un pirla. E lui non è soltanto lui: rappresenta anche noi. Siamo noi che passiamo tutti per dei pirla che non sanno l’inglese, che bofonchiano scemenze, che giocano col telefonino mentre gli altri parlano.

Così, tra le molte cose che il mondo non si sogna di invidiarci c’è anche questo farceur maleducato, che scambia la diplomazia per una festa di paese: prima, si limitavano a paragonarci a Pulcinella, mentre adesso c’è anche Stenterello a farci pubblicità. E vedere questo boy scout, esentato dalla leva, che parla ai miei alpini con addosso la mimetica personalizzata, la camicina bianca d’ordinanza e i bluejeans: vederlo fare il saluto militare con la sinistra, mentre fa più smorfie di Mr. Bean, quando sfilano le bandiere di guerra dei nostri reggimenti, mi fa capire quanto sia precipitato il senso della serietà, della semplice serietà, in questo benedetto Paese. A quando l’accoglienza della bara di un caduto in bermuda ed infradito, con Bob Marley nelle cuffiette?

Insomma, Renzi, lo faccia per noi, visto che, senza che nessuno l’abbia mai votata, bene o male rappresenta noi: si sforzi, stia composto, si faccia consigliare. Le parlo come parlerei ad uno scolaro un po’ discolo, ma non cattivo: solo, che debba ancora maturare un tantino. Non si fa. Lo so che non è un delitto scherzare su tutto, fare lo spiritoso ad oltranza: però, mi creda, non si fa. Siamo già abbastanza malvisti, bastonati e derisi per la mafia, la corruzione e i malcostumi nazionali, senza che ci si metta pure lei. Davvero: abbiamo bisogno di tante cose pressoché irrealizzabili. Però, almeno un presidente del Consiglio che si comporti ammodino è un obiettivo che possiamo raggiungere facilmente. Basta che lei ci metta un po’ di buona volontà.




Montichiari, inutile affidarsi alle scorciatoie politiche

Montichiari aeroportoPrima di dare per persa definitivamente la partita per la gestione dell’aeroporto di Montichiari devono essere fatti passi più concreti della sorprendente lettera di intenti con cui Venezia, Verona e Brescia hanno concordato di dare vita ad una partnership finalizzata alla gestione dello scalo. E tuttavia, sarà il caso di cominciare a preoccuparsi perché ostentare eccessive sicurezze di fronte ad interlocutori che non disdegnano la spregiudicatezza, in un Paese abituato a digerir di tutto, rischia di condurre ad amare delusioni. Stupisce, ad essere sinceri, che dalle parti di Sacbo ci sia chi ancora fa affidamento sul ruolo che potrebbe giocare l’Enac e in particolare il suo presidente Vito Riggio, un burosauro sopravvissuto alla Prima Repubblica la cui credibilità è già stata messa a dura prova più volte in passato. Affidarsi a quel che ha detto solo un paio di settimane fa, quando ha partecipato all’inaugurazione della nuova ala dello scalo orobico, e cioè che Bergamo e Verona (controllata da Venezia) devono tornare a trattare per trovare un accordo, era nulla più che un auspicio. Per nulla reso più forte dalla minaccia (da pistola ad acqua) di intervenire “legislativamente” (ma quando mai?). Quanto sia ascoltato Riggio lo vediamo ora, con l’arrembante presidente della Save veneziana, Enrico Marchi, che va avanti per la sua strada, sempre border line anche rispetto alle regole. Perché bisognerà pur ricordare – anche se la materia è complessa e non di semplice comprensione per i non addetti ai lavori – che il suddetto si è “impadronito” prima della società di gestione dell’aeroporto di Treviso e poi quella più importante di Verona (la famosa Catullo) facendo ricorso a spericolati aumenti di capitale che hanno eluso o aggirato, secondo autorevoli giuristi, la procedura che avrebbe dovuto essere adottata a garanzia di tutti: la gara europea. Su questo, per esempio, avrebbe dovuto vigilare l’Enac dell’ex andreottiano Riggio. Ma non c’era, e se c’era stava guardando altrove. Capite bene che dopo aver consentito a Venezia di mettere le mani su Verona (che, fino a diverso avviso del Consiglio di Stato, ha la concessione per gestire Montichiari) risulta risibile ora l’idea che possa in qualche modo limare le unghie a Marchi. Tantomeno ha senso invocare un ruolo da paciere o, peggio, da arbitro. Poiché si sta parlando di società per azioni, per quanto legate ad affidamenti che vengono dall’alto, forse converrà abbandonare illusorie scorciatoie affidate alla politica o a suoi succedanei. Bisogna tornare alle logiche del mercato, che del resto ai vertici di Sacbo conoscono molto bene. Orio ha mezzi, know how, potenzialità per giocarsi la partita a viso aperto. Magari anche ammettendo, come capita a chiunque, di aver commesso qualche errore tattico (anche solo verbale). Proprio perché Marchi ha uno spiccato senso degli affari, non gli sfugge che Montichiari può tentare davvero la via del decollo solo se si affida a mani esperte come quelle bergamasche e non certo ai bresciani che finora han solo combinato disastri. Fatto salvo che in ciascuno c’è un tasso di masochismo che a volte spinge a farsi del male per puro dispetto, una intesa tra Bergamo e Venezia sta scritta nelle cose. Ma, è il caso di dire, non scende dal cielo. Probabilmente va valutata una diversa strategia o altri, ma più credibili, interlocutori. Nella consapevolezza che Orio sta continuando a crescere a ritmi vertiginosi e di tempo per individuare sbocchi per lo sviluppo futuro non ce n’è più molto.




Se il dipendente si muove l’azienda risparmia

runningViviamo in un mondo dove tutto e tutti sono sempre più connessi. Tutto questo ha delle implicazioni sempre più visibili nel lavoro e nella società. L’ultima iniziativa tecnologica, a cui sto partecipando, ha preso il via all’inizio di questa settimana, dopo essere stata annunciata un mese fa. Si tratta del Global corporate challenge o GCC per farla breve, ovvero di una sfida senza confini a cui stanno partecipando migliaia di grandi e medie aziende. L’obiettivo è incentivare la forza lavoro ad essere più dinamica, muoversi di più e, obiettivo finale, stare meglio. La mia azienda ha subito aderito a questo progetto, iniziando a battere i tamburi e incentivare la forza lavoro o creare squadre da sette elementi, meglio se con colleghi di altri uffici e non con il vicino di scrivania. A poche ore dal lancio, i più sportivi avevano già fatto squadra. A tre giorni l’80 per cento dell’azienda era arruolata.

Un paio di settimane fa é seguita la distribuzione di piccoli pacchetti regalo, dal design innovativo e moderno. All’interno un contapassi, anzi due, nel caso il primo vada perso o dimenticato. E poi l’invito a scaricare l’app dove registrare i propri passi, o altre attività come il nuoto o la bicicletta.

Obiettivo: fare almeno diecimila passi al giorni, meglio ancora superare il traguardo. Tutto conta. Diecimila passi sono circa sette chilometri e mezzo, una distanza del tutto relativa. E’ passata meno di una settimana e l’entusiasmo vince: tutti parlano di quanti passi hanno collezionato il giorno precedente, della posizione del proprio team in classifica e di nuovi obiettivi nel campo del fitness. Quello che più mi ha stupito è osservare quanti dei miei colleghi, per lo più uomini, giovani, sportivi e competitivi, abbiano sentito il bisogno di andare oltre il contapassi e regalarsi un braccialetto tecnologico che monitora il sonno, a frequenza cardiaca, e registra automaticamente i risultati. Chi ha il contapassi, deve invece ricordarsi di registrare i dati manualmente alla fine di ogni giornata. Ho come il sospetto che dietro a questa iniziativa ci siano Garmin, Nike e altri produttori di braccialetti sportivi.

Mi chiedo quale sia il vero motivo di questa improvvisa mania per lo sport e il movimento, specialmente nel settore finanziario, dove fino a poco tempo fa si facevano affari davanti a numerose bottiglie di vino e pranzi interminabili. La prima è che le aziende pagano a caro prezzo le polizze sanitarie private. Se la forza lavoro è in forma, è più facile che abbia meno bisogno di frequentare medici e fisioterapisti. La seconda è che ormai dimostrato che esiste un rapporto proporzionale tra produttività, livelli di stress e sonno. Insomma se l’impiegato sta meglio, lavora meglio, produce di più, si ammala di meno e costa di meno. Se queste iniziative funzionano e rappresentano davvero un risparmio sul lungo termine, lo sapremo solo tra qualche anno, quando ci saranno dati rilevanti che permetteranno di tirare le somme. Nel frattempo io e il mio team ci stiamo divertendo. Oggi ho fatto 4706 passi, sono solo le 10.30, già a metà del mio percorso.

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Marketing territoriale, perché quello di Gori rischia di non decollare

Giorgio GoriProprio mentre il sindaco di Bergamo Giorgio Gori era in tour per la Lombardia a presentare il suo pacchetto di offerte “ruba imprese”, un articolo sul “Sole 24 Ore” titolava: “Carinzia, il flop delle delocalizzazioni”. Negli ultimi anni c’è stata un’intesa campagna da parte di amministrazioni svizzere e austriache per cercare di strappare aziende al Nord Italia facendole trasferire oltre le Alpi, attirate da apposite agenzie con il richiamo allettante di meno tasse, meno burocrazie, servizi efficienti e perfino qualche bonus.

L’impressione è che di questi trasferimenti si sia parlato più di quanto si sia concretamente fatto, ventilandoli in maniera strumentale come una minaccia per chiedere attenzione.

Allo stesso modo diventa in ogni caso un simbolo l’evento, non smentito e non confermato, di un’azienda padovana che avrebbe rinunciato allo spostamento al di là del confine annunciato dopo che le è stato ripetutamente bloccato un ampliamento nel Triveneto. L’agenzia austriaca Aba Invest che si occupa della ricerca di nuovi imprenditori esteri a fronte di questa possibile defezione ribatte che l’anno scorso ha realizzato 31 progetti di insediamento aziendale (su 484 coordinati) e di questi 25 arrivano dall’Italia per un totale di 155 posti di lavoro. Nel totale, considerate le dimensioni, non ci sono solo industrie, ma anche attività di ristorazione, con il sospetto, considerate le dimensioni, che ci siano anche diverse operazioni legate a filiali commerciali e di distribuzione che sarebbero state realizzate comunque. E da Unioncamere veneto arriva anche l’indicazione che a prendere la strada dell’estero siano prima di tutto le sedi legali per cogliere le agevolazioni, continuando a parlare italiano.

Lo scenario austriaco dimostra che il marketing territoriale non è necessariamente di successo, nemmeno quando si offrono condizioni effettivamente allettanti, come contributi a fondo perduto o imposte al 25% tutto compreso. Nel pendolo dell’economia, dalla delocalizzazione prima verso l’Est Europa e poi verso l’Estremo oriente adesso si è piuttosto al ritorno delle industrie. E’ il fenomeno del reshoring, perno della politica industriale degli Stati Uniti, che però inizia a vedere qualche caso anche in Europa, di fronte a bassi costi di produzione non più così bassi, valute non più così convenienti e anche la scoperta che all’estero non si incontrano certi problemi, ma se ne trovano di altri, a volte anche più gravi. Il risultato è che nell’annuale Fdi Confidence Index di A.T.Kearney, l’indice che misura quanto un Paese è nelle priorità dichiarate dagli investitori internazionali nel corso dell’anno, l’Italia, che, tra il 2007 e il 2013, era fuori dalla classifica dei primi 25, è rientrata al 20° posto nel 2014 ed è salita al 12° quest’anno, davanti, tra l’altro, anche a Svizzera e Austria.

Il piano di Bergamo comunque non ha obiettivamente ambizioni internazionali. La portata è modesta. Gli interventi del Comune si tradurranno essenzialmente in un’Imu agevolata allo 0,76% anziché all’1,06%, uno sconto fino al 50% degli oneri di urbanizzazione per la riqualificazione di vecchi stabilimenti inutilizzati, piani attuati per stralci, semplificazione amministrativa e digitalizzazione delle pratiche. Meglio che niente si può dire, anche se alla fine per un’azienda dove il peso della proprietà immobiliare è marginale l’interesse è ridotto, se non nullo. Si può escludere che una multinazionale possa decidere di insediarsi a Bergamo solo per cogliere queste offerte. Ma probabilmente sarà difficile che qualcuno si sposti anche solo da fuori provincia. Perché l’idea pur essendo valida – ma forse sarebbe bene pensare non solo a chi arriva, ma anche a chi c’è già – sconta il limitato raggio d’azione che un’amministrazione comunale, seppure di buona volontà, può avere nel fare marketing territoriale sul piano economico. Lo sconto sulle tasse da una parte viene compensato dall’aumento di altri costi, non fosse altro che quello del trasporto. Ma poi c’è anche la concorrenza di altre amministrazioni. Basti vedere, ad esempio, il ginepraio delle addizionali regionali, solo un caso tra i tanti. In Veneto è prevista un’aliquota unica all’1,23%, in Lombardia arriva a un massimo dell’1,74% sull’aliquota superiore, in Emilia sale fino al 2,33% e in Piemonte arriva al 3,33%. Un divario di oltre due punti che può vanificare, quando un’azienda fa i conti generali, le offerte promozionali di un Comune di buona volontà.




Siamo al ridicolo! Ora si encomia anche la normalità

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Giuseppe Parazzini

La notizia dovrebbe essere quella che Beppe Parazzini ha ricevuto dalle Forze Armate un encomio, per il suo valoroso comportamento, in occasione della manifestazione in cui i Black Bloc hanno messo a ferro e fuoco un paio di strade, nel centro di Milano. Dico dovrebbe, perché si tratta di una non-notizia: che Parazzini, già presidente nazionale dell’Ana, fosse persona di valore si sapeva, senza bisogno di attestati da fuori. Che le nostre Forze Armate fossero diventate tanto molli da encomiare un comportamento semplicemente dignitoso è ancor meno stupefacente: un capo di stato maggiore ha appena approvato una legge che equipara i disertori fucilati nella Grande Guerra ai caduti combattendo per la Patria, per cui non mi stupisco più di niente. Dunque, in questo Paese, basta compiere un gesto eroico come esibire al balcone la bandiera nazionale per essere encomiati ufficialmente: se resisti impavido a quattro uova marce lanciate da dei teppistelli, ti guadagni la stessa ricompensa che, cento anni fa, dovevi meritarti con azioni di coraggio leggendario, sul Piave come in Adamello. Direi che, sul versante della considerazione per le qualità morali degli Italiani, siamo scesi di qualche gradino. Se proviamo a domandarci come siamo arrivati a questo punto, noteremo che, un poco alla volta, la corrosione dei più elementari valori patriottici, ha provocato una serie di crolli progressivi della tenuta civile, fino ad arrivare al ridicolo della notizia odierna: l’encomio alla normalità.

D’altronde, non siamo i soli che stanno attraversando questa fase di rammollimento collettivo: i nostri avversari del 1915 sono passati dal “Gott erhalte” a Conchita Wurst, per cui non è che se la passino tanto meglio. Gli è che, a parer mio, abbiamo vissuto qualche decennio di confusione: confusione morale, militare, giudiziaria, religiosa e, naturalmente, sessuale. Si è cominciato a fare confusione fra ordine e repressione: nella guerra delle parole hanno vinto quelli che vedevano nel mantenimento, anche a costo di qualche manganellata, dell’ordine pubblico un fenomeno bassamente reazionario. Oggi, polizia e carabinieri hanno letteralmente paura di sedare i disordini di piazza o anche solo di fermare gli zingari che ti impongono il pizzo alle biglietterie automatiche: temono di venire censurati come torturatori ed aguzzini. Confusione veicolata scientemente da chi preferisce il casino all’ordine, ovviamente: ma messaggio vincente, a quanto pare. Poi, la confusione è passata al piano militare: l’esercito non serve a nulla, mettete dei fiori nei vostri cannoni, un anno buttato via eccetera eccetera. Ignoravano, gli ignoranti, che, spesso, un anno di naja era l’unico strumento per raddrizzare le pianticelle un po’ sbilenche: insomma, che la naja era più un anno educativo che addestrativo. Alla fine, con la scusa che era costosa, l’hanno eliminata: e i risultati si vedono. Adesso si parla di servizio civile obbligatorio: per paura di un Paese di potenziali golpisti, lo si vuole trasformare in un Kibbutz.

Confusione: idee pasticciate, tipiche di una classe politica impreparata e facilona, che, tra l’altro, la naja si è guardata bene dal farla. La maledetta confusione, poi, si è estesa a tutto il nostro vocabolario etico e civile: ecco che il delinquente viene percepito come un peccatore e il delitto come un peccato. Stante la maledizione di avere il Vaticano in casa, la confusione tra carità cristiana e giustizia civile e penale è via via aumentata: oggi, appena uno ammazza la moglie, accorrono mille prefiche ad impetrarne il perdono. E il risultato si chiama incertezza della pena, perché è, prima di tutto, incerta la colpa. E delle vittime non si parla mai: ci si preoccupa con encomiabile solerzia di Caino, ma Abele non se lo fila nessuno. Vedove e orfani, di mafia, del terrorismo, dei pirati della strada, dell’uranio impoverito, sono una zavorra scomoda, perché sono la prova vivente della vigliaccheria dei politici, della miseria etica di uno stato che si dimentica dei migliori per dedicarsi, evangelicamente, solo al figliuol prodigo. Che, se non fossimo cattolici, dovremmo giudicare un bel furbacchione, nell’Italia del terzo millennio.

Di scalino in scalino, siamo scesi nelle classifiche della civiltà, oltre che in quelle dell’economia: solo che di questa graduatoria non si parla mai. I veri problemi dell’Italia sono effimeri, teorici, filosofici: non hanno a che vedere con la vita quotidiana della gente. Semplicemente perché l’Italia delle leggi, dei telegiornali, delle omelie, non è più l’Italia della gente: stiamo parlando di due paesi diversi, che la pensano all’opposto e vanno in direzioni opposte. Per questo, ci si guarda bene dal domandare al popolo cosa pensi di certe cose. Così, nella guerra del Golfo vengono decorati gli unici piloti che si fanno abbattere: non quelli che portano a termine brillantemente la propria missione. E si concede un encomio a Parazzini, come se essere una persona perbene fosse un eccezionale atto di abnegazione, anziché trattare quelli che lo insultavano e gli lanciavano le uova come meritano di essere trattati i delinquenti. Ci sono dei momenti della storia in cui la confusione diventa crimine e si deve ribaltare di nuovo tutto quanto. Attenzione perché in latino ribaltamento si dice “revolutio”.