Cari risparmiatori, è arrivato il momento di osare di più

Piazza AffariI “Bot people” già in via d’estinzione stanno per finire definitivamente nell’archivio del risparmio. Con il collocamento dei Bot annuali a un rendimento lordo dello 0,013% si sarebbe ormai a un rendimento reale negativo per l’investitore se un provvidenziale decreto di gennaio non avesse stabilito che le commissioni chieste dall’intermediario devono ridursi in modo tale da non farlo andare sotto zero. In ogni caso, anche se l’inflazione è minima (il tasso di marzo è allo 0,1%), il rendimento reale non basta nemmeno a difendere il potere d’acquisto.

A dire il vero c’è ancora chi invidia i tempi di quando i Bot assicuravano tassi a due cifre, anche se l’inflazione ancora maggiore erodeva in maniera invisibile l’investimento. Si perdevano soldi, ma almeno c’era l’illusione. Adesso nemmeno quella: si perde meno, ma i rendimenti sono insignificanti a prima vista. Almeno fino a quando i tassi resteranno intorno allo zero è difficile pensare che qualcuno possa guardarli come investimento. Potranno servire come parcheggio di liquidità, considerato che danno ancora qualche centesimo in più rispetto ai conti correnti, o per evitare le tasse di successione, ma di certo non possono interessare più chi dai titoli di Stato si aspetta un reddito aggiuntivo.

Eppure secondo un’analisi di Prometeia, nel 2014 quasi il 45% della ricchezza finanziaria degli italiani (non si considerano gli immobili), poco più di 4 mila miliardi (una stima leggermente più alta di quella elaborata da Bankitalia) , era parcheggiata in liquidità o obbligazioni, che ormai assicurano rendimenti minimi. Le previsioni sono di un ulteriore calo del peso dei bond, che scenderanno nel 2017 al 10,4% dal totale, rispetto al 21,2% di dieci anni prima. Cresceranno invece strumenti gestiti e azioni, che passeranno dal 56,6% al 67,2%. Questo farà perdere un po’ la specificità italiana, avvicinando il portafoglio degli investimenti delle famiglie alla media europea, ma richiederà un cambiamento di mentalità: per avere un minimo di rendimento sarà necessario assumere qualche rischio in più. E i risparmiatori non sono pronti a questo nuovo scenario, perché la stessa Prometeia stima che tra tre anni sarà comunque ancora al 40% la quota di ricchezza delle famiglie allocata in investimenti a rischio minimo (e pari rendimento), tra liquidità e obbligazioni.

Con il costo del denaro ai minimi storici, non solo in Europa, e un’inflazione zero si sono adeguati al ribasso anche i titoli di Stato e le obbligazioni societarie. In una situazione internazionale che vede sempre maggiore liquidità in circolazione, si è aggiunto l’inizio del quantitative easing che comporta 60 miliardi di euro ogni mese in cerca di allocazione e allo stesso tempo una riduzione degli spread che riduce l’appetibilità dell’investimento obbligazionario.

In prospettiva il denaro si sta dirigendo verso Piazza Affari: questo ha portato ad un rialzo delle quotazioni e un ritorno d’interesse per nuovi collocamenti e per le prossime privatizzazioni (Poste Italiane nel secondo semestre, quindi Ferrovie dello Stato e Enav). C’è però un rischio: quello di una bolla speculativa.

 




Tutte le verità che Brebemi dovrebbe raccontarci

BrebemiDa luglio a dicembre il traffico è stato di 14 mila veicoli al giorno, di cui 8 mila effettivi (calcolati una sola volta). Da gennaio ad aprile il flusso è cresciuto del 17 per cento. Non piacerà al presidente Francesco Bettoni, ma un’autostrada a tre corsie che genera simili volumi non può che essere definita un flop. Tale è, al momento, e chissà per quanto tempo ancora se non intervengono radicali correttivi, la cosiddetta Brebemi, la direttissima Milano-Brescia che si appresta a compiere il suo primo anno di vita. I vertici della società hanno sempre fatto una certa resistenza a diffondere i reali numeri del traffico, ad onta di ciò che chiunque può vedere con i propri occhi sia percorrendo in auto l’autostrada che limitandosi ad osservarla nel lungo tratto in cui la ferrovia affianca l’arteria stradale. La desolazione è nelle cifre rese note in occasione dell’approvazione del bilancio. Quando è emerso, come dato che ha attirato le principali curiosità, che nei primi cinque mesi di gestione (2014) i costi operativi hanno superato i ricavi, con una perdita d’esercizio di 35 milioni. Si dirà, con valide ragioni, che conti così in sofferenza sono normali in avvio di attività e soprattutto in una situazione in cui mancano una serie di collegamenti accessori destinati a dare linfa (leggasi traffico) alla Brebemi. Entro maggio arriverà la Tangenziale esterna di Milano, per esempio. Ma converrà non farsi prendere per il naso da chi sta tanto affannosamente quanto coraggiosamente cercando di difendere una grande opera che, pensata in anni lontani e immaginata sulle ali della grandeur che faceva immaginare straordinarie e magnifiche sorti e progressive, si sta rilevando, come minimo, sovradimensionata rispetto alle necessità. Forse, anziché vestire gli incongrui panni del don Chisciotte, il presidente Bettoni dovrebbe sforzarsi di lanciarsi in una operazione verità, mostrando tutti i limiti e le criticità dell’autostrada (quelli immaginabili e quelli subentrati, a vario titolo, a cantiere aperto), primo presupposto per valutare come muoversi per il futuro. Tanto più se si invoca, come fosse dovuto (ma non era un project financing al 100 per cento?), un congruo intervento dello Stato per centinaia di milioni. I vertici di Brebemi provino a chiedersi, anzitutto, se le loro tariffe, così marcatamente più elevate rispetto a quelle praticate dai concorrenti, non abbiano un peso significativo, se non determinante, nello scoraggiare chi deve utilizzare l’autostrada tutti i giorni per ragioni di lavoro. E si domandino se hanno dato vita a tutte le iniziative (di comunicazione e marketing, anzitutto, ma anche di cosiddetto “feederaggio”: convenzioni, accordo di partnership, ecc) in grado di portare acqua, come tanti rivoli, al fiume. Piuttosto che minacciare di restituire la concessione, Bettoni abbassi i toni (e le tariffe) e si disponga a confrontarsi con chiunque possa dargli una mano, in Lombardia come a Roma. Basta rodomontate, basta veline sapientemente diffuse per gettare fumo negli occhi, basta continuare a guardare nel giardino altrui. Il mito del privato più efficiente e moderno del pubblico con la Brebemi ha fatto fiasco. Prima se ne prende atto (non è uno scandalo ricevere soldi pubblici, l’opera è di interesse collettivo) e prima si riuscirà, forse, ad individuare la svolta per un’autostrada altrimenti seriamente indiziata di diventare l’ennesima cattedrale nel deserto.




Non ne posso più di dovermi sempre giustificare

campo-romIo non mi giustifico. Scusate il francese, ma mi sono rotto le palle di giustificarmi. Quando andavo al liceo, siccome ero di destra, se volevo parlare in assemblea dovevo, a titolo preventivo, dichiarare che ero antifascista: pregiudiziale antifascista, la chiamavano, le anime belle del “Sarpi” democratico, che, tra una rivoluzione e l’altra, andavano a far casino o importavano cocaina dentro i libri. Poi, quando mi sono fidanzato, ho dovuto giustificarmi perché non ero uno scout cattolico, perché non mi vestivo con le pezze sul sedere e non mi piaceva girare in braghette dicendo “Buona caccia!”. Oggi, che ho abbastanza lavoro e abbastanza denaro da strafregarmene di pregiudiziali antifasciste e sindromi di Peter Pan, mi tocca continuare a giustificarmi. Devo giustificare il fatto, ad esempio, che preferisca gli italiani agli stranieri. In realtà, non è affatto così: io vorrei che italiani e stranieri godessero semplicemente di uguali diritti ed uguali doveri, però vorrei che coglieste l’esempio.

Se io dico di amare di più casa mia che casa d’altri, la mia Heimat piuttosto che la tua, devo fare mille premesse: che io non sono razzista, che non sono leghista, che accetto tutti quanti, che gli africani mi sono simpaticissimi, che contro i rom (guai a chiamarli zingari!) non ho proprio nulla, e così via. Altrimenti, mi coprono d’insulti.

Se oso dire che molti stranieri non si sognano nemmeno di pagare il biglietto su autobus e treni, sono un razzista. Se mi azzardo a raccontare dei furti operati dagli zingari, apriti cielo! E lo stesso, se passiamo dalle preferenze in materia di culture e di civiltà a quelle in materia sessuale. Sorvolo sull’episodio grottesco del ricercatore accusato di sessismo perché aveva postato su Facebook una foto della figlia con una tutina rosa: sorvolo non perché sia un episodio dappoco, ma perché la replica del signore in questione è stata, in pratica, una giustificazione, in cui dichiarava apertis verbis la sua adesione all’ideologia gender. Io non aderisco a un bel nulla: io non mi giustifico più, ve l’ho detto.

Questo sta diventando un mondo di pazzi: di libertà obbligatorie. Una dittatura insopportabile, in cui le catene e le carceri sono sostituite dal vaniloquio di un pensiero unico asfissiante. Per conto mio, entro l’ambito della legge, ognuno può far quello che vuole: ognuno. Non solo gli ognuno che vanno bene a me. E, del pari, nell’ambito della legge, almeno finchè anche quella non verrà modificata per tappare la bocca ad ogni dissenso, voglio poter dire che a me lo spettacolo di due uomini che limonano non mette punto allegria. Che esteticamente, anzi, mi muove una certa ripugnanza. Lo posso dire? Posso dire che vedere uno che non paga il biglietto, costringendo me a pagarlo il doppio, mi fa un tantino incazzare? Posso dire che vedere donne con lattanti narcotizzati in braccio, che chiedono l’elemosina sedute per terra, mi fa un effetto da romanzo di Dickens? Qualcuno mi illumini: posso dirlo o è un reato? Perché, se è un reato, allora voglio che sia un reato anche dire che il tennis è uno sport noioso rispetto alla pallanuoto. E voglio che sia un reato lamentarsi perché ci sono evasori fiscali che stabiliscono la residenza a Montecarlo. Oppure ci sono gusti buoni e gusti cattivi, reati belli e reati brutti? E chi decide cosa è buono e cosa è cattivo? La Boldrini? Torquemada? La Madonna Pellegrina?

Il Padreterno mi ha dato un cervello perché lo usassi, e io cerco di usarlo: e il mio cervello mi dice che non esistono libertà migliori e libertà peggiori, che non puoi essere un giorno Charlie e, il giorno dopo, lamentarti delle “Sentinelle in piedi”. Io non amo la satira sfrenata di Charlie Ebdo e neppure lo spettrale silenzio delle sentinelle: ma credo che abbiano entrambi pieno di diritto di esprimere la propria opinione. Credo, anzi, che chiunque lo abbia: il matto che inneggia ai gulag come il fanatico che predica l’Armageddon. Senza giustificarsi: perché non c’è un tribunale del popolo che detenga la verità assoluta e che stabilisca il torto e la ragione delle idee. Si devono lasciar libere: sarà la gente a decidere se siano furbate o scemenze. Oppure, un tribunale del popolo esiste, anche se io non mi sono mai accorto della sua investitura. In tal caso, non mi limiterei a rifiutarmi di giustificare i miei gusti e le mie opinioni, ma inviterei i miei lettori a fare l’unica cosa che gli uomini che amino la libertà devono fare quando sono soffocati da una dittatura. La rivoluzione.




Spendere o risparmiare? Questo è il nuovo dilemma

risparmioDato che del “doman non v’è certezza” si guarda sempre più all’uovo di oggi che alla gallina di domani. Una volta le banche regalavano ai bambini salvadanai in metallo per educare alla parsimonia e al “mettere da parte”, oltre che come operazione di marketing, mentre il 31 ottobre si celebrava nelle scuole la Giornata mondiale del risparmio. Tutto da dimenticare, come tradizioni obsolete. L’imperativo adesso è consumare, una necessità per l’economia in affanno. E se i soldi non ci sono, si prendano a prestito.

Ci sono ancora resistenze per questo modello economico in Italia, dove, volente o nolente, è ancora diffusa una mentalità contadina. La finanza, insomma, non è ancora nella genetica. Per fortuna secondo alcuni, per iattura secondo altri, c’è (c’era?) nella massa degli italiani una vocazione al risparmio, anche se a volte è solo un desiderio, per difficoltà oggettiva ad avere sostanze da accantonare.

In ogni caso l’incentivo al risparmio non appare più l’obiettivo dei governanti, che anzi spingono a spendere. Perché è vero che i consumi mettono in moto l’economia, ma è anche vero che su ogni acquisto il Fisco incassa la sua parte, attraverso l’Iva.

Da questo mese i lavoratori dipendenti possono chiedere l’anticipo del Tfr in busta paga (in sigla Quir, quota integrativa retribuzione) . Il trattamento di fine rapporto è una forma di risparmio forzoso: in pratica obbliga i lavoratori a “investire” parte del loro stipendio. E’ una voce che non esiste in molti altri Paesi che porta a creare un gruzzoletto per quando si andrà in pensione e al quale attingere in caso di necessità, ma è anche una forma di finanziamento a basso costo per le aziende che lo accantonano. Ad essere buoni si può pensare che il governo ritiene che gli italiani siano maturi e sappiano fare i conti per quello che è meglio fare e dà la possibilità di libere scelte. Ad essere cattivi il governo vuole avere nuovi redditi da tassare subito e in modo ordinario, e non separatamente, come avviene per il Tfr ritirato a scadenza.

Più che per il rilancio dei consumi e della domanda interna il ricorso al Quir sembra la concessione dell’ultima spiaggia a chi non riesce ad arrivare a fine mese, dandogli ossigeno nel presente per toglierglielo nel futuro. Nel qual caso, sempre nella logica di spendere subito quello che non si sa se si avrà domani ci sono esempi peggiori all’estero. Mentre da noi si fatica a far capire l’importanza di una previdenza complementare, sempre da questo mese in Gran Bretagna ogni lavoratore, con almeno 55 anni di età, può ritirare il montante dei contributi previdenziali obbligatori versati nella sua carriera lavorativa. Ma, dato che non si regala nulla, pagherà le tasse (40%) sul 75% della somma e non avrà più diritto ad una pensione pubblica. L’obiettivo della riforma del governo di David Cameron è rianimare la spesa delle famiglie, auspicando che questa sia indirizzata soprattutto agli investimenti. I critici, forse più realistici, temono che a fronte di qualcuno che utilizzerà questa somma in modo consapevole e razionale, molti faranno sparire i soldi della loro futura pensione nei pub o in vacanze in Spagna preparando il Regno Unito a un futuro di vecchi spiantati, considerato che già adesso le famiglie inglese sono tra le più indebitate d’Europa, per effetto di un uso molto spinto del credito al consumo.

In Italia non è prevista la possibilità di rimborso dei contributi Inps qualora non vengano raggiunti i requisiti per l’ottenimento della pensione: per qualche tempo era stata prevista per gli extracomunitari che lasciavano il territorio nazionale, ma poi questa deroga è stata cancellata per evitare di fatto una discriminazione. Se uno non arriva alla pensione, insomma, incamera l’ente pubblico e anche questa cinica situazione, sempre più reale tanto più si allunga l’età pensionabile, nonostante l’allungamento della vita media, contribuisce a sostenere il sistema previdenziale. Se anche da noi ci fosse la possibilità di ritirare i contributi, o addirittura di non versarli, probabilmente molti lo farebbero, confidando, con conti sbagliati, che poi alla fine una pensione, seppure minima, dato che siamo in Italia, finirebbero per prenderla. C’è da augurarsi che la soluzione inglese non venga importata, anche se potrebbe avere slogan accattivanti, del tipo “consuma adesso con i soldi del futuro”. Magari con sotto l’immagine di una bella spiaggia greca.




Funivia dall’aeroporto a Bergamo, un’idea senza gambe

MiniMetro-PERUGIA
Il Minimetrò di Perugia. I 3 milioni di passeggeri all’anno coprono appena il 50% dei costi di gestione

Venghino, signori, venghino. Macché Città Alta, le Mura o l’Accademia Carrara. La vera attrazione turistica di Bergamo ancora non si vede ma abbiate solo un pizzico di pazienza e avrete di che lustrarvi gli occhi. L’ha promesso nientemeno che l’assessore regionale ai Trasporti, Alessandro Sorte. Il piccolo fenomeno della politica bergamasca, gratificato pressoché ogni giorno di un articolo sulla stampa locale, si sta spendendo in queste settimane per la realizzazione di un collegamento città-aeroporto per mezzo di una funivia. Due sarebbero, secondo il suo profondo pensiero, gli atout del progetto: anzitutto, costerebbe molto meno dell’ipotizzata nuova tratta ferroviaria; in secondo luogo, udite udite, funzionerebbe da attrazione turistica “in grado di attirare le famiglie”.

C’è già chi ha giustamente osservato che il contesto in cui si dovrebbe calare il capolavoro ingegneristico non è un parco divertimenti ma una città che, al netto di qualche bruttura, ha saputo conservare nei secoli una qualità architettonica ed urbanistica di buon livello. Ma in fondo il rilievo estetico, il più facile da comprendere anche per chi probabilmente arrivando dal contado non ha trovato grandi modelli per affinare il suo gusto, conserva ampi margini di discrezionalità. Altrettanto è difficile dire per i criteri economici. Con i numeri non si può scherzare e allora, prima di farsi prendere dall’entusiasmo con dichiarazioni perlomeno sopra le righe, converrebbe metter giù qualche conto. E magari provare a guardarsi attorno, giusto per capire se c’è qualche modello da studiare. Senza fare nemmeno troppa fatica, lasciando perdere le città europee un po’ superficialmente evocate fin qui (troppo diversi i contesti urbani e le normative), si può far tappa a Perugia. Sì, quella del sistema di scale mobili che tante volte a Bergamo abbiamo invidiato. Quella che, non contenta di aver realizzato un modello di risalita copiato a più non posso (da Orvieto a Spoleto passando per Siena), ha varato il “Minimetrò”. Tecnicamente definito “people mover” (trasporto automatico su rotaia con trazione a fune), come dice il nome stesso è una piccola metropolitana sospesa che collega la periferia, in particolare l’area dello stadio, dotata di ampi parcheggi, con il centro storico. Sette stazioni in tutto, il “Minimetrò” conta su 25 vetture da 20 posti ciascuna che viaggiano con una frequenza media di 2 minuti e mezzo. E’ stato inaugurato nel 2008 e ad oggi trasporta tra i 2 milioni e mezzo e i tre milioni di passeggeri all’anno. Il costo, quasi 100 milioni (il 60 per cento a fondo perduto grazie alla legge che in Bergamasca è stata utilizzata per la Tramvia delle Valli), è la base di partenza per capire quanto sia impegnativa l’impresa. Tanto più se, pur con quei volumi di traffico, la gestione riesce a coprire “solo” il 50 per cento dei costi con biglietti e abbonamenti.

SorteSe quelli sono i numeri, chi oggi guarda al collegamento con Orio deve capire che la sostenibilità economica di un intervento simile è assai precaria. Per opere del genere i flussi di traffico devono avere dimensioni di milioni di persone (3 milioni e mezzo sono quelle che utilizzano, per esempio, la Tramvia della Valle Seriana). Tra l’aeroporto e la città non ci sono oggi e difficilmente ci saranno in futuro. Neanche se il collegamento dovesse prevedere, come succede a Perugia, stazioni intermedie (vedi la Fiera, per esempio).

Ecco perché, estetica a parte, il dibattito che si è sviluppato fin qui pecca, a voler essere generosi, di astrattezza. Stupisce che ad animarlo sia un assessore regionale con co-protagonisti (si son detti disponibili a confrontarsi) il sindaco Giorgio Gori e il presidente della Provincia Matteo Rossi. Tre soggetti che dovrebbero fare del pragmatismo la loro stella polare. Oltre che a Perugia, guardino a tutte le città raggiungibili da Bergamo con Ryanair. Tranne pochissime eccezioni, sono tutte collegate agli scali con pullman, a volte anche con distanze notevoli (vedi Parigi o Barcellona), eppure nessuno se ne lamenta. Il mezzo di trasporto è importante, certo, ma non è tutto per chi desidera visitare una città. Lo è molto di più, fino a diventare fondamentale, per chi ci vive o ci lavora. E allora non del collegamento con Orio bisognerebbe parlare, ma della risalita a Città Alta o della linea metropolitana sull’asse Ponte S. Pietro-Seriate. Queste sì di straordinaria utilità. E pazienza se non saranno mai attrazioni turistiche.




Fra poco ci tasseranno anche le scale e la morte

Impianti di risalitaE’ sufficiente dire che proporre di mettere l’Imu sugli impianti di risalita è una colossale idiozia? Io credo di no: penso, anzi, che proprio partendo da questa idea balzana si debba riconsiderare il senso del prelievo fiscale in questo Paese e, più ancora, della politica fiscale di chi ci governa. Tassare una seggiovia come se fosse un immobile (e anche tassare un immobile, che, quando l’hai acquistato, è già stato gravato di un simpatico balzello mica da ridere, mi sembra una patrimoniale mascherata) è follia pura: follia in senso generale, visto che un impianto di risalita necessita costantemente di lavori, di revisioni, di collaudi, cosa che un immobile non si sogna di fare; a ciò si aggiunga che un impianto di risalita produce posti di lavoro, indotto, piacere fisico e morale nell’utente, cosa che un immobile non si sogna di fare; per di più, un impianto di risalita paga già fior di tasse sull’energia elettrica, sugli stipendi degli addetti e, soprattutto, sui ricavi stagionali, cosa che, lasciatemelo rivelare ai signori ministri, un immobile non si sogna di fare. Insomma, una funivia non è una casa: bisognerebbe che qualcuno lo spiegasse a quei cervelloni del governo. Oltre a ciò, vi è una follia, per così dire, settoriale, anzi, climatico-ciclica: sono anni che nevica poco, che fa caldo, che la stagione sciistica è ridotta ai minimi termini. Anziché aiutare il settore, che periclita notevolmente, questi furbacchioni gli danno il colpo di grazia: quasi che perseguano scientemente non la salvezza ma la distruzione del nostro povero Paese. Guadagni meno? Gli alberghi sono mezzi vuoti per la crisi? Sempre meno gente pratica lo sci? E io ti aggiungo una bella tassa, così vai a remengo più in fretta e senza troppo agonizzare! Però, a questo punto, bisogna che facciamo mente locale, su tutte queste gabelle che ci piovono in testa: va bene essere obbedienti e rispettosi, va bene la pazienza tradizionale delle genti alpine e subalpine, però qui c’è davvero puzza di bruciato. Intanto, viene da chiedere se questi provvedimenti siano veramente partoriti da un’équipe di deficienti, come parrebbe, oppure se vi sia, in queste scelte scellerate, una sorta di “cupio dissolvi”: insomma, se il fine ultimo di tutta la faccenda non sia affossare per sempre la nostra economia. Oppure, se non siamo molto più sull’orlo del baratro di quanto ci vengano a raccontare, e si tratti semplicemente del grattare il fondo del barile, tassando le ombre, l’acqua, la terra e le seggiovie. Delle due l’una et tertium non datur: non posso credere che si tassino i terreni di montagna, gli impianti di risalita e non si tassino gli immobili religiosi o sindacali. Non voglio credere che, sulla tolda del vascello, che naviga in acque di per loro burrascose, ci sia una ciurma di ubriachi. I rifugi chiudono, perché d’estate piove e d’inverno fa caldo e questi tassano la montagna: o ci odiano, o sono pazzi, oppure c’è sotto qualcosa. Siccome pazzi non mi paiono, e non capisco che motivi avrebbero d’odiarci, concludo che sotto vi sia qualche segreto inconfessabile. Per esempio, il fatto che non ci stiamo per nulla risollevando da una crisi strutturale che è stata solo accentuata dalla contingenza internazionale, ma che sarebbe stata inevitabile comunque, prima o poi, in uno Stato gestito da malavitosi, papponi e cialtroname assortito. Un’Italia che si regge sul malaffare, che emargina i capaci e gli onesti, in cui tutti rubano più che possono e se ne fregano lietamente del domani, non poteva durare a lungo. E, infatti, casca a pezzi: non ci sono soldi per niente e per nessuno, tranne che per i ladri e gli imbroglioni. Dunque, le scelte scriteriate del governo, in materia fiscale, mi sembra possano ricondursi a due semplici strategie: la prima è quella di individuare i pochissimi settori che non siano già stati tassati, per rimediare qualche spicciolo, in modo da tirare avanti la baracca ancora un po’. L’altra è quella di non toccare mai, a nessuno costo, gli interessi dei veri potenti, le prebende, i benefici, le immunità dei soliti noti. Quelle sono intangibili: piuttosto, vengono tassate la sabbia delle spiagge e l’aria che respiriamo. E, allora, in una società che si regga sull’ingiustizia e che faccia della diseguaglianza di fronte alla legge la propria misura e il proprio sigillo, che speranze volete che abbiamo? Altro che tassare gli impianti di risalita: una squadra di pensatori romani lavora notte e giorno ad inventarsi nuovi balzelli. Tasseranno i neonati e l’erba dei giardini: metteranno gabelle sulla produzione di escrementi e sull’uso delle scale. Alla fine, quando non ci sarà più nulla da tassare, tasseranno perfino la morte: si pagherà per morire. E gli inadempienti resteranno in vita per decreto: saremo immortali per colpa dell’agenzia delle entrate. Tanto, l’inferno sarà già qui, sulla terra: che bisogno ci sarà di crepare?




La strana rassegnazione sulla riforma delle Popolari

PopolariCambiare idea è legittimo. “Il saggio muta consiglio, ma lo stolto resta della sua opinione”, recita un aforisma di Petrarca. Però è strano che la riforma delle Popolari dopo l’iniziale levata di scudi all’improvvisa e imprevedibile comparsa del decreto legge sia passata, come nelle previsioni, attraverso un voto di fiducia, ma in fondo quasi senza colpo ferire. L’ultima correzione ottenuta alla fine è che nell’assemblea che varerà la trasformazione in Spa potrà essere introdotto un limite all’esercizio del diritto di voto in assemblea del 5%, ma per 24 mesi. Una soglia che peraltro esiste già in altri istituti, come Unicredit, e senza limiti temporali, ma che alla prova dei fatti non costituisce una barriera insormontabile. Esisteva ad esempio anche al Credito Bergamasco ed è bastata un’assemblea straordinaria per togliere il limite e poi cedere il controllo al Crédit Lyonnais.

Di fatto l’introduzione del limite al diritto di voto sembra essere stato un contentino innocuo tanto per dire che sono state ascoltate le critiche. Ma critiche che in fondo non sono state così sentite. Qualcuno ha mostrato un po’ di fastidio, come avviene per tutti i contrattempi che rovinano il regolare flusso degli eventi, ma nessuno sembra sentirsi messo in discussione, tanto che la muta rassegnazione sembra nascondere anche un po’ di soddisfazione. Se questa normativa doveva servire per sgretolare presunti gruppi di potere autoreferenziali, bisogna prendere atto che non c’è stata una particolare reazione per evitare l’indebolimento. Se dopo due mesi la possibilità di una calata straniera su una parte importante del sistema creditizio o comunque un rivolgimento della governance non sembra costituire più un problema c’è da pensare che la rivoluzione, auspicata da alcuni e che dovrebbe essere temuta da altri, non ci sarà.

Anzi, di fronte al nocciolo della questione, che è il passaggio dalla cooperativa con voto capitario (un socio un voto) a una normale società per azioni, dove contano le azioni, è spuntata una tendenza diffusa ad anticipare la trasformazione che in base alla legge dovrebbe essere effettuata entro 18 mesi, ovvero prima dell’estate 2016. A far cambiare le idee sulla riforma da parte dei banchieri potrebbe essere il fatto che in realtà non ci sarà il “tutti a casa” ventilato all’inizio. Ma anzi, come ha fatto notare il capo della vigilanza di Bankitalia, Carmelo Barbagallo, la trasformazione in spa “consentirà ai soci di controllare più efficacemente l’operato degli amministratori, riducendo inoltre gli spazi per le ingerenze indebite e i veti ingiustificati di minoranze organizzate”. Insomma, una governance più stabile e allo stesso tempo più difficile da cambiare. Questo vuol dire che in futuro un cambiamento di maggioranza nel corso dell’assemblea come, ad esempio, è stato sfiorato in Ubi, non sarà possibile perché la conta delle azioni si farebbe prima e la riunione si farebbe a giochi fatti. E un presidente che in una Popolare può (o poteva) restare al vertice per decenni per quella che viene lamentata come autoreferenzialità, in una Spa lo potrà essere, come avviene, perché ha il pacchetto di azioni di controllo, passato da padre in figlio. Si può pensare, a questo punto, se non lo è già stato fatto, che prima di una concentrazione delle banche, ufficialmente il motivo per cui è stata pensata la riforma, ci sarà una concentrazione del capitale.

Le assemblee di questo mese, intanto, si svolgeranno secondo le regole usuali. E senza grandi temi sul tavolo, se non i bilanci, le riunioni serviranno soprattutto per misurare il polso dei soci e capire il loro orientamento su strategie che ormai non riguardano più la trasformazione in Spa (caso mai saranno da valutare i tempi, dato che in certi istituti, come Ubi, l’anno prossimo saranno da rinnovare le cariche sociali) quanto quelle politiche di aggregazione che dovrebbero rafforzare le banche ostacolando con le dimensioni quelle scalate dalle quali senza il voto capitario sono meno protette.

 




Trent’anni di Lega, più promesse che risultati

Daniele Belotti
Daniele Belotti

Formidabili quegli anni. Trenta tondi tondi, dalle riunioni semiclandestine nei sottoscala del 1985 alle adunate “oceaniche” nelle piazze salviniane. Ma davvero, al di là della pur legittima autocelebrazione andata in scena nei giorni scorsi alla Fiera, la Lega di Bergamo può andar orgogliosa di questa sua ormai non più breve storia?

L’anniversario può essere utile occasione per provare a tracciare un bilancio dell’operato di un movimento che in tre decenni ha lasciato un solco profondo nella terra bergamasca. E non sempre in bene. Ma addentriamoci nell’analisi e proviamo a partire dagli aspetti positivi, limitandoci naturalmente al contesto locale. Il primo, innegabile, è la ventata di aria fresca che la Lega ha portato nella politica bergamasca. Nelle amministrazioni locali soprattutto, dopo decenni di sostanziale autocooptazione tra i soliti noti per via dell’egemonia democristiana, sono comparse figure nuove, spesso un po’ naif ma con il pregio di odorare di bucato. Hanno rotto i vecchi equilibri, tagliato le unghie agli amici degli amici, innovato nell’approccio con i cittadini. Questo in generale, naturalmente, perché accanto ad amministratori stimati ed apprezzati sono anche spuntati personaggi che hanno fatto prevalere il folklore, con trovate legate a simboli e bandiere fini a se stesse.

Quando hanno fatto prevalere l’ideologia sul pragmatismo, infatti, i leghisti bergamaschi hanno fatto flop. Emblematiche le due esperienze alla guida della Provincia. Prima Giovanni Cappelluzzo con il suo progetto della “Provincia autonoma”, poi Ettore Pirovano con la sua furia iconoclasta contro qualsiasi cosa provenisse dalle Giunte che l’avevano preceduto. Risultato? Tante energie e risorse buttate via senza portare a casa nulla, alla faccia del rinomato pragmatismo della ditta padana. Due occasioni sprecate, nella migliore delle ipotesi, per mostrare innovative capacità di governo così come decantate nella propaganda elettorale.

E nemmeno sul piano dell’esperienza romana si può dire che la rappresentanza bergamasca abbia lasciato segni tangibili. I tanti che si sono alternati in Parlamento si sono consegnati, senza colpo ferire, al ruolo ininfluente e frustrante dei peones, utili solo a pigiar bottoni, sia che si trattasse di sostenere governi sia di opporsi. Al pari in questo dei colleghi degli altri partiti, va riconosciuto, i leghisti hanno fallito nell’opera di lobbysti del territorio. Sono scivolati via senza portare a casa alcunchè di significativo. D’altra parte, chi ha avuto l’onore di entrare nella stanza dei bottoni, Roberto Calderoli, passerà alla storia come il padre di una indecente legge elettorale, oltre che come instancabile produttore di battute di dubbio gusto. Anni e anni di sostegno ai governi Berlusconi non hanno portato in Bergamasca nemmeno le briciole. Bisognerà avere il coraggio di fare un’analisi seria del lavoro svolto e tracciare un bilancio che non sia autoassolutorio.

lega fiera

Certo, tanto più oggi che Matteo Salvini pare aver individuato una nuova forza di penetrazione nell’elettorato non solo nordista, celebrare il raggiungimento del trentesimo compleanno è doveroso. Non è stato facile essere leghisti in certi anni lontani e nemmeno in quelli più recenti (traversìe di Bossi e delle varie trote in circolazione). Portare avanti con coerenza un credo, qualunque esso sia, è di per sé meritevole. Ma perché tutto non si riduca ad una allegra rimpatriata, ancorché colorata da una raffica di vaffa nei confronti di Matteo Renzi, sarebbe utile che chi oggi guida la Lega bergamasca, quel Daniele Belotti che forse non casualmente è tornato quasi alla casella di partenza in mancanza di alternative valide, avesse la lungimiranza di promuovere un momento di confronto senza rete e senza sconti, per ragionare sui punti di forza ma anche sui limiti di un’esperienza politica che ad oggi, lo riconoscono anche i sostenitori leghisti più fedeli, ha sicuramente promesso più di quanto abbia raccolto.




Siamo figli di Seneca e Cicerone. Cerchiamo di non fare i barbari

schettinenReciprocità: quanti delitti si commettono in tuo nome. Io non so, onestamente, dire se questa idea balzana della reciprocità sia figlia di una malintesa visione giuridica o se derivi, piuttosto, da un’applicazione su scala planetaria delle vecchie regole che sovrintendevano alle partite di nascondino e toc-rialzo, nel parchetto davanti casa. Fatto sta che, con crescente fortuna, va affermandosi la teoria – se mi è concesso, un filino aberrante – della reciprocità assoluta. Me ne stupisco, giacché, in un’epoca dominata dal relativismo, un simile concetto, anziché superare Wittgenstein in direzione di una maggiore civiltà, lo distanzia anni luce in quella della dogmatica barbarie. E, vieppiù, me ne dolgo, perché denuncia la debolezza intrinseca del nostro sistema etico e valoriale. Vediamo di capirci. Viviamo in un’epoca in cui contano di più i tribunali televisivi di quelli veri: in cui il sentito dire, la bufala o la semplice maldicenza godono di stima superiore a quella che spetta alle analisi più attente e ai giudizi più ponderati: non ci si può far nulla, almeno a breve termine, perché questi sono i tempi, e il popolo, ormai, si avvia ad essere plebe. Però, non dovremmo lasciarci attrarre da una visione semplicemente aritmetica della morale: non possiamo permetterci di misurare l’identità e la civiltà del nostro popolo con la stadera del mercatante. Invece, purtroppo, sento, sempre più spesso, ragionare così: e non solo da parte delle sciampiste in libera uscita, ma anche da persone di una certa, vera o presunta, educazione e cultura. Cito due esempi, che mi pare possano degnamente rendere l’idea di cosa intendo per abuso del concetto di reciprocità. Il primo riguarda l’Isis e, più in esteso, il giudizio che l’italiano dà del mondo islamico. Premesso che gli italiani che abbiano viaggiato in paesi a maggioranza islamica sono minoranza e che, tra costoro, quelli in grado di andare oltre il kebab o il thè alla menta sono uno sparuto manipolo, moltissimi miei compatrioti si appellano costantemente al concetto di reciprocità, per giudicare quello che dovrebbe essere il nostro comportamento nei confronti dei musulmani. Quando ci lasceranno costruire chiese in casa loro, faremo costruire loro le moschee in casa nostra: questo, a un dipresso, il senso del discorso. O, peggio, di fronte alle efferatezze scellerate dei tagliagole del Califfato, si commenta: bisognerebbe fare lo stesso con loro! Immane bischerata: se quelli sono delle bestie primitive e sanguinarie, noi siamo i figli di Cicerone e di Seneca. E sarebbe bene non dimenticarcelo mai! Non è che, se ci confrontiamo con un cretino, dobbiamo per forza fare i cretini a nostra volta: anzi, il nostro retaggio ci impone categoricamente di essere diversi. All’inciviltà, alla barbarie, alla violenza, si risponde con la civiltà, con la cultura e con la forza: abbassarsi ad un muro contro muro ci qualifica uguali ai nostri contendenti. Noi dobbiamo costruire moschee (con juicio, intendiamoci) anche se in Yemen vengono distrutte le chiese, proprio perché noi non siamo così: perché, se facessimo anche noi così, saremmo sconfitti su tutta la linea, perché avremmo perso, definitivamente, la nostra identità e la nostra dignità di uomini occidentali. Il secondo esempio riguarda la prima pagina di un quotidiano che, gongolando per la catastrofe dell’A320 sulle alpi francesi, intitolava “Schettinen”: come dire che noi abbiamo Schettino, ma anche i tedeschi, che fanno tanto i fighi, non se la passano gran bene. Il tutto, a ripicca di analoghi titoli apparsi sulla stampa germanica in occasione del disastro della Costa Concordia. E, dunque? Vogliamo davvero esibirci in una gara al ribasso? Quando in Svizzera esploderà un impianto nucleare, commenteremo con prime pagine ironiche sulla presunta precisione elvetica? Questa è una polemica da miserabili: è come quando, negli stadi, si fischia l’inno nazionale degli avversari. Se i tedeschi hanno esibito un tonfo di stile, in occasione di una nostra tragedia, noi, “gentil sangue latino”, dobbiamo metterci allo stesso livello? In questo modo, si innesca solo una corsa all’inciviltà: si perde definitivamente il senso della bellezza, dello stile, dell’umanità. Io non la voglio un’Italia così: gente che giustifica le proprie malefatte col fatto che anche altri le commettono, che insulta e fa vergognosa satira su di un dramma, solo perché qualche mutandone d’Oltralpe lo ha fatto con noi. Io vorrei un’Italia che, una volta tanto, desse l’esempio di come ci si comporta: un’Italia dignitosa e seria, rispettosa e composta. Invece, dietro la scusa della reciprocità, della maledetta reciprocità, vedo ignoranza e livore, vigliaccheria ed intolleranza. Ci vorrebbe un Rinascimento: ma, per ottenerlo, bisognerebbe, prima, liberarci di questo complesso d’inferiorità che ci avvelena. Bisognerebbe applicare la reciprocità negli esempi positivi e non in quelli vergognosi. Bisognerebbe, in altre parole, aver voglia di far la fatica di imparare e di insegnare. Che è l’unica reciprocità che serva veramente a qualcosa.




Jobs act, una vera riforma o un regalo a tempo?

Lavoro Jobs ActComunque andrà sarà un successo. Con un minimo di ripresa, ma anche senza ripresa, ci saranno inevitabilmente assunzioni e queste saranno effettuate secondo le regole in vigore, cioè con il Jobs act. Sarà facile allora per il governo che lo ha proposto e fatto adottare dire che questo avviene grazie al nuovo provvedimento. Mancherà però la controprova di cosa sarebbe successo se fosse rimasta la vecchia normativa, con la quale, in ogni caso, anche nei momenti più neri della crisi, venivano assunte diverse centinaia di migliaia di persone ogni anno.

Anche senza Jobs Act, nel 2014 gli occupati in Italia sono aumentati di 120 mila unità. Così la crescita prevista pure nel 2015 non potrà essere onestamente imputata al Jobs Act, ma piuttosto alle esigenze delle aziende. Eppure la nuova normativa qualche risultato in termini di maggiore occupazione lo avrà sicuramente. Ci sono 76 mila aziende che in soli venti giorni di febbraio hanno chiesto all’Inps il “codice di decontribuzione” per le assunzioni a tempo indeterminato. Il Jobs Act, infatti, viene molto pubblicizzato per la questione dei contratti a tutele crescenti e la “libertà” di licenziare. Ma agli imprenditori interessa soprattutto qualcos’altro. Il “codice di decontribuzione” permette infatti di ottenere lo sconto sui contributi previdenziali che può far risparmiare fino a 8.060 euro l’anno per un triennio per le assunzioni. In mancanza di dati ufficiali – le statistiche viaggiano con tempi che non sono assolutamente compatibili con quelli dell’economia – ci si deve rifare alle stime degli operatori. Secondo i Consulenti del lavoro, nei primi due mesi dell’anno sono state fatte 275 mila assunzioni a tempo indeterminato, disinteressandosi bellamente della possibilità di eludere il famigerato articolo 18. Tanto è vero che le imprese non hanno pensato di rinviare le assunzioni a dopo il 7 marzo, quando è diventato operativo il Jobs Act, che sostituisce il reintegro nel posto di lavoro con un indennizzo in denaro. Questo conferma che le aziende quando assumono non lo fanno pensando a quando dovranno licenziare, non fosse altro che per scaramanzia.

Comunque, risultati o non risultati, temuto o non temuto, che interessi o meno, ormai il Jobs Act ce lo abbiamo e difficilmente se ne andrà, se non, forse, con un referendum, dall’esito peraltro non scontato. Appare in salita la sfida dei sindacati di far rientrare dalla finestra la tutela dei licenziamenti uscita dalla porta, introducendo nella contrattazione regole di reintegro non previste dal decreto. Se si ammette che le imprese non hanno interesse a licenziare solo per il piacere di farlo, trovarne di disposte a impegnarsi in un contratto integrativo al reintegro obbligatorio, non è molto differente dal riuscire a trovare aziende disposte a vincolarsi ad una rinuncia a prescindere a licenziare, per quanto questo vincolo possa avere valore in concreto.

In ogni caso, dato che chi assume non lo fa pensando di licenziare subito dopo, i problemi del Jobs Act, con la discriminazione che crea nella stessa azienda tra lavoratori dipendenti tutelati e lavoratori dipendenti non tutelati, perché anche le tutele crescenti non saranno comunque pari alle precedenti, si vedranno solo in futuro. E progressivamente, tra diversi anni, scompariranno, quando ci saranno solo lavoratori assunti con il jobs act.

Nel frattempo però dovrebbe scoppiare un nuovo problema, quello del costo della decontribuzione che in questi primi mesi sta dando una spinta all’occupazione ben maggiore del Jobs Act, al quale però alla fine andranno i meriti. Il calcolo della Cgia è che un milione di contratti incentivati (e incidentalmente adesso anche a tutele crescenti, ma comunque ridotte) costeranno circa 15 miliardi (1,8 nel 2015, 4,9 nel 2015, 5 nel 2017 e una coda nel 2018 di 2,9 miliardi) tra sgravio dei contributi Inps per 36 anni e deducibilità integrale, dal calcolo della base imponibile Irap, della componente del costo del lavoro per tutti i lavoratori alle proprie dipendenze assunti con un contratto stabile. Come per i famigerati 80 euro, anche questa volta c’è da chiedersi dove verranno recuperate le risorse. Ma come gli 80 euro non hanno risolto il problema dell’eccessivo carico fiscale, limitandosi ad un ribasso provvisorio, salvo proroga, così anche una decontribuzione per tre anni non risolve il problema del costo del lavoro e appare più un regalo (a tempo) che una vera riforma.