Borsa, Ubi banca e la quotazione tra giudizi e pregiudizi

Sulle teorie dell’asimmetria informativa sono stati vinti dei premi Nobel per l’economia, ma non si è ancora riusciti a decifrarne il mistero. Che è poi la base del mercato e della Borsa, il mercato per eccellenza. Da una parte c’è un venditore che sa molto dell’azienda, ma magari non sa i motivi per cui dall’esterno è interessante e appetibile, dall’altra c’è un acquirente che non sa tutto dell’azienda, ma sa qualcos’altro. A complicare il tutto è il fatto che non si sa mai esattamente cosa sia vero e falso, cosa sia una convinzione giusta o sbagliata, e cosa magari sia una falsificazione. Senza scendere nel filosofico, la settimana nera che ha appena passato Ubi, con cinque sedute consecutive tutte in forte ribasso (lunedì meno 2,7%, martedì meno 2,6%, mercoledì meno 1,7%, giovedì meno 1,6% e venerdì meno 4,4%), al di là delle tensioni borsistiche generali, e in particolare sul settore creditizio, è un caso particolare di assimetria informativa, dove il mercato crede di sapere qualcosa, che però non è detto accada.

ubi-banca1.jpgIl fattore temuto è il salvataggio di qualche banca più o meno fragile con il rischio che Ubi finisca invischiata in situazioni problematiche ed onerose. Il cd Victor Massiah ha sempre affermato che non intende fare alcuna operazione che non produca valore per Ubi, ma questo non basta più a tranquillizzare un mercato stressato e confuso da messaggi contrastanti su questa e su altre vicende. Ormai da due anni Ubi per la sua solidità patrimoniale viene regolarmente invocata come cavaliere bianco per ogni banca in difficoltà. Nella convinzione che ogni matrimonio proposto non farebbe che indebolire Ubi, il titolo che a inizio anno valeva 6,15 euro è rotolato fino a 2,17 euro venerdì 16 settembre, una performance che non si giustificherebbe di fronte a un bilancio patrimonialmente solido, una gestione operativa in attivo, una costante distribuzione di dividendo, una situazione dei crediti deteriorati sotto controllo e i costi già contabilizzati per il piano industriale che promette risparmi e sinergie. Insomma, in Borsa c’è l’idea diffusa che ci debba essere qualcos’altro che sta maturando e non è positiva.

Il mercato però è fatto da chi sa, da chi non sa e da chi crede di sapere. Se non ci fosse questa asimettria nessuno del resto comprerebbe o venderebbe e la Borsa avrebbe finito di esistere. Quello che per Ubi, in questi giorni, viene creduto vero anche se non si è ancora concretizzato e non è detto che si concretizzi è in particolare un intervento nell’acquisto delle quattro nuove “good bank”, ovvero la versione “risoluta” di Banca Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti. In realtà l’interesse è stato più volte smentito in passato, con il ritornello che non c’è aperto nessun dossier, ma quando il mercato si convince di qualcosa è difficile fargli cambiare idea, anche perché a posteriori molte volte si è scoperto che alla fine ha avuto ragione. Per questa ragione, se non interverranno nuovi elementi che sgombrino definitivamente il campo dalle ipotesi, ovvero che Ubi rompa gli indugi o che le banche obiettivo trovino altri acquirenti – dato che anche le smentite più efficaci, in questa fase, lasciano il tempo che trovano -, si preannuncia una “nuttata” borsistica almeno fino a mese quando si chiuderà il termine per le manifestazioni d’interesse per le quattro banche e si capirà (forse) chi la sapeva veramente lunga e chi si è preso un abbaglio.

Al momento però si continua a restare nel campo di ipotesi che presentano inoltre tanti nodi da sciogliere. Le quattro good bank nascono infatti senza sofferenze, rimaste nel vecchio istituto, ma l’eredità della precedente gestione non è ancora del tutto chiara e sul piano operativo i primi mesi, seppure con tendenza al miglioramento, sono comunque in perdita. Non si conoscono poi i costi della necessaria ristrutturazione, oltre che dell’integrazione. E non si conosce nemmeno il prezzo d’acquisto, al di là del fatto che sarà sicuramente inferiore agli 1,6 miliardi del finanziamento erogato a novembre dal sistema bancario che auspicherebbe di poterli recuperare nella maniera meno parziale possibile. Sulla base di un acquisto a mezzo miliardo, gli analisti di Equita Sim hanno calcolato che con l’operazione, a perimetro invariato, l’indice patrimoniale Cet1 di Ubi scenderebbe da 11,4% a 9,1%, un livello che renderebbe inevitabile un aumento di capitale che, dato l’andamento della quotazione, non sarebbe molto gradito al mercato. La situazione sarebbe ovviamente meno pesante se l’acquisto fosse limitato a solo alcune (Cariferrara?) delle quattro banche. Ma le incognite e i dubbi che l’operazione apre, soprattutto con il sospetto che nonostante tutto l’acquisizione venga eterodiretta se non imposta, scavalcando l’istituto, fa diffidare il mercato, che nelle sue convinzioni non sta nemmeno valutando se queste operazioni hanno prospettive industriali, che a certi costi diventano interessanti. Vale più il pregiudizio del giudizio. E nel frattempo la quotazione si muove di conseguenza.

 




La crisi dei consumi è strutturale. Ora serve una vera scossa

di Oscar Fusini*

Quello che era sotto gli occhi di tutti, alla fine, ha trovato conferma nei primi dati ufficiali. Almeno per i consumi, la nostra è risultata un’estate “gelata”. Ad eccezione del turismo, delle immatricolazioni automobilistiche e dei consumi fuori casa, in tutti gli altri settori le vendite hanno segnato il passo. Anche a settembre, complice il prolungato tempo estivo, gli acquisti non sono ripartiti. Secondo lo studio di Confcommercio “Nota sui consumi delle famiglie, le spese obbligate e la povertà assoluta in Italia”, diffuso ieri, nei primi sette mesi di quest’anno l’Indicatore dei consumi segnala solo un timido +0,7% rispetto al +1,2% dello stesso periodo dell’anno scorso. A questi ritmi non si può certo parlare di ripresa. Altrimenti, dopo sette anni consecutivi di perdite a doppia cifra, possiamo immaginare un recupero solo nel quarto Millennio. La situazione economica coincide con il quadro del mercato bergamasco, anch’esso profondamente colpito dalla crisi nei redditi e nell’occupazione.

fiscoIl cambiamento è avvenuto in profondità. Perché se alle continue “ripresine” seguono immancabili le fasi di stagnazione, come quella che stiamo attraversando, non si può certo definire “congiunturale” la crisi dei consumi. È, piuttosto, il frutto di un’evoluzione, ormai consolidata, della nostra società. Pertanto, servono misure concrete e di effetto che ci facciano uscire dal circuito vizioso. Servono azioni forti, ovviamente. Non è sufficiente evitare gli aumenti dell’Iva, occorre, al contrario, agire coraggiosamente sulla riduzione dell’Irpef, lasciando ai consumatori risorse da destinare ai consumi. Del resto, in un sistema ormai incapace di creare ricchezza, l’unica via per rilanciare i consumi – non smetteremo mai di sostenerlo – è quella di ridurre la spesa pubblica improduttiva e, contestualmente, abbassare le tasse, lasciando così qualche euro in più nelle tasche degli italiani. Questo non farebbe bene solo ai consumi, quindi al commercio e al numero dei suoi addetti, ma anche agli investimenti che potrebbero essere rilanciati per creare nuova ricchezza. Non sono solo i numeri a preoccuparci, ma anche le tendenze che essi esprimono. Basti pensare che l’acquisto di prodotti alimentari è sceso dal 17% al 14% della spesa pro capite in vent’anni (dal 1995 al 2015). Questo ha visibilmente impattato sia sulla spesa quotidiana sia sul carrello mensile, che è il tradizionale specchio della spesa degli italiani e dei bergamaschi.

Il cambio di abitudini ha favorito – con la crescita di due punti percentuali nella struttura della spesa – alcuni nostri comparti del terziario, come alberghi, bar e ristoranti, che, pur nell’esplosione del numero degli esercizi, hanno goduto, e godono, delle tendenze alla crescita del turismo e dei consumi fuori casa. L’incremento maggiore è stato però registrato dalle spese per le abitazioni (acquisto e affitti), oltre alle utenze (gas, luce e acqua) cresciute di oltre il 5,5%. È un’escalation che ci preoccupa. Un po’ perché nelle utenze a guadagnare è ancora lo Stato con il suo prelievo massiccio, un po’ perché queste spese incomprimibili tolgono risorse al commercio. La spesa in questi anni s’è modificata: sempre meno merci, sempre più servizi, invisibili e intangibili. I numeri parlano chiaro: gli acquisti di prodotti pesano sempre meno (dal 46% della spesa nel ‘95 al 38% nel 2015) mentre i servizi predominano. Quest’ultimi, nel processo di terziarizzazione, non sono tutti uguali e non sono cresciuti nello stesso modo.

Gli acquisti di servizi in vendita o commercializzati (bancari, assicurativi, telefonici ecc.) sono passati dal 17,4% del ‘95 al 21,3% del 2015 mentre sono addirittura esplosi quei servizi obbligati, non commercializzati e spesso erogati in regime di monopolio (in un decennio sono passati dal 36,5% 40,7% della spesa) come affitti, gas, luce elettricità e carburanti. Sebbene i prezzi di benzina e gasolio siano scesi negli ultimi due anni, hanno di fatto costituito una delle più grandi batoste dell’ultimo ventennio per le tasche dei consumatori con l’aggravio che i proventi sono finiti ai paesi produttori e alle multinazionali distributrici e non ai nostri poveri benzinai! Per non dimenticare, poi, la crescita vertiginosa del gioco d’azzardo, altro sistema che drena risorse dalle famiglie ai concessionari e allo Stato.

Un altro fenomeno analizzato dallo studio di Confcommercio è l’evoluzione della povertà assoluta nel nostro Paese, ovvero l’aumento del numero del numero di persone e famiglie che non sono più in grado di comprare un paniere di beni e servizi considerati di sussistenza. Ebbene, il numero di queste persone è raddoppiato in dieci anni. Solo nel Nord Italia le famiglie sono passate da 274mila a 613mila pari a un numero di persone povere da 588mila a 1.843.000. Quasi il 7% degli abitanti del ricco Nord Italia è in condizione di assoluta povertà! Se l’impatto sociale è devastante per i diretti interessati, chiamati ad una vita di privazioni, lo è anche per la nostra società che resta ricca e spesso sprecona. Il fenomeno è allarmante, giusto per stare in tema, anche sulla società dei consumi, perché la concentrazione della ricchezza cozza con quel sistema diffuso di crescita e distribuzione della ricchezza che ha garantito il boom economico italiano ed aumenta ancor di più la spirale “minori consumi minore economia reale” a favore di un’economia solo finanziaria.

*direttore di Ascom Confcommercio Bergamo




Referendum, il gioco perverso di chi punta al catastrofismo

Matteo Renzi
Matteo Renzi

Ci mancava solo l’ambasciatore americano. “Se vince il No meno investimenti in Italia” la sua infelice uscita che ha provocato un sussulto di sdegno, quirinalmente trattenuto, perfino dell’ingessato presidente Mattarella. Non bastavano i toni eccitati del premier Renzi che ad ogni pie’ sospinto indica nella vittoria del referendum sulla riforma costituzionale la svolta storica che dovrebbe segnare il trionfo delle magnifiche sorti del Belpaese. Né erano sufficienti le discese in campo di associazioni di categoria, ordini professionali e confraternite varie. No, evidentemente la paura (di perdere) fa novanta e allora anche Oltreoceano hanno sentito il bisogno di invitare i tapini italiani a riflettere su quali nefaste conseguenze potrebbero patire se solo osassero non approvare fra scene di giubilo le modifiche della Carta partorite dalla coppia di consumati costituzionalisti Renzi-Boschi.
Le menti più avvertite hanno già compreso come queste entrate a gamba tesa non fanno altro che determinare una reazione uguale e contraria a quella desiderata. Perché c’è troppa enfasi, troppo catastrofismo, troppa smania di liquidare con sarcasmo chi non s’allinea alla vulgata (ipoteticamente) dominante. Razionale o no che sia, scatta il desiderio di mettersi di traverso. Senza per questo sentirsi dei gufi o degli antisistema. Sgombriamo il campo dalla propaganda. Per stessa ammissione dei suoi patrocinatori, la riforma che sarà sottoposta agli elettori non è “la migliore possibile” né risolverà i tanti e complessi problemi del Paese. In alcuni punti segna dei passi avanti, in altri le modifiche sono più di forma che di sostanza, in altri ancora rischiano di provocare ancora più confusione. Quel che è certo è che la sua eventuale bocciatura non determinerà in alcun modo la caduta nel baratro. E tantomeno sarà impossibile, se lo si vorrà, ripartire con altri tentativi di riforma.
E’ stato Renzi per primo a mettere il referendum su un piano sbagliato. Lo ha trasformato in una sorta di ordàlia sul suo destino politico, commettendo un macroscopico errore strategico che ora gli si sta ritorcendo contro. Ma non è l’unico che non ha compreso che evocare scenari da tregenda, prescindendo dal merito, è controproducente. Come per la famigerata Brexit, il rischio alla fine è che le prime vittime della consultazione popolare siano proprio quelli che le hanno volute caricandole di significati impropri. Anche l’ambasciatore americano ha dato la sua spintarella.  Avanti così, non ci sarà nemmeno bisogno dei comitati per il No.

 

 




Troppe bischerate sulla scuola, ci vorrebbe un antisessantotto

scuolaCola sciropposa la melassa mediatica: c’è l’autunno che incombe, con le nebbie e le castagne genge, e c’è il primo giorno di scuola, con i primi batticuore e le speranze negli occhi stellanti di citti e cittelle. Questi sono gli indefettibili temi della retorica settembrina. Ogni settembre che Dio manda in terra, ci sono le interviste alle mamme, tutte fiere dei loro Nicholas e delle loro Jessiche che si accingono ad imparare a sillabare ba-ba e bu-bu, immortalate davanti a qualche istituto comprensivo di Vattelapesca. Del pari, indefettibilmente, ci giungono le alate parole di provveditori e ministri, piene di motti augurali e di garanzie istituzionali: noi ci tocchiamo apotropaicamente sugli auguri e sorridiamo, con diabolica ironia, delle garanzie. Infine, dopo le fanfare e gli zuccherini, comincia la mazurka: e lì, è il caso di dirlo, cade l’asino. Perché, lungi dall’essere quel meraviglioso mondo di Oz che si evince da circolari e telegiornali, l’inizio dell’anno scolastico assomiglia piuttosto al cerchio degli ignavi, che corrono a perdifiato dietro ad un’insegna che, beffardamente, muta colore ad ogni piè sospinto. E il piè sospinto dipende dai governi, dai ministri, dalle furbe trovate di qualche docimologo demente. La triste verità è che non ci si capisce niente: mancano docenti, cattedre si volatilizzano ed altre si materializzano, come in un vecchio film di Star Trek, i programmi non si capiscono, gli obiettivi, obiettivamente, sono alquanto vaghi e le competenze…beh, le competenze!

Insomma, è un maledettissimo imbroglio, questo accidente di inizio anno scolastico. E la buona scuola sembra sempre meno buona e, soprattutto, sempre meno scuola: sembra il parcheggio di un supermercato, un ufficio collocamento, una giostra di paese, un centro sociale, una clinica neuropsichiatrica, ma non sembra punto una scuola come ce la immaginiamo. Intendiamoci, alla fine le classi si formano, gli orari si incastrano, i supplenti suppliscono ed i docenti docentano (quest’ultimo verbo a pera l’ho inserito per permettere a qualche professoressa di lettere di conquistare il suo momento di gloria, segnalando al direttore che il verbo docentare, sia pure frequentativo, non esiste proprio): questo, per esclusivo merito di quei poveri disperati che si rovinano la salute cercando di mettere una pezza alle sesquipedali bischerate della burocrazia scolastica. Perché, vorrei che lo sapeste, la scuola, buona o cattiva che sia, sopravvive grazie alla pazienza e allo spirito di sacrificio di un manipolo di insegnanti e di dirigenti che, non del tutto immemori dei tempi antichi, in cui si era usi lavorare e far silenzio, si dannano per riparare i danni che un’impostazione criminale della pubblica istruzione infligge al buon senso e all’educazione dei nostri ragazzi.

La scuola, badalì, non è messa come dite voi, quando ne parlate maluccio, magari davanti al cappuccino, perché l’erede non ha capito una mazza di Eraclito e ha preso tre in filosofia: è molto peggio, è drammaticamente peggio. Questo Paese sta andando in malora per un’infinità di motivi e, tra questi, la scuola è il più grave, il più strategico, il più grottesco: la scuola dovrebbe essere il nostro futuro e, invece, è decisamente un trapassato. Nel senso più cadaverico del termine. Io mi sono un tantino stancato di fare diagnosi e suggerire medicine, però un ultimo tentativo lo voglio fare: siccome le cose vanno sempre peggio e, ai piani alti, cinguettano felici con imbarazzante incoscienza, voi che amate la scuola e che desiderate che i nostri figli ne escano, non si dice pronti alla vita, chè la prontezza uno se la deve sudare, ma quantomeno alfabetizzati, cercate di fare sentire la vostra voce.

E’inutile raccontarci tra noi, davanti al solito cappuccino, che la scuola fa schifo e, poi, non dire nulla e non fare nulla, quando chi la riduce così si inventa artagotiche scempiaggini ad ogni chiaro di luna. Sapete cosa ci vorrebbe? Un antisessantotto: una rivoluzione alla rovescia, che la facesse finita col cumulo di bischerate che si è andato ammassando sulla scuola, tra sperimentazioni e feticismi didattici, negli ultimi cinquant’anni. Capisco che sia un filo utopistico immaginare degli studenti che vanno in piazza a chiedere di studiare, a domandare ordine, selezione, meritocrazia: però, se le riforme, anziché riformare, demoliscono, al popolo non rimangono che le picche e le torce. Altrimenti, sciroppatevi le amarene ministeriali e i baci di dama provveditorali: beccatevi la buona scuola e mettetela in cornice, con le castagne e le foglie morte. Però, a questo punto, lasciatemi almeno bere il cappuccino in pace, senza piangermi sulla spalla perché Nicholas è ignorante come una rapa e Jessica scambia Garibaldi con Pippo Baudo.

 

 

 




Fusini (Ascom): “Con gli slogan e le ordinanze non si combatte il gioco patologico”

di Oscar Fusini*

Togliere le macchinette dalle tabaccherie e dagli esercizi commerciali, come ha annunciato il premier Renzi, non significa risolvere il problema del gioco compulsivo. Anzi, significa inasprirlo concentrandolo in ambienti che lo favoriscono. Il Governo intende spostare le entrate del gioco dai piccoli esercizi verso le sale giochi facendo così l’ennesimo piacere alle grandi concessionarie – desiderose di massimizzare i loro sforzi in grandi insediamenti che stimolino la domanda di gioco – ma penalizzando al contempo gli ambienti promiscui, dove il giocatore trova maggiori resistenze e, spesso, qualcuno che può consigliarlo di smettere. Orbene, o il nostro Paese intende veramente mettere al bando il gioco – ma il Governo ci deve dire come intende finanziare i tanti soldi che il gioco lecito rende allo Stato – o forse è meglio evitare di colpire solo il gioco lecito e coloro che di gioco sopravvivono. Con gli slogan e le ordinanze non si combatte il gioco patologico. Si mettano invece in atto azioni concrete di prevenzione, assistenza dei giocatori a rischio e sostegno alle loro famiglie. Meno proclami e maggiori progetti, perché finora non ne abbiamo visti.

*direttore di Ascom Confcommercio Bergamo




Un errore prendersela solo con le slot. Anche la Borsa è pericolosissima

Slot machineUna stretta sull’azzardo legalizzato appare come una velleità moralizzatrice che può al massimo nascondere un fenomeno, ma difficilmente lo può eradicare. Se anche le slot machine fossero vietate in tutto il territorio nazionale, ci sarebbe sempre, come c’è sempre stato, il gioco illegale, ci sarebbero i viaggi oltre confine, con Francia, Svizzera, Austria e Slovenia sempre disponibili a poche ore di auto, e ormai ci sarebbero i siti Internet internazionali dilaganti e difficilmente frenabili per continuare a spendere anche dal divano di casa.

Eppure su questo tema si insiste, con tenacia forse meritevole di altre battaglie, con un filo rosso che lega il sindaco di Bergamo Giorgio Gori al presidente del consiglio Matteo Renzi, andando oltre la comunanza partitica. La vicinanza politica, che si dice fosse una volta più salda di ora, si manifesta nella parallela lotta alle slot machine. A Bergamo l’ex manager di una Fininvest che sguazzava nei giochi a premi ha introdotto un regolamento che li vieta in determinati orari (Lotto, Superenalotto e affini esclusi, perché c’è azzardo e azzardo). Il problema è che nelle ore di coprifuoco basta uscire dal confine comunale e i vincoli scompaiono, con Seriate o Torre Boldone che diventano il nuovo paradiso delle slot, come una volta Capodistria o Innsbruck. Risultato del divieto: effetto mediatico, plauso dei benpensanti, danneggiamento di attività commerciali e giocatori praticamente come prima.

A livello nazionale, sull’ideale scia di Gori, ma più in grande, si muove ora il presidente del consiglio. Renzi ha preannunciato che intende mettere a punto una misura per togliere le slot da tabaccherie ed esercizi pubblici, una rottamazione in piena regola, senza peraltro far sapere se ci saranno indennizzi per chi ha investito nel settore.  L’obiettivo è arginare le ludopatie che ormai sarebbero arrivate a livello nazionale a coinvolgere più di 250 mila giocatori “patologici”. Riferendosi, sembra, solo all’azzardo e non a Pokémon Go o altri videogames dall’utilizzo compulsivo, ma che non comportano vincite in denaro.

Il problema però è che, scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, metà dei quattro miliardi e mezzo del gettito fiscale da slot deriva proprio dalle macchine collocate da tabaccai e locali pubblici. In pratica dare l’impressione di accontentare le anime belle del “no slot”, senza toccare comunque le sale giochi dove i ludopati potrebbero comunque continuare a dilapidare il patrimonio che vogliono, comporterebbe un mancato gettito di 2,2 miliardi. Dato che già non si sa bene dove si troveranno i 15 miliardi necessari per disinnescare l’aumento dell’Iva dal primo gennaio, mentre si dovranno fare i salti mortali per convincere l’Europa a concedere un po’ di flessibilità sui conti, viene da pensare che piuttosto che chiudere questa fonte di reddito, sarebbe il momento di allargarla. E qualcuno ci deve avere anche pensato dato che Renzi si è premurato di sottolineare che per finanziare la ricostruzione del dopo terremoto non verrà aumentato il costo della benzina, né appunto verranno allargate le maglie sul gioco d’azzardo e sulle slot.

Ma non allargare non richiede necessariamente di stringere, anche se si decide di andare su questo fronte fiscale in direzione contraria a tutta l’Europa e pure alla storia, dato che nello Stato Pontificio, che di morale dovrebbe intendersene, non c’erano scrupoli a tassare il Lotto e il meretricio, per ricavare le risorse per finanziare le opere pubbliche. Senza contare che “la tassa sugli imbecilli”, come la definiva con razionale oggettività il matematico Bruno de Finetti, è, secondo Camillo Benso di Cavour, l’unica forma di imposizione volontaria, e quindi accettata dal contribuente-giocatore. Certo, la ludopatia è un problema (ma anche la cirrosi epatica o il tumore al polmone conseguenze di altri vizi legalizzati non sono da meno): se si vuole affrontare il discorso seriamente, però, non si può prendersela solo con le slot machine, come strumento che rovina le persone, dimenticando che, chi vuole, può comunque giocarsi tutto alla roulette, al Lotto, ai gratta e vinci. O in Borsa, che può essere vista come una “bisca legalizzata” anche più pericolosa di una “mangiasoldi”.




Il salvataggio dei profughi e la geografia trasformata in opinione

canale di siciliaIn Italia, credo di averlo dimostrato abbondantemente, la storia è un’opinione: ormai, si racconta soltanto quel che ci fa comodo, taroccando o cancellando le cose che potrebbero, in qualche modo, intaccare la nostra manicheissima vulgata. Il problema è che, da un po’ di tempo a questa parte, per fini, diciamo così, commercial-umanitari, si sta cominciando a trasformare in opinione anche la geografia. Non ci rimangono che la matematica e l’educazione fisica, immuni da tentativi di manipolazione. Mi spiego, perché, altrimenti, rischiate di pensare che il caldo mi abbia dato alla testa. Dunque, il cosiddetto “Canale di Sicilia”, noto anche come “Canale di Tunisia”, a seconda del lato da cui lo si guardi, è come dice il nome stesso, il braccio di mare che separa la Sicilia dalla costa tunisina: è largo circa 150 km nel suo punto più stretto ed ha una delimitazione che lo definisce, più o meno tra Malta e il Mediterraneo a sud della Sardegna. Quello è il Canale di Sicilia, e non altri bracci di mare: per cui, se qualcuno sente dire che le navi italiane hanno raccolto dei naufraghi nel Canale di Sicilia, deve, per forza di cose, immaginarsi il salvataggio tra Capo Bon e Mazara del Vallo e non, chessò, al largo di Venezia. Questo, perlomeno, secondo geografia.

Invece, i nostri telegiornali, opportunamente imbeccati dai nostri governanti, ci raccontano, ogni tre per due, di formidabili operazioni di salvataggio avvenute nel Canale di Sicilia, a circa 10 miglia dalla costa libica: come dire che un pattino con due turisti norvegesi è stata recuperato nel Mar Ligure, a dieci miglia circa dalla costiera amalfitana. Perché le spiagge del Golfo della Sirte, sulla cui battigia, ormai, avvengono questi salvataggi, distano dalla Sicilia e dal suo canale circa settecento chilometri. Avete capito bene? Settecento chilometri: noi partiamo dall’Italia ed andiamo a raccogliere naufraghi sulla costa della Tripolitania. Un vero e proprio servizio a domicilio, che, oltre a rendere decisamente più confortevole la traversata ai migranti, offre l’indiscutibile vantaggio di favorire in maniera piuttosto clamorosa coloro che lucrano sul traffico di esseri umani. Non fraintendetemi: non sto parlando delle cooperative che, in Italia, si ingrassano grazie al flusso mastodontico di disperati che arrivano da noi via mare. Mi riferisco ai pirati che agiscono alla luce del sole, non a quelli travestiti da crocerossine: parlo dei malandrini che incassano un sacco di soldi dagli aspiranti profughi e, poi, non devono neppure fare la fatica di portarli in Italia, visto che ci pensa la nostra Marina Militare. Come direbbe il Milo Minderbinder di “Comma 22”: così ciascuno ha la sua parte. Gli unici che ci smenano siamo noialtri, ma cosa volete che conti, di fronte all’immane e glorioso progetto di trasbordare un continente?

Insomma, stando così le cose, io proporrei ai nostri governanti di essere realistici: dato il flusso pressoché quotidiano di gente che sbarca in casa nostra e data l’evidente volontà di non mettere alcun freno ad un fenomeno tanto redditizio per qualcuno, perché non istituire un regolare servizio di traghetti, che, un paio di volte al giorno, colleghi il golfo sirtico con i principali porti siciliani? Si tratterebbe, semplicemente, di Realpolitik: un po’ come legalizzare la droga, perché tanto la gente si droga comunque, o abolire certi reati, perché tanto li commettono quasi tutti. In questo modo, la Marina tornerebbe ad occuparsi di cose militari. Le cooperative e le associazioni umanitarie potrebbero pianificare esattamente le proprie entrate ed organizzare investimenti, aumenti di capitale, magari quotarsi in borsa. I giornalisti potrebbero tornare a raccontare panzane sull’economia o la cronaca, lasciando in pace la geografia. Certo, regolarizzare gli afflussi per mezzo di una linea di traghetti significherebbe anche togliere a tantissimi sepolcri imbiancati della nostra politica l’occasione per farci il solito pippone sui morti in mare, sulla guerra e la disperazione, sul nostro dovere di samaritani: ma non è detto che questo, per la collettività, sarebbe un danno.

E, poi, volete mettere lo stile? Anziché dover girare le solite scene del gommone, si potrebbero confezionare dei video sul tipo di quelli delle navi da crociera: ordinate colonne di clandestini, tutti col loro giubbotto arancione e la bandierina italiana in mano, che salgono su qualche candido traghetto della Siremar o della Tirrenia, ci riscatterebbero in un sol colpo da tutti gli Schettino della nostra storia marinaresca! Perché, cari i miei lettori, voi ed io siamo abituati ad essere spremuti come limoni, pur sapendo che i nostri soldi, lungi dal servire ad aiutare chi non ce la fa, finiranno sprecati da qualche mammalucco che si crede Napoleone: sopportiamo tasse inique, servizi scandalosi, ignominiose ingiustizie: però, essere presi per i fondelli anche in geografia, porca l’oca, quello è davvero troppo! Che la chiamino Triton, Syren o Dugongo, questa operazione è geograficamente, prima che politicamente, grottesca: e che ci siano mezzibusti e mezzebuste che, col sorriso sulle labbra o con la peppa di circostanza, ci raccontino che il Canale di Sicilia comincia a Gibilterra e finisce in Egitto, è faccenda sanguinosamente offensiva per i nostri cervelli. Pagare, paghiamo: ma non fateci il torto di trattarci da poveri scemi, perché, il giorno che a qualcuno salterà la mosca al naso e vi butterà a mare, vedrete che differenza c’è tra guadare un fosso ed attraversare un oceano…




Il baratto tra occupazione e tasse e la figuraccia della Apple

Tim Cook
Tim Cook

Tredici sono i miliardi di euro che, secondo la Ue, Apple deve versare per tasse non pagate all’Irlanda (che, per inciso, in maniera incomprensibile non li vorrebbe anche se rappresenterebbero per Dublino alcuni anni di manovra). Per fare un confronto, sono in tutto quindici i miliardi che secondo il ministero dell’Economia, l’Agenzia delle Entrate dovrà incassare nel prossimo triennio dall’evasione secondo la convenzione 2016-2018 presentata nei giorni scorsi. Visti in proporzione non è ben chiaro quale sia la somma più clamorosa (e quindi lo “scandalo” maggiore), dato che da una parte c’è la più grande azienda del mondo che attraverso un accordo con uno Stato (però non del tutto sovrano su questa materia) ha cercato una scappatoia per non pagare le tasse in Europa e dall’altro c’è l’importo obiettivo di ben tre anni di lotta all’evasione nei confronti di tutte le aziende attive in Italia. Dove peraltro a dicembre era stato raggiunto un accordo proprio con Apple, che di fronte alla contestazione per tasse eluse dal 2008 spostando formalmente i ricavi in Irlanda, aveva ottenuto l’impegno di pagare 318 milioni di euro. L’intesa all’epoca era stata vista da altri Paesi con invidia e ammirazione, ma forse a questo punto è stato effettuato al ribasso, all’insegna del “pochi, maledetti e subito”. In quei 13-15 miliardi così diversi e così uguali che accomunano Irlanda e Italia c’è però un altro elemento di similitudine nella giustificazione. L’autoriduzione delle tasse, nel caso di Apple dietro un paravento almeno all’apparenza più legale rispetto alla plateale evasione fiscale, viene presentata come una necessità per dare lavoro.

L’Istat alla fine del 2015 aveva stimato in 206 miliardi, quasi il 13% del Pil nazionale, il valore dell’economia sommersa e illegale (dove rientrano sottodichiarazioni e lavoro nero, ma anche droga, prostituzione, contrabbando e altre attività non lecite), con oltre 3,5 milioni di “lavoratori” irregolari. Tutte persone che non è chiaro se siano già contate nelle rilevazioni sulla disoccupazione, come è probabile, o che se, in un’ipotetica scomparsa dell’economia sommersa, gonfierebbero ulteriormente le liste del collocamento. Di sicuro la presenza del “nero” altera le statistiche sul lavoro, non è invece certo, come alcuni ventilano, che sia grazie al “sommerso” che la disoccupazione viene contenuta, riconoscendo indirettamente all’illegalità un immotivato valore sociale. La stessa deformazione che si sente ripetere nella scusa dell’imprenditore pizzicato: non riuscivo ad andare avanti con tutte quelle tasse. Da qui il sillogismo che per lavorare e dar lavoro l’evasione è una necessità. E quasi sempre si trova il mass media compiacente o poco pensante che avalla il ragionamento, senza considerare le conseguenze: o tutte le aziende per dare lavoro devono evadere il fisco – e allora l’obiettivo dei 15 miliardi da recuperare in tre anni è ridicolo – oppure ci sono aziende che riescono a creare occupazione in maniera regolare e che quindi subiscono concorrenza sleale, con il rischio di essere messe fuori mercato dalle imprese disoneste che giustificano con la necessità di dovere evadere le eccessive tasse la loro incapacità di gestione o almeno la maggior brama di profitto. Se questo resta ingiustificabile, ma può essere comprensibile, in attività di piccolo cabotaggio, è paradossale che il tema del baratto tra occupazione e tasse basse o nulle venga posto da Apple, colosso dell’innovazione che di queste scorciatoie non dovrebbe avere bisogno. Eppure è quello che ha fatto Tim Cook, reagendo in maniera isterica e ventilando la perdita di posti di lavoro e il ritiro degli investimenti in Europa. Il vero mistero però è l’Irlanda che a questo punto avrebbe barattato la rinuncia a 13 miliardi di euro con i 5.500 posti che Apple ha nel Paese: in pratica due milioni e mezzo per occupato. Non proprio un grande affare. E che anche Apple poteva in fondo risparmiarsi, evitando con la rinuncia a un po’ di utili (i profitti netti del suo solo ultimo anno fiscale hanno superato i 53 miliardi di dollari) di perdere la faccia.




Troppi giudizi parziali, così declina la nostra convivenza civile

scuolaL’idea che ci sia un giudice, a Berlino come altrove, ci rassicura da almeno trecento anni: da quando è stato introdotto il moderno concetto di diritto, se ci fate caso, tutta la nostra esistenza si è fondata sulla pacificante illusione che qualcuno valuti equamente e decida di noi e dei nostri rapporti con il mondo esterno. Ci sono maestri e professori che giudicano del nostro impegno e della nostra vocazione per le lettere o per le matematiche, confessori che misurano il nostro grado di probità, psicologi che ci dicono se e quanto siamo felici, colonnine arancioni che ci informano circa il nostro rispetto dei limiti di velocità e così via. Insomma, la nostra vita è costantemente monitorata e, quando necessario, riallineata da dei giudici, che, imparzialmente, ci assegnano palline bianche o palline nere, ci fanno avanzare o retrocedere, ci ammoniscono o ci premiano. Le suocere, in un certo senso, sono, a loro volta, giudici succedanei, se rendo l’idea. Tutto questo, come ogni trovata di origine illuminista, è molto bello, utile ed appagante, in teoria, salvo scontrarsi con la dura realtà: maestri e professori che scaricano sugli alunni le proprie personalissime nevrosi, confessori che abusano della catechista, psicologi che si inventano farneticazioni proiettive e colonnine arancioni che servono solo a fare cassa, non contribuiscono certamente a consolidare la nostra fiducia nei giudizi e nei giudici. E massime in un posto come l’Italia, in cui il grado di clientelismo, di corruzione e di imbarazzante lassità morale raggiunge picchi da manuale.

Dunque, la questione non è più quella della presenza o meno di un giudice, a Berlino come altrove, ma quella della credibilità del giudice. Non mi riferisco, naturalmente, solo alla magistratura, ossia ai giudici deputati e stipendiati allo scopo di difendere il diritto ed applicare la legge, sibbene a tutte le figure il cui compito, istituzionale o tradizionale, sia quello di esprimere giudizi. Che dire di insegnanti, ad esempio, che, in sede di scrutini o di esami di maturità, operano in modo irrituale (e sono buono usando questo aggettivo) per farla pagare agli studenti che stanno loro di traverso? E che dire di concorsi pieni di errori, di manipolazioni, di pasticci, che devono essere rifatti ogni volta per vizi formali e sostanziali? Qualche dubbio ci viene, non è vero? E questo dubbio, questa idea che la legge non sia mai uguale per tutti, che a me per uno scontrino da due euro diano un multone e a te, per una truffa milionaria, non facciano niente, è come un tarlo, che corrode la nostra fiducia nella società, nello Stato, nella gente che ci circonda. E’ la morte dell’idea comunitaria di istituzioni. Ognuno, perciò, vive nel sospetto di essere gabbato: guarda al proprio vicino come ad un potenziale competitore, chiedendosi di quali appoggi goda, chi lo abbia raccomandato, a chi si sia rivolto. E’ la società clientelare, che si contrappone alla società del diritto, casomai volessimo dare un nome alle cose.

Anche a me, nel mio piccolo, è capitato mille volte di scontrarmi con questa bruttissima realtà: giudici che danno ragione ai ladri, in quanto enfants du pays e torto al forestiero che ha dalla sua la legge, professori che insufflano nel collega che ti deve esaminare pregiudizi devianti, vigili che si mostrano implacabili verso la tua pagliuzza e malleabilissimi verso le altrui travi…eh, cari miei, troppe ne ho viste. E chissà quante ne avrete viste voi! In definitiva, è come se sapere che, a Berlino come altrove, ci sia un giudice non ci bastasse più: non ci fidassimo più del criterio con cui chi ci giudica viene scelto ed opera. E capirete che non è una bella sensazione. Però, così stanno le cose: questo è il punto di arrivo di una lunghissima catena di impercettibili cedimenti etici. Un poco alla volta, il cittadino comincia a smettere di credere che esista un sistema virtuoso, basato sulla semplicissima regoletta del “chi ha ragione vince”, “chi merita passa”, “chi rispetta è rispettato”, e si addentra, suo malgrado, nella jungla del “chi ha la raccomandazione più forte vince”, “chi imbroglia passa”, “chi è forte è rispettato”: in questo modo, la società civile diventa una società mafiosa, piano piano, a piccolissimi passi. E le reazioni del nostro bravo cittadino possono essere solo due: o cerca di opporsi alla fanga che gli sale lungo i polpacci, e allora vivrà una vita di rabbie e di delusioni continue; oppure si adegua, si attrezza, cerca di ritrovare nell’agenda il numero di telefono di quel suo compagno delle medie che adesso fa il sostituto procuratore, contatta l’amico primario per saltare anche lui la fila, raccomanda il figlio al dirigente scolastico che gli deve un favore.

La ‘descalation’ dalla Scandinavia all’America Latina avviene così: un cittadino alla volta. Ti affidi a giudici che ti fregano una, due, tre volte, finché non ne puoi più e, anziché ad un giudizio nella cui imparzialità e serietà non credi più, ti affidi alla protezione di un padrino. E l’Italia è piena di questi piccoli e grandi padrini: di gente che ti dice “ci penso io”, “lascia fare a me”. Professionisti, funzionari, politicanti, che, con aria paciosa e col sorriso dell’amico vero ti oliano le serrature, ti tengono aperta la porta. Nulla di penale, come dicono in televisione: no certo, nulla di penale, ma moltissimo di morale. I danni che derivano alla qualità della nostra vita civile da questo andazzo e dall’assoluta sfiducia in figure terze che diano dei giudizi universalmente accettati, basati su criteri di imparzialità e serietà, sono enormi e, temo, irreparabili. Perché questo personalismo, questo egoismo trasformato in sistema, mina alle radici l’idea stessa di convivenza civile: ci ributta indietro di secoli, quando la libertà non era un diritto limitato solo da altri diritti, ma un privilegio, concesso da un potente ad uno meno potente. E quel sistema si chiamava feudalesimo.




Brebemi ha la memoria corta e i conti sul traffico non tornano

Brebemi - CopiaLa verità, anche se a fatica, si fa sempre strada. Specie se viaggia su un’auto(strada) semideserta come la Brebemi. Basta solo avere un poco di pazienza, conservare qualche articolo di giornale e il gioco di sbugiardare chi si ostina a raccontarci una realtà virtuale, cioè quella di un’arteria in costante crescita di traffico in netto stridore con la semplice osservazione delle corsie solcate da sparuti mezzi, è facilissimo. Perché solo i superficiali, o gli addetti stampa mascherati da cronisti, possono credere all’ultima comunicazione fatta filtrare nei giorni scorsi dai vertici della società concessionaria dell’autostrada che collega Brescia con Milano. O meglio, se vi credono, e adesso ci spieghiamo, devono anche spiegarci come i numeri di oggi si conciliano con quelli diffusi lo scorso anno.
Andiamo con ordine. Brebemi ci ha fatto sapere che nel giugno 2016 i flussi di traffico sono risultati in crescita del 40 per cento rispetto a dodici mesi prima. I veicoli teorici medi giornalieri sono passati da 11.966 a 16.211 (per un numero di transiti pari all’incirca al doppio). Bene, anzi benissimo. L’autostrada eppur si muove. Ma, appunto, vediamo se c’è coerenza con quanto raccontato in passato. Nel luglio del 2015, per esempio, in una intervista al Corriere di Brescia il presidente di Brebemi, Franco Bettoni, da sempre impegnato (anche comprensibilmente) a difendere ad oltranza la sua “creatura”, spiegava che il traffico cresceva del 2 per cento a settimana (!) e che si contava di arrivare a fine anno (2015, si badi) a 20 mila veicoli. Altre cifre, tutte dello stesso tenore ottimistico, diciamo così, sono state propalate nei mesi seguenti.
Orbene, anche un bambino che frequenta la quinta elementare è in grado di verificare che i conti non tornano. Non tornano, anzitutto, tra quanto dichiarato ieri e quanto spiegato oggi. Non per colpa della stampa cattiva, dallo stesso Bettoni pure accusata di essere manovrata da fantomatici burattinai, ma della società concessionaria che, come tutti quelli che raccontano favole, si è dimenticata di mantenere un minimo di coerenza fra tutte le sue uscite pubbliche. E non tornano soprattutto se si guarda al futuro dell’autostrada. Anche qui ci era stato spiegato che nel giro di poco tempo Brebemi avrebbe dovuto raggiungere volumi di traffico di 40 mila veicoli al giorno con punte di 65 mila. Se dopo due anni, pur in attesa del collegamento diretto con la A4 dal quale ci si attendono (chissà perché) miracoli, non si raggiungono nemmeno i 20 mila, beh, far quadrare i conti sarà sempre più duro. E lo spauracchio di una consegna dei libri contabili in tribunale sempre più concreto.
Sia chiaro, l’opera c’è e per quanto ormai appaia evidente anche ai più duri di comprendonio che è largamente sovradimensionata (con quale consumo di territorio è inutile sottolineare…) ce la dovremo tenere. Solo che, nata come opera integralmente a carico dei privati, rischia di finire sul groppone dello Stato. Già sono stati versati oltre trecento milioni di denaro pubblico a fondo perduto, in aggiunta all’allungamento della concessione. Ma ora il timore è che gli attuali concessionari siano costretti, a dispetto del loro inguaribile ottimismo, a dichiarare forfait. E allora interverrà Pantalone a ripianare tutto e a gestire il carrozzone. Un film già visto, per carità. Peccato che ci era stata proposta una pellicola da oscar.