Ecco perché terrei i musulmani lontano dalle chiese

Ci sono tanti modi di andare a remengo: un attimo prima sei lì ad incazzarti per una multa ed un attimo dopo sei steso in una bara, con le beghine che belano “Io credo, risorgerò…”. C’è chi schiatta esattamente come è vissuto e chi, invece, interpreta la propria morte come una sorta di rivincita: come se, oltre a tirare la gambetta, gli venisse anche il braccio ad ombrello. Ma, tra le millanta maniere di danzare l’ultima giga, la peggiore, la più stupida, la meno, funereamente parlando, sensata, è quella di morire facendosi prendere per i fondelli. E pare sia questa la fine che la civiltà occidentale ha scelto per sé, nei confronti dell’Islam. Per carità, le civiltà finiscono: i Maya come gli Assiri, probabilmente, pensavano di durare in eterno o, più probabilmente, nemmeno si ponevano la questione. Fanno lodevole eccezione gli antichi norreni, che, forse per via del clima, ritenevano caduche perfino le proprie divinità, tanto da farle perire in una specie di gran battaglia finale tra il bene ed il male: il re dei loro dei sarebbe finito tra le fauci del gran lupo Fenrir, e tanti saluti. Però, consentitemi, c’è modo e modo di tramontare: un conto è un bel Götterdämmerung e altro è mettere la testa sul ceppo, sorridendo al mamelucco che affila la scimitarra, mentre canticchia “Noi saremo sempre amici…”. Amici un par di palle!

Da quando l’Islam si è trasformato da religione per beduini in cerca di unità in energia propulsiva, ha sempre cercato di fare le scarpe ai suoi due concorrenti principali: l’ebraismo ed il cristianesimo. Con l’ebraismo, ha avuto vita relativamente facile, dati i numeri: col cristianesimo, dopo una prima, clamorosa, espansione, che ha portato fino in Francia l’insegna verde del Profeta, c’è stato qualche problemino in più. Questo problemino passa per Poitiers, si organizza dalle parti di Clermont-Ferrand, prosegue per Lepanto ed arriva alle porte di Vienna, con qualche intermezzo bizantino. Insomma, sono, più o meno, quattordici secoli che ce le suoniamo di santa ragione, con delle pause di scambi culturali, di reciprochi salamelecchi e di qualche convivenza commerciale: la storia dei rapporti tra Islam e cristianesimo è questa e non altre. La fiaba dell’ecumenismo, del siamo figli dello stesso Dio, del relativismo monoteista, è cosa recente, come Standard & Poors o i Pokemon. E non mi pare che funzioni: da una parte ci sono le pecore e dall’altra i lupi, il che non aiuta a stabilire rapporti basati sulla reciprocità. E dire che la guerra è una cosa, mentre la religione è cosa affatto diversa è, lasciatemelo dire da storico militare, una bischerata inqualificabile: da Gilgamesh in poi, se c’è stato un catalizzatore formidabile per produrre, giustificare e portare a termine delle guerre, quello è stato la religione. La storia, d’altronde, è zeppa di “Deus lo vult”, “Gott mit uns” e “Montjoie!”. La grande novità, a parte questa scemenza sulla religione e la guerra, è che, adesso, per dimostrare che i musulmani sono buoni e ci vogliono bene, li facciamo venire in chiesa ed assistere alla messa: il che mi pare castroneria vieppiù colossale.

Questo per due ragioni: la prima è che, se i  musulmani vogliono dimostrare solidarietà ai cristiani, possono farlo ogni giorno, denunciando gli estremisti, comportandosi da bravi ragazzi e, magari, andando in piazza a manifestare, anzichè in chiesa a girar le spalle al prete o a predicare sure del Corano in arabo ad un pubblico di fedeli al quale, nella lingua del Profeta, si potrebbe anche ripetere “uno, due, tre, quattro”, che sarebbe lo stesso. La seconda, assai più sostanziale, riguarda noi e loro: anzi, noi e il mondo. Perché, vedete, noi europei (e noi Italiani in particolare), veniamo visti dai cittadini del cosiddetto Terzo Mondo come dei perfetti cretini: gente senza palle e credulona, disposta a sorridere benevolmente e a farsi fregare a mani basse. E il Corano, nei confronti di noialtri, infedeli e fessi patentati, prevede, come strumento del tutto normale ed accettato di dialogo, la Taqiyya (anche Kitman), che starebbe, più o meno (anche le parole arabe, spesso, sono ambigue e dal significato bifronte) per una menzogna detta nell’interesse dell’Islam. L’interesse, di solito, consiste nell’infiltrarsi nella Dar-al-Harb (la “casa della guerra, ossia noi), per indebolire le forze del nemico attraverso la dissimulazione. Come dire che si è moderati, che i terroristi non sono veri musulmani, che non si è informati, che si interpreta male e via discorrendo. Intendiamoci, è verissimo che in Occidente regni la più grossolana disinformazione: questo, però, va spesso a vantaggio proprio della Taqiyya, dato che è uno degli argomenti fondamentali usati per confondere le idee all’avversario. Può essere che tutto questo non esista più, naturalmente: che l’Islam sia radicalmente cambiato e che la Taqiyya se ne sia andata in soffitta, insieme ai Mamelucchi e alle scimitarre. Però, può darsi anche di no: può darsi che ci stiano ingannando, sfruttando la nostra bolsa mancanza di energia e la nostra crisi di identità. Io, nel dubbio, almeno dalle chiese li terrei lontani.

 

 




Banche e stress test, perché esultare è un po’ fuori luogo

montepaschi_1217Esultare per il superamento degli stress test da parte di quattro istituti italiani su cinque appare un po’ fuori luogo, essenzialmente per due ragioni. Prima di tutto perché, capovolgendo il discorso, i risultati peggiori, tra 51 banche europee, sono proprio di un istituto italiano, Montepaschi, l’unico che in caso di mercato avverso finirebbe addirittura con capitale sottozero.  E in secondo luogo perché anche un’altra promozione, quella di Unicredit, è stata così di misura, collocandola al quarto peggior posto d’Europa, che pone inevitabilmente la necessità di una ricapitalizzazione, per altro già ventilata, seppure per un importo non definito, ma che potrebbe arrivare a 5 miliardi, per irrobustire il patrimonio. Il nodo principale però è quello del Montepaschi, che ha presentato un piano di risanamento approvato sulla carta, anche dall’Europa, ma che deve passare dalla teoria alla pratica. Si basa essenzialmente su un aumento di capitale da 5 miliardi e sulla cessione di un portafoglio di sofferenze per 27 miliardi a un veicolo di cartolarizzazione per 9,2 miliardi, pari al 33% del valore lordo. Considerato che il Monte dei Paschi ha un tasso di copertura vicino al 66%, ovvero ha già accantonato perdite, svalutando le sofferenze di due terzi del valore nominale, la partita delle sofferenze si dovrebbe chiudere  con questa cessione senza produrre ulteriori perdite. Ma non è detto che un istituto a questo punto con i crediti in ordine sia appetibile per investirvi.

Quando un istituto chiede di punto in bianco cinque miliardi e in Borsa ha una capitalizzazione di un miliardo è chiaro che c’è molto che non sta andando. Non sarà facile trovare, insomma, investitori disposti a mettere soldi in una banca che sarà anche storica, ma non è ragionevolmente in grado di assicurare rendimenti adeguati all’impegno richiesto e non lo sarà per molto tempo.  Lo stesso problema del resto si sta registrando per trovare l’acquirente delle quattro banche oggetto della risoluzione di novembre (Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti), dove pure i bilanci sono stati completamente puliti a spese del sistema con un costo dal quale, in base alle proposte arrivate finora, difficilmente rientrerà. Gli ultimi aumenti di capitale bancari non sono peraltro andati bene. E’ riuscito quello del Banco Popolare da un miliardo richiesto dalla Bce come premessa per l’unione con Bpm, ma in quel caso la ricapitalizzazione non era legata a necessità di salvataggio. Sono stati dei flop invece quelli della Popolare di Vicenza e di  Veneto Banca, conclusi entrambi con l’intervento urgente da parte del fondo Atlante, che ne ha dovuto prendere il controllo.

Ma i precedenti non sono buoni per Mps anche solo guardando alla sua storia. Per la quinta volta in otto anni, dall’acquisizione di Antonveneta, che ha scatenato buona parte dei problemi attuali, Montepaschi chiede soldi ai soci, con operazioni che progressivamente hanno completamente stravolto l’azionariato, man mano che i vecchi proprietari (a partire dalla Fondazione) hanno passato la mano, diluendo la quota ad ogni richiesta non soddisfatta. Con questi ultimi 5 miliardi, il conto supera i 20 miliardi, ma nonostante questo il valore della banca attualmente non arriva, come detto, al miliardo. Aggiungendo ai cinque miliardi di Mps i probabili cinque di Unicredit, le banche italiane insomma chiederanno 10 miliardi in poco tempo ad azionisti generalmente delusi dai risultati: non è quindi scontato che vi sia una disponibilità nazionale a investire. Diverso può essere il discorso internazionale: in questi giorni si parla ad esempio di un interesse della cinese Fosun per Bcp, banca portoghese in difficoltà. Non si può escludere che da Pechino si possa guardare anche alla finanza italiana. Nonostante tutte le difficoltà, in ogni caso, magari con l’aiuto internazionale, non necessariamente cinese – Montepaschi e soprattutto Unicredit sono comunque sempre tra i primi gruppi non solo italiani  – è possibile che alla fine una soluzione la troveranno.

Il problema è che neanche allora saranno esaurite le criticità del sistema nazionale. Oltre alle quattro banche della risoluzione già citate, si devono ancora sistemare i crediti inesigibili nei due istituti del Nord Est, Popolare Vicenza e Veneto Banca salvati dal fondo Atlante, e di Carige. Più in generale, considerando anche quelli di Montepaschi, nel sistema ci sono circa 200 miliardi di sofferenze lorde, che scendono a circa 85 miliardi se si considerano quelle nette (la differenza, 115 miliardi rappresentano poste di bilancio sottratte negli anni agli utili per assicurare accantonamenti , o perdite di valore già spesate). E una volta risolto il problema patrimoniale si potrà anche metter mano a quello della redditività che, si vedrà nelle semestrali in questi giorni, negli ultimi anni è stata drenata proprio per cercare di risolvere le questioni delle sofferenze e degli adeguamenti richiesti dall’Europa. Insomma, forse ci sarà da esultare, ma non è ancora il momento.




Renzi, l’Italicum e le riforme: così l’aspirante statista è finito nell’angolo

renzio2.jpgPovero Renzi. Ormai è accerchiato. Nel giro di nemmeno una settimana ha dovuto incassare prima l’invito a rivedere la nuova legge elettorale, il famigerato Italicum, nientemeno che da Giorgio Napolitano, il padre “occulto” del grande (!) disegno riformista del Giovin signore fiorentino, e poi lo stop dell’attuale inquilino del Quirinale, Sergio Mattarella, che per far capire che bisogna smetterla di giocare con le istituzioni ha violentato il suo linguaggio incartapecorito evocando proprio l’ultima moda ludica, i Pokémon.
Ecco perché improvvisamente il ciarliero premier si è ammutolito, ecco perché da giorni si arrabatta, così narrano i retroscenisti più compiacenti, alla ricerca del modo migliore di uscire dalla trappola che con invidiabile spreco di presunzione s’è costruito da solo. Il referendum immaginato come suggello di una svolta epocale ogni giorno di più sembra destinato a rappresentare la tomba della carriera di un giovane di belle speranze, e di qualche innegabile virtù, che a furia di trattare la politica, con le sue poco piacevoli ma ineludibili regole, come una “narrazione” ha smarrito il senso della realtà, la misura delle cose, quell’equilibrio da cui non si può prescindere quando si è chiamati a governare un Paese (ahinoi, cosa leggermente più complessa che fare il sindaco di una pur importante città).
Il mix tra riforma costituzionale e nuova legge elettorale è considerato indigeribile per un vastissimo schieramento. Perfino tra quanti non sono pregiudizialmente ostili a Renzi, da Eugenio Scalfari a Carlo Debenedetti passando per Giovanni Bazoli, è tutto un fiorire di inviti a rivedere radicalmente la legge elettorale,   pena un No secco al referendum di ottobre-novembre. Il giovanotto toscano finora ha opposto fiera resistenza, ma da quando la stroncatura dell’Italicum è arrivata anche da Giorgio Napolitano (curiosa e tardiva resipiscenza per quello che viene definito, da una folta platea di laudatores a comando, come un genio della politica e uno statista inarrivabile…) ha cominciato ad avvertire gelidi brividi alla schiena.
Ed ora, ci raccontano i cronisti ventriloqui, il presidente del Consiglio sta cercando come arrivare ad una modifica della legge senza farlo capire agli italiani. Ammesso che ci riesca, e probabilmente l’escamotage si troverà nel paese degli arzigogoli, sarà dura che riesca a salvargli la ghirba. Perché il gioco è troppo scoperto. Che l’Italicum fosse discutibile, se non proprio pessimo, era chiaro a molti. Ma finchè era funzionale al consolidamento del potere del Giovin Signore nel Paese del conformismo utilitaristico nessuno osava aprire il becco. Adesso che si è capito che l’Italicum potrebbe consegnare la chiave della stanza dei bottoni al Movimento 5 Stelle, ecco che d’incanto urge una correzione. Ma, appunto, cambiarlo perché pare favorire un altro partito non fa altro che offrire straordinari argomenti proprio a quel partito (o Movimento che dir si voglia).
Ergo, Renzi si trova in questa simpatica situazione: se tiene ferma la posizione gli voltano le spalle anche gli amici; se cambia idea, forse mantiene qualche consenso, ma in compenso darà una ragione in più per votargli contro a chi pensa che le sue riforme altro non sono che un maldestro tentativo di autoperpetuarsi a Palazzo Chigi. Forse solo il mago Houdini potrebbe sgusciar fuori da questa tenaglia con nonchalance. Vedremo cosa saprà inventarsi il nostro premier. Di certo è arrivato al bivio: di qua c’è il proseguimento e il consolidamento di un percorso fin qui indubbiamente brillante, di là la fine (politica) bruciante e repentina di un uomo, l’ennesimo, consumatosi nell’illusione che basti dar sfogo alla propria smodata ambizione per iscriversi tra i salvatori della Patria.




Social card: la Germania insegna, l’Italia sceglie il solito pastrocchio

sia social cardIn Germania, Paese che ha conti ben migliori e un debito pubblico ben inferiore rispetto all’Italia, il ministro per la Famiglia, Manuela Schwesig, ha presentato un piano di sostegno che destina 300 euro al mese per due anni ai giovani genitori che decidano entrambi di ridurre l’orario di lavoro settimanale a 28-36 ore (cioè l’80-90% di quello fissato per legge) per dedicarsi ai figli minori di otto anni. Ma il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, lo ha cestinato dopo appena due giorni perché la spesa totale prevista dal provvedimento, stimata in un miliardo di euro, è troppo costosa. Inoltre è ritenuta controproducente dal punto di vista economico, perché, secondo Schaeuble, la priorità non è aumentare le sovvenzioni sociali alle famiglie, ma piuttosto aumentare i posti negli asili nido a tempo pieno, creando così nuovi posti di lavoro e più crescita, tanto più che la Germania si trova a fare fronte a una carenza di forza lavoro specializzata. Sembra che il progetto sia destinato a entrare nel programma socialdemocratico per le elezioni politiche dell’anno prossimo, ma al momento non se ne fa nulla.

In Italia invece, dove i conti sono ben peggiori e il debito pubblico ben superiore a quello della Germania, non è una proposta, ma un annuncio l’arrivo da settembre di una social card destinata a un milione di famiglie considerate povere, in condizioni di difficoltà con minorenni a carico.  Si chiama Sia, Sostegno per l’Inclusione Attiva e prevede un sussidio medio di 320 euro mensili (fino a un massimo di 400 euro), con un fondo iniziale per il 2016 di 750 milioni di euro (valido quindi solo per arrivare a fine anno), con l’obiettivo del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, di un raddoppio del budget a 1,5 miliardi per il 2017 quando sarà attivo il reddito d’inclusione previsto nel ddl Povertà. Condizione necessaria per ottenere il beneficio è l’adesione a un progetto di «accompagnamento», obiettivamente dall’incerta definizione. Per inciso, il Sia, una carta di pagamento elettronica che ricorda la Social card di Tremonti, non è una pensata di questo governo, perché è stato ideato da Enrico Giovannini, ministro del Welfare con Enrico Letta, e sperimentato in 12 grandi città. Non è quindi un problema di questo governo, ma un problema strutturale nazionale quello di destinare le poche risorse a provvedimenti indiscutibilmente suggestivi e di civiltà, ma che non ci si può permettere.

Non è sempre stato così. Nel 1966 il repubblicano Ugo La Malfa, che era nato in Sicilia e non ad Amburgo, aveva presentato un emendamento (accettato dal Parlamento) al piano di programmazione economica che rinviava l’introduzione della tv a colori al decennio successivo (debuttò poi nel 1977) perché sosteneva sostanzialmente che gli italiani non erano nelle condizioni di affrontare questo lusso superfluo che tra l’altro avrebbe aumentato gli acquisti di prodotti dall’estero, dato che in Italia non si producevano all’epoca televisori di questo tipo, per 1.000 o 2.000 miliardi di lire, contribuendo a uno sbilancio della bilancia commerciale. Manca adesso, nella politica, la responsabilità di scelte impopolari o comunque “non piacioni”. Indubbiamente ogni governante è molto più gratificato nel disporre regalie che nell’effettuare tagli o chiedere soldi ai contribuenti. Ma bisogna avere anche il coraggio di prendere decisioni adeguate alla situazione e spendere quello che si può spendere (c’era una volta la copertura di bilancio….). Soprattutto se c’è il rischio di arrivare alla donazione a pioggia e fuori bersaglio.

Di fatto l’unica voce contraria indiretta è arriva dalla presidente dell’Inps, Tito Boeri, che ha ricordato in occasione dell’audizione sul disegno di legge fiscale a sostegno delle famiglie, che le detrazioni Irpef per figli a carico oggi spettano anche alle famiglie più ricche, mentre restano scoperti i nuclei con redditi molto bassi. Risulta infatti che «quasi il 20% dell’ammontare delle detrazioni spetta ai nuclei appartenenti agli ultimi tre decili di reddito familiare lordo equivalente», quindi alle famiglie più benestanti. Al contrario non si usufruisce delle detrazioni in caso d’incapienza, ovvero quando l’ammontare di imposta lorda dovuta risulta più bassa della detrazione che spetta. Se si aggiunge poi che chi evade le imposte può risultare più povero di chi lo è veramente, ipotesi come la social card richiederebbero molta attenzione perché i sussidi non finiscano dove non dovrebbero, proprio perché, purtroppo, l’Italia non è la Germania non solo nello spendere quello che non potrebbe permettersi.

 

 

 

 




Così, tra mille finte verità, ci ritroviamo nell’universo paralizzato

Il ministro dell'Interno, Angelino Alfano
Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano

Se lo chiedeva Pascoli, quando il suo Odisseo, pieno di dubbi e di stanchezza, giunse in vista dello scoglio delle sirene, immobili ed indifferenti al destino degli uomini. Se lo domandò Francesco Guccini, nell’enigmatico meriggio della sua ‘Bambina portoghese’. E mille altri con loro, se lo chiedono, ancora oggi, con sempre maggiore insistenza, con sempre minore speranza: qual è il vero Vero? In questo universo caotico di rumori ed immagini, come si fa a distinguere la verità tra le mille finte verità? Come spesso accade, l’ambizione positiva dell’uomo viene frustrata dall’esperienza delle cose: la gigantesca rete di comunicazione che è stata resa possibile dalla tecnologia non ci ha restituito più certezze, ma più dubbi. Al silenzio, come tecnica elusoria, si è semplicemente sostituito il concerto di mille frastuoni: ma l’esito è lo stesso, ingannare l’opinione pubblica. E, in questa colossale zona grigia, tra la realtà e la finzione, tra l’inganno e la verità, nuotano, apparentemente a bell’agio, malfattori ed imbroglioni, tutelati dagli scrupoli, del tutto comprensibili, di chi non vuole condannare senza sapere e non può sapere perché non c’è modo di distinguere l’accusa dalla calunnia. Se, ad esempio, fosse vero che il fratello del ministro Alfano abbia ottenuto incarichi ed assunzioni in virtù di poderose raccomandazioni e ad onta di una carriera universitaria imbarazzante e che la moglie del medesimo ministro sia stata scelta tra centinaia di avvocati, senza un criterio trasparente, per attività professionali legate alle istituzioni, non bisognerebbe chiedere le dimissioni di Alfano, ma chiederne la testa. Tout court.

Ma chi può sapere se le notizie che trapelano su queste spiacevoli anomalie siano autentiche o siano frutto di una campagna diffamatoria? Il garantismo vuole che sia meglio un colpevole libero che un innocente in galera. Perciò, colpevole o innocente, Alfano continua ad imperversare con le sue banalità televisive: ma non si può condannare un uomo solo perché dice cose banali, neppure in circostanze serie come quelle che stiamo attraversando. Certo, io avrei scelto una persona meno inadeguata come ministro degli Interni, ma questa è una considerazione di altro genere, ed esula dal nostro discorso. Come quello di Alfano, si potrebbero fare infiniti esempi, tanto di colpevoli che evitano il “redde rationem” quanto di innocenti che subiscono autentici linciaggi, mediatici come giudiziari, salvo poi risultare estranei ad ogni addebito: e noi continuiamo a non capirci nulla, non riusciamo a distinguere il “vero Vero” gucciniano. Se la signora Kyenge, se il ministro Boschi, se la presidentessa della Camera Boldrini avessero detto veramente la metà delle criminali castronerie che vengono loro attribuite su internet, meriterebbero l’esilio coatto nelle isole Tuamotu: il punto è se le abbiano dette o meno. Alcune di queste affermazioni sono talmente demenziali che perfino il più accanito detrattore delle tre dame in oggetto durerebbe fatica a credere alla loro autenticità: altre somigliano di più al carattere delle tre, chiamiamole così, imputate, ma questo non basta affatto a darci la patente certezza della fonte.

Perfino le citazioni prette, una volta decontestualizzate e restituite come frammento, assumono significato affatto diverso da quello originario: a nulla si può credere serenamente. A nulla. Questo accade perfino involontariamente, coi titoli degli articoli sui giornali: a me capita con una certa frequenza di vedere delle mie bagattelle comparire sulla stampa con titoli ed occhielli del tutto fuorvianti. Così, quando mi arrivano commenti velenosi su questo o quell’articolo, capisco che il censore si è limitato a leggere il titolo, si è incazzato e ha reagito d’istinto: intendiamoci, io scrivo un mucchio di corbellerie che meritano altro che censure, ma, perlomeno, mi piacerebbe venissero lette, prima di essere stroncate. Invece, funziona così: il vero è sepolto da un mucchio di accessori, di applicazioni, che lo mutilano, lo camuffano, lo mimetizzano. E la fretta fa il resto: fretta di ingurgitare notizie, senza possedere i succhi gastrici del buon senso o della cultura. Ingurgitare, ingurgitare: internet ci impone questa bulimia mediatica. E, alla fine, non sappiamo più cosa abbiamo ingoiato: non sentiamo, per mantenere la metafora, più i sapori.

Rimane un grande “boh!”, un indistinto malessere politico e sociale, di cui percepiamo chiaramente il disagio, ma che non sappiamo circoscrivere o spiegare. Perché ci mancano i dati. Il fratello di Alfano sarà un manutengolo; la Boldrini sarà una sociopatica grave? La verità è che non lo sappiamo: non lo possiamo sapere. Perciò, o ci fidiamo ciecamente della nostra fonte, con un fideismo di matrice politica, ideologica, calcistica in definitiva, oppure ci asteniamo dal giudicare, costretti ad un ruolo pilatesco, per paura di sbagliare, di fare pipì fuori dal vaso, di venire querelati, magari. E non si fa mai pulizia delle nostra sporcizia, perchè non la si distingue più dalla pulizia: perché, se non c’è più modo di scegliere tra la merda e l’oro, o si corre il rischio di mettersi al collo un monile escrementizio o si rinuncia ad indossare gioielli. Ecco che, in una maniera del tutto inaspettata, ci troviamo a vivere nell’universo paralizzato di Montale, in cui, impossibilitati a conoscere una verità, non ci rimane che esprimere al negativo le nostre ambizioni di giustizia, di felicità, di onestà. Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, oggi possiamo dire. E, mentre noi ci ripieghiamo in noi stessi, definitivamente esuli dal nostro protagonismo civile e sociale, i maiali prosperano nel loro limbo limaccioso. Eppure, basterebbe così poco: un pochino di verità.

 

 




E se ripristinassimo il servizio di leva per difenderci dai terroristi?

attentato nizzaQuando facevo la naja, circolava nelle caserme italiche un ameno librettino, dedicato all’eventualità di un attacco termonucleare. Erano tempi di ‘guerra fredda’ e la possibilità che a qualche simpaticone, da una parte o dall’altra della cortina di ferro, venisse l’idea di mandare il mondo a catafascio era meno peregrina di quanto non sia oggi: così, con bello spirito d’iniziativa, qualche generale, in qualche ufficio romano, aveva concepito questo simpatico vademecum. Va da sé che sapevamo tutti quanti che, per quanto impermeabile e refrattario al freddo e alla fatica, anche un battaglione di alpini, se opportunamente felicitato di qualche chilotone, tende ad andare a remengo: diciamo che le contromisure indicate dal librettino servivano, più che altro, a farci affrontare allegramente la morte. C’era scritto, ad esempio, che, in caso di detonazione di un ordigno atomico nei paraggi, avremmo dovuto defilarci lungo i muri maestri (che nessuno avrebbe saputo distinguere da quelli normali), tenendo una fetta di limone in bocca. Inutile dirvi che questa cosa di essere inceneriti travestiti da gin tonic, mentre cercavamo i muri maestri della caserma “Battisti”, ci rendeva molto meno gravosa l’idea di un’improvvisa dipartita. Questo solo per dire che ad ogni mossa del nemico dovrebbe corrispondere una contromossa: e che questa contromossa non dovrebbe avere carattere, per così dire, grottesco, sibbene efficace, realizzabile e, soprattutto, atto a contrattaccare: quello della buccia di limone è solo un aneddoto, ma credo renda l’idea della vanità di certe contromisure.

Oggi, viviamo nell’incubo di un’altra guerra fredda: un esercito di spietati assassini, indottrinati ed attivati da una struttura internazionale e da chissà chi altro, è pronto a colpire duramente, insidiosamente e senza alcuna pietà, in un punto qualsiasi dell’Europa. Alcuni di questi killer sono poco più che dementi, cui è stato inculcato il pensiero fisso del martirio, ma, per quanto dementi, non ci si deve fare ingannare: sono pericolosi ed operativamente significativi. Il Califfato o chi per lui non ha alcun bisogno di addestrare kamikaze: si limita ad offrire un brand, un’impresa, un tatuaggio mentale, a gente già predisposta ad indossare l’identità del guerriero del Jihad, sopra il proprio nulla abissale. E’ questo che rende così difficile arginarli: che vi credete? I canali d’infiltrazione comuni possono essere intercettati dallo spionaggio: lo spontaneismo nemmeno per sogno. Non date retta ad Alfano, che vi parla di successi dell’intelligence: quello con qualunque forma di intelligence ha rapporti talmente sporadici da potersi definire assenti. L’assassino può provenire dagli immigrati di terza generazione, come dai barconi che, sagacemente, accogliamo a decine, senza il minimo controllo antiterrorismo: l’elemento determinante non cambia, ed è quello dell’assoluta spontaneità della trasformazione in automa della morte. Ma, vi direte, tutto questo cosa ha a che fare con la storiella del libretto e della naja: c’entra, miei cari, eccome se c’entra.

Le contromisure proposte alla popolazione italiana di fronte al fenomeno della guerra asimmetrica, perché di questo si tratta, sono, più o meno le stesse di quel libretto: state tranquilli, non abbiate paura e fidatevi delle forze dell’ordine. Come dire: sperate che non tocchi a voi, in definitiva. Certo, contro questo genere di minaccia non è che ci sia molto da fare: due coserelle, però, potrebbero servire a limitare i danni. La prima è l’educazione: un’educazione alla minaccia, molto simile ad un addestramento. Israele, che convive con questo problema da quasi settant’anni, addestra i propri cittadini ad affrontare le emergenze: perché non potremmo farlo anche noi? Non è vero che, in ogni scuola, si perde tempo a spiegare che, in caso di terremoto o di nube tossica si deve fare così e cosà? Siccome a Bergamo, per ragioni geologiche, un terremoto distruttivo non può accadere, varrebbe la pena di spiegare ai ragazzi come comportarsi nel caso, assai meno remoto, di un attacco terroristico: cose semplici, ma utili, come non raggrupparsi, non rimanere in piedi se uno urla “Allah u akbar!”, non stare in un angolo a farsi sparare addosso come pecore e così via. A volte, basta poco per ridurre l’impatto di un attacco suicida. Non è un caso che, quando uno di questi furboni ha tirato fuori l’AK47 su di un treno, dei militari in viaggio di piacere l’abbiano subito disarmato: questi non sono supersoldati, ma sfigati qualsiasi, senza esperienza militare, che si possono e si devono contrastare e non assecondare. Non dico che imparare quattro cosette a scuola possa risolvere la questione, però, credetemi, nel caso, aiuterebbe a limitare i danni.

L’altra cosa è il ripristino del servizio di leva: sorvolo sul fatto che darebbe ai nostri giovani un diverso senso dell’appartenenza e del dovere, limitandomi all’ambito pratico. Avere in giro per le città dei soldati, anche semplicemente di ronda o, addirittura, in libera uscita, servirebbe a controllare meglio il territorio: invece, oggi, i nostri soldati sono soprattutto all’estero, non si capisce bene a far cosa. Il presidio delle città avviene solo per punti critici e sottrae personale alle già scarse Forze dell’Ordine: è un tipo di tattica che non paga e che non guarda al futuro, ma solo al tamponamento (o, se preferite, all’apparenza del tamponamento) di situazioni emotive contingenti. L’istituzione di una leva, anche solo per un servizio di Guardia Nazionale, avrebbe ricadute a pioggia sul nostro assetto difensivo e finirebbe per costare meno delle nostre dissennate spedizioni in Afghanistan o in Libano. Altrimenti, non ci rimane che affidarci alla Madonna di Caravaggio o alle rassicurazioni di Alfano: insomma, una soluzione apotropaica.

 

 




La chiusura di Equitalia? Sa tanto di operazione gattopardesca

equitaliaLa promessa di chiudere entro l’anno Equitalia da parte di Matteo Renzi si profila, sempre che venga mantenuta, poco più di un lifting. E la postilla del premier che le tasse si pagheranno lo stesso appare un preludio al fatto che tutto resterà sostanzialmente uguale. Contro Equitalia si sono concentrate le ire dei contribuenti che si sentono vessati e di quanti li appoggiano per solidarietà o per convenienza, ma il bersaglio è sbagliato. Equitalia fa solo il suo dovere che è quello di procedere alla riscossione in modo imparziale. Forse anche troppo, dato che ci sono sottovoce rimpianti delle vecchie piccole esattorie private di tanti anni fa dove l’amico dell’amico poteva sempre cercare di intervenire per proroghe e magari cancellazioni. Se il Fisco dal volto umano è quello dell’”umma umma”, però è bene tenersi quello arcigno, ma che applica veramente, come si legge nelle aule dei Tribunali, il principio che la “Giustizia è uguale per tutti”. Da questo punto di vista, è più civile un’ Equitalia che avanza come uno schiacciasassi senza fare distinzioni tra furbetti, sbadati ed evasori abituali. Il che obiettivamente può essere un problema. Ma la responsabilità non è di Equitalia, che in ogni caso non si occupa dell’accertamento, effettuato dall’Agenzia delle Entrate, ma semmai delle regole, ovvero delle leggi fiscali che Agenzia delle Entrate ed Equitalia sono chiamate ad applicare.

Se questo è il tema, se bisogna spegnere l’indignazione massmediatica sollevata da chi riceve la sanzione per un centesimo dimenticato nel pagare una multa di qualche anno fa, tutto si può risolvere in maniera più efficace con una revisione delle norme da applicare e non cancellando la società. Che Equitalia sia assolutamente migliorabile è infatti fuori discussione. Cartelle pazze ed errori sono sopra il livello fisiologico, senza contare che il tempo perso per riparare gli sbagli non viene rimborsato. L’indiscriminatezza con cui si colpisce l’errore formale come quello sostanziale o l’ostinatezza nel perseguire operazioni di recupero con costi superiori al risultato sembrano essere un espressione di sadismo burocratico che fa male prima di tutto all’istituzione. Difficilmente però questo sarà risolto con una riforma che cambia l’assetto, ma mantiene invariata la normativa fiscale.

Non sarà appunto la scomparsa di Equitalia che porterà a una riduzione del carico tributario sui contribuenti o modificherà il rapporto tra fisco e cittadini come promesso da Renzi. Cosa cambia, infatti, se Equitalia, attualmente una società per azioni partecipata al 51% dalle Entrate e al 49% dall’Inps, diventerà, come sembra, un nuovo dipartimento dell’Agenzia delle Entrate, al quale saranno trasferiti poteri, funzioni e gli 8 mila dipendenti? Se non cambiano le norme, continueranno a fare quello che facevano prima, nel bene e nel male, applicando le stesse norme fiscali e utilizzando gli stessi strumenti, inclusi prelievi coatti e ganasce fiscali. Qualche piccolo cambiamento ci potrà essere, dato che l’accorpamento potrebbe accelerare i processi ed evitare errori nei trasferimenti delle pratiche con gli stessi strumenti di prima, ma si profila l’ennesimo provvedimento gattopardesco, dove si dà l’impressione di cambiare tutto per non cambiare nulla. I contribuenti alla fine lanceranno i loro strali non più contro Equitalia, ma contro un soggetto che avrà probabilmente un altro  nome. Oppure avremo un riscossore cortese, ma inefficace. O ancora peggio un esattore inefficace, sgarbato e per di più piegato di fronte ai interessi privati.

 




Il terrorismo semina paura, ma io continuerò a sentirmi libera

L'attentato a Nizza è avvenuto sulla promenade des Anglais
L’attentato a Nizza è avvenuto sulla promenade des Anglais

Ebbene, terrorista

ho paura. Ho avuto paura a Istanbul alcune settimane fa, mentre visitavo le zone turistiche di quella bellissima città, dove mi sono sentita a casa pur non parlandone la lingua, ma dove ora non mi sognerei di ritornarvi, per paura di incontrare alcuni dei tuoi amici, armati di bombe a kalashnikov. Dopo la mia visita avete seminato odio e terrore ben due volte. Hai rovinato per sempre non solo il Bataclan ma tutto quel bel quartiere, che vi ruota intorno, pieno di caffè, brasserie e posti autentici, dove mangiare bene, chiacchierare e respirare un’aria artistica e creativa che tanti ancora sognano di trovare a Parigi. Torno spesso, e non sempre volentieri, a Parigi. Lo faccio per lavoro, ma dopo quella gelida notte di novembre è sceso un velo grigio che nemmeno i colori della settimana della moda possono cambiare. Metropolitane, stazioni. aeroporti. A Londra, a Milano, Roma, Napoli, Parigi, Amsterdam. Mi hai fatto sentire vulnerabile, in tutte le stazioni. Hai rovinato uno dei grandi piaceri della vita. Viaggiare, e qui ci metto anche volare, Vivo in una città che è stata duramente colpita undici anni fa dagli attentati del 7 Luglio. Non si dimentica, o se si dimentica, accade solo per poco. Se attraverso una stazione affollata penso che tu, insieme a qualche tuo amico, potreste fare una strage, colpendo persone che come me che cercano di arrivare a lavoro puntuali, o tornare a casa dalle proprie famiglie. E adesso Nizza. Nella memoria collettiva quell’angolo di paradiso che è la promenade des Anglais, dove il clima è mite tutto l’anno e le palme ti proteggono mentre passeggi. Il mare da una parte e hotel dove la vita scorre dolce dall’altra. Hai trasformato il Negresco in un ospedale da campo, quella passeggiata in un luogo di tragedia e rovinato lo spettacolo dei fuochi d’artificio per più di una generazione. La vita che ho conosciuto per vent’anni non esiste più, e non lo sarà almeno per i prossimi dieci. La vorrei indietro. Era bello doversi preoccupare solo di arrivare in orario in stazione per prendere un treno,  di assistere un concerto senza pensare che tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Nella speranza che un giorno questo finisca, non posso fare a meno di due cose. Sentirmi afflitta dalla morte delle vittime. Venerdì è stato un giorno difficilissimo, e il pensiero di un weekend vicino non è bastato a rendermi felice. E poi non posso fare a meno di coltivare la mia libertà, il mio desiderio di visitare musei, di vedere film al cinema, di prendere l’aereo per vedere la mia famiglia o scappare verso un luogo caldo. La libertà, insieme al piacere di vivere questa vita europea, occidentale e democratica, mi appartengono più della paura, per quanti attentati tu possa fare.




Cari bergamaschi, è ora di reagire. Occupiamo piazzale degli Alpini

piazzale degli AlpiniI Bergamaschi sono un popolo meraviglioso: parafrasando Pertini. Sono capaci di imprese sensazionali, come abbracciarsi per chilometri lungo le Mura, stabilendo una serie di formidabili record, o incolonnarsi disciplinatamente per ore ed ore per zampettare sul lago d’Iseo. Poi, inspiegabilmente, quando si tratta di situazioni meno creative, quando non c’è di mezzo un Guinness, ma il benessere e la dignità di una città intera, spengono la luce e diventano una matassa grigia. Furetti, se c’è da fare un festone per la Dea o un giovedì danzante, bradipi, se c’è da salvare la faccia. Strana gente, la mia gente: capace di vorticanti piroette tra il civismo talebano e la più infingarda delle ignavie. Voi direte: ma con chi ce l’ha stavolta, il maledetto piantagrane? Fedele alla sua impresa di “mai contèt de negot”, il Cimmino è ostile perfino agli abbraccioni pubblicitari e alle passerelle indomenicate? Ma no, cari compatrioti mesopotamici: gli è che duro fatica a capire come una città, capace di mobilitarsi per una goliardata, non sia, viceversa, capace di farlo quando in gioco c’è l’immagine vera di Bergamo, la sua sicurezza, la sua capacità di accogliere il forestiero sotto la sua veste migliore: e mi riferisco all’intollerabile situazione del piazzale degli alpini.

Sarà che sono un alpino e vedere gli alpini, che hanno sconfitto gelo, guerra e sfortuna, costretti alla resa da un branco di teppisti e di spacciatori, mi rende un filo idrofobo. Sarà che l’idea che casa mia non sia più casa mia mi fa tremendamente incazzare. Sarà che constatare che nessuno muove un dito, perché una malintesa e criminale tolleranza, venata di pelosissimo umanitarismo a vanvera, lega le mani alle forze dell’ordine, sotto la specie di precise indicazioni politiche, a me le mani le fa, invece, prudere. Sarà quel che vi pare, ma, quando uso il termine “intollerabile”, intendo proprio che non si debba più tollerare: intendo che sia ora farla finita una volta per tutte con questa marmaglia che pensa di poter spadroneggiare in un parco pubblico in pieno centro cittadino e proprio sotto gli occhi di chi arriva in treno in città. E, allora, cari Bergamaschi, perché non organizzate un bel presidio in piazzale degli alpini, esattamente come vi siete mobilitati per fare quella gioppinata dell’abbraccio da record? Si crea un bel comitato organizzatore, si ottiene l’appoggio dei media locali, si stampano delle belle magliette con su scritto: “Mi riprendo la mia città” e si occupa in pianta stabile il piazzale per un mese, due mesi, sei mesi, se necessario: si fa, insomma, quello che le istituzioni non si sognano nemmeno di fare. Perché no? Ve lo dico io il perché. Nessun comitato organizzatore super partes si potrebbe creare, perché nessuno vorrebbe passare da razzista, leghista, nazista: abbracciarsi è un conto, ma pretendere sicurezza è un altro paio di maniche, è materia pericolosa di questi tempi.

Quanto ai media locali, sarebbe già tanto se non boicottassero apertamente un’iniziativa del genere: troppo impopolare stare dalla parte del popolo, meglio stare con le élites! Quanto a stampare delle magliette: indossarle potrebbe essere considerato una provocazione, anzi, magari si rischierebbe una multa. A questi chiari di luna, perfino un presidio di cittadini, che vada contro le disposizioni supreme, potrebbe venir perseguito come occupazione abusiva di suolo pubblico: ormai, si è capito che chi dovrebbe difenderci difende quelli da cui dobbiamo difenderci: what else? In questo simpatico giocare a nascondino con il buon senso e la logica, privilegiando a tal punto i ‘circensens’ da dimenticarsi, non si dice il benessere cittadino, ma perfino quel ‘panem’ che, una volta, ai giochi del circo veniva sempre accomunato nella descrizione delle necessità del popolo bue, noi stiamo serenamente affondando di prua, seppure teneramente abbracciati. Perché, se si molla in piazzale degli alpini, si molla dappertutto: lì ci sono le scuole, lì c’è il centro pulsante di questa città, lì ce la giochiamo, quando le ciccione americane sbarcano alla stazione, in cerca di gelati e di scorci per poter esclamare Oh my God! E se rinunciamo a quel pezzo di Bergamo, vuol dire che abbiamo rinunciato a Bergamo tout court.

Eppure non c’è un solo politichetto locale, un amministratore, un oppositore, che getti nella questione un centesimo di quella foga e di quell’entusiasmo che si spende per abbracci, notti bianche, balletti serali e quisquilie consimili. E lo stesso dicasi per gli imbarbariti giovanoidi, tutti contenti di farsi i selfie con la maglietta delle Mura: sembra che stiamo parlando di due città diverse, una da Guinness per gli abbracci e l’altra da Guinness per i calci in culo! Io non vi riconosco più, cari Bergamaschi: è davvero possibile che vediate la nostra città trasformarsi in una città americana, con la zona bene e i quartieri trasformati in ghetti per spostati, senza battere ciglio. Veramente vi importa di più di finire sul giornale per un record di abbracci che per un necrologio o per una rapina? E se toccasse a voi, ai vostri figli, di incappare in una bella rissa lungo viale Papa Giovanni? Allora, immagino, sdegno e dolore. Sdegnatevi un attimino prima, allora: si chiama profilassi. E funziona.




Christo s’è fermato a Montisola. Ora tocca a noi

FloatingPearsAdesso che Christo ha smontato il suo originalissimo ponte levatoio, è tutta una corsa a far di conto. Dai panettieri che hanno dovuto aumentare le sfornate quotidiane agli albergatori che, malgrado un pesante ritocco dei prezzi all’insù, si sono visti costretti per la prima volta nella loro vita a rifiutare clienti causa il tutto esaurito, dai bar e gelaterie presi d’assalto come i forni di manzoniana memoria ai gestori dei battelli che han trasportato in un paio di settimane tanti passeggeri quanti se ne vedono di norma in un anno. Chi ha fatto i conti in tasca all’artista bulgaro ha calcolato guadagni per decine di milioni (chi dice trenta, chi quaranta), ma tutti, nessuno escluso, hanno portato a casa un piccolo-grande ritorno da un evento, “The floating piers”, destinato a rimanere scolpito nella storia del lago d’Iseo.

Proprio per questo, l’errore più grande che si potrebbe commettere ora è quello di limitarsi alla conta della serva. Di incamerare quattrini e metterli sotto chiave. Di archiviare le straordinarie giornate a cavallo tra fine giugno e inizio luglio come una incredibile, entusiasmante, fantastica parentesi. Niente di più sbagliato. Quei giorni devono al contrario rappresentare un punto di partenza per una nuova vita del lago d’Iseo, delle sue località, della sua gente. A dispetto dei professionisti del naso storto, degli improvvisati maitre a penser al sapor d’alborella che considerano il Sebino una sorta di presepe intoccabile, dei critici che usano l’arte solo per far parlare di sé, Christo ha offerto a tutti la possibilità di misurare come attorno ad un’ idea azzeccata (o vincente o suggestiva, ognuno la declini come meglio crede) si possa costruire un fenomeno di massa, senza devastazioni né’ terremoti, pacifico e autenticamente popolare. Il suo esempio deve diventare un investimento per il futuro. Non a chiacchiere ma con i soldi. Quelli incassati nei giorni scorsi, anzitutto.

C’è un dato di partenza che nessuno può negare. Grazie alle passerelle Montisola e il lago sono rimbalzati su giornali, televisioni, siti internet di tutto il mondo (qualcuno ha calcolato che solo su Twitter e Instagram sono stati raggiunti 148 milioni di persone!!!). A costo zero per le casse pubbliche, il Sebino ha goduto di una promozione pazzesca, i cui effetti si trascineranno per molto tempo. Ecco, vediamo di capitalizzarli e di farli fruttare. Perché chi tornerà in riva al lago la prossima volta non troverà la suggestione artistica ma la “semplice” bellezza dei luoghi, l’accoglienza delle strutture, l’enogastronomia, i servizi. Bisogna creare un circolo virtuoso, investire per investire, assecondando un moto di crescita che permetta al lago d’Iseo tout court (lasciamo perdere le distinzioni tra sponda bresciana e bergamasca) di uscire da quello sterile piagnisteo autolesionista, così consolatorio per i provinciali, che finora gli ha impedito di giocarsi le sue eccellenti carte al tavolo del turismo. Insomma, per dirla con uno slogan: Christo si è fermato a Montisola, ora tocca a noi. Un’altra occasione del genere non capiterà più nei secoli dei secoli.