Soffrono il commercio e le micro e piccole imprese che cercano di reagire

Non è un momento facile per la nostra economia. L’Osservatorio del terziario commissionato da Ascom Confcommercio a Format Research evidenzia che il clima di fiducia delle imprese del terziario orobico sta peggiorando.

Nella nostra provincia le aspettative restano comunque alte, addirittura migliori rispetto alla media nazionale: solo, si fa per dire, il 27% degli imprenditori ravvisa un peggioramento dell’economia italiana, meno che a livello nazionale (45,6%), mentre il 15% sono ottimisti. Il clima di fiducia è pari al 44% contro il 30,7% a livello nazionale. il dato non è omogeneo: pessimista resta il commercio la cui fiducia è precipitata al 29,8%, il turismo si attesta al 46% e i servizi al 47,2%. 

Anche le dimensioni di impresa influiscono sulle aspettative per il futuro, con una forte differenza: le imprese con un addetto fiduciosi sono il 28,2%, quelle con due-cinque addetti il 28,5% e quelle sopra i 49 fino al 50%. 

In altri termini i più pessimisti restano i commercianti, rispetto agli operatori del turismo e dei servizi, e i piccoli imprenditori che avvertono maggiormente le difficoltà.

Il fattore chiave del peggioramento sta nella previsione sull’andamento dei propri ricavi: il 53,5% degli imprenditori dichiara di attendersi ricavi almeno pari o superiori. Una fiducia superiore a quella nazionale (40%) ma comunque in discesa: 43% per le imprese con un addetto, 46% per quelle con due-cinque addetti, 66% per le attività con più di 49 addetti. 

Se spaventa che un imprenditore su due tema un peggioramento dei suoi ricavi è la forbice tra le categorie ad essere significativa. Venti punti di differenza sulle previsioni dei ricavi evidenziano l’abisso nella fiducia nel futuro tra le imprese piccole e quelle grandi. Anche qui è il commercio il settore più in difficoltà e quindi pessimista: 43,3% contro il 52,6% del turismo e il 59% dei servizi. 
Mentre la dinamica dei prezzi di materie prime e merce e i tempi di pagamento seguono la stessa linea delle previsioni dei ricavi, con le difficoltà dei piccoli e del commercio, quello che si rileva nell’occupazione costituisce l’aspetto più significativo della ricerca. 

La curva dell’occupazione va esattamente al contrario rispetto alle previsioni dei ricavi e quindi alle dimensioni: le piccole imprese, che sono quelle che avvertono maggiormente la difficoltà, stanno producendo lo sforzo massimo sulle assunzioni per risalire la china, mentre le imprese più grandi, che sono più ottimiste, stanno razionalizzando prevedendo la diminuzione degli occupati. 
In conclusione, le imprese del terziario bergamasco sono pessimiste ma non demordono e anche le più piccole restano reattive.




Meno profili tecnici e più marketing e digitale. La rivoluzione delle competenze nel terziario

Qualcosa sta cambiando, anche a vista d’occhio, ma è ancora difficile realizzarlo in pieno senza il beneficio dei numeri. Negli ultimi mesi l’ottima affluenza -quasi insolita- ai seminari sulla comunicazione web e social organizzati da Ascom ci dà un segnale. Si stanno iscrivendo i titolari e i familiari -i jolly di ciascun impresa- , perché oltre a dirigerla cercano -per lungimiranza, competenze e dedizione- di ricoprire i ruoli che mancano. Poi quando diventerà possibile, sostenibile e se troveranno la figura giusta assumeranno personale adeguato alla mansione..

La ricerca ‘Focus su lavoro competenze e formazione’ commissionata da Ascom Confcommercio Bergamo a Format Research e presentata in assemblea Ascom 2019, mette a fuoco l’accelerazione nel cambiamento, le esigenze pressanti delle imprese del terziario orobico e il deficit di competenza nel lavoro. Infatti i numeri sono chiari: solo l’8,4% delle imprese del terziario dichiara di aver aumentato l’organico negli ultimi sei mesi, mentre il 47% di chi non l’ha fatto afferma che ne avrebbe avuto bisogno. Quasi un’impresa su due (43,1%) ha espresso che avrebbe volentieri assunto ma non è stato possibile per diversi motivi: il 5,8% per la situazione economica dell’impresa, il 25,7% per la scarsa fiducia data dall’instabilità della situazione economica e politica, il 68,4% per l’assenza di un profilo adeguato. Facendo i conti sono un enormità: numericamente oltre 13.500 su 46.157 imprese del terziario hanno rinunciato, nell’ultimo semestre, ad un nuovo addetto o forse più.

L’importanza delle competenze è confermata dalle modalità di selezione. Le imprese in fase di assunzione assegnano maggiore rilevanza alle competenze professionali (56,3%) più ancora che all’esperienza pregressa, comunque collegata alle competenze (36,9%), o all’età (10,1%) o al titolo di studio (6,8%).

Le imprese del nostro territorio e dei nostri settori stanno puntando sulle competenze. L’89,1% delle imprese del terziario ritiene che un’adeguata formazione giochi un ruolo strategico nell’individuazione di personale qualificato, soprattutto nel settore del turismo (94,7%). E’ finito il tempo del “vanno bene tutti” oppure dell’”imparerà in bottega”.

Ma quali sono i nuovi profili? Le imprese hanno le idee chiare sui fabbisogni formativi: marketing, vendita e relazione con il cliente valgono un terzo delle necessità (28,9%), con prevalenza delle imprese del commercio (32,3%) e del turismo (addirittura un 40,5%); se aggiungiamo le competenze digitali, social e vendite on line si arriva al 66% del fabbisogno complessivo. Le lingue straniere si fermano al 14,8%, dato che indica che è ormai un’emergenza del vecchio secolo ormai superata.

Le imprese hanno già compreso che non esiste solo un problema di deficit tra offerta e domanda di lavoro, ma anche di trasformazione. Il processo di modernizzazione comporterà un profondo mutamento dei profili professionali ricercati dalle aziende. Un’impresa su 20 del terziario (5,2%) ritiene che oltre il 9% – quindi un lavoratore su dieci – nei prossimi due anni ricoprirà una professionalità nuova per l’impresa e addirittura il 4,5% anche per il mercato. Le nuove professionalità ruoteranno intorno al web: web marketing strategist (25,2%) e il web analyst (10,8%).

Paradossalmente le imprese del terziario rilevano che il maggior fabbisogno occupazionale nei prossimi due anni sarà nelle aree della comunicazione (24,7%) e marketing (19,6%), addirittura più dell’area tecnica (+ 16,3%). Fa riflettere pensare che queste erano mansioni ritenute strategiche ma residuali negli altri scorsi. Se non è una rivoluzione culturale questa, poco ci manca!




Competenze al centro della ricerca di un nuovo modello formativo

Nell’accelerazione del cambiamento occorre domandarsi quanto del nostro lavoro resterà stabile e quanto si modificherà. Per molti il cambiamento sarà radicale tanto nei lavori attuali quanto nelle nuove professioni che nasceranno. L’interrogativo per tutti è quali competenze serviranno per affrontare le novità sia per i già occupati sia per i futuri lavoratori. È questo il senso della ricerca ‘Futurability: l’Italia del futuro raccontata da 100 protagonisti dell’economia’, presentata in anteprima in un evento di CFMT all’hotel Excelsior Gallia di Milano lo scorso 16 aprile.

Gli stakeholders di Cfmt, Confcommercio e Manageritalia, condividono l’ipotesi di partenza che il lavoro delle persone resti centrale nelle imprese e che i processi formativi attuali siano inadeguati per rispondere al necessario innalzamento delle competenze. Da una parte esiste un sistema della formazione datato, autoreferente ed incapace di rispondere ai bisogni delle imprese.

Le imprese vorrebbero assumere ma non trovano candidati in grado di rispondere ai profili richiesti. Dall’altra le imprese italiane, inchiodate da “crescita zero”, pressione fiscale e costo del lavoro non offrono sbocchi immediatamente appetibili per i giovani talenti con la conseguente “fuga di cervelli” all’estero. Il problema si sta acuendo negli ultimi anni e i processi devono essere governati per renderli meno anarchici e dissipativi.Per Confcommercio e Manageritalia la rappresentanza delle imprese deve essere forza attiva per il cambiamento di rotta.

Con senso di responsabilità occorre partire dai limiti del modello formativo e offrire soluzioni alla politica oggi incapace da sola di risolvere il problemi del mondo economico. Il problema – come ha ricordato la vicepresidente di Confcommercio Imprese per l’Italia Donatella Prampolini – non è solo degli ingegneri per la ricerca e sviluppo delle grandi imprese.

Tocca tutte le persone e in tutti i settori, perché gli effetti saranno trasversali. Anche il terziario il commercio il turismo e i servizi. Il problema delle nuove competenze investirà tutti, commessi, camerieri e impiegati, in tutti i ruoli e in tutte le imprese, anche tradizionali, dalla grande alla piccola. Dal seminario sono emerse due tendenze di pensiero: una brutale che propone di cambiare molto e in fretta perché un terzo dei lavoratori è già fuori mercato oggi e nel giro di un triennio non potrà più ricollocarsi.

Questo è un Paese che spende molto in formazione ma disperde risorse. Se molto del futuro sarà basato sulle soft skill che peraltro sono quelle capacità difficili da produrre e da misurare allora il sistema formativo deve essere completamente reinventato. Dall’altra c’è chi sostiene che nel cambiamento epocale non si può buttare tutto ma implementare. La scuola in Italia è buona ma occorre renderla più moderna e funzionale. Nuovi canali, strumenti e modelli formativi rispetto a quelli tradizionali.

Occorre quindi innovare nella tradizione per rimettere un Paese che è tradizionalmente fermo.La proposta del presidente di Manageritialia Guido Carella in questo senso è stata forte. Occorre creare un osservatorio nazionale per studiare i cambiamenti degli scenari e trovare modelli formativi che producono maggiore occupabilità delle persone. Modelli come il sistema complessivo VET francese opera sulla base di competenze condivise tra lo Stato francese (Ministeri dell’Istruzione, Università, Lavoro, Agricoltura e Affari Sociali, ecc), le Regioni, gli enti di formazione e formazione professionale e le parti sociali che sono tutti coinvolti nella progettazione di programmi di formazione.

Sembrerebbe utopia pensare di raggiungere un’unità di intenti tra soggetti disgregati e ottenere un cambio di passo in tempi brevi ma è chiaro che qualsiasi soluzione, perché sia realmente efficace dovrà essere di grande discontinuità rispetto al passato. Difficilmente divisi e a strattoni potremo ottenere risultati tangibili.




Salvaguardiamo le imprese storiche, un valore per le nostre comunità

Il problema del nostro territorio non è favorire il tasso di imprenditorialità. I bergamaschi sono storicamente propensi a creare un’attività d’impresa: è nelle corde storiche di un popolo lavoratore e di emigranti.

È necessaria, invece, la conservazione del tessuto delle imprese del terziario in un momento di difficoltà che incide sulla sopravvivenza dell’azienda stessa.

In questi anni le politiche centrali e regionali hanno incentivato la creazione di impresa e aiutato le nuove imprese senza renderle strutturalmente più forti. A parte le start up innovative che da noi restano poche, per le altre non ci sono stati veri e propri incentivi.

Misure che non chiamerei neppure “tampone” e destinate a non dare frutti. Anzi in alcuni casi gli aiuti hanno richiesto lo sforzo postumo da parte dei nostri imprenditori di restituire gli incentivi, in quanto non sono stati in grado di far fronte alle richieste che l’erogazione del contributo imponeva.

Statistiche alla mano, negli ultimi anni hanno chiuso due nuove imprese su tre. 

Troppo poco invece si è fatto per la sopravvivenza delle imprese, soprattutto di quelle storiche per le quali si sono spesi riconoscimenti e belle parole e poco altro. Non vogliamo essere corporativi.

Un’impresa nuova non ha meno dignità di una che è sul mercato da molto tempo; anzi molto spesso è portatrice di valori imprenditoriali e competenze, soprattutto digitali, superiori a quelle tradizionali. Il problema è la capacità di sopravvivere a lungo termine e di offrire in continuità servizi e lavoro.

Vent’anni fa le imprese passavano per successione famigliare o vendita. In entrambi i casi, con il necessario periodo di affiancamento, veniva garantita una continuità di mercato e un passaggio di competenze. Oggi, salvo poche eccezioni, le imprese chiudono ed aprono in discontinuità assoluta, settoriale e soggettiva.

Il sistema perde quindi le competenze tecniche e imprenditoriali di chi chiude definitivamente.

Non è un caso che per le attività maggiormente in rotazione, come i bar, la successione sia solo nel valore degli arredi. In questi anni notiamo imprese più deboli che sostituiscono quelle che chiudono, con sempre meno risorse disponibili per ammodernare.

Cosa fare? Se in altri settori potrebbe bastare agire sulle condizioni fiscali e il costo del lavoro per evitare delocalizzazioni, nel terziario occorre agire sulle regole di apertura. La deregulation, travestita da liberalizzazione, ha spaccato il settore. Negli altri Paesi europei, come la Germania, non si è liberi di aprire dove e quando si vuole. Il decreto Bersani, a vent’anni dalla sua introduzione, non risponde più alle esigenze dello sviluppo equilibrato del commercio. Bisogna porvi presto rimedio. 

Ma non basta. Occorre riconoscere la funzione di servizio delle piccole attività commerciali e riconoscere sgravi e incentivi tali da metterle in condizioni di equilibrio rispetto ai concorrenti, grande distribuzione e on line.

La “Rete di imprese storiche” non vuole essere il museo da rimpiangere ma un ecosistema vivo di relazione e di servizio per la gente che va conservato. Il nostro progetto di valorizzazione delle imprese storiche è il primo passo per porre l’enfasi sul bisogno e trovare soluzioni.

Le difficoltà dei negozi e dei pubblici esercizi della montagna e dei piccoli comuni vanno evidenziate. Altrimenti le piccole imprese, nuove e storiche, non ce la faranno. La prossimità dei nostri negozi non è solo geografica ma è di relazione. È questo  che vogliamo salvaguardare. 




I paradossi del mercato del lavoro

Adesso che lo dicono anche i numeri non ci sentiamo più confortati. Nella nostra Provincia aumenta il tasso di disoccupazione e restano scoperti i tre grandi problemi del lavoro: la disoccupazione sebbene resti tra i più bassi in Lombardia, secondo i dati CGIL di base Istat, è salita dal 4,23% (2017) al 4,86% (2018), la disoccupazione giovanile sale dal 14,23% al 16,2% (2018) ed infine l’atavico problema del tasso di occupazione femminile al 54,78% che ci vede ultimi in Lombardia e al 57° posto in Italia.

Questi elementi unitamente ad altre rivendicazioni del sindacato sulla precarietà come l’alta percentuale dei contratti a termine (51,6% delle assunzioni).

Le cause sono presto trovate: il decreto Dignità, come avevamo anticipato, sta colpendo il mercato del lavoro in quei settori che ancora oggi stanno crescendo come il turismo e la ristorazione. Negli altri, quello manifatturiero, il freno della produzione e le prospettive sull’export stanno facendo il resto.

Il problema non è solo quantitativo. L’attuale mercato del lavoro, così come è disegnato dai principali osservatori, evidenzia alcuni paradossi. Da un lato le imprese faticano a trovare figure appropriate mentre la disoccupazione sale. Dall’altro mentre aumenta il numero degli occupati contestualmente si riducono il numero di ore di lavoro rispetto al periodo pre-crisi. In buona sostanza mentre aumentano i posti, crollano la quantità e la qualità del lavoro e triplicano le fughe all’estero di giovani talenti.

Diceva a fine febbraio Roberto Monducci, responsabile statistiche di Istat, a La Repubblica “I giovani sono i più penalizzati dalla crisi: in presenza di ampie sacche di sottoutilizzazione e non utilizzazione del lavoro, i giovani sovraistruiti si contrappongono agli adulti sottoistruiti, le cui competenze non sono spesso adeguate all’evoluzione delle tecnologie e delle competenze”. È un’osservazione giusta e che sottoscrivo del tutto, in quanto è ciò che accade in molte nostre realtà lavorative.

Da qui nasce il mio timore che venga minato il sentiero che ha sempre contraddistinto la crescita professionale, basata su: un ottimo percorso scolastico, entry level con successivi passaggi a junior e a senior; un percorso basato su competenza e esperienza che costruisce la struttura portante del management dell’impresa italiana, che ha sempre lavorato sulle motivazioni delle persone, sul loro impegno al fine di raggiungere buoni risultati e l’affermazione professionale e sociale. Oggi purtroppo questa struttura rischia di crollare. Se le nuove generazioni non hanno futuro è il sistema Paese ad essere a rischio. I giovani non hanno la colpa per quello che sta avvenendo, anche perché le chiavi dell’ “ascensore sociale” non è in mano loro.

La politica deve intervenire su questo fronte evitando l’arretramento del nostro Paese, anche in quello delle province come la nostra che hanno sempre costituito un bacino fondamentale per la produzione e il lavoro.

 




Commercio: servono regole nuove e un reale riconoscimento

La fotografia scattata da Confcommercio sulle trasformazioni del commercio degli ultimi dieci anni (2008-2018) nei maggiori centri urbani italiani ha mostrato la tenuta complessiva del terziario nella nostra città, con l’exploit di bar, ristoranti e strutture ricettive e il calo del commercio tradizionale. Il problema del commercio di Bergamo non riguarda i numeri, semmai la qualità e le prospettive.
Bergamo
risulta in posizione di vantaggio rispetto agli altri comuni analizzati in due aspetti: l’exploit del food è stato molto forte (+16,8% in dieci anni), in linea rispetto alla media nazionale fuori dal centro storico e addirittura doppio nel centro storico (+ 36,2%) e, allo stesso tempo, la riduzione dei negozi è stata nettamente inferiore alla media (-3,0% fuori dal centro storico e –13,9% nel centro dove però le attività commerciali hanno lasciato spazio a ristoranti). Questo anche perchè la nostra città ha già pagato dazio alla pressione della grande distribuzione molto prima, nell’ultimo decennio del vecchio secolo, con l’insediamento dei tre grandi poli commerciali extraurbani di Curno, Seriate e Orio al Serio.

L’aspetto critico è la contrazione delle dimensioni medie degli esercizi di vicinato a cui si accompagna una loro minore capacità di azione e di reazione rispetto alla concorrenza. Una piccola impresa per poter sopravvivere a lungo termine deve isolare le risorse finanziarie per investire. La crisi dei consumi che persegue sta fiaccando la resistenza delle nostre imprese. Il forte turnover di aperture e chiusure è un segnale sinistro dello stato del comparto.

La prospettiva non è solo sulla resistenza, ma sulla qualità della proposta. Il nostro è un territorio dove l’offerta in termini di prodotto e servizio è sempre stata al top nazionale, in linea con l’eccellenza che contraddistingue la nostra regione.

La qualità nel commercio non alimentare è fondamentale perché consente di competere con il commercio on line, che per sua natura è perfetto nell’immagine e nel servizio. Nel comparto alimentare la qualità è ancora più importante perché se viene meno si rischia di far arretrare il senso del buono nel cliente, spingendolo verso proposte standardizzate e omologate e quindi verso i concorrenti stessi del commercio tradizionale.

Cosa serve, quindi? Sul piano delle regole serve una rivisitazione del decreto Bersani, che dopo più di vent’anni appare anacronistico e comunque indebolito dal recepimento maldestro delle direttive europee. Quello che sta avvenendo con la liberalizzazione delle medie strutture di vendite dimostra in modo evidente che il decreto è incapace di salvaguardare lo stesso concetto che l’aveva ispirato, ossia l’equilibrio tra piccoli e grandi.

Inoltre, come ha chiesto il presidente Confcommercio Carlo Sangalli, occorre un reale e concreto riconoscimento del servizio e del sistema di relazioni che i negozi assicurano, fatto di incentivi e di sgravi veri, non a chi ‘parte’, ma a chi sul mercato è rimasto finora con grande fatica e passione. Prima che sia troppo tardi.




I ministri, i titoli di studio e il pessimo esempio al Paese

montecitorio-jpgCarlo Emilio Gadda, che oltre ad essere scrittore immenso, fu, forse, il più clamoroso esempio di italiano perbene del XX secolo, postulò, in una sua celebre pagina, che i caporali di giornata potessero anche avere la quinta elementare, ma che i marescialli di campo dovessero possedere tutte le cartebolle in ordine. Insomma, che uno che possieda una cultura, diciamo così, un tantino risicata, sarebbe meglio che non si occupasse di massimi sistemi. Questo, evidentemente, non per la nauseante albagia da pezzo di carta, che talvolta affligge capifamiglia pieni di aspettative per la prole o burocrazie dementi, ma per un’ovvia ragione di ampiezza di vedute, di preparazione di base, di senso elementare della cultura. Oggi, vige un equivoco che rischia di travolgere ogni differenza di merito e di talento: l’idea sacrosanta che tutti, nei confronti dello studio, debbano vantare eguali diritti, si è trasformata nell’idea, viceversa demente, che tutti siamo uguali davanti a Minerva. Che il figlio del contadino debba avere le stesse possibilità del figlio del barone di diventare neurochirurgo è cosa giustissima e bellissima: che sia obbligatorio che il figlio del contadino valga quanto il figlio del barone, per inclinazione allo studio e volontà nel medesimo, è stupidaggine sesquipedale. E viceversa, intendiamoci: uno può essere figlio di un premio Nobel e dimostrarsi un idiota formidabile: come è ben dato a tutti di constatare.

Ciò detto, che uno venga dalla malga o dal palazzo, se deve rivestire incarichi di comando e di vertice, deve dimostrare capacità davvero fuori del comune o possedere, quantomeno, un curriculum eccellente. Invece, nel mondo ribaltato e surreale della politica, tutto questo pare non conti nulla: la politica, oggi, è un’occupazione per prescelti, per unti del Signore, non mai per persone serie, competenti, umili. Può capitare, quindi, che un luminare dell’urologia, con tre lauree e venticinque master, debba attenersi ai Diktat di una signora che ha nel cassetto uno striminzito diplomino liceale, e che non distingue una vescica da un cavatappi: con che spirito il luminare accetterà i dettami della diplomata e, soprattutto, con quale ampia e circostanziata visione dei problemi deciderà in materia di salute pubblica la suddetta, non è mestiere dire. Può, del pari, accadere che un signore che, per tutta la vita, si è occupato di cooperative, dall’alto del suo bel diploma di perito agrario, si metta a discettare di lavoro, a fare scelte determinanti per milioni di persone e, quel che è peggio, a proferire apoftegmi destituiti di senso comune su quei giovani laureati che, spinti dalla necessità di trovare un Paese meno ingrato verso i propri figli migliori, se ne vanno a cercare miglior fortuna (e migliori ministri) all’estero.

In altri luoghi e in altre epoche, una simile cialtroneria sarebbe stata rimeritata con decine di calci nell’ampio preterito del farneticante, fino a ricacciarlo tra i banchi, a studiarsi l’abbiccì. Qui da noi, invece, tutto tace, tutto si placa: e gli asini continuano a ragliare, dai loro scranni dorati. Dulcis in fundo, nel Paese delle banane, può accadere che, in un crescendo da comica finale, venga nominata al dicastero che sovrintende, appunto, all’educazione pubblica, ovvero alla formazione culturale, civile e professionale delle future generazioni, una signora che proviene dal sindacalismo tessile (che sarebbe come mettere una baby sitter a comandare un incrociatore) e che, in un primo tempo, risulti essere laureata, poi diplomata e, infine, dotata di attestato triennale di maestra d’asilo. Quindi, per la formazione culturale chiudiamo un occhio, per quella professionale chiudiamone due e per l’educazione alla legalità che è alla base dell’educazione civica dei giovani, dobbiamo ricorrere al buddhismo e chiuderne un terzo: detiene il ministero della Pubblica istruzione una signora che non solo non è laureata né diplomata (adducendo a giustificazione il fatto che, ai tempi del Carlo Codega, quel titolo di laurea non esisteva: oplà!), ma che, dopo aver millantato titoli, peraltro del tutto estranei alla bisogna, anziché domandare scusa e ritirarsi in qualche opificio a veder girare gli amati telai e a cantare “Sciur padrùn dali beli braghi bianchi”, ha proclamato orgogliosamente di essere pronta a qualunque sfida didattica, essendo fieramente sindacalista.

Ora, mi domando e vi domando, quale esempio possono trarre da un comportamento del genere i nostri studenti: quale lezione ne dovrebbe conseguire? Che studiare non serve a niente? Che il sindacato è la nuova università? Che raccontar balle è il modo migliore per far carriera? Che, se fai parte della conventicola giusta, nessuno ti può toccare? Ditemi voi, perché io, sinceramente, non ho più parole per valutare questa politica e questo governo. E, se Atene piange, Sparta singhiozza: nella stessa ridente cittadina della Bassa che ha dato i natali alla nostra sindacalista-maestra d’asilo-ministra, fa l’assessore alla cultura un altro signore, di tutt’altra parrocchia politica, che aveva fatto il preside per anni, dichiarando una laurea inesistente, accoppiando questa benemerita attività educativa al ruolo di sindaco. Tutta gente che avrebbe dovuto, perlomeno, declinare, abbozzare, andare a nascondersi e che, in virtù delle arcane e contorte leggi della politica, cavalca, comanda, legifera: ministri, assessori, senatori e marescialloni vari. Gadda, poveretto, dorme nel suo loculo a Prima Porta e, per sua fortuna, non deve vedere realizzati i suoi incubi peggiori. Noi, invece, sì, purtroppo.




Renzi s’è fatto male da solo. Ora lasci il campo libero

renzi“Cosa resterà di questi anni 80” cantava Raf. Noi, più prosaicamente, vogliamo provare a chiederci cosa rimane dell’esperienza di governo di Matteo Renzi. Tre anni, “mille giorni esaltanti” secondo il sobrio giudizio del diretto interessato, un periodo certo non breve che era iniziato all’insegna dell’ottimismo e dell’innovazione e che si è concluso, il 4 dicembre scorso, con una delle più pesanti sconfitte (60 a 40, ricordiamolo) che un leader politico abbia mai incassato.

Bene, cosa resterà di questo triennio? Di concreto, poco o nulla. Proviamo a fare l’elenco. La riforma costituzionale, la madre di tutte le battaglie, quella che era la ragione stessa dell’esistenza dell’esecutivo perché così aveva voluto il presidente-burattinaio Napolitano, è stata spazzata via con il risultato che sappiamo a fronte di una partecipazione degli elettori che fa giustizia di tante chiacchiere sull’apatia e il disinteresse rispetto alla politica e alle scelte decisive per le sorti del Paese.
La legge elettorale Italicum, quella che Renzi decantava come la migliore del mondo (“ce la invidiano e verranno a copiarcela” sentenziava quando ancora non aveva capito di cavalcare un ronzino di cartapesta), è ancora formalmente in vigore per qualche settimana. Il 24 gennaio toccherà alla Corte costituzionale farci sapere cosa ne pensa (e si ritiene che non ne verrà fuori un verdetto da applausi), ma a prescindere da cosa uscirà dalla Consulta è già chiaro oggi che quella legge elettorale che il tapino aveva pensato di ritagliarsi su se stesso (salvo poi rendersi conto che l’identikit più conforme era quello di Beppe Grillo) rimarrà scritta sulla carta. E finirà appallottolata in un bel cestino. Tanta fatica sprecata, tanto tempo perso inutilmente, tanti bracci di ferro (fu perfino posta la questione di fiducia) che si potevano risparmiare. Come per la riforma firmata anche da Maria Elena Boschi, madonnina infilzata che nemmeno ha avuto la dignità di ritornarsene da dove era venuta (a 20 giorni dalla sconfitta referendaria non ha ancora detto una parola sulla débacle…).

Ma non è mica finita. Lo stesso destino del cosiddetto Jobs act, altra bandiera sventolata con turgido vigore dal ragazzotto di Rignano sull’Arno, è quantomai precario. Lo attende il referendum per cui la Cgil ha raccolto oltre 3 milioni di firme. Il destino sembra segnato. E non a caso si punta ad accelerare lo scioglimento delle Camere per rinviare la chiamata alle urne dei cittadini, consapevoli come si è che anche in questo caso il voto farà carta straccia di un provvedimento che ha solo fatto scialacquare miliardi a gogò senza davvero incidere significativamente sulle dinamiche del mondo del lavoro (che ha certo bisogno di riforme, ma non di manovrine da magliari toscani). Bene che vada, del progetto iniziale renziano resterà poco o nulla.

E poi, che dire della riforma delle banche popolari, quella trasformazione coatta da cooperative in società per azioni che qui a Bergamo abbiamo vissuto da battistrada? Anche quella ha subito uno stop dal Consiglio di Stato che ha deciso di rinviare la legge alla Consulta ravvisando diversi profili di incostituzionalità.
Se questa è la realtà, non occorre essere viziati da pregiudizio o animati da spiriti di rivalsa per osservare che l’esperienza del governo Renzi è destinata a passare alla storia come largamente deficitaria. Un vorrei ma non posso, un fuoco di paglia inconcludente, una rappresentazione plastica di come la corsa sfrenata faccia perdere completamente il senso della realtà. E soprattutto, le reali esigenze del Paese. Vale la pena sottolinearlo nei giorni in cui c’è chi si ostina a scrivere che “non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca”, quasi che il premier toscano abbia lasciato un’eredità da cui non si può prescindere. Certo, in questi tre anni ci sono stati anche provvedimenti importanti, come il riconoscimento delle unioni civili (merito più del Parlamento che del governo). Ma quando le fondamenta su cui si è retto un governo sono rovinosamente franate sarebbe buona cosa prenderne atto e riflettere. Se alla fine di quegli anni non resta che un cumulo di macerie, con lo sgradevole contorno di un frasario da bassa osteria (Giachetti docet), beh forse urge un radicale ricambio di uomini, di idee, di programmi. Renzi le sue chances le ha avute. Si è fatto male da solo. Ora, per cortesia e senza alcun rimpanto, avanti un altro.

 

 




Cari amici, ecco il mio augurio: più spazio allo sdegno e all’ira

nataleEcco, è già Natale: io non ci faccio mai caso, al maledetto tempo che passa, finché gli anni non me li ritrovo sul groppone. Stavolta, però, faccio in tempo a farvi gli auguri: certo, dato il vostro esiguo numero, gentili lettori, stupende lettrici, forse farei prima a farveli personalmente, uno per uno. Ma sono qui, nel mio studio, davanti al computer, e non posso tirarmi indietro: qualcosa di un po’ intelligente me lo devo inventare. Intanto, vi auguro pace e felicità: ma a fare quello sono capaci tutti, in fondo. E, poi, vorrei farvi un augurio un tantino più mirato, meno mielosamente generico. Vi auguro di svegliarvi in un Paese normale. Ecco, vi auguro un anno di tranquilla, rilassante, normalità. Siamo stati oberati di idiozie, di capziose distinzioni, di criminali generalizzazioni, al punto da domandarci se si possa ancora aspettare Babbo Natale o ci si debba chiedere se si tratti di un babbo, di una mamma o di uno struzzo. Mamma Natale, Babba Natale, Mammo Natale: l’onomastica fa fatica a stare dietro ai ghiribizzi e, talora, alle psicopatologie linguistiche, di certa gente. Così, quale che sia il nome assunto da Santa Klaus, vi auguro davvero che vi porti una ventata, anzi una tramontana di buon senso. E che torniamo ad essere, lo ripeto, normali. Un posto in cui le persone lavorano per vivere e per mettere via due soldini per il proprio futuro, non per pagare le tasse e per ingrassare un esercito di parassiti: sono stanco di vedere la mia gente far girare la macina, come un mulo fottuto di fatica, col paraocchi ed i fianchi scavati e sanguinosi per le bastonate del padrone.

Vorrei che potessimo dire quel che pensiamo, senza le bubbole e le finzioni dei social network: che tornassimo a parlarci, come si fa tra gente perbene, pianamente, semplicemente. E che chi sbaglia paghi e chi merita venga premiato. Che non ci siano ministri che millantano lauree e laureati che non trovano lavoro: questo vorrei per noi tutti, e molto altro. Vorrei che i nostri figli avessero speranze piccole e felici: non sogni miliardari e delusioni gigantesche. Mi piacerebbe che Bergamo tornasse ad essere un pochino quella che era quando io ero un ragazzo: non tornare indietro, ma andare avanti, in direzione di una civiltà e di una serenità che non conosciamo più da troppo tempo. E ci siamo talmente abituati a questo modo di vivere che, purtroppo, non ci si fa più caso: ci siamo rassegnati ai furti in casa, al degrado, alla sporcizia, ai mendicanti, agli spacciatori. Così, io vi auguro di non perdere la voglia di arrabbiarvi per quello che ci stanno facendo, per come ci stanno riducendo. Natale è una festa soprattutto per i bambini: gioite come i bambini, ma arrabbiatevi come i bambini. Come fanno i bambini di fronte ad un’ingiustizia o a un torto, senza pensare alle conseguenze, a cosa dirà la gente, a dove va la corrente.

Io vi auguro di arrabbiarvi, gentili lettori, stupende lettrici: vi auguro un Natale in cui la tristezza e la noia lascino il posto allo sdegno e all’ira. Perché mi piacerebbe vedere cacciare i mercanti dal tempio: tutti i mercanti da tutti i templi. Farla finita con le menzogne, con gli imbrogli, con i ricatti, non è poi così difficile: basta avere il coraggio di dire che il re è nudo. Che il ministro tale è un imbecille, che l’assessore talaltro è un ruffiano: la verità va gridata, non sussurrata tra pochi intimi. Io vi auguro un anno di coraggio, cari lettori. Perché la nostra Patria non ce la fa più: perché la ripresa è soltanto l’ennesima bugia televisiva. La ripresa siamo noi: dobbiamo riprenderci le nostre vite e le nostre città, questa è l’unica ripresa possibile. E, per farlo, bisogna fare pulizia: cacciare questa generazione di governanti imbolsiti ed incapaci, tutti con le medesime cravatte, le stesse facce flaccide, lo stesso sguardo da servitore scaltro, destra, sinistra e centro. Io, dunque, vi auguro un anno di pulizia: di cambio di lenzuola.

Avrei dovuto scrivere qualcosa di un po’ intelligente e, invece, eccomi qui a scrivere le solite stupidaggini che vi infliggo da tanti anni: questa è la 317a volta che mi metto davanti al computer, nel mio studio, e apro il file “La Rassegna”. Ma io sono un cretino seriale: non demordo dalla mia guerra da fesso. Solo non mi capacito come il mio caro Direttore, che è un amico e a cui auguro veramente tutto il bene possibile, riesca ancora a sopportarmi. E’ Natale, ed io non sono più buono, ma, di sicuro, sono un po’ più incline alla malinconia: vorrei ringraziare tutti, per l’immeritata stima che mi è stata concessa. In definitiva, vi auguro di avere la stessa fortuna che ho avuto io: sono stato molto fortunato nella vita, e so di non aver fatto nulla di speciale per meritarmelo. Ma la fortuna, lo so bene, non basta: per questo, l’ultimo augurio che vi faccio, gentili lettori, stupende lettrici, è quello di sempre. Non siate affamati, non siate pazzi: quello va bene per i tycoon americani e per gli articoli del Sole 24 Ore. Siate umani, siate caritatevoli, siate implacabili. Buon Natale.

 

 




Occhio ai tre ministri del Pd pronti a scaricare Renzi

Il nuovo governo Gentiloni
Il nuovo governo Gentiloni

Chissà se c’è ancora qualcuno, anche tra i suoi accesissimi tifosi, che s’azzarda a dire che Matteo Renzi è un innovatore. Quel che s’è visto in questi giorni, prima durante e dopo la nascita del governo Gentiloni, fa giustizia di tanti imbonimenti che ci sono stati ammanniti nei tre anni di dominio del superbo ragazzotto di Rignano sull’Arno. Ed ora, come si conviene nella patria dei voltagabbana, anche agli autorevoli osservatori e agli accigliati direttori di giornali è chiaro ciò che chiunque non fosse obnubilato da faziosità o da interessi poteva tranquillamente vedere anche in passato. Nel volgere di un week end, Renzi ha gettato la maschera. Altro che lasciare la politica e dedicarsi alle sfide alla play station con il figlio (poveretto, ritrovarsi con un padre che non sa perdere…). Mentre il presidente della Repubblica convocava al Quirinale le delegazioni dei partiti, lui da Palazzo Chigi teneva le sue privatissime consultazioni per decidere chi era degno di succedergli. Uno sfregio alle istituzioni normale per chi, al suo debutto da premier, pronunciò il suo primo discorso con le mani in tasca. Ma questo è niente. Impalmato Gentiloni, uno dei pochi volti presentabili del renzismo non ortodosso da Giglio magico, ecco la necessità di salvare la ghirba (e la poltrona, e lo stipendio, visto che altrimenti è difficile campare) a due fedelissimi. A lei, la Maria Elena Boschi che a sua volta aveva garantito al limone che in caso di sconfitta al referendum sarebbe tornata a Laterina. E a lui, il Luca Lotti che porta lo straordinario appellativo di “lampadina”, un nome e una garanzia di brillantezza e lucidità. Un vero esempio di rottamazione, la parola d’ordine data in pasto ai gonzi che credevano che bastasse eliminare qualche avversario scomodo per cambiare il corso e la storia della politica nazionale.

E poi, ecco la formazione del governo, con due ministeri in più rispetto a prima (ma non si dovevano tagliare le poltrone?), con l’incredibile promozione di uno dei più scarsi gestori del Viminale a ministro degli Esteri, ma soprattutto con la conferma del 90% degli uscenti. Di colpo siamo precipitati indietro di qualche decennio quando andavano di moda i governi fotocopia tipo il Fanfani Ter o l’Andreotti quater. Eh, quando si dice l’innovazione, il cambiamento, l’Italia che esce dal tunnel…
Di tutto questo, per onestà va detto che si può salvare la figura del neo presidente del Consiglio. Che non è un fenomeno né uno statista in fasce, ma ha il merito di essere portatore di uno stile sobrio, non conflittuale. Gentiloni è quanto di più lontano ci sia dalle sbruffonerie, dalla strafottenza, dall’arroganza di chi l’ha preceduto. Non è poco, specie in tempi in cui bisogna avere la capacità di abbassare i torni e provare a trovare soluzioni il più possibile condivise ai tanti problemi non risolti (altro che mancette distribuite qui e là) del Paese. Il compito del suo governo è di portarci alle elezioni, non aspettiamoci molto di più.

Resta da osservare, semmai, lo stato penoso in cui versa il Partito democratico. Dove molti vorrebbe liberarsi di Renzi, uomo di indubbie capacità ma vittima anzitutto del suo carattere debordante, solo che non hanno ancora trovato il modo e il coraggio di farlo.
Non guardate alla minoranza interna, quella conta poco più di zero. Abbaia alla luna ed è utile ai giornali, ma nella sostanza incide pochissimo. Vanno tenuti d’occhio, piuttosto, tre personaggi, guardacaso tre ministri uscenti e riconfermati: il paleodemocristiano Dario Franceschini, l’Amleto Andrea Orlando e il giovane vecchio Maurizio Martina. Fossero veri leader sarebbero usciti dall’esecutivo per giocarsi la battaglia in campo aperto. Da capicorrente ancien regime preferiscono rimanere accucciati nei loro ministeri in attesa che il Giovin Signore di Rignano prosegua nella sua strategia autodistruttiva. In attesa del giorno in cui, per via delle “mutate condizioni politiche”, faranno il salto della quaglia e saluteranno con la manina il loro vecchio sodale. Renzi è sicuramente un gran combattente e darà battaglia con tutte le sue forze. Se saprà fare un bagno di umiltà (?) potrebbe anche riconquistare la scena con più credibilità. Ma dovessimo scommettere, vizio a cui non ci siamo mai abbandonati, propenderemmo per il primo scenario. Perché questo, non dimentichiamocelo mai, è il Paese del “tutto cambia perché nulla cambi”.