Troppe chiacchiere sterili su Fo e Dylan. E anche il polemico resta “spiazzato”

Dario Fo
Dario Fo

Il Nobel che viene o il Nobel che muore? Stando alle aspettative dei miei tre o quattro lettori, Dario Fo o Bob Dylan dovrebbero arroventare il mio “polemico” di questa settimana. A ben considerare, per l’uomo della strada, forse, ci sarebbe da polemizzare abbondantemente sull’uno come sull’altro evento: un ex paracadutista della RSI salutato da “Bella ciao” e un cantautore premiato come letterato darebbero consistenti argomenti di polemica a chiunque. Ma, invece, vorrei, per una volta, smorzare le polemiche, invece che alimentarle. Dario Fo è stato un soldato della Repubblica Sociale? Fatti suoi: si trattava di scegliere, e alcuni hanno scelto la macchia, altri i gladi sul colletto. Ha cambiato idea: è diventato comunista. E con ciò? Lo stesso hanno fatto Scalfari e la Iotti, Vittorini e Calvino: un’intera Nazione, salvo pochi irriducibili da una parte dall’altra, ha fatto il salto della quaglia, prima o poi. Dicono che abbia millantato chissà quali persecuzioni, mentre, in realtà, il potere lo ha spesso vezzeggiato e carezzato: il potere è subdolo e, sovente, ti liscia perché ti teme. Infine, l’accusa più infamante: ha applaudito per l’uccisione di Ramelli, ha difeso gli assassini dei fratelli Mattei. Certo, non è una bella cosa: ma vi ricordo che, alla notizia della morte del povero Ramelli, il consiglio comunale di Milano, con qualche nobile eccezione, si è alzato in piedi ad applaudire.

Così fan tutte, chioserebbe il grande Da Ponte. Quanto al valore oggettivo dell’opera di Fo, ammesso che esista un valore oggettivo nell’arte, vi confesso di non essere in grado di giudicare: non sono mai riuscito ad andare oltre le prime due pagine delle sue pièces e giudicare un grande scrittore da qualche comparsata televisiva, da dei Caroselli o da scampoli di coccodrilli mandati in scena a reti unificate mi sembrerebbe ingeneroso. Potrei basarmi sul giudizio di qualcuno che abbia letto l’opera omnia del Maestro, o, almeno, una parte consistente della sua sterminata produzione, ma, purtroppo, non conosco nessuno con queste caratteristiche: quando domando ai miei conoscenti notizia di questo o di quel testo, invariabilmente, mi confessano di non averlo mai letto. Perfino i più attenti, i più culturalmente preparati, oso dire perfino i più politicamente coinvolti: non ce n’è uno che mi sappia illustrare le formidabili caratteristiche del teatro di Fo. Quanto alla conoscenza diretta, ci sono stato a cena una solta volta, e ho parlato tutta la sera con Catherine Rommel, purtroppo. Sicchè, mi fido della sagacia e dell’acutezza degli accademici di Svezia.

Lo stesso dicasi per Bob Dylan: certamente, non mi appare come uno dei più accreditati scrittori del secolo, tuttavia, indubbiamente, è un protagonista assoluto della cultura, a cavallo dei due millenni. Io di musica capisco poco, e dell’inglese degli americani colgo anche meno sfumature: da italiano, provincialotto, il Nobel l’avrei dato a De André, ma non sono accademico né svedese, e Faber, ahimè, ha da tempo abbandonato le miserie e i fasti di questo mondo. Di sicuro, Dylan non è un letterato in senso stretto, se non altro per quella sua abitudine di accostare alle poesie l’armonica e la chitarra. Musicalmente, dai primi album, ha fatto passi da gigante: anche solo per l’abbandono dell’ “Old boring country” a favore di generi e commistioni meno narcotici meriterebbe certamente un riconoscimento internazionale. Sulle ragioni del Nobel al menestrello di Duluth ne ho sentite di tutti i colori: dall’accostamento alla poesia omerica o a quella scaldica (si parva licet, s’intende), fino alla ridefinizione del concetto stesso di letteratura. Preferisco volare basso. Io dico che, esattamente come ogni altra onoreficenza al valore, anche il Nobel si assegna a titolo esemplare e simbolico: in altre parole, serve a mostrare alla gente la via, ha un senso educativo.

Dylan ha indicato una via che, evidentemente, collima con quella degli accademici di Svezia: non si premia il più grande scrittore dell’anno, perché i criteri per indicare questa figura sarebbero mille e tutti diversi tra loro, ma si premia un simbolo da indicare alla gente come uomo di valore. L’idea mi pare che sia quella di premiare i difensori dei deboli e degli oppressi: i libertari, i democratici, quelli che hanno inciso nella cultura progressista. Oppure scrittori vessati e perseguitati nei propri paesi d’origine, in nome delle proprie idee e della difesa della libertà. Quindi, che questa figura valorosa faccia il bersagliere o l’alpino, il poeta o il drammaturgo, il prosatore o il cantautore, poco cambia. Se, domani, la lotta per quei valori venisse incarnata, chessò, da una ballerina o da un suonatore di baghèt, il premio Nobel per la letteratura potrebbe legittimamente andare alla ballerina o al suonatore di piva. D’altronde, mica lo pagate voi, il Nobel: lo paga l’Accademia di Svezia (entra ed adora!), Saranno ben liberi di darlo a chi vogliono e per le ragioni che vogliono, o no? Insomma, tutte queste polemiche mi paiono davvero sterili, perfino per un polemico. Dylan ritirerà il suo Nobel, Fo è morto, e anch’io non mi sento troppo bene…

 

 




Il Comune tosa gli automobilisti, ma intanto il centro resta senza “idee”

Sentierone_1La manovra sulla sosta in città è servita. Nessuna riflessione o consultazione, come pure aveva lasciato intendere in un’ intervista di qualche mese fa l’assessore alla Mobilità, Stefano Zenoni. La strada è tracciata: aumento delle tariffe orarie, pagamento anche nei festivi, ticket annuo per i residenti. In soldoni, ecco altri 600 mila euro (in aggiunta ai tre milioni che vengono introitati oggi) sfilati dalle tasche dei cittadini. “Lo facciamo per disincentivare l’uso dell’auto privata” dicono da Palazzo Frizzoni. E già qui vien da storcere il naso. Perché se si vuole essere credibili, e quindi essere presi sul serio, non ci si può limitare solo agli interventi “punitivi” (ammesso che questi servano perché un aumento di 20 centesimi all’ora non scoraggia nessuno, è solo un’extragabella che sul singolo incide poco ma sul totale delle soste fa cassetta). Occorre mettere in campo misure che accompagnino le restrizioni offrendo alternative. Nell’annuncio dell’assessore Zenoni non ve n’è traccia. O meglio, si parla di soldi che andranno all’Atb per potenziare il bike sharing (utile, senz’altro, ma non può essere un’alternativa al mezzo privato, non solo l’auto, per tutti), l’infomobilità (come quegli assurdi cartelli dei parcheggi sotterranei?) e l’introduzione delle emettitrici automatiche sugli autobus (un servizio in più, certo, ma nessuno prende il mezzo pubblico solo perché può fare il biglietto a bordo, ci vuol altro…).

Pannicelli caldi, orpelli, fumo negli occhi, chiamateli come volete. Se il Comune vuole davvero spostare quote di traffico deve agire più in profondità. Come? C’è solo l’imbarazzo della scelta: agevolazioni tariffarie (oggi una famiglia di tre-quattro persone non ha nessunissima convenienza a salire a bordo di un bus), convenzioni con parcheggi (a Brescia con il biglietto emesso dal parcometro viaggi per lo stesso tempo pagato sul mezzo pubblico), potenziamento delle frequenze, nuovi collegamenti (perché non sperimentare, magari solo nelle ore serali-notturne, una circolare?), avviare finalmente, togliendolo dal cassetto nel quale giace da oltre un anno, il progetto del tram bus promesso in campagna elettorale (due anni e mezzo fa, non ieri l’altro…). Questo sarebbe il vero reinvestimento dei soldi incassati con gli aumenti.
E invece, more solito, si agisce solo sul lato della tosatura, regalando in cambio solo briciole. Quando non nulla del tutto, come rischia di succedere ai residenti che pagheranno la sosta senza avere alcuna certezza di poter lasciare l’auto nelle strisce gialle. Sarebbe più onesto chiamarla imposta (una delle tante, una in più), allora, più che tariffa perché non c’è alcun corrispettivo garantito. E va aggiunto, rispetto ad alcune informazioni fatte filtrare capziosamente da Palazzo Frizzoni con paragoni scelti ad hoc, che la sosta a pagamento nei festivi e quella per i residenti nelle strisce gialle si applicano in pochissime città (si contano sulle dita di una mano). Che siano tutti ritardati gli altri, magari perché schiavi del partito dell’auto, o i cervelloni stanno solo a Bergamo?

E’ bene chiederselo anche perché su questo tema della mobilità e sosta, lo diciamo da tempo, la Giunta Gori mostra lentezze e contraddizioni che su altri piani non denota. Tanto è lungimirante e attiva sul fronte urbanistico (Montelungo, ex Riuniti) quanto non pare aver ancora colto l’importanza di elaborare una strategia ad ampio spettro sul fronte del traffico. Una strategia di breve ma anche di medio-lungo periodo. Come quella che si rende necessaria alla luce dei cambiamenti che stanno intervenendo nel cuore della città. Si leggono sui giornali di progetti di trasformazione di grandi contenitori (gli uffici statali, l’ex cinema Nuovo) in punti di ristoro e di shopping e di abbandono di altri (Italcementi, Confindustria) per nuove soluzioni. Per non dire del recupero dell’ex Diurno. Bisognerà pur porsi la domanda di come arriveranno in città i fruitori di questi servizi, quali mezzi utilizzeranno e dove eventualmente lasceranno l’auto. Sono risposte necessarie ad un processo che va anticipato per meglio governarlo. Anche a questo sarebbe servito, e servirebbe come il pane, il famigerato concorso d’idee sul centro città che ad elezioni vinte il sindaco Gori aveva promesso. Mezzo mandato è passato ma di idee non se n’è vista mezza. Forse è il caso di darsi una mossa, di trasmettere ai cittadini qualche indicazione su quel che si pensa sarà la Bergamo dei prossimi dieci-quindici anni. Solo progetti chiari, trasparenti, condivisi con chi li deve “subire” possono rendere accettabili, anche se gravose, le misure che il Comune intende poi adottare. In assenza, è davvero difficile cancellare dalla mente il dubbio che si agisca per trovare risorse che altrove non affluiscono più. Un metodo che sa tanto di vecchia politica.

 

 

 




Gori svetta nei sondaggi? Allora vi dico cosa penso di lui

Giorgio Gori
Giorgio Gori

 Index Research ha espresso il proprio giudizio. Detto così, e considerato che praticamente nessuno sa cosa diavolo sia Index Research, immagino penserete ad una di quelle agenzie di rating che, di tanto in tanto, ci riempiono di AAA, BBB, CCC, e delle quali, nella vita reale, non importa nulla a nessuno. Niente di più sbagliato: dietro il nome esotico, si nasconde un istituto di ricerche demoscopiche, utilizzato da La 7 per inchieste, sondaggi e simili passatempi televisivi. Questa volta, la materia d’indagine era, per noialtri, tutt’altro che peregrina, perché riguardava in prima persona il nostro sindaco, che, alla luce dei risultati di Index Research è risultato essere il più amato dagli Italiani, o, perlomeno, dai propri concittadini, con un portentoso 62,6% di gradimento. Ora, vi confesso di non essere esattamente edotto sul funzionamento di questi sondaggi e di non sentirmela di importunare il caro Nando Pagnoncelli per domandargli lumi in proposito: presumo, tuttavia, che si basino su delle telefonate ad un campione significativo di popolazione.

A me, personalmente o a qualcuno dei miei conoscenti, nessuno ha chiesto nulla, ma non ho ragione di dubitare che un congruo manipolo di bergamaschi sia stato contattato ed abbia espresso un parere positivo su Gori e sul suo operato. Io, se permettete, sfruttando l’indubbio vantaggio di detenere una rubrichetta su di un vetusto ed onorevole giornale, il mio parere l’esprimo qui. Per cominciare, devo premettere, per onestà, che, nonostante una disparità ideologica che rasenta l’antipodo, Gori, a suo tempo, l’ho votato: anche per questo mi sento autorizzato a commentarne il successo demoscopico. Distinguerei almeno tre voci, dovendo analizzare il suo operato da sindaco: valore, idee ed azioni.  Sul valore non ho dubbi: lo conosco bene e so che è persona che vale parecchio. Anzi, vi dirò che, secondo me, è uno che vale più di quel che appare, anche se sono sicuro che molti di voi penseranno: ma come, se è uno che ha costruito sull’apparire la sua fortuna? Gori è tutt’altro che un fesso vanesio, costruito ad arte da uno spin doctor e da un tecnico dell’immagine: è persona, semmai, contraddittoria, diviso com’è tra la lotta per la vittoria ed un fondo di umanitarismo utopico ottocentesco. Immaginatevi un Proudhon che diriga la Chase Manhattan Bank: ecco, ho in mente qualcosa del genere. Ma, quanto a valore, credetemi, non si discute.

Magari, possiamo discutere sulle idee: alcune sono sue, altre nascono da una sintesi di molteplici sistemi ed altre, infine, sono altrui. Molte di queste idee, come quella dell’identità turistica di Bergamo, dello Stimmung orobico, di una visione un tantino millenaristica ma suggestiva della nostra città, mi trovano d’accordo. Altre le avrei addirittura esasperate: l’operazione piste ciclabili, ad esempio, è una bella incompiuta. Altre, come l’invenzione di happenings un po’ fighetti in Città Alta o come certe sbrodolate iniziali su accoglienza ed immigrazione (che, per fortuna, sulla scorta della dura realtà, ha ben bene corretto al ribasso), mi hanno decisamente lasciato perplesso. Ma ognuno ha le sue, di idee: mica posso bocciare un sindaco perché la pensa diversamente da me sul vagabondaggio panchinaro. O forse sì, ma non è questo il punto. Il punto, nel caso specifico di Gori e della sua amministrazione, sono le azioni. Anche qui, machiavellicamente, distinguerei tra azioni compiute, incompiute ed annunciate, oltre che tra azioni direttamente ascrivibili al sindaco o farina del sacco di suoi assessori, che lui abbia semplicemente avallato. Le azioni compiute sono abbastanza limitate, ma questo trova giustificazione anche nel poco tempo a disposizione per mettere in campo certi progetti di più ampio respiro: per quel poco che si è visto, il mio giudizio è, tutto sommato, positivo.

Noto una certa tensione al fare e al voler affrontare alcuni snodi, come la Montelungo o Astino, che potrebbero influenzare non poco il benessere dei cittadini di domani. Le azioni incompiute riguardano operazioni strutturali, e anche qui darei tempo al tempo: Roma non è stata fatta in un giorno e anche per Bergamo ventiquattr’ore mi sembrano pochine. Quanto alle azioni annunciate, mi aspetto una ben più decisa svolta verso la vivibilità di questa povera città: il traffico, i trasporti, la logistica sono temi di assoluta priorità e si legano un po’ con tutte le problematiche essenziali per un cittadino, dalla salute al tempo libero. Le note veramente dolenti vengono dalle azioni altrui, che Gori, di riffa o di raffa, ha vidimato col suo sigillo: la ristrutturazione dei servizi demografici e di stato civile, compresa la beffa dei totem che nessuno usa, pare che si stia trasformando in un’emiparesi burocratica. Le attività culturali ed educative, se escludiamo un’idea un po’ provinciale di cultura intesa come pubblico alle mostre, sono abbastanza desolanti. La gestione di Città Alta mi pare, talvolta, à la Billionaire, e così via. Ecco, questa voce, la scelta della squadra di governo, l’avrei inserita in un’indagine demoscopica, così, per curiosità: ottimo pranzo, peccato per i contorni, insomma. Ma, si sa, io sono per gli uomini soli al comando….

 




Il futuro di Ubi tra banca unica e “good bank”

Ubi bancaNel giro di una settimana, Ubi potrebbe varare la banca unica, con l’accorpamento delle sue sette banche reti, ma restare ancora una holding. Che l’assemblea del 14 ottobre vari la fusione appare scontato: è troppa la convenienza in termini di risparmi e di efficienza di gestione per fermare un’operazione che, se non ci fossero stati personalismi e qualche problema tecnico di assetto societario, di fatto risolti solo con la Spa, si sarebbe realizzata da anni. Ancora incerto è invece il fatto che ad aprile, a compimento dell’incorporazione a tre fasi dei sette istituti che sarà votata in assemblea, Ubi sia ancora una banca unica o non si trovi con altre controllate, ovviamente da fondere anch’esse, in prospettiva, una volta realizzata l’integrazione, prima di tutto dei sistemi informatici.

È ancora tutta da definire la trattativa per rilevare tre delle quattro “good bank” nate dalla risoluzione di un anno fa, ovvero Popolare Etruria, Banca Marche e Carichieti, lasciando perdere proprio quella Cariferrara che all’inizio sembrava potesse essere il primo obiettivo. Giustamente Ubi non vuole rimanere invischiata in un’operazione che presenta opportunità interessanti, a partire dal salto di qualità da istituto multiregionale a veramente nazionale con una copertura anche di aree ora deserte, come la Toscana, ma anche rischi non indifferenti. Quindi, se l’operazione procede lentamente, e forse non verrà realizzata, è perché prima è necessario vedere e valutare le carte. Questo vuole dire, essenzialmente, controllare la qualità dei prestiti e capire a quanto ammontano non solo le sofferenze presenti (ora relativamente poche, considerato che i quattro istituti sono nati a crediti inesigibili zero, ma dopo un anno già pericolosamente in crescita), ma anche e soprattutto quelle potenzialmente future. E poi ottenere adeguate garanzie e le compensazioni del caso, anche per i costi che comunque dovranno essere affrontati per la ristrutturazione e il rilancio di banche che, se un anno fa sono state costrette alla bancarotta, devono essere rivoltate anche dal punto di vista gestionale.

Alla fine il conto potrebbe essere anche negativo. Del resto siamo in tempi di tassi negativi dove il costo del denaro esiste per chi fa il prestito, più che per chi lo chiede. Quindi non deve apparire paradossale nemmeno che le operazioni sulle Good banks si profilino come acquisizioni dove chi compra non paga, ma viene pagato, anche se non necessariamente in contanti. Nel caso di Ubi si ipotizzano infatti opzioni contabili-normative, come un riconoscimento dell’avviamento negativo da parte della Bce, l’immediato utilizzo dei modelli interni per il calcolo degli attivi a rischio o un intervento del Fondo atlante che rilevi i crediti problematici.

Anche se con ogni probabilità un aumento di capitale potrebbe essere necessario per Ubi – si parla di 300-400 milioni – più per una ulteriore cautela prudenziale, che per finanziare l’eventuale operazione, l’acquisto delle tre banche inevitabilmente dovrebbe avvenire a prezzi molto contenuti. Del resto, non c’è la fila per comprare gli istituti, anche perché non sono molti i gruppi che potrebbero ricavare dall’operazione sinergie e prospettive di ritorno dell’investimento. Inoltre questa è un’operazione che può interessare Ubi, sempre a condizione, come ribadisce in tutte le salse  il Ceo Victor Massiah, che crei valore, ma interessa soprattutto il sistema bancario e non solo per il danno di immagine e di credibilità che può derivare dalla vicenda. Entro sei mesi, il Fondo interbancario di tutela dei depositi deve restituire il prestito da 1,6 miliardi organizzato da Intesa Sanpaolo, Unicredit e la stessa Ubi per assicurare le risorse essenziali al riavvio delle quattro banche. Difficilmente i proventi della vendita potranno assicurare un rientro integrale delle risorse immesse per consentire il salvataggio e questo apre alla possibilità che il sistema sia chiamato a registrare nuovi esborsi per riuscire a liquidare quella che a seconda dei punti di vista è una “patata bollente” o una “opportunità”.

Del resto quest’anno ci sono già state almeno due acquisizioni bancarie dove il cliente è stato pagato. Recentemente la bresciana Banca Valsabbina ha chiuso l’accordo per l’acquisto gratis di sette sportelli di Hypo Alpe Adria Bank Italia (incluso quello di Bergamo) e di un portafoglio di mutui «performing» di circa 150 milioni di euro, ricevendo in più una «dote», di importo non svelato – si ipotizza una ventina di milioni,  a compensazione della cessione del ramo d’azienda – a titolo di contributo di avviamento. In precedenza Barclays aveva pagato 237 milioni per cedere 89 sportelli, con 3 miliardi di mutui residenziali  a CheBanca!, del gruppo Mediobanca. E pensare che nel 2007 Ubi Banca aveva ottenuto 488 milioni di euro dalla cessione di 61 sportelli alla Popolare di Vicenza. Insomma si è passati in neanche dieci anni da una situazione in cui la vendita di uno sportello bancario fruttava 8 milioni di euro a una in cui bisogna pagare 2,6 milioni per cederlo. Dato che questi sono prezzi di transazioni avvenute e non di ipotesi si può ben capire come sia cambiata la mentalità del mercato e perché siano così depresse le quotazione dei titoli bancari, ormai trattati a frazioni del patrimonio netto tangibile, non solo perché la loro redditività è bassa, ma anche perché quello che un tempo era un valore, adesso è diventato un costo.

 

 




Provincia, al voto (in pochi) tra i soliti paradossi italiani

Provincia-BergamoLa politica è veramente il palcoscenico dei paradossi: una specie di camera fatta di specchi, in cui tutto ciò che, nel mondo normale, sarebbe puro delirio, viene presentato come fosse la cosa più normale del mondo. E, badate, non mi riferisco alle esilaranti bissabobe dei politicanti romani, che un giorno danno dello scemo a uno e, il giorno dopo, lo copiano pari pari: parlo di noi, orobi mesopotamici, stirpe di baghèt e di taragna, gente pratica e laboriosa. Perché sabato scorso, 2.843 bergamaschi, tra sindaci e consiglieri comunali, sono andati a votare per un’assise che non esiste più, almeno nelle parole felpate e false della politica, vale a dire il Consiglio Provinciale. Quattro liste, quarantanove candidati, sedici eletti. Nel più abissale ed assoluto disinteresse dei cittadini. Neanche un plissé sull’appassionante agone politico: nemmeno un bergamasco che abbia mangiato di magro o si sia astenuto dai commerci sessuali, in attesa del verdetto dell’urna. Anche perché dei destini di un consiglio in cui gli amministratori si votano tra loro, non si capisce poi per fare cosa, davvero pare impossibile che a qualcuno possa importare.

Prova ne sia che perfino tra i pubblici amministratori, che dovrebbero, come si dice, dare il buon esempio, c’è stata una significativa astensione: il 36%, superiore del 9% rispetto alla precedente tornata del 2014. Insomma, neppure ai diretti interessati interessa l’elezione di questo comitato di sbaraccamento: di questo plotone di psicopompi il cui unico vero ruolo parrebbe essere di facilitare il trapasso della defunta provincia ai campi elisi.  E, allora, come direbbe Beppo Novello, perché? Per quale ragione eleggere un consiglio che non dovrebbe nemmeno esistere, che conta poco o niente e che nessuno si fila di striscio? Capirei se si trattasse del solito scopo umanitario, se ci fossero di mezzo le palanche: uno occupa la sua cadrega e si porta a casa un gruzzoletto solo per scaldarla. Ma qui non ci si guadagna mezza lira frusta. Manca, se mi passate il termine, il movente. Posso capire che a qualcuno faccia gola l’essere eletto per l’elezione in sé: ci sono quelli che si sbattono per essere membri di un consiglio d’istituto o presidenti di un’assemblea condominiale, e con Narciso non si scherza. Ma il legislatore che interesse avrebbe avuto nel mantenere questo lemure di elezione, questo fantasma di consiglio?

No, qui c’è qualcosa di più profondo, che risale alla ritrosia italica verso le semplificazioni: da noi, ogni semplificazione complica vieppiù le cose, inevitabilmente. C’è una specie di entropia mentale: un caos assistito, nelle menti dei nomoteti: basta sentire parlare di commissioni, comitati, assemblee, tavoli, workshop, consigli, che nelle menti dei politici si accende una lampadina da 10 candele. Che poi, diciamocelo, questa abolizione delle province non ci è andata giù fin dall’inizio. Le Province, poverine, non facevano male a nessuno: sono le Regioni, semmai, che andavano eliminate, perché sono un verminaio mangiasoldi. Le Province, da secoli, sono una dimensione perfetta per amministrare agevolmente un territorio: abbastanza grandi da porsi questioni progettuali di un certo respiro e abbastanza piccole da tener presente le istanze di tutti. Una regione come la Lombardia, invece, è un carrozzone colossale, che distribuisce denaro a vanvera e che, per dover decidere tutto, decide poco o nulla: una specie di Stato intermedio, che dello Stato centrale mantiene i peggiori difetti. Andrebbe eliminata, lo dico senza remore: e, se non fosse una miniera di incarichi, di poltrone, di consulenze e di sprechi, su cui i partiti campano in concorde baldoria, probabilmente, l’avrebbero già mandata in soffitta, insieme a tutti i dipartimenti napoleonici e ai podestà del Ventennio.

Invece, ci tocca di mantenerla, questa parodia di decentramento, mentre le Province fanno elezioni del tutto ininfluenti, tra liste che nessuno conosce, per fare scelte che nessuno avallerà. E’l’Italia, gentili lettori: un’elezione non si nega a nessuno, in questa specie di carnevale di matti. Il paradosso finale, la definitiva presa per il culo, è che, in questa pletora di soviet, in questa jungla di commissioni, comitati e consigli, l’unica cosa che manca per davvero è qualcuno che, alla fine, decida e si prenda la responsabilità delle decisioni. Uno che dica: si fa così e cosà e, se non funziona, la decisione è mia e mia la colpa. Ma, forse, sarebbe chiedere un po’ troppo ad un popolo di cagadubbi come il nostro, che cancella le Province e poi le mantiene in vita a stipendio zero e a potere decisionale zero meno. Ma va bene così: se non altro ci sarà qualcuno che potrà dire di aver vinto, qualche volta, da qualche parte. In bocca al lupo, dunque, ai sedici neoconsiglieri, chiunque essi siano: qualunque cosa faranno, auguro loro di farla bene, anche se, in fondo, mi piacerebbe capire almeno di cosa si tratta. Una mia amica che fa politica mi ha promesso di spiegarmelo: io aspetto fiducioso.

 

 




Referendum, le promesse di Renzi e il mercato delle vacche

Scusate la domanda banale: ma se a settanta giorni dal voto sul referendum il presidente del Consiglio si mette a parlare del ponte sullo Stretto di Messina e fa balenare 100 mila possibili nuovi posti di lavoro, tra fine novembre e il 3 dicembre (le urne saranno aperte il giorno dopo) che cos’altro ci prometterà? Memore dei luminosi esempi di Achille Lauro (quello che regalava una scarpa prima del voto e l’altra a risultato raggiunto) e di Silvio Berlusconi (ricordate il milione di posti di lavoro?), Matteo Renzi giorno dopo giorno sta sempre più entrando nella parte, che interpreta da consumato attore, dell’imbonitore da fiera di strapaese. Prometti, prometti, qualcosa resterà. E visto che con gli 80 euro ha fatto breccia nei cuori degli italiani che gli tributarono un clamoroso trionfo, da lui lungamente sfruttato ed abusato, alle elezioni Europee del 2014, eccolo pronto a sparare nuovi fuochi d’artificio per cercare di evitare la trappola che si è preparato con le sue stesse mani.

Lo ricordate? “Se perdo il referendum, il giorno dopo vado a casa” aveva garantito la primavera scorsa, quando ancora coltivava l’illusione di asfaltare gli avversari e di guadagnare, attraverso la vittoria al referendum, l’investitura per il prossimo Ventennio.  Poi, però, sono arrivate le elezioni Amministrative e il responso per il Pd è stato assai deludente. Se non fosse stato per Beppe Sala, capace di salvare la ghirba in quel di Milano, si sarebbe potuto tranquillamente parlare di disastro.

Gli amici più seri e gli osservatori più equilibrati hanno cercato di far capire al premier che forse era il caso di accantonare la personalizzazione. Lui ha finto di cambiare strategia. In qualche occasione ha anche ammesso di avere sbagliato. Ma ormai la china è stata intrapresa. E allora, a fronte di sondaggi che danno il No in vantaggio o testa a testa con il Sì, Renzi ha pensato che non c’è altra strada che tornare a vellicare la tradizionale credulità degli italiani. Che storicamente son di bocca buona, lì per lì (e tanto basta al politicante di turno) digeriscono di tutto, salvo poi, a danno fatto, aprire gli occhi e impugnare il forcone contro il mentitore.

Su questo punta il Giovin signore fiorentino, icasticamente definito il Ganassa da Giampaolo Pansa. Sa che, sondaggi alla mano, il voto per il Sì è particolarmente basso al Sud e quindi ammannisce al popolo bue la fola del ponte sullo Stretto (subito inseguito da quell’altro fenomeno della Magna Grecia che risponde al nome di Angelino Alfano). E chissenefrega se quello che parla oggi è lo stesso Renzi che il primo ottobre 2012, da candidato alle primarie del Pd, diceva tranchant: “Basta parlare del ponte di Messina, i soldi li dessero alle scuole”. In linea, peraltro, con tutto il politburo del Pd, da Franceschini a Giachetti. Un’altra delle peculiarità degli italiani è la memoria corta. Chi vuoi che si prenda la briga di andare a vedere se il presidente del Consiglio ha cambiato idea? Quella è materia da rosiconi, quella brutta gente che non sa stare al mondo e non capisce che il governante di turno non va criticato e incalzato ma solo adorato.

Ma chissà che una volta tanto non possa arrivare uno scatto d’orgoglio, anzitutto dal Meridione che deve dimostrare di non essere un facile serbatoio elettorale alla mercè del demagogo congiunturale. Questo sì, al di là del merito, sarebbe il segno di una svolta. Perché dev’essere chiaro, comunque la si pensi sulla riforma che ci verrà sottoposta, che le regole sono neutre, diventano buone o cattive a seconda dell’uso che se ne fa. Ma soprattutto, non ci evitano il malcostume di chi continua a fare della politica uno sgradevole e perverso mercato delle vacche.

 

 




Profughi o clandestini? La “guerra” psicosemantica sugli immigrati

migranti - CopiaLe parole sono una delle cose più importanti di una civiltà: chi controlla le parole controlla i pensieri della gente e li indirizza dove meglio crede. Per questo, più siamo ignoranti e più siamo indifesi, contro questa campagna di distorsione della realtà e del buon senso. Chi, più di ogni altro, si approfitta della nostra debolezza culturale è, per certo, il linguaggio della politica: da un uso semplicemente disinvolto di certi termini, credo di poter dire che si sia passati ad un uso psicologico delle parole. In un certo senso, introiettando nelle menti, non sempre lucidissime e quasi mai allenate, degli Italiani certi termini, si vuole abituare la gente ad accettare il significato che questi termini sottintendono. Manipolazione psicosemantica, la chiamerei. Facciamo qualche esempio. Partirei dall’origine stessa della nostra idea di politica, vale a dire dal termine ‘democrazia’. Sorvolo sul fatto che, ad Atene, la parola designasse semplicemente un sistema elettorale, basato sulle circoscrizioni: noi, oggi, siamo in Italia e possiamo serenamente considerare la democrazia come il governo del popolo.

Il problema sorge quando si parla, invece, di ‘aristocrazia’: questo termine, mercè la solita rivoluzione francese, che ha dettato le regole del nostro presente perfino a livello di vocabolario, ha, presso di noi, una sfumatura negativa. Lungi dal mantenere il suo nobile significato originario di “governo dei migliori”, la parola ‘aristocrazia’, a un dipresso, viene percepita come un governo di parassiti imparruccati che vivono di rendita, di dame con l’erre blesa e di effeminati cicisbei, che, se il popolo chiede pane, suggeriscono di dargli brioches. Viceversa, la vera ‘aristocrazia’ è precisamente quello che tutti domandano a gran voce, in questi tempi di Lorenzin: che i migliori si facciano avanti e che il merito e non il favore governi la baracca. Ne deriva che ‘aristocrazia’ non è affatto il contrario di ‘democrazia’, sibbene di ‘keirocrazia’, che starebbe per il governo dei peggiori, la peggiocrazia. Come dire che, quando governa il popolo, esso è perfettamente in grado di esprimere delle eccellenze e che nulla vieta ad una democrazia di essere anche un’aristocrazia: come vedete, le parole, talvolta, ingannano.

Lo stesso dicasi del sovrabusato termine ‘populismo’ che tanto pare piacere a giornalisti e politicanti vari, che ne felicitano ogni movimento politico che non gli garbi: la parola che, nel nostro vocabolario, sta ad indicare ciò che questi signori, palesemente ignoranti o in malafede, intendono con ‘populismo’ è ‘demagogia’. La ‘demagogia’ è l’arte di trascinare le masse popolari, illudendole o assecondandone gli uzzoli. Il ‘populismo’, dal russo narodničestvo, è una forma particolare di socialismo, sviluppatosi nel XIX secolo e che, perfino nelle sue forme più moderne, come il Peronismo, ha mantenuto la sua valenza socialisteggiante, attribuendo al popolo una specie di aura mistica di positività e purezza. Oggi, invece, usare ‘populista’ come sinonimo di fascista, almeno nei talk show televisivi, è prassi comune: laddove, in primis, se c’è una matrice populista, essa va ricercata, storicamente, a sinistra e, in secundis, quanto a promettere a vanvera paradisi sociali e ad accarezzare il pelo della gente, mi pare di poter dire che, in casa nostra, i veri professionisti abitino nei palazzi del governo, più che nei covi degli squadristi.

Ma veniamo alla psicosemantica più subdola, perché più grave e vitale è la questione che essa sottende: gli immigrati. Invariabilmente, nei dibattiti di ogni ordine e grado, i giornalisti ed i politici di indirizzo governativo si guardano bene dall’usare altro termine che ‘profughi’ per indicare gli immigrati, mentre i loro antemurali parlano solo e sempre di ‘clandestini’: si tratta di due sciocchezze uguali e contrarie o, se preferite, di due malefedi contrapposte. I profughi sono una precisa categoria di emigranti, sancita, riconosciuta e protetta dal diritto internazionale, ossia persone costrette ad abbandonare la propria terra e la propria patria in seguito a eventi bellici, o a persecuzioni politiche o razziali: questo e non altro significa la parola ‘profugo’, in inglese refugee. Per contro, il termine ‘clandestino’, giuridicamente, neppure esiste: come dire che, dalla legge italiana, i clandestini non sono nemmeno contemplati. Per solito, si indicano come clandestini i cosiddetti “immigrati irregolari”, gli overstayers del diritto anglosassone, vale a dire persone che rimangono nel nostro Paese a visti scaduti o senza autorizzazione e senza documenti.

Va da sé che la stragrande maggioranza degli immigrati irregolari, che sono l’argomento di furiosi scontri televisivi, oltre che cospicua fonte di guadagni per la solidarietà pelosa delle cooperative, è rappresentata da persone che non sono né profughi né clandestini. E, allora, perché i ciarlatori professionali abusano di questi due termini? Semplice: per la solita psicosemantica. Profugo ti fa pensare a bambini con gli occhioni sgranati, a mamme avvolte in stracci, a poveretti in fuga dall’ecatombe. Mica a giovanottoni ben in carne, con telefonino e cappellino da baseball. Il profugo è un potente elemento di pathos e di commozione. Invece, il clandestino ti fa pensare a qualcuno che, subdolamente, si annidi nella stiva, per non pagare il biglietto: ad una precisa volontà di ingannare e di aggirare la legge, non a un povero Cristo che cerca una vita migliore. E’ una guerra, cari lettori: una guerra di parole, combattuta con ogni mezzo allo scopo di manipolare ed indirizzare il nostro consenso. E lo scopo, in fondo, è il più squallido e triste: permettere ai peggiori di rimanere in sella, a scapito dei migliori. E’ questo mercato delle vacche, in fondo, che chiamano ‘democrazia’.

 

 




Aeroporti e alleanze, perché Sacbo non può più perdere tempo

Orio Aeroporto  terminalSacbo, la società che gestisce l’aeroporto di Orio al Serio, da anni oscilla alla ricerca di un partner guardando un po’ ad Est (il polo veneto più Brescia) e un po’ ad Ovest (con la milanese Sea, che è anche suo azionista con il 30% circa) e nel frattempo è cresciuta fino a diventare il terzo aeroporto italiano, con i suoi oltre 10 milioni di passeggeri. Un’eventuale unione è chiaramente un’operazione importante e probabilmente senza ritorno e per questo va ben ponderata. Ma è bene anche ragionare con i tempi dell’economia, più che con quelli della politica, perché a volte, quando le occasioni si perdono, possono anche non ripresentarsi, soprattutto se il tentennamento dovesse nascere dal solo obiettivo di massimizzare l’incasso. Anche le rendite di posizione date dalla geografia, che in materia di infrastrutture contano più che altrove, in fondo non sempre sono per sempre. La tecnologia, le evoluzioni commerciali, i mutamenti di mercato, le nuove legislazioni, la comparsa di nuovi concorrenti possono sempre sconvolgere i piani. Orio al Serio è cresciuto l’anno scorso del 18,6% e ha realizzato un altro incremento del 6,7% nei primi otto mesi del 2016: potrebbe forse anche rischiare di restare da solo, prendendo atto del limite fisico dello sviluppo dato dall’avere una sola pista, per quanto gestita con ottimizzazione o efficienza. Ma se la Sacbo intende crescere grazie alle sinergie che si possono creare grazie alla rete con altri scali, una decisione (che sia la fusione con Sea che al momento sembra l’opzione più probabile, o quella con altri) la deve prendere senza perdere troppo tempo, fino a quando può ancora scegliere e in una posizione di relativa forza data dalla salute societaria, anche se questa potrebbe non bastare per pareggiare nella governance il confronto con aziende di dimensioni più grandi.

Che lo scenario del settore sia in movimento lo dimostra il blitz di Atlantia, il gruppo che ha la famiglia Benetton come azionista di riferimento, e al quale fanno capo oltre a buona parte delle autostrade italiane (tra le quali l’A4 “vicina” di Orio), anche il 95% di Adr-Aeroporti di Roma, il più grande operatore italiano con gli scali di Fiumicino e Ciampino, e il quinto in Europa per numero di viaggiatori (quasi 32 milioni nel 2015). Atlantia nei giorni scorsi ha sottoscritto un accordo con il fondo Amber per l’acquisto del 21,3% del capitale di Save, gestore del terzo polo aeroportuale italiano (il secondo è quello milanese di Sea tra Malpensa e Linate, con 28 milioni di passeggeri), con gli aeroporti di Venezia e di Treviso e, attraverso il 40,3% della Catullo Spa, degli scali di Verona e Brescia-Montichiari (circa 13,5 milioni di passeggeri nel 2015). L’accordo, a 14,75 euro per azione, per un investimento di circa 174 milioni, prevede un meccanismo d’integrazione parziale del prezzo qualora, entro 3 anni, venisse promossa un’offerta pubblica di acquisto o scambio sul titolo Save ad un prezzo superiore, «eventualità della quale Atlantia non è a conoscenza», precisa una nota. Ma che evidentemente è un’ipotesi da tenere in considerazione, se viene inserita nel contratto. Perché infatti Adr, che pure ha una quota di minoranza anche nel gestore dell’aeroporto di Lamezia (Sacal) e di quello di Genova, dovrebbe immobilizzare dei soldi in una partecipazione che non fa parte di alcun patto di sindacato e non permette di partecipare alla gestione della società? La maggioranza è infatti dal 2011 nelle mani di Finint, che dopo avere rilevato, a fine 2015, l’8% in mano alla Popolare di Vicenza, si trova ora, tra partecipazioni dirette e indirette, a controllare il 60% del capitale di Save, una quota blindata che al momento esclude ogni velleità di scalata.

Potrebbe quindi anche essere solo un investimento finanziario: il prezzo di acquisto è stato buono, inferiore di oltre il 10% alle quotazioni del giorno e la società dà dividendi intorno al 4% che in tempi di tassi zero non sono da disprezzare. Ma il fatto che nella definizione del prezzo si sia parlato di Opa lascia pensare che Adr possa pensare anche a qualcos’altro. Sembra infatti destinato a finire il granitico sodalizio societario che da 36 anni unisce i due soci di Finint, Enrico Marchi (che è anche presidente e ad di Save) e Andrea De Vido. Quest’ultimo ha infatti bisogno di liquidità per rientrare dall’esposizione bancaria creata da una serie di investimenti finanziari non riusciti e sarebbe ben disposto a cedere la sua quota in Finint, società valutata intorno ai 250 milioni. Inoltre Finint controlla il 60% di Save attraverso Agorà, partecipata per il 43,1% da Morgan Stanley, in base a un’intesa che scade a ottobre 2019, ma con opzione di vendita esercitabile tra il 15 e il 19 gennaio 2018, sulla quale Finint ha un diritto di prelazione, anche per conto terzi. Insomma nel giro di un anno e mezzo c’è la possibilità che buona parte delle azioni che ora controllano Save possano cambiare di proprietà, senza escludere  anche vendite da parte degli enti locali (la Provincia di Venezia, terzo azionista, ad esempio ha il 4,9% delle azioni) o magari rastrellamento di azioni sul mercato. Ma tutto questo cosa c’entra con Sacbo? C’entra, perché se continuerà il tentennamento, potrebbe perdere le possibilità di scegliere il partner. Un conto è se il quarto gestore aeroportuale italiano (Sacbo) tratta con il secondo (Sea) o con il terzo (Save), di dimensioni rispettivamente doppie e più grandi di un terzo. Un conto è se nel caso di rottura definitiva con Sea (come alcuni vorrebbero non accettando una guida milanese, nonostante la legge dei numeri), guardando a Est l’unica alternativa fosse un colosso (Sea+Adr)  quattro volte più grande, con il quale è più facile essere mangiati che venire a patti. Poi, certo, si può anche restare da soli: ma è meglio farlo per scelta e non perché costretti.

 

 




Olimpiadi, il no della Raggi e la malafede dei perdenti

Virginia Raggi
Virginia Raggi

Siamo un Paese con le pezze sul sedere ma vogliamo le Olimpiadi. Abbiamo una capitale sgovernata da decenni e sfregiata da un degrado inarrestabile ma vogliamo le Olimpiadi. Non abbiamo le risorse per mettere in sicurezza borghi e città che alla prima scossa o alla prima alluvione vengono spazzati via ma vogliamo le Olimpiadi. Anche per queste ragioni Mario Monti quattro anni fa disse no alla candidatura di Roma per l’edizione 2020. E nessuno, dicasi nessuno, obiettò. Anzi, la decisione fu lodata come “saggia e responsabile”. Oggi,a fronte di una situazione economica e del bilancio dello Stato ancora peggiore, i silenziosi di ieri urlano tutta la loro rabbia contro Virginia Raggi per il suo rifiuto di continuare l’iter avviato dal suo predecessore Ignazio Marino per la conquista dell’edizione 2024. Uno spettacolo davvero penoso e grondante malafede. I giornaloni son pieni di articolesse inzuppate di indignazione quasi che la giovane sindaca di Roma avesse inflitto un colpo mortale all’immagine, altrimenti splendente, del Paese. Quasi che dir di no alle Olimpiadi fra 8 anni impedisca a chi ci governa con vacue parolone e promesse da mercante in fiera di portare a casa i risultati di cui gli italiani hanno bisogno hic et nunc, qui ed ora.

Si può pensare tutto il peggio possibile della Raggi e del Movimento 5 Stelle, e le prime settimane alla guida della capitale stanno dimostrando quanto dilettantismo e ideologia non aiutino a governare, ma ci vuole molta malafede per contestare una decisione semplicemente coerente. Che i grillini fossero contrari alle Olimpiadi non è mai stato un mistero, al di là di qualche tatticismo o di talune dichiarazioni sibilline. Il loro programma era chiarissimo. Tre mesi fa, non il secolo scorso, si sono presentati agli elettori e i romani hanno tributato a Virginia Raggi il 67 per cento dei voti, più del doppio di quanto conquistato dal suo avversario Roberto Giachetti. Chi oggi ciancia di referendum dovrebbe avere il buon gusto di avere rispetto della democrazia. I cittadini della capitale si sono pronunciati in modo netto, inequivocabile. Chi ha perso malamente le elezioni sta cercando di prendersi la rivincita. Il giochino è fin troppo scoperto. Ma proprio il “plebiscito” tributato a Virginia Raggi, al di là e quasi a prescindere dalle sue capacità (su cui è più che lecito nutrire seri dubbi), dice che chi ha governato Roma fino al giugno scorso ha perso ogni diritto di dire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non è stato forse il Pd a buttar giù in malo modo il sindaco Marino che aveva avviato la candidatura per il 2024? E non è stata forse la gestione del sindaco di centrodestra Gianni Alemanno (per tacer di Mafia capitale) a sconquassare i conti del bilancio comunale?

Non si capisce davvero con quale credibilità parli e giudichi chi, compresi i tanti servi sciocchi che li fiancheggiano nelle redazioni dei giornali, porta sulla coscienza gli sconquassi e il malgoverno che hanno ridotto Roma nello stato penoso in cui versa. Qui non si tratta di non voler sporcarsi le mani né di aver paura di dimostrare di essere capaci di gestire un grande evento senza gli sprechi e le ruberie del passato. È una questione di elementare buon senso: Roma, come tutto il Paese, ha bisogno di ordinarietà, di pulizia, di risanamento, di un governo dei problemi quotidiani. A fronte di chi non ha lavoro o è costretto a vivere con una pensione da fame c’è una classe politica e giornalistca che butta via le sue giornate a parlare di Olimpiadi 2024 e di legge elettorale. Lo stridore non potrebbe essere più lacerante. E allora sia lodata chi, senza tacere tutti gli altri limiti che anzi vanno denunciati senza sconto alcuno, ha avuto la forza di dire stop. Chi non è d’accordo, se come dice ha rispetto della democrazia, se ne farà una ragione.




Social e stadi, che triste spettacolo sulla morte di Ciampi

Abbiamo una tradizione: oggi come oggi, facciamo finta di nulla, eppure la tradizione c’è. Spesso, si fa finta che non ci sia, perché ci vergogniamo di essere diventati quel che siamo, e la tradizione è la cartina tornasole del nostro declino: però, lei è lì, ugualmente, a prescindere da quanto noi strizziamo gli occhi per non vederla. E la tradizione ci racconta tante cose che, talvolta, ci piacerebbe non sapere. Per esempio, che, quale che sia stata la loro vita, i morti vanno rispettati. Tutti. Parce sepulto, dicevano gli antichi: e una lunga teoria di scrittori e di pensatori, nel corso della nostra lunghissima storia, ha ribadito e perfezionato questo nobile concetto. Parce sepulto: sia che il morto ti fosse caro, sia che, viceversa, lo considerassi persona esecrabile ed odiosa in vita, una volta cadavere, egli diveniva intoccabile, sacer, immune tanto agli insulti quanto alle azioni insultanti. Certo, un tempo la morte era cosa affatto diversa: restituiva all’uomo, anche al più potente, il contatto con la terra, l’humilitas, da cui proviene il concetto francescano di umiltà. I re, prima di morire, vestivano un saio di bigello e si sdraiavano sulla pietra, con un sasso per cuscino: questo li spogliava dell’assise onde erano venerati e serviti, ma li sottraeva al giudizio umano, per affidarli a quello di Dio. Fu solo con l’avvento della morte borghese che le tombe divennero celebrazione della pompa e non luogo di preghiera e penitenza: un poco alla volta, i morti cominciarono ad essere creduti vivi. E ad essere trattati da vivi: proporzionalmente al crescere di una fifa birbona di morire, aumentò il numero dei trucchetti per ingannare la morte. Il morto venne vestito, imbellettato, trasformato in un manichino che assomigliasse ad un vivo: del pari, poco a poco, quel rispetto sacrale che alonava il defunto si sbriciolava, lasciava il posto alla volgarità della vita, alle pantomime della vita.

Carlo Azeglio Ciampi
Carlo Azeglio Ciampi

Così, oggi, ci ritroviamo a celebrare la morte come se fosse un carnevale: dimentichi del tutto della tradizione, sobria e pietosa, dei nostri avi. La gente applaude il feretro che esce dalla chiesa dopo le esequie, come se si trattasse di un cantante o di una personalità pubblica in visita ufficiale: niente di più barbaro ed inguardabile, gli applausi al funerale. E, dietro alla morte di una persona famosa o influente, non c’è mai la considerazione rispettosa per una condizione che, prima o poi, toccherà a tutti, ma sventola il codazzo degli odi e degli amori, quasi in un supplemento di esistenza. I social network hanno moltiplicato e velocizzato enormemente questo dilagare di volgarità e di trivio: lì, la morte diventa definitivamente circo, fiera, mercatino delle pulci. Come esiste la moda, come ci sono le prevendite dei telefonini, così ci sono i coccodrilli, i necrologi fai da te, dei grandi personaggi che se ne vanno. Per una settimana, tutti conoscono la discografia completa del cantante morto, e poi l’oblio. Tutti hanno visto tutti i film dell’attore famoso, e poi l’oblio. Tutti sanno, tutti piangono, tutti si disperano, e poi cala il sipario, in attesa della prossima occasione di sproloquio, del prossimo funerale mediatico, della prossima farsa necrofila. Oppure, il che è peggio, muore un uomo pubblico, e la sua morte è accolta da cachinni e da insulti, oppure da sesquipedali sbrodolate encomiastiche: talvolta, da entrambe le cose, in una specie di fiera della vanità alla rovescia, in un carnevale dei pazzi.

E’ il caso della scomparsa di Carlo Azeglio Ciampi, che è l’episodio che mi ha indotto a scrivere di morte, in questo articolo. Ciampi non è stato un santo: aveva molte pecche e qualche frequentazione poco felice. Lo si è dipinto come una specie di salvatore della Patria, che è un ruolo perlomeno opinabile, per chi ci ha trascinato, a mani e piedi legati, in Europa. Insomma, si è abusato con l’incenso, secondo un costume incensatorio proprio dei popoli servili per natura. Al tempo stesso, però, internet ha traboccato di insulti e di auguri di bruciare all’inferno, all’indirizzo dell’estinto, colpevole, secondo gli autori dei poco nobili interventi, di tradimento, massoneria, arricchimento sulla pelle dei contribuenti. Ecco, io dico che Ciampi è morto e, in quanto morto, merita rispetto: quel rispetto che si deve a chi muore. Lo si poteva incensare ed omaggiare in vita; oppure dedicargli vie e piazze a tempo debito, una volta sceso il silenzio sul lutto recente. E, allo stesso modo, si poteva contestare da vivo: scrivere delle sue, vere o presunte malefatte ai danni delle tasche degli Italiani, quando poteva ascoltare e difendersi, non ora, che giace gelido in una bara. Oppure attendere che la storia di Ciampi venga scritta: e in quella sede argomentare delle sue colpe e delle sue virtù.

Eccessivo, infine, il minuto di silenzio negli stadi, ripugnanti, sempre negli stadi, i fischi e gli insulti al suo indirizzo. Entrambe testimonianze di un popolo che ha smarrito il senso delle cose: ha perduto il contatto con la propria tradizione di civiltà e di umanità. Ecco, l’Italia degli stadi e dei social network, l’Italia che bercia e che offende i morti oppure li applaude, come a teatro, è l’Italia che più mi disturba: quella per cui, all’estero, mi verrebbe da fingermi svizzero, certe volte. Noi siamo un popolo dalle potenzialità formidabili, soprattutto grazie al nostro formidabile passato: se ci dimentichiamo la lezione dei nostri padri, molto difficilmente trasmetteremo un’identità positiva ai nostri figli. Cerchiamo di insegnare loro il rispetto, tanto dei vivi quanto dei morti: così, quando toccherà a noi varcare quella soglia tenebrosa e piena di incognite, non ci saluteranno con un applauso o una pernacchia, ma con il silenzio del dolore e del rimpianto. Insieme all’orgoglio di aver avuto un genitore dalla schiena diritta e non un pagliaccio.