I tifosi, gli immigrati e l’assurda logica dello Stato

polizia stadiQuesto Paese, ormai, non ha più il problema del malgoverno o, come spesso ci sembra di percepire, del nongoverno: ormai siamo alla distopia, al Paese immaginario, uscito dalla fantasia di un narratore specializzato nella confezione di incubi sociali. Soltanto un Aldous Huxley votato al più fosco pessimismo, infatti, avrebbe potuto descrivere uno Stato in cui tutto procedesse al contrario, rispetto al semplice buon senso, e in cui le istituzioni, nate come manifestazione tangibile della volontà dei cittadini, si frapponessero ideologicamente tra gli stessi cittadini ed il loro quieto vivere. Ormai, la frattura tra la vita vera delle persone comuni e le scelte dell’establishment politico ed amministrativo è talmente profonda da poter realmente parlare di Stato reale, ossia l’insieme nazionale degli italiani dotati di facoltà civili e giuridiche, e Stato virtuale, vale a dire l’idea di Stato che sovrintende alle sconcertanti decisioni di chi ci governa. Eppure, tanto appare palese il malessere della gente comune, quanto le istituzioni sembrano non accorgersene e, anzi, procedere sempre più speditamente nella direzione opposta a quella invocata, in nome di non si capisce bene quale superiore fine. E queste istituzioni, occhiute, sparagnine, vessatorie, quasi che gli Italiani fossero un popolo nemico, invaso e colonizzato, di cui temere la subdola doppiezza e la genetica tendenza all’imbroglio, e non lo stesso popolo di chi li governa ed amministra, decidono sempre per il peggio, sempre per la cosa più stupida, più pasticciata, meno sensata.

Che pensare, ad esempio, di certe decisioni riguardanti la sicurezza pubblica, che dimostrano, al contempo, sovrano disprezzo per le istanze, talvolta disperate, dei cittadini, e un’incapacità razionale e progettuale che rasenta, appunto, la letteratura di genere? Prendiamo un caso recentissimo, fresco di cronaca: la partita giocata tra Atalanta e Roma domenica scorsa. Ogni volta che qualcuno lamenta il degrado e la scarsa sicurezza delle nostre città, la risposta dei politici è sempre uguale: le forze dell’ordine sono sotto organico, non hanno mezzi, non hanno neppure la benzina per pattugliare le strade, insomma, hanno le pezze sul sedere e fanno quello che possono. Poi, per scortare all’aeroporto un autobus – dicasi uno – di tifosi romanisti, vedo sfrecciare in via autostrada quattro motociclisti della polizia locale, due automobili e un furgone blindato. Il tutto, mentre il traffico viene bloccato da altri due agenti piantati ai semafori. Insomma, per capirci, coi soldi che io verso di tasse, che sono una montagna e che rappresentano un unicum europeo, anziché pagare le ronde, i controlli, i presidi, che servirebbero a restituire ai cittadini intere zone della città, si preferisce assecondare l’uzzolo di qualche scalmanato che sbava per dei mutandoni che corrono dietro ad una palla, schierando un esercito a tutela di una partita di football. E questo sarebbe un Paese civile? Al confronto, il Burkina-Faso è Basilea!

Ma lasciamo pure perdere la civiltà, tema su cui, in Italia, si rasenta il suicidio sociale: parliamo di pura e semplice logica. Vediamo nel dettaglio come funziona questa mirabolante logica, tanto per chiarire con che gente abbiamo a che fare. Fase uno: si fa entrare in Italia un numero sconsiderato di immigrati, spacciandoli per profughi, quando quasi tutti sono semplici immigrati economici, che non si vuole o non si è in grado di controllare, rimandando a casa chi non ha il diritto di stare qui. Fase due: non si pongono limiti né di tempo né di quantità a questi ingressi, perché ci mangia sopra troppa gente legata a doppio filo coi politici e, finchè la dura, tutti ci guadagnano. Fase tre: si destina all’alloggio di questi poveracci tutto quel che si trova, dalle tende agli alberghi requisiti, fino a quando a qualcuno non viene la brillante idea di coniugare due temi cari all’intelligentsija come accoglienza e pacifismo, ospitandoli in qualche caserma, ormai inutile reperto di un’era di barbarie e di violenza militarista. Per meglio far capire il messaggio, si devolve al nobile scopo un complesso che avrebbe dovuto ospitare un reparto di Polizia, e che viene riconvertito all’alloggio degli immigrati, nonostante le reiterate proteste degli abitanti della zona: dura legge, ma in nome della giustizia, questo e altro.

Fase quattro: però, si scopre che la situazione è ingestibile, che si rischia l’insurrezione, che le strade sono sempre più insicure e che, soprattutto, la cadrega comincia a vacillare. E, allora, cosa si fa? Fase cinque: si torna al punto di partenza, come in un gioco dell’oca, dove vince il più demente: si invoca l’esercito nelle strade. Quello stesso esercito scacciato dalle caserme, viene richiamato in città (alloggiandolo non si capisce dove), per proteggere i cittadini da quegli immigrati che la Marina Militare è andata a prelevare fin sulle spiagge della Sirtica: ciò che si dice un’operazione interforze, insomma. E soltanto in un Paese ormai schienato dall’abitudine all’idiozia, solo al cospetto di un popolo bue che pretende le partite di football più che la sicurezza delle strade, solo in un mondo appeccorato come l’Italia cose del genere possono passare senza che scoppi una rivoluzione civile. In nome della più elementare giustizia.

 




Sicurezza, a Milano Sala invoca l’esercito. E Gori?

curnis-assaltoLa nuda cronaca, specie quella nera con la sua brutalità, spesso ha un grande merito. Riporta i politici, e gli amministratori comunali in particolare, sulla terra. D’incanto, di fronte ad un fatto di sangue o al raid di una banda di rapinatori, tante parole retoriche svaniscono nel nulla per lasciare spazio alla realtà. Che, chissà perché, si scopre essere molto diversa da quella raccontata. L’abuso di “storytelling”, il termine che ha preso il posto della vecchia narrazione, risulta evidente se si pensa, tanto per fare un esempio specifico, a Milano. Sì, la già capitale morale (poi sfregiata dal degrado affaristico di Tangentopoli), quella che con Expo 2015 veniva descritta come una sorta di neo paradiso in terra (salvo poi scoprire, mese dopo mese, quanto malaffare, anche di stampo mafioso, ha prosperato all’ombra dei padiglioni di Rho), oggi lancia l’allarme rosso per le scorribande sempre più violente delle bande criminali e dopo la sparatoria con morto incorporato di piazzale Loreto (mica Quarto Oggiaro, eh…) ecco che il sindaco Giuseppe Sala invoca il dispiegamento dell’Esercito sul territorio.

La richiesta viene da quella stessa giunta di centrosinistra (fino a giugno guidata da Giuliano Pisapia) che ha sempre propagandato un’immagine di Milano come capitale dell’innovazione, della moda, del buon vivere e buon mangiare. Una città senza grandi problemi, governata con mano paterna da un sindaco progressista aperto al mondo. Uno storytelling alimentato con servile partecipazione dalle firme salottiere dei giornaloni, abituate a leggere la realtà con gli occhi della società radical chic e incapaci di immergersi nella palude dei comuni cittadini. Sala ha avuto se non altro il merito di violare un tabù. Che serva o meno, nel chiedere l’impiego dell’esercito ha sconfessato in un sol colpo anni e anni di parole d’ordine della sinistra buonista.

Ma la cronaca nera chiama ad un intervento anche il sindaco di Bergamo. La nuova spaccata alla gioielleria Curnis sul Sentierone riporta in primo piano il tema del centro città. Di cosa farne, come vivacizzarlo, come renderlo più sicuro, come creare le condizioni perché delinquenza e degrado non dilaghino indisturbate. È chiaro che c’è anzitutto un problema di sicurezza. E qui la competenza è principalmente, non esclusivamente, delle forze dell’ordine. Ma è altrettanto certo che non basta mettere una pattuglia in più per ottenere miglioramenti significativi. Serve molto di più, serve un progetto ad ampio respiro. Quello che Giorgio Gori aveva promesso in campagna elettorale, subordinato ad un concorso di idee da lanciare in grande stile. Anche qui la cronaca non ammette dubbi: ad oggi non s’è visto nulla. I mesi passano, dall’insediamento della giunta sono trascorsi due anni e mezzo (!), eppure siamo ancora fermi al palo. Piacerebbe capire perché o, se casomai si fosse cambiata strategia, avere delucidazioni su cosa si intende fare. L’assessore alla Sicurezza Sergio Gandi, non ce ne voglia, ormai rischia di fare la fine del cane di Pavlov. Ogni volta che succede qualcosa si premura di dire che “conosciamo la situazione” e “stiamo facendo tutto il possibile”. Ma paura e degrado avanzano e, al netto della spregiudicata propaganda di senso contrario delle minoranze di centrodestra dimentiche che quando governavano loro la città non era certo un eldorado, sembra davvero arrivato il momento di tentare un colpo d’ala. Non è momento di traccheggiare né di giocare a “trova il colpevole”. Tutti sono colpevoli e tutti sono responsabili, ciascuno per le proprie competenze. La cronaca non fa differenze. Se non si interviene è pronta a dispensare nuovi dolorosi episodi.




Altro che referendum, ci può salvare solo un nuovo Umanesimo

referendum-2Voteremo, il 4 dicembre: dopo una campagna referendaria pletorica, infarcita di stupidaggini reciproche, di sgambetti e di una noia popolare che ha raggiunto livelli sbadigliometrici mai toccati: voteremo, ma servirà a poco o niente. Non perché una Costituzione, sia pure compromissoria e sbilanciata come la nostra, non sia una cosa importante, ma per un equivoco di fondo, che rende questo voto una desolante prova di forza e non una consultazione dei cittadini. E’ inutile ripetere da tutte le parti che non si tratti di un referendum su Renzi e la sua ghega: è nato perché Renzi voleva dimostrare di essere forte e finisce con Renzi che non vuole dimostrare di essere debole, ma la sostanza è quella. Il punto, però, se permettete, è un altro, e riguarda le ragioni per cui si vota, piuttosto che gli obiettivi per cui si va alle urne. Prendiamo l’elezione del presidente degli Stati Uniti: una cerimonia farsesca, con due candidati ugualmente impresentabili e con un elettorato da elettroshock. E stiamo parlando del Paese di cui siamo i lacchè da settant’anni: che ha in casa nostra le sue testate nucleari e che ci detta la politica, tanto estera quanto interna. Eppure, questo mastodonte della democrazia puritan-bottegaia, è riuscito ad esprimere, con il suo sistema elettorale, tanto invidiato ed ammirato dai soloni di casa nostra fino a pochi giorni fa, due personaggi che sarebbero imbarazzanti anche alla festa di compleanno di Gianni & Pinotto. E noi non siamo da meno.

Non si salva nessuno: chi proclama serenamente idiozie da ricovero coatto al Cottolengo, chi si fa beccare con le zampe nella marmellata, chi strilla come la Sora Rosa quando chiama a tavola ‘li regazzini’, chi strempia, chi si azzuffa, chi smentisce a ripetizione tutto ciò che aveva detto il giorno prima. E, quando avremo, finalmente, deciso se la Costituzione ci sta bene com’è oppure no, noi ci troveremo daccapo a dover sperare in un intervento divino, che ci liberi da questa classe politica, con qualche diluvio aliter pioggia di fuoco. E nessuno, dico nessuno, che si accorga che il problema non sono i mercati, le alchimie regolamentari, le leggi elettorali: il problema sono gli esseri umani.

Noi viviamo un terrificante deficit di umanità, indipendente dalle valutazioni di Moody’s o dalle fanfaluche da dopo sbornia di qualche tecnocrate di Bruxelles: noi non abbiamo esseri umani di accettabile livello da mettere alla guida di questo Paese. E il nostro grande modello americano mi pare lo stia dimostrando ad abundantiam: siamo senza una classe dirigente degna di questo nome, perché gli uomini, gli uomini veri intendo, quelli dotati di cuore, cervello, senso dell’onore, dignità, non li fabbrica la Bocconi con lo stampino. Sono l’élite umana che esce da famiglie solide, da scuole formative, da una società dotata di senso civico e di rispetto delle regole. E noi, mi spiace dirlo, non abbiamo più nulla di tutto questo, sotto al bel cielo d’Italia, che, un tempo faceva fiorire i limoni: abbiamo anziani abbandonati come roba vecchia e ritenuti incapaci di trasmettere valori, il che dicesi tradizione.

Abbiamo giovani privi di sentimento, di orgoglio, di Patria: apolidi deculturati che si aggirano tra le meraviglie e le schifezze del mondo, senza distinguerle, senza giudicarle, in un’atarassia inconsapevole e bovina. Abbiamo quarantenni abituati ad un successo senza regole: all’idea che, per vincere, si può pure comprare l’arbitro. E cosa volete che cambi se, in questa palude, si pesca alla mosca o col galleggiante? Cosa credete che cambi un’elezione, un referendum, perfino un colpo di Stato? Noi siamo senza uomini, perché all’uomo è stata tolta la centralità: le banche, le istituzioni, i partiti non sono gli uomini, sono i sistemi. Ma un sistema senza uomini di valore è soltanto fuffa: è come farsi governare da un flipper. Ci vorrebbe un nuovo Umanesimo: uno di quelli che, ciclicamente, ci salvano dalla barbarie e rimettono in linea le lancette della storia, facendole ricominciare ad avanzare. Ma ci vogliono decenni, a volte secoli, per ripartire. E noi, ora, siamo nel bel mezzo di un’età di ferro: siamo i naviganti sfortunati che sono incappati nella bonaccia, in un mare grigiastro e puzzolente, con i porti lontanissimi, remoti. E dobbiamo remare.

Perciò, votiamo, perché è nostro dovere, convintamente, per il sì o per il no: ma sappiamo anche che è ad altro che dovremmo dire sì oppure no. E’ ad una Weltanschauung, ad un modo di perdere la propria anima che ci dovremmo opporre. Perché è solo pensando al futuro dei nostri nipoti che possiamo mettere mano al nostro presente: per noi, ormai, i giochi sono fatti, siamo gente che sceglie tra Trump e Clinton, che ascolta le bubbole di giornalisti infami ed indegni del tesserino, di politici senza un briciolo di amore per la nostra gente. Ma per quelli che verranno c’è ancora speranza: è per loro che dobbiamo cominciare ad invertire la rotta e a riscoprire i valori veri. Quelli che fanno di una bestia un uomo.

 

 




Trump vince anche se demonizzato. Una lezione per il nostro referendum?

 

Donald Trump
Donald Trump

Adesso è tutta colpa dei sondaggi. Se la vittoria di Donald Trump ha preso tutti, quasi nessuno escluso, in contropiede la responsabilità è di quei maledetti istituti demoscopici che ci hanno venduto previsioni e statistiche attendibili quanto i visionari di paese che parlano con la Madonna effigiata nel quadro del tinello. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Non è che schiere di presunti esperti e altrettanto improvvisati analisti ci hanno propalato per settimane il frutto malato delle loro narcisistiche elaborazioni e delle loro relazioni autoreferenziale da salotto? Sbagliare si può, intendiamoci, specie quando si deve interpretare il sentire e gli umori della gente. E tuttavia, proprio per questo, sarebbe ora che la si smettesse di affidarsi a tanti presuntuosi dilettanti allo sbaraglio.

Quelli che, materia prima nei grandi giornali, prendono il primo volo per New York, scambiano a fatica due parole con il taxista che li scarica nel pregiato hotel di lusso pagato dalla ditta, e il giorno dopo sfornano una pagina di dotte considerazione su come e qualmente gli americani – nemmeno solo gli abitanti della Grande Mela ma tutti gli americani – vivono e pensano. Quelli che per capire, o fingere di capire, la società americana prendono la prima copia del New York Times (sempre lì si va a sbattere perché fa figo), leggono due articoli, e opla’ ti rifilano un’analisi infarcita di sociologia da fast food. Quelli che, non avendo sufficienti cellule grigie per articolare un proprio pensiero, si rivolgono all’intellettuale di turno, una volta andavano di moda i filosofi ma adesso piacciono da morire gli antropologi e gli esperti di comunicazione sociale (da declinare all’inglese, of course), che in cambio di un soffietto sull’ultimo libro sfornato rilascia osservazioni che vanno nel senso esattamente desiderato dall’intervistatore, a cui spesso non interessa una libera opinione ma portare a casa un titolo che assecondi il volere della Casa.

Questo è l’andazzo nei giornali italiani (per non parlare della TV, dove da tempo conta solo l’effetto spettacolo, non c’è più nemmeno il tentativo di usare la telecamera come scandaglio della società). Inutile sorprendersi della topica Trump il giorno dopo. Ed è francamente penoso leggere le articolesse delle solite prime penne che ci raccontano di come non ci hanno capito un tubo senza provare un minimo senso di vergogna (magari insieme all’ammissione che, dato il macroscopico errore commesso, forse sarebbe il caso di dedicarsi al racconto delle ormai residuali corse di ippica o, ancora meglio, dedicarsi alla compagnia dei nipotini.
Purtroppo, succede qualcosa di ancor più incredibile. Molti di questi commentatori della domenica ora riversano la rabbia per la sconfessione subita addosso a Trump (come ieri sugli inglesi per la Brexit) e agli stessi americani. Uno dipinto come razzista, sessista, troglodita, violento e via insultando; gli altri, come ignoranti, violenti, populisti, qualunquisti, oltre che ovviamente sessisti e razzisti. Gente che ragiona con la pancia e non con la testa, che fa prevalere l’istinto sulla ragione, che guarda al proprio “particulare” e non si cura dell’interesse (supposto) generale. Ancora una volta, anziché sforzarsi di capire ci si abbandona alla demonizzazione. Gli elettori di Trump (come gli inglesi che hanno voluto la Brexit o come i grillini o i leghisti in casa nostra) sono brutti, sporchi e cattivi, a prescindere. Secondo questi fini pensatori, se voti Obama (vedi gli elettori dell’Ohio) sei un cittadino perbene, aperto, evoluto; se, viceversa, la volta dopo opti per Trump diventi un rozzo egoista. E la pratica è inappellabilmente chiusa.
Vale solo la pena di osservare, per tirare amaramente le conclusioni, che in questo modo non si fa altro che fornire più forza e più consensi a chi si vuole criticare o contestare. Sta succedendo anche da noi e potremmo vederne presto i risultati. Vedremo se a forza di dipingere come odiatori di professione, ignoranti, passatisti e quant’altro quelli che non condividono un progetto di riforma costituzionale non si finirà con il tirargli la volata.

 

 




Immigrazione, quel che il Canada ha capito ben prima di noi

migranti - CopiaDa inizio anno sono sbarcati in Italia 160 mila migranti, secondo i dati Unhcr, la Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. In tutta Europa, contando in particolare anche la Grecia, sono in tutto poco più di 330 mila. Come è noto, questa è considerata un’autentica emergenza, più nel Sud Europa che nel Nord Europa, a dire il vero, tanto da essere considerata dall’Italia un possibile grimaldello per riuscire ad ottenere maggiore flessibilità per il bilancio, alla pari di un disastro, questo sì riconosciuto da tutti, come i terremoti.
Intanto il ministro dell’Immigrazione del Canada, John McCallum, ha annunciato che l’anno prossimo il suo Paese accoglierà altri 300 mila immigrati (più di un terzo dei quali rifugiati), lo stesso numero di quest’anno.
Questa notizia, che il Canada annuncia con soddisfazione, appare in contrasto con la precedente, ma serve anche a rimettere in linea il fenomeno dell’immigrazione, che non è italiano o europeo, ma globale. Quello che appare un problema in Europa, in ogni caso non lo è dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Il Canada, con il quale è stato appena firmato dalla Ue un accordo di libero scambio commerciale, non ha, per motivi geografici, il problema dei barconi, ma ha anche un approccio di rigidità totale nella sua lunghissima frontiera con gli Stati Uniti per quanto riguarda i clandestini.
Questo fa già la differenza, ma c’è però soprattutto rispetto all’Italia, un diverso atteggiamento, legato anche ad una diversa modalità di gestione e impostazione sulla questione immigrazione (non solo clandestina), che fa vivere diversamente la questione da parte del Canada, Paese del G7, che pur avendo un numero di abitanti inferiore a quello dell’Italia, anche se una superficie ben più ampia, ha una percentuale maggiore di stranieri. Questo, innanzitutto, perché  il Canada ha un ministro dell’Immigrazione. E poi perché il ministro dichiara che “i livelli di immigrazione stabiliti nel 2017 favoriranno la crescita economica e l’innovazione in Canada permettendo di riunire un gran numero di famiglie”.
Secondo il governo canadese l’immigrazione ha un ruolo fondamentale nel mantenimento della competitività del Paese nell’economia mondiale, compensando l’invecchiamento della popolazione. Di fatto, secondo il governo “l’immigrazione rappresenterà presto la crescita netta della popolazione attiva”, perché le uscite in pensione sono superiori all’ingresso di giovani canadesi nel mercato del lavoro.
In Italia la questione è affrontata in maniera capovolta, guardando sempre alla questione del lavoro, ma rivolgendosi più all’emergenza del presente (pensioni)  che alle prospettive del futuro (lavoro per i giovani e quindi risorse per il Paese, pensioni incluse).
In Italia si è lanciato il Fertility day, del quale si ricordano più le polemiche della vigilia che l’evento in sé. L’iniziativa, visto che siamo in Italia, ricorda inevitabilmente l’invito mussoliniano alla procreazione perché il “numero è potenza”. Anche se adesso i figli non devono essere dati alla Patria, ma all’Inps.
Vero che le nascite sono al numero più basso dall’Unità d’Italia, ma il controllo demografico di Stato, in via diretta, non dà grandi risultati, come conferma la Cina che con la politica del figlio unico ha creato milioni di non registrati. Se avessimo veramente bisogno di più persone non dovremmo rifiutare gli immigrati, forza lavoro giù pronta, ma seguire l’esempio del Canada.
Se invece servono nuovi italiani per permettere il pagamento delle pensioni, almeno a chiusura della previdenza regolata con il retributivo, allora bisognerebbe ragionare in maniera differente. Se già i giovani che ci sono non trovano lavoro in Italia e sono costretti ad emigrare, aumentarne il numero vorrebbe dire crescere persone che andranno a produrre in un altro Paese. Canada compreso.
Ma ci sono altri elementi che preoccupano. Sta anche diminuendo la speranza di vita alla nascita (per gli uomini si è ridotta a 80,1 anni dagli 80,3 del 2014 e per le donne a 85, dagli 84,7 dell’anno precedente) e c’è stato un picco di mortalità, tanto che per la prima volta non è stato necessario adeguare l’età pensionabile alla maggiore aspettativa di vita. L’aumento della mortalità è legato anche al fatto che con l’aumento dell’invecchiamento della popolazione si allarga progressivamente il numero delle persone che per età sono statisticamente più a probabile rischio decesso. Abbiamo comunque meno giovani e più anziani. L’età media della popolazione è salita a 44,5 anni. Più anziani vuol dire più costi per la sanità e per la previdenza, meno giovani vuol dire meno produzione di ricchezza (anche per gli anziani). Il Canada sembra averlo capito, mentre noi continuiamo a preoccuparci dell’immigrazione, spaventandoci per numeri che andrebbero visti con altri occhi. Secondo i dati Istat nel 2015 in Italia sono stati concessi meno di 240 mila permessi di soggiorno (con riduzione del 4% rispetto all’anno prima), mentre il totale degli extracomunitari è inferiore a 4 milioni su un totale di oltre 60,5 milioni di residenti. La percentuale ufficiale è di 8,3% di stranieri (includendo un milione di non italiani comunitari): ampiamente sotto la media dei Paesi sviluppati.

 




Referendum, perché anche Gori rischia il contraccolpo

Giorgio Gori
Giorgio Gori

Non c’è solo Matteo Renzi a guardare con attesa e trepidazione il fatidico 4 dicembre, giorno scelto per consentire agli italiani di dire cosa pensano della riforma costituzionale. Quella è una data dirimente. Il verdetto che uscirà dalle urne è in grado di modificare (in diverse gradazioni: dallo stroncare al rallentare) una carriera politica. Improvvidamente il premier lo ha detto ad alta voce dall’esordio della campagna elettorale: se perdo me ne vado a casa. Poi ha cercato di correggere il tiro, ma hai voglia di dire che la personalizzazione è un errore se poi vai in Tv tre volte al giorno a impersonificare le ragioni del Sì. Ed è quindi evidente che il 4 dicembre la stragrande maggioranza di chi andrà a votare darà un giudizio sull’operato del presidente del Consiglio, altro che sul bicameralismo paritario o sulle modifiche del titolo V.

Ma quel giorno potrebbe subire uno scossone, positivo o negativo, anche la carriera del sindaco di Bergamo. E che c’azzecca direte voi? C’azzecca eccome, invece. Perché Giorgio Gori, al di là delle smentite ufficiali che come sempre sono utili ad incartare il pesce, ambisce a lasciare Palazzo Frizzoni per lanciare la sfida al presidente della Regione Roberto Maroni nelle elezioni che si terranno nel 2018. Basta osservare le sue mosse degli ultimi mesi per scacciare qualsiasi dubbio. Le comparsate televisive (le vecchie amicizie vengono utili), le esibizioni canore in piazza a Cremona con i collegi sindaci di Brescia e Cremona, la “finta” polemica con Renzi sulla mancanza di un Patto per la Lombardia. Indizi precisi e concordanti che, direbbe un avvocato, costituiscono più di una prova. E d’altra parte, ad adiuvandum, non è stato lo stesso Umberto Ambrosoli (già impalpabile sfidante di Maroni nel 2013) a dire che la prossima candidatura a Palazzo Lombardia se la giocano Giorgio Gori e Maurizio Martina?

La strada, insomma, è tracciata. Se non fosse che di mezzo c’è quel maledetto (o benedetto) 4 dicembre. Domanda: se al referendum vincesse il No, cioè se Renzi prendesse una bastonata in testa, che ne sarebbe delle ambizioni goriane? Sarà utile chiederselo perché, al di là delle iniziative personali e della considerazione di cui gode per il suo lavoro a Bergamo, per arrivare ad ottenere la candidatura Gori può far leva solo sul sostegno di Renzi e dei suoi seguaci. È la classica situazione in cui i latini ricorrevano all’icastico “simul stabunt, simul cadent”. Se cade il primo, crolla anche il secondo. Non ci vuole una grande immaginazione a prevedere che se dovesse prevalere il No (ad oggi più probabile che possibile) nel Pd si scatenerà una faida con morti e feriti. Primo fra tutti il premier. E con lui collaboratori, amici, cortigiani e cortigiane di infimo livello di cui, alla faccia della rottamazione innovativa, in soli due anni ha riempito luoghi di governo e sottogoverno.

Le ricadute sarebbero immediate sia in Lombardia che a Bergamo. Dove, al netto di un consenso di facciata che gli tributano nelle sedi ufficiali, molti esponenti di punta del Pd non nutrono nei confronti di Gori una soverchia simpatia. L’uomo è intelligente, scaltro, abile nel tessere relazioni e strategie. E indubitabilmente sta facendo un discreto lavoro a Palazzo Frizzoni, pur se sbilanciato sui grandi progetti (in larga misura privati) più che sulla quotidianità e con l’altrettanto innegabile aiuto della buona sorte che fa venire a maturazione proprio in questi mesi interventi lungamente attesi. Ma la sua tendenza ad accentrare tutto su di sé, in questo molto renzianamente, è motivo di insofferenza trattenuta a fatica. Senza trascurare qualche uscita a vuoto, come quella della democrazia ad uso solo dei colti post Brexit, che ha fatto venire qualche dubbio sulle sue capacità politiche. Ciò detto, in politica pregi e difetti contano relativamente. Rilevano i rapporti di forza, piuttosto. E allora un Renzi azzoppato (no, non uscirà di scena nemmeno in caso di sconfitta, l’uomo è troppo ambizioso per rassegnarsi a tornare a Rignano sull’Arno) determinerà un bel caos dentro il Pd con l’altrettanto facilmente prevedibile riposizionamento di correnti e correntine. Che ne sarà di Gori a quel punto? La risposta è vicina. Basta solo aspettare un mese.

 

 




Obbligazioni a lunga scadenza? Meglio dare un occhio al passato

euro - europaSi dice che quando il padre risparmia, i figli ringraziano, ma con certi Titoli di Stato lo faranno (forse) i nipoti. Tra le conseguenze della politica ultraespansiva della Banca Centrale europea, con tassi che oscillano intorno allo zero, quando non sono negativi, è che veramente il denaro non vale più nulla, almeno quando si cerca di investirlo. Comprare Bot a scadenze brevi ormai è un costo più che un guadagno. Così per riuscire ad avere un rendimento anche non eccezionale bisogna andare su obbligazioni dalla scadenza sempre più lunga. Da poche settimane, come già hanno fatto Spagna, Belgio e Francia, proprio per rispondere alla domanda del mercato e allo stesso tempo allungare la durata del proprio debito, anche l’Italia ha lanciato un bond a 50 anni, seppure collocato solo tra investitori istituzionali, come fondi pensione e compagnie di assicurazione: assicura un rendimento del 2,85%, mezzo punto più del titolo trentennale, Ma per ottenere questa cedola, appunto, ci si vincola per mezzo secolo. Se si porta a termine il prestito, si riavrà il capitale soltanto nel 2066. E se questo sembra un tempo assurdamente lungo, l’Austria ha appena emesso un titolo a settant’anni, che rende peraltro “solo” l’1,5%. Scadrà nel 2086, con la possibilità quindi, se lo si è comprato in età avanzata, che verrà incassato non tanto dai figli, quanto da nipoti che magari adesso non sono ancora nati.

Quale piccolo risparmiatore può essere interessato a un titolo del genere, a parte chi vuole lasciare un buon ricordo di sé alle future generazioni? Probabilmente chi vuole farsi un piccolo vitalizio. Ma sotto questo punto di vista c’è il problema dell’inflazione. L’1,5% austriaco, quando c’è l’inflazione zero, è una rendita reale ormai non disprezzabile. Soprattutto se si considera che in Italia, trent’anni fa, c’era chi correva a comprare Bot con rendimenti a due cifre ed era felice, nella sua beata ignoranza, anche se l’inflazione che cresceva a tassi superiori erodeva progressivamente il potere d’acquisto. Ma le banche centrali, compresa quella europea, dicono apertamente e chiaramente che il loro obiettivo è un’inflazione intorno al 2%. Se anche solo riuscissero a centrare il numero – spesso capita che la mano scappi e in un attimo si superi il livello – il possessore del bond austriaco a 70 anni è destinato ad avere rendimenti insufficienti a coprire la perdita legata al rincaro della vita.

Di cosa accadrà nel futuro ovviamente non si ha certezza – non si può escludere nemmeno una perenne inflazione zero – ma guardando al passato, anche se come dicono i promotori non si assicura che le performance si ripetano, si ha un’indicazione interessante di cosa avrebbe dovuto attraversare un’obbligazione austriaca a settant’anni che venisse a scadenza oggi. Innanzitutto sarebbe stata emessa nel 1946, in una Vienna ancora occupata dagli alleati e uscita sconfitta da una guerra vissuta da regione della Germania nazista. Il fiducioso obbligazionista avrebbe dovuto affrontare l’uscita da una situazione di fame diffusa, la ricostruzione, la definizione di un’organizzazione democratica, la fine dell’occupazione alleata nel 1955, la guerra fredda, il rilancio industriale e l’adesione all’Unione europea.

In Italia quello che valeva l’equivalente di 1000 euro nel 1946 adesso, per effetto dell’inflazione, di euro ne varrebbe solo una ventina in termini reali. E in settant’anni l’interesse dell’1,5% annuo (senza contare gli eventuali reinvestimenti) permette di fatto solo di poco più che raddoppiare il valore nominale. Mille euro del 1946 diventano quindi, tra rimborso del capitale e interessi accumulati negli anni, poco più di duemila euro nominali del 2016, che però equivalgono a solo una cinquantina di euro del 1946 in termini reali, come potere d’acquisto al netto dell’inflazione. Insomma, se qualcuno avesse pensato nel 1946 di costruirsi in questo modo una rendita finanziaria non avrebbe grandi risultati. Forse i prossimi settant’anni saranno migliori da questo punto di vista, ma avere dubbi è lecito.




Cari Gorinesi, confessatelo: siete agenti della Spectre!

 

gorinoMa porca l’oca, Gorinesi, Gorinisti o come accidenti si chiamano gli abitanti di Gorino, dovevate proprio fare questa frittata? Non siete i più cattivi né i più intolleranti della Penisola, ma, certamente, siete i più fessi o, perlomeno, i più sfigati. In lungo e in largo, da Sondrio a Lampedusa, esclusi i Welschbezirke tirolesi, prefetti occhiuti e sindaci compiacenti seminano, del tutto a casaccio, migliaia di nerboruti africani sui vent’anni, muniti di telefonino e capetti alla moda, locupletando alberghi, caserme, stazioni e financo colonie religiose, e voi dovete proprio fare le barricate per un manipolo di donne e di bambini, con tanto di immancabili partorienti? Da cosa vi travestirete ad Halloween: da Erode o da Alfred Neuman? Tutta l’Italia boccheggia per un’invasione che, ormai, sta travalicando i limiti del lecito, del tollerabile e, soprattutto, del credibile: gli unici che sorridono e contano le banconote sono quelli che si ingrassano con le ricchissime prebende governative o che utilizzano gli immigrati come schiavi. La nostra Marina Militare, non accontentandosi più di andare a raccogliere gli Africani a due chilometri dalle spiagge, raccontandoci che il golfo della Sirte è nel canale di Sicilia, sta apprestando dei mezzi da sbarco anfibi, per poter raccogliere i profughi addirittura prima che diventino tali: prelevandoli direttamente sotto casa.

Ovunque, si stanno organizzando gruppi di cittadini esasperati, che non ne possono più di strade impraticabili di notte, di palpeggiamenti alle ragazze, di sporcizia, di bighelloni a zonzo, di spacciatori, di case svalutate, di immobili occupati. E voi, in questo scenario perfetto come preludio ad un’insurrezione popolare, pensate bene di rovinare tutto cacciando via donne e bambini? Ma chi ve l’ha scritto il copione, Papa Francesco? Mancava soltanto che, tra i profughi, ci fosse una famigliola di Giudei, marito falegname e moglie gravida, e il quadretto natalizio sarebbe stato completo: buoi e asini, in Italia non mancano, per fare le comparse, e abbiamo perfino un angelino, sia pure bruttarello, da mettere sopra al presepe, con il cartiglio “Gloria in excelsis deo…”. Ma dico io, neanche a farlo apposta! O l’avete fatto apposta? Dai, dite la verità, Gorinesi, Gorinisti o come vi chiamate: vi hanno pagato per allestire questa bella recita di Natale. Vi hanno promesso 500 euro per ogni immigrato respinto. Vi comprano le vongole a trentacinque euro al chilo. Quella storia della Conad che ve le rimanda indietro per il virus è solo depistaggio. Non è possibile che, su più di sessanta milioni di Italiani, di cui una buona metà imbufaliti, esasperati, ridotti alla disperazione, da un governo scellerato, gli unici che facciano le barricate per fermare i profughi vadano ad incappare in un pullman carico solo ed esclusivamente di povere donne e di minorenni. Probabilmente, l’unico pullman del genere in tutta la Penisola.

Ha ragione Alfano: questa non è l’Italia. Questo è un film. E la riprova è che la canea organizzata, i lanciapietre di regime, la fuffaglia radical-sciccosa, non aspettava altro, e ha sparato a palle incatenate. Un tiro di controbatteria che era pronto da mesi: mica si improvvisano certe battaglie. Lo ripeto: questo non è un caso di razzismo, questo è un assist di Lionel Messi. Perché l’Italia, ahimè, è quella che accetta, obtorto collo, i diktat governativi: quella che vede le frotte di nullafacenti giocare col cellulare sulle panchine e abbozza, salvo, magari, scuotere la testa o, tra le mura domestiche, lasciarsi andare alla geremiade. Perché l’Italia vera ha paura di passare per cattiva: ingoia e tace, per non subire il linciaggio. Invece, voi, cari Gorinesi, siete in assoluta controtendenza: vi mandano qualche donna, spaventata, disperata, incinta (il marito è un ectoplasma ignoto) e voi la respingete crudelmente, al suo destino drammatico. Il perfetto ‘vilain’ da commedia: un misto di cattivaccio biblico, di Hitler e del contadino Jacques. No, scusate ma io non ci credo, cari Gorinesi o Gorinisti o chessò io: c’è un limite anche alle bizzarrie del caso.

Venti su centoquarantamila è una percentuale che rasenta il nulla: non c’è nulla di male, però ammettetelo che era un piano prestabilito per fare sembrare Alfano intelligente e Vauro umoristico. E’ anche quella una forma di attività caritatevole, in fondo. E poi, suvvia: l’anziana signora che si fa intervistare da Formigli e dice che i negri sono meno intelligenti dei bianchi è un cameo degno di Bette Davis. La nonnina veterorazzista, esponente di spicco del movimento di protesta anti-migranti di Gorino merita di entrare nel pantheon delle più eccelse parodie: il movimento per la liberazione della Giudea dei Monty Python, “Cornovaglia libera, libera Cornovaglia”, la nonna del Corsaro Nero. Altro che razzismo padano! Che, con tutto un Paese messo in ginocchio dalla politica migratoria del governo, un Paese che esporta migliaia di giovani laureati ed importa migliaia di giovani disoccupati, che nemmeno parlano l’italiano, possa risuonare un’unica concreta voce di protesta, e che vada a sbattere in un incidente così formidabile, mi pare davvero incredibile. Confessatelo serenamente, cari come diavolo vi chiamate, siete agenti della Spectre!

 

 




Appalti e corruzione, forse è il caso di riscrivere la storia dell’Expo

1.ExpoNon passa settimana senza che spuntino nuove indagini, con annessa gragnuola di arresti impreziosita da un contorno di saporite intercettazioni telefoniche, su vorticosi giri di mazzette gestiti da cosche mafiose all’ombra di Expo Milano. L’ultima è di pochi giorni fa ed ha visto finire nelle patrie galere 14 tra manager e imprenditori calabro-lombardi accusati di corruzione per vari appalti e subappalti in Lombardia, a partire dai padiglioni Italia, Cina ed Ecuador della sfavillante esposizione universale andata in scena lo scorso anno. E allora, poiché trattasi per l’appunto solo dell’ultima e gli inquirenti lasciano intendere che altro sta per arrivare in tavola, la domanda sorge spontanea: non sarà forse il caso di riscrivere la storia di Expo? Cioè a dire, non vi pare che sarebbe opportuna una seria operazione di revisione storica per demolire il mito, falsamente costruito con il più tradizionale cocktail di propaganda e retorica, di una Expo modello di virtù, esempio inimitabile e irraggiungibile di operazione, come fu definita, “tangente free”?

Nei mesi scorsi ci sono state riempite le orecchie (e anche qualcos’altro, si parva licet…) con questa storia di Milano che poteva e doveva essere presa ad esempio. Chi non ricorda, è storia di poche settimane fa, la violenta polemica del presidente del Consiglio contro la sindaca di Roma per il suo dietrofront sulla candidatura della Capitale per le Olimpiadi del 2024? Diceva Renzi: “Bisogna bloccare i ladri, non le opere”, e indicava a modello proprio Expo. Le inchieste giudiziarie stanno dimostrando, ahinoi, che se l’esposizione universale è stata innegabilmente un successo di pubblico, con qualche ritorno sull’immagine di Milano (ma meno di quanto si tenda ad accreditare), è altrettanto sicuro che ha consentito alle più diverse organizzazioni criminali e a vari lestofanti incistati nella pubblica amministrazione di ingrassare all’ombra delle gare d’appalto e della gestione dei servizi.

Qualcuno dirà che era inevitabile, altri rimarcheranno che laddove ci sono grandi investimenti è fisiologico che ci sia chi se ne approfitta. Con un po’ di fatalismo all’italiana, dove abbiamo fatto lo stomaco ad ogni genere di scandalo (compreso quello di vedere figli di ex ministri e ex ragionieri dello Stato implicati in inchieste vergognose), potremmo anche rassegnarci all’evidenza e chiuderla lì. Se non fosse che viene il sospetto che forse talune indagini siano una scoperta solo per noi sprovveduti uomini della strada. Che forse, ma solo forse sia chiaro, la puzza di marcio si era sparsa già da tempo, magari fin da quando le masse si disperdevano lungo il Decumano, ma che non era opportuno, politicamente parlando, sollevare il coperchio del bidone. Sapete com’è, l’immagine dell’Italia nel mondo, il governo del fare, le magnifiche sorti e progressive. Pubbliche virtù e vizi privati, magari con l’autorevole copertura di chi stava seduto in alto loco.

Oggi quell’immagine di efficienza e di pulizia, su cui anche i giornaloni hanno dato prova di appiattimento (sarà mica perché Expo ha comprato spazi pubblicitari per milionate e milionate?), è brutalmente svergognata da ciò che emerge dai palazzi di Giustizia. Bisognerebbe onestamente prenderne atto. Ma dubitiamo che lo faranno quelli che cavalcano la retorica delle grandi opere che muovono il mondo, quelli che dicono che l’Italia deve riprendere a correre, quelli che l’immagine viene prima di tutto. Ad oggi, spiace constatarlo, il Paese è paralizzato attorno ad una controversa riforma costituzionale. Chi corre davvero, invece, sono mafiosi e corrotti.

 

 




Quella miseranda tremarella che “schiaccia” il mondo della scuola

ragazzi-a-scuolaLa scuola: già, la scuola è uno dei nostri più grossi problemi, da qualunque parte la si giri. E’ un problema la mancanza di certificazioni attendibili, come lo è la retribuzione degli insegnanti, mediamente bassa e del tutto slegata da meriti e demeriti. E’ un problema la dispersione, è un problema la formazione: insomma, per farla breve, è un intero campionario di cose che non funzionano o funzionano male. Oltretutto, ognuna delle numerose componenti che formano quel vasto universo che è la pubblica istruzione vede soltanto i propri problemi, mancando quasi sempre di una visione globale della questione: genitori e ministri, alunni e dirigenti, insegnanti e provveditori, bidelli e direttori generali hanno ognuno una propria visione, tanto diversa quanto significativamente distorta, del quadro. Io vi dirò, da parte mia, quello che, secondo me, è uno degli Schwerpunkt del sistema scolastico: la luna invece del solito dito, se preferite lasciare Clausewitz alla sua naftalina. Alla base di tante pecche della scuola italiana dell’anno domini 2016 c’è la paura. Sissignore, la paura: una fifa birbona. Paura, innanzitutto, collettiva: quell’ansiosa, sudaticcia, mancata assunzione di responsabilità, che divora tanti nostri connazionali, nel pubblico impiego assurge a dimensione esistenziale. Così, la scuola si riempie di codicilli e di regolamenti, allo scopo di scongiurare disastri: soprattutto, la responsabilità dei disastri.

Non si può correre, giocare, uscire nel cortile, entrare in classe durante l’intervallo, andare in bagno se non ad orari strettamente stabiliti, passare di qui, entrare di là: non per un legittimo desiderio di ordine e decoro o per tutelare la salute ed il benessere degli studenti, ma per evitare incidenti che possano creare guai. Per scansare i casini, per dirla in francese. E, allo stesso modo, le tonnellate di carte che i docenti devono compilare sono, nella maggior parte dei casi, dei giubbotti antiproiettile, dei paraspalle: si certifica questo e si documenta quell’altro nel timore che a qualcuno venga in mente di contestare, denunciare, ricorrere. Il fantasma del famigeratissimo TAR incombe su esami e scrutini, come un convitato di pietra alla cena di Don Giovanni. Lo stesso dicasi per la pletora di diagnosi sui disturbi dell’apprendimento o sui cosiddetti BES: uno studente in possesso di tali requisiti è, praticamente intoccabile e sa che potrà godere di accomodanti soluzioni fino al giorno del diploma, anche se, talvolta, il suo vero problema si chiama asineria volontaria da scansafatichismo: per la paura, ancora per la paura. E, poi, non meno perniciosa, c’è la paura a titolo individuale: quella vocina che tanti insegnanti sentono dentro di sé e che dice che, prima o poi, qualcuno li sgamerà. Si scoprirà che si preparano la lezione la sera prima, studiando sugli stessi manuali dei propri alunni, tutto quello che non hanno studiato quando avrebbero dovuto.

Qualcuno porrà la domanda, apparentemente innocente, su quel teorema, su quella forma idiomatica, su quell’autore, e loro, non potendo confessare di non averlo studiato, dovranno arrampicarsi sui vetri. Verrà fuori, allora, la vecchia cara paura all’italiana: paura di un’insufficienza culturale complessiva, quasi preterintenzionale, nata da decenni di accumulazioni recidive di trucchetti e di sindacalismo, di concorsi mancati e di concorsi truccati. Il povero insegnante si troverà nudo, di fronte all’ammissione della propria sconfortante inadeguatezza, e dovrà rifugiarsi dietro ai: fanno tutti così, non sono peggio degli altri. Paura. Mano a mano che si sale o che si invecchia, questa paura si disperde e si stempera: non è più così ossedente, non ti crea più incubi notturni. Ma rimane: come quando si sogna di dover ripetere l’esame di maturità. E io sono certo che, dietro la sicumera di certi ministri o sottosegretari, dal curriculum un po’ incerto, dai titoli un po’ vaghi, dalle pubblicazioni un po’ inesistenti, quella paurina ci sia ancora: lungo il filo della schiena, nascosto dalla legittima soddisfazione di essere lì, a far correre trafelati uscieri e ad essere trattati da padreterni da una schiera di accademici semigenuflessi, c’è quel brivido sottile.

E una voce che dice: non es dignus! Tutto il contrario dell’umiltà predicata dai vangeli: una condanna inappellabile, piuttosto, di catoniana potenza: non sei degno del nobile compito di educare le nuove generazioni, perché, dentro di te, sei soltanto, un frodatore, uno che si arrangia. Ma io, certamente, esagero: mi faccio prendere la mano e trascendo nell’epifonema. C’è tantissima brava gente che dà l’anima per la scuola e non sarebbe giusto accomunarla a qualche mela marcia: eppure, anche loro sono vittime di questa paura. Perfino i migliori accettano, supinamente, di gettare il proprio prezioso tempo nella compilazione di inutili carte, nella produzione di vana paccottiglia: perfino i più bravi, in fondo, hanno paura. E’ talmente radicata, ormai, questa miseranda tremarella, da non permettere più di vedere la luna dietro al dito. E la luna è la trasmissione di una civiltà, prima che muoia, uccisa dalle sue stesse paure. Una civiltà di uomini, in piedi, responsabili, fieri di sé e del proprio destino.