Fondo Atlante, quell’opportunità tra salvataggi e business

Il fondo Atlante, un nome che indica bene lo sforzo che si propone di sostenere, è bene che ci sia, ma è soprattutto strano che sia arrivato così tardi. A prima vista sembra un progetto paradossale. Perché le banche italiane, che tutte, chi più chi meno, hanno già per loro conto sofferenze, ovvero prestiti che difficilmente rientreranno, per un totale complessivo di 200 miliardi lordi, dovrebbero mettersi a comprare le sofferenze degli altri? I critici, anche tra le stesse banche che in certi casi obtorto collo hanno dovuto accondiscendere alla partecipazione al fondo, sostengono che in questo modo, per salvare istituti decotti, si mettono a rischio anche gli istituti sani. Del resto, in sintesi, il fondo Atlante non è che una sorta di consorzio che per sostenere il sistema creditizio ed evitare che il crac di una banca abbia un effetto domino sulle altre si propone di comprare i crediti complessi degli istituti in difficoltà e sostenerli patrimonialmente in caso di necessità di aumenti di capitale che il mercato non è disposto a sottoscrivere. Eppure quello che da un lato sembra solo un salvataggio visto dall’altra parte è anche un’opportunità di business. Del resto c’è chi dell’acquisto dei crediti in sofferenza ha fatto il suo profittevole mestiere e non sembra un caso che al fondo Atlante si sia decisi di arrivare quando alcuni fondi internazionali si sono fatti avanti per rilevare Carige (il fondo Apollo) e la Popolare di Vicenza (il fondo Fortress) puntando proprio ai loro prestiti incagliati.

Banca EtruriaDel resto Fortress, fondo quotato a Wall Street, aveva annunciato nell’estate di due anni fa che avrebbe puntato un miliardo di euro per investire sui crediti in sofferenza delle banche italiane, desiderose di alleggerire le posizioni anche per rientrare nei limiti patrimoniali previsti dalla vigilanza. In questa ottica, infatti, tutti gli istituti, negli ultimi anni, hanno ceduto prestiti non performanti (i cosiddetti “non performing loans”), cioè fidi che i debitori non riescono più a rimborsare. Un servizio che ovviamente viene pagato: nel caso delle quattro banche salvate a novembre (Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti), ad esempio, il valore di cessione delle sofferenze è stato portato ad una media del 22,3% del valore nominale, data da una media ponderata tra il 31% assegnato alla porzione garantita da ipoteca e il 7,3% a quella chirografaria, senza garanzie. Ma ogni credito è una storia a sé. Un conto è il pagherò di un pizzicagnolo e un altro è quello di un mutuo su un immobile assistito da un’ipoteca. Ma è anche un conto un’ipoteca su un palazzo in via Montenapoleone e un altro su un appartamento in un condominio di Zingonia destinato alla demolizione. Quindi si tratta di andare a vedere, caso per caso, cosa c’è nel lotto e, con arte un po’ da antiquario e molto da rigattiere, trovare le pepite in mezzo al ciarpame senza valore.

Chi acquista in blocco pagando una frazione del valore nominale, può fare grandi profitti se riesce a farsi rimborsare dai creditori più di quella frazione o a valorizzare in maniera superiore ad esempio gli immobili che ottiene dall’ipoteca. E’ un lavoro da specialisti che richiede tempo – aiuterà molto l’annunciato decreto che prevede lo snellimento della procedura e la velocizzazione del recupero crediti – e anche le mani libere nel trattare il creditore che non sempre le banche hanno. Ma è redditizio tanto che secondo quanto stimato da Alessandro Rivera, a capo della direzione “Sistema bancario e finanziario” del Tesoro, il fondo Atlante potrebbe avere un rendimento del 6-7%. E questo nonostante le spinte perché l’acquisto dei non performance loans non ai prezzi di mercato, come potrebbe essere il 22,3% adottato per le quattro banche, ma vicino ai prezzi di libro (cioè al valore nominale detratti gli ammortamenti che mediamente sono intorno al 50%), in modo più favorevole agli istituti che li cedono, riducendo così anche la quota di potenziale recupero e di profitto per l’acquirente. Solo l’annuncio dell’arrivo di Atlante peraltro ha già portato ad un aumento dei prezzi di cessione dei Npl, a conferma che forse prima il business era sbilanciato a favore degli acquirenti. Del resto l’Abi stima che le sofferenze bancarie nette, quindi considerata la parte già spesata in bilancio, ammontino a 83 miliardi, quindi ci si avvicina al 40%, sempre come media (che è comunque quasi il doppio della valorizzazione adottato per le quattro banche), a fronte dei 200 miliardi di sofferenze lorde. C’è quindi margine da spartire tra minori profitti per l’acquirente e minore perdita per le banche che vendono: ma l’interesse per l’operazione resta.

Anche dagli aumenti di capitale, il secondo pilastro degli interventi di Atlante, che sarà probabilmente quello più importante, è possibile un ritorno nonostante l’intervento sia di ultima istanza di fronte al fatto che nessuno vi vuole partecipare. Il primo intervento di Atlante sarà con ogni probabilità l’investimento di una cifra vicina all’impegno massimo di un miliardo e mezzo nell’operazione di aumento di capitale iperdiluitivo che dovrebbe finire per dare al Fondo stesso il controllo della Popolare di Vicenza. Un istituto che viene valutato attualmente solo 10 milioni di euro, cioè una frazione del solo patrimonio tangibile, e dove i margini di recupero sono molto ampi. L’operazione Atlante quindi dovrebbe combinare salvataggi e business (con i rischi d’impresa del caso). Per quanto ci possano essere perplessità – a partire tra l’altro dalla capacità di intervenire con un patrimonio nel complesso contenuto (le adesioni hanno superato i 4 miliardi, ma tra Vicenza e Veneto Banca sono in arrivo aumenti che potenzialmente potrebbero richiedere l’intervento del Fondo per più di metà di quella cifra) di fronte a una montagna di 200 miliardi di sofferenze – c’è anche da dire che è bene considerare un’opportunità quella che in fondo era una strada senza alternativa.




Ubi Banca, Letizia Moratti presidente del Consiglio di Gestione

Letizia Moratti
Letizia Moratti

Il Consiglio di Sorveglianza di Ubi Banca ha nominato il nuovo Consiglio di Gestione per il triennio 2016-2018. La presidenza è stata affidata a Letizia Moratti. L’ex sindaco di Milano prende il posto di Franco Polotti, che ha rinunciato a concorrere per la riconferma alla presidenza. Con Moratti entrano nel CdG  anche Flavio Pizzini (vicepresidente), Silvia Fidanza, Osvaldo Ranica (direttore della Banca Popolare di Bergamo), Elvio Sonnino ed Elisabetta Stegher. Ubi Banca precisa in una nota che ai sensi dello statuto e in linea con i criteri enunciati dalla Banca d’Italia sono stati nominati tra i membri del consiglio di gestione quattro manager apicali del Gruppo. La novità è comunque la nomina di Moratti. Già ministro dell’Istruzione (2001-2006) e presidente della Rai (1994-96), ha fondato una società di brokeraggio assicurativo, la Gpa. Fra le esperienze bancarie, può vantare il ruolo di consigliere di amministrazione della Comit fra il 1990 e il 1994. È sposata con il presidente di Saras, Gianmarco Moratti. Il CdS ha anche nominato Flavio Pizzini vice presidente e ha proposto la conferma di Victor Massiah a consigliere delegato.




Ubi Banca: l’occasione per tornare a contare c’è, ma bisogna sfruttarla

Ubi bancaQualche volta le occasioni si ripresentano, ma bisogna essere veloci a coglierle. L’assemblea del 2 aprile ha permesso di chiarire cosa serve per controllare Ubi Banca Spa: il 25% del capitale. Quello che era già noto, cioè che i fondi erano sulla carta i padroni della banca controllando ben più del 40% del capitale, è diventato ufficiale. Il listone che si presentava con il 17% circa del capitale, dato per il 3% dal bergamasco Patto dei mille, per il 12% dal sindacato, a trazione bresciana, che ricalca l’ex patto di sindacato della Banca Lombarda (e che comprende anche il 2% della Fondazione Banca del monte di Lombardia) e per il 2% dalla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo, ha raccolto in assemblea un altro 6,5%, arrivando al 23,5% del capitale. Ma questo non è bastato perché per meno di 12 milioni di azioni (circa 36 milioni di euro alle quotazioni attuali) è stato superato dalla lista dei fondi che ha sfiorato il 25% del capitale (222,8 milioni di azioni)

Di fronte a questa situazione, le velleità bergamasche di riuscire a controllare la banca devono definitivamente rinunciare a fare appello alla storia e alla tradizione e fare conto con questi numeri. Anche concedendo – che è plausibile, ma comunque da dimostrare – che chi si è aggiunto in assemblea al listone, quindi circa il 6% del capitale, sia bergamasco, anche se non aderisce al Patto dei Mille, che ha posto come vincolo di entrata il possesso di 100 mila azioni, si arriva al 9%, cioè una quota comunque inferiore a quella del sindacato bresciano, anche al netto dell’apporto cuneese.

Se Bergamo non riesce a esprimere nemmeno il 10% in assemblea, quota peraltro che non la rende assolutamente sovrarappresentata al vertice, ma semmai il contrario, c’è da pensare che la “sua banca” se la sia venduta (del resto i fondi da qualcuno devono pur avere comprato), perché è andato perso l’equilibrio che esisteva all’inizio della fusione Ubi in termini di capitale tra la bergamasca Bpu (dove però c’era una frammentazione tra un grande numero di soci) e la bresciana Banca Lombarda (dove l’azionariato era più compatto). Oppure, e non è da escludere, che la scelta di un Patto dei Mille sia stata vista come aliena dai piccoli azionisti che in assemblea non si sono nemmeno presentati e che non hanno intenzione di fare i portatori d’acqua ad altri interessi nonostante il comune territorio. Così i grandi azionisti di Bergamo, se vogliono continuare a contare nella banca, non hanno altra alternativa che ricomprarsela, E qui, appunto, c’è la seconda opportunità che si è ripresentata, seppure temporaneamente.

Giovedì la quotazione di Ubi era scesa a un minimo di 2,8 euro, per una capitalizzazione di 2,5 miliardi. A quel punto, almeno da un punto di vista teorico, perché gli scambi non hanno raggiunto quei volumi, acquistare il 20 per cento di Ubi che, aggiunto a quel 5% che ragionevolmente è stato espresso in assemblea, darebbe il controllo, costava meno di 500 milioni, valore peraltro dimezzato rispetto a inizio anno. Le quotazioni nei giorni successivi hanno ricominciato a salire, evidentemente perché qualcuno ha iniziato a comprare in maniera vigorosa tutto il sistema bancario che prima veniva venduto in maniera acritica, riducendo la convenienza e richiedendo un maggiore esborso. Ma gli acquisti, appunto, sono proseguiti. Se a comprare sono stati bergamaschi, lo si vedrà in futuro, ai proclami sono finalmente seguiti i fatti. Ma se non stati loro e sono stati i primi a non credere nella “loro banca” allora sarebbe bene che il discorso sulla bergamaschità si chiudesse veramente per sempre.




Ubi banca, con i fondi s’è fatta chiarezza. In attesa del prossimo choc

Ubi BancaFinalmente c’è una stabile chiarezza nella governance Ubi. L’abbandono (forzato, ma accolto con solitaria sollecitudine) della formula Popolare ha dissipato i ricorrenti sospetti di autoreferenzialità rivolti alla categoria, e nella prima assemblea da società per azioni – riunione che ha visto la partecipazione di quasi metà del capitale di Ubi, un dato record se si considera la realtà dalla quale si proveniva – ha attribuito oltre il 51% del consenso, espresso in azioni, alla lista dichiaratamente di minoranza presentata dai fondi. Un segno forte e chiaro, che sgombera ogni dubbio sul fatto che la banca non è dei bresciani, né tantomeno dei bergamaschi, ma è quello che deve essere, una società per azioni, ovvero proprietà dei suoi azionisti. E paradossalmente nel passaggio da cooperativa popolare a Spa la banca è diventata ancora più public company di prima. I fondi, infatti, tanto demonizzati da chi ha motivazioni diverse dalle loro, come espressione di sconosciuti interessi “plutomassonici” (per non dire di peggio), in realtà rappresentano alcune centinaia di migliaia, tutti insieme anche milioni, di investitori, ai quali interessa che la società cresca con una logica di lungo periodo e assicuri remunerazione in maniera sostenibile, e vedono quindi male le collusioni localistiche. Che invece si può pensare non siano aliene da chi non si arrende all’evidenza, si consola con calcoli astrusi sul risultato del voto e ipotizza rivincite con appelli al campanile. E’ un’opzione certamente possibile in un’economia democratica, che però non ammette scorciatoie, ma richiede una sola condizione: acquistare le azioni ed averne una in più dei competitori. Il resto è vaniloquio.

Intanto si è creata in Ubi una situazione inedita, anche se sempre più comune tra i grandi gruppi. La lista dei fondi, che ha la maggioranza dell’assemblea di Ubi, si è accontentata di esprimere tre consiglieri di sorveglianza su 15, ed ha poi votato in maniera compatta quelli mancanti, proposti dal listone orobico-bresciano-cuneese e approvati dall’assemblea con il 99%. Curiosamente questi nove consiglieri sono stati nominati con una percentuale più che doppia rispetto al presidente Andrea Moltrasio, al vicepresidente Mario Cera e al consigliere Armando Santus, che hanno invece ottenuto quasi il 49% e sono entrati come primi candidati del listone, diventato di fatto di minoranza, secondo classificato con più del 30% dei voti. Ma al di là di questo aspetto tecnico, il significato del voto è che il Consiglio di sorveglianza, praticamente confermato in blocco, è pienamente legittimato, con un avallo del suo operato attraverso il voto dei reali proprietari dell’azienda, i fondi. Probabilmente è uno choc per chi ritiene che amicizia e appartenenza dovrebbero essere i criteri di base per la selezione e tra un mediocre compaesano e un’eccellenza “forestiera” sceglierebbe il mediocre, alla faccia di ogni criterio meritocratico.

E probabilmente a breve ne avrà un altro, quando si arriverà alla creazione di una banca unica, nella quale si fonderanno i vari istituti rete, con la speranza che questo possa spazzare via una volta per tutte quei campanilismi che ancora frenano la banca. Situazioni incomprensibili per i fondi, soprattutto se internazionali, che hanno assunto il ruolo di “cane da guardia” e per farlo nella maniera migliore non si sono presi l’incarico di gestione diretta – in fondo non è il loro compito – ma hanno fatto capire in modo inequivocabile chi è che comanda e che può intervenire quando vuole, nel caso si crei una situazione che lo richieda. La chiara distinzione tra manager legittimati e una proprietà forte è una condizione dalla quale dovrebbero avere benefici la banca e tutti gli azionisti. Saranno scontenti, ovviamente, quanti rimpiangono la Popolare con la quale sognavano o tentavano di creare una consorteria basati sui privilegi dalla familiarità. Perché la deriva demagogica era il rischio che ha reso improvvisamente superato, anche per le maggiori dimensioni degli istituti, un modello che pure ha dato negli anni ottima prova di sé, nella Bergamo come in Bpu e in Ubi, ma anche deviazioni della quale è ricca la cronaca economica e anche giudiziaria. In ogni caso è una storia superata (e lo sarà ancora di più con il bancone). Finalmente.




Credito alle imprese, «bene le mosse della Regione»

eurosito.jpgLa giunta regionale lombarda ha approvato le delibere che vanno a modificare i criteri relativi alle “Controgaranzie”, la misura di Regione Lombardia gestita da Finlombarda S.p.A. per favorire l’accesso al credito delle micro, piccole e medie imprese e dei liberi professionisti tramite la concessione di garanzie di secondo livello (controgaranzie) su portafogli di garanzie di primo livello, rilasciate da Confidi a favore delle imprese e di liberi professionisti.

«In un momento così importate e delicato per il nostro tessuto economico e produttivo, dove convivono incoraggianti segnali di ripresa del mercato e il perdurare di alcune criticità legate all’accesso al credito, abbiamo deciso di rilanciare questa linea d’intervento per dare nuovo ossigeno alle imprese ed incrementare la competitività e attrattività del territorio lombardo», ha detto l’assessore allo Sviluppo economico Mauro Parolini. «L’assenza di liquidità – ha spiegato Parolini – è ancora un fattore di criticità che compromette sensibilmente il futuro e la sostenibilità di molte imprese lombarde: Regione Lombardia rende disponibili ben 28,5 milioni di euro per favorire l’accesso al credito tramite i Confidi, nell’ottica di sostenere in maniera strutturale la loro capacità di garantire e rendere più accessibile il credito e di produrre e incrementare la competitività e attrattività del territorio lombardo».

I soggetti che possono avanzare richiesta sono i Consorzi di Garanzia Collettiva fidi (Confidi) iscritti nell’apposito elenco. Sono ammissibili le garanzie rilasciate dai soggetti richiedenti (Confidi) su operazioni finanziarie rientranti in una delle seguenti tipologie:

  • cassa: apertura di credito in conto corrente
  • smobilizzo: linea di credito rotativa per anticipazioni finanziarie su portafoglio commerciale
  • liquidità: finanziamenti amortizing sul circolante
  • investimento: finanziamenti amortizing per investimenti

Confcommercio Lombardia apprezza la misura, «che consentirà di mettere in circolo circa 10 miliardi di nuovi finanziamenti nel triennio». L’Osservatorio Confcommercio di febbraio 2016 evidenzia come, nell’ambito del 21,8% delle imprese del terziario che si sono rivolte al sistema bancario per ottenere credito, il 76% lo ha fatto per esigenze di liquidità o di cassa, il 12,4% per effettuare investimenti e l’11,6 per ristrutturare debiti esistenti. «In un momento ancora delicato per le imprese sul fronte dell’approvvigionamento del denaro, questo provvedimento – rileva Confcommercio Lombardia – garantirà ai confidi lombardi, anche del sistema Confcommercio, di ampliare la propria operatività finanziaria a sostegno del mondo economico regionale. Restiamo ora in attesa del decreto attuativo».




Ubi Banca sbarca a Dubai e firma un memorandum d’intesa

Taglio del nastro dell'Ufficio di rappresentanza da parte di S.E. Liborio Stellino, Ambasciatore d'Italia negli UAE, alla presenza di Andrea Moltrasio, presidente Consiglio di Sorveglianza di UBI Banca, di Rossella Leidi, Chief Business Officer UBI Banca, e di Luigi Landoni, responsabile dell'ufficio di Dubai
Taglio del nastro dell’Ufficio di rappresentanza da parte di Liborio Stellino, Ambasciatore d’Italia negli UAE. Con lui Andrea Moltrasio, Rossella Leidi e Luigi Landoni, responsabile dell’ufficio di Dubai

Con una missione ufficiale guidata dal presidente del Consiglio di Sorveglianza Andrea Moltrasio, UBI Banca ha inaugurato il proprio Ufficio di Rappresentanza a Dubai. Responsabile dell’Ufficio è Luigi Landoni, un manager esperto di attività bancaria internazionale, professionalmente attivo nell’area dal 2008. Quella negli Emirati Arabi Uniti, insieme agIi Stati Uniti d’America (New York) e al Marocco (Casablanca), rappresenta la terza apertura ufficiale del Gruppo nell’ultimo semestre, confermando l’importanza strategica che ha per UBI Banca la presenza internazionale a supporto dell’attività della propria clientela corporate. “In quanto rappresentati della seconda economia manifatturiera in Europa raccogliamo l’interesse di Paesi, come gli Emirati Arabi Uniti, impegnati in molteplici e grandi progetti, capaci di accogliere il contributo del sistema produttivo internazionale – afferma Moltrasio -. Il nostro Gruppo radicato nelle aree economicamente più dinamiche d’Italia, è il partner per la crescita all’estero delle imprese che ne costituiscono il tessuto produttivo”. Firma MoU

Nei giorni della missione è stato siglato, un Memorandum of Understanding per la collaborazione tra il Gruppo UBI Banca e la SuperESCO Etihad Energy Services, controllata al 100% da DEWA (Ente Pubblico controllato dal Dubai Council e monopolista del servizio di produzione di distribuzione di energia e acqua dell’Emirato di Dubai). Il memorandum è un accordo finalizzato a sensibilizzare e coinvolgere le imprese italiane nella partecipazione di appalti e forniture di tecnologia, relativamente al programma di retrofit, collegato al piano di Dubai Clean Energy Strategy 2050. Il programma di retrofit prevede la realizzazione, in una prima fase che si chiuderà entro il 2018, di investimenti pari almeno a circa 500mln di dollari per il risparmio energetico delle strutture operative del Servizio Pubblico (strade, uffici postali, free Zones, moschee, pubblica sicurezza).




Ubi Banca, ecco la lista dei Fondi. Tre i nomi per il prossimo CdS

I fondi hanno presentato la loro lista di minoranza per il rinnovo del consiglio di sorveglianza di Ubi Banca, previsto alla prossima assemblea dei soci del 2 aprile. Capolista è Giovanni Fiori, professore alla Luiss nonchè componente del collegio sindacale della Banca d’Italia e già commissario straordinario di Alitalia. Seguono Paola Giannotti e Patrizia Michela Giangualano, la prima managing diretcor di lungo corso e membro del cda Ansaldo, la seconda manager in Pwc Consulting. I gestori che hanno presentato la lista sono titolari di oltre l’1,2% delle azioni ordinarie della banca. Nel dettaglio la lista è stata depositata da: Aberdeen Asset Management, Aletti Gestielle Sgr, Arca Sgr, Eurizon Capital Sgr, Eurizon Capital, Fideuram Asset Management, Interfund Sicav, Generali Investment Europe Sgr, Legal & General Investment Management, Mediolanum Gestione Fondi Sgr, Mediolanum International Funds, Pioneer Investment Management Sgr e Pioneer Asset Management. Salgono quindi a due le liste, dopo quella unitaria presentata dal Patto dei Mille, dal Sindacato Azionisti Ubi Banca Spa e dalla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo con capolista Moltrasio e altri quattro bergamaschi in lista. Avendo i Fondi messo in lista due donne, nel caso  raggiungessero il quorum del 30% sancirebbero l’uscita dal nuovo CdS della bergamasca Luciana Gattinoni, lasciando quindi a tre il numero di rappresentanti bergamaschi nel Consiglio.




Ubi Banca, Bergamo incassa più di quel che pesa

ubi_b4.jpgCome facevano già capire i numeri, si va verso una Ubi a maggioranza bresciana, a giudicare dalla carta d’identità di chi comporrà i futuri vertici, per quanto questo possa contare. Anche se quello che dovrebbe interessare ai vari portatori d’interesse, dai correntisti agli azionisti, bergamaschi e non, dovrebbe essere qualcos’altro. Chi ritiene che la banca abbia avuto un buon andamento negli ultimi anni e soprattutto che si siano messe le basi per un solido futuro dovrebbe essere interessato alla continuità. E da questo punto di vista non si profilano rivoluzioni né rivolgimenti, anche se salgono dai commentatori da bar le lamentele sull’ “ennesima banca persa” (dopo la Banca di Bergamo, la Provinciale Lombarda e il Credito Bergamasco), come se un istituto potesse funzionare solo se ha un riferimento provinciale, dimenticando che piuttosto è lo sguardo sempre e troppo ripiegato sui propri passi, sulla propria storia, sulla propria tradizione, sul “si è sempre fatto così” – e, diciamolo, sui propri riferimenti ai soliti centri di potere – che impoverisce e soffoca ogni possibilità di crescita e a volte anche di sopravvivenza.

Tornando a Bergamo e alla sua rappresentanza, in un Consiglio di sorveglianza che lo statuto restringe da 23 a 15 persone gli esponenti bergamaschi danno un contributo particolare al ridimensionamento, ma allo stesso tempo viene paradossalmente riconosciuta loro una presenza superiore al peso effettivo espresso dai suoi azionisti. Il listone per la nomina del Consiglio di sorveglianza di Ubi Banca Spa in occasione dell’assemblea del 2 aprile raggruppa infatti poco più del 17% del capitale sociale. La parte del leone la fa il sindacato Azionisti Ubi Banca Spa, una sostanziale riedizione del patto che controllava la bresciana Banca Lombarda e Piemontese prima della fusione, che controlla circa il 12% del capitale sociale e rappresenta il 70% delle azioni del listone. La parte bergamasca, con il Patto dei Mille, ha voluto contarsi e non è riuscita, nonostante innesti varesini, a unire in un sindacato nemmeno il 3% del capitale. C’è poi un 2,2% che fa capo alla Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo, tradizionalmente alleata del fronte bresciano, ma che ha preferito non partecipare alla costituzione del nuovo patto.

Con questi rapporti di forza appare un premio molto generoso la concessione al patto bergamasco, che rappresenta circa il 17% del listone, addirittura di un terzo dei candidati (tra i quali il presidente Andrea Moltrasio), mentre alla Fondazione di Cuneo, che esprime una quota di capitale non molto più bassa del Patto dei mille, viene riconosciuto un solo candidato (Gian Luigi Gola). Questo anche se in assemblea, con ogni probabilità, di bergamaschi ne verranno eletti solo tre (Moltrasio, Armando Santus e Renato Guerini), che sono comunque il 20% dei consiglieri quando non si esprime nemmeno il 3% del capitale sociale. Tutto dipenderà dal risultato in assemblea della lista che dovrebbe essere presentata dai fondi. Formalmente gli investitori istituzionali sono accreditati dal 40% e volendo potrebbero anche sbancare tutto. Tradizionalmente però il loro ruolo non è quello della gestione: il loro interesse è avere consiglieri veramente di sorveglianza che controllino la situazione e quindi si presenteranno in partenza come lista di minoranza e potranno quindi ottenere un consigliere, oppure due (se raccoglieranno tra il 15% e il 30% dei voti in assemblea), oppure tre (se supera il 30%).  E nell’ipotesi non improbabile che arrivino alla soglia massima, resteranno fuori gli ultimi tre candidati del listone, con i non eletti in panchina, per sostituire eventuali consiglieri che dovessero lasciare la carica durante il mandato: negli ultimi tre posti ci sono due dei cinque candidati bergamaschi, i consiglieri uscenti Luciana Gattinoni (terz’ultima e quindi probabile prima dei non eletti) e Antonella Bardoni (inserita all’ultimo posto e quindi con pochissime possibilità), che quindi almeno al primo giro non dovrebbero far parte del nuovo consiglio.

Rispetto al consiglio attuale è probabile così che mancheranno 9/10 consiglieri bergamaschi: Gattinoni e Bardoni, quindi, ma anche tutti i non ricandidati, Alfredo Gusmini, il vicepresidente Mario Mazzoleni, oltre a Federico Manzoni, bergamasco doc, ma proposto in precedenza dal fronte bresciano, e ai cinque eletti nella lista di minoranza, considerandoli tutti tali, anche al di là dell’anagrafe, perché essenzialmente espressione dei piccoli soci della ex Popolare di Bergamo, Andrea Resti, Marco Gallarati, Maurizio Zucchi, Dorino Agliardi e Luca Cividini. Sono invece cinque i consiglieri non bergamaschi che usciranno: due bresciani, Enrico Minelli ed il vicepresidente del Consiglio di sorveglianza e neopresidente del “patto” Alberto Folonari (per il quale scatta l’ineleggibilità per superato limite dei 75 anni d’età), le docenti universitarie Marina Brogi (romana) ed Ester Faia (nata a Napoli) e il commercialista milanese Carlo Garavaglia. Due soli i nuovi nomi proposti nella lista: Francesca Bazoli e Simona Pezzolo de Rossi (commercialista bresciana al penultimo posto e quindi con ogni probabilità anch’essa esclusa). L’unico nuovo innesto nel consiglio, oltre ovviamente ai rappresentanti dei fondi, sarà quindi l’avvocato bresciano Francesca Bazoli, già nel giro Ubi tanto da essere nel comitato esecutivo del Banco di Brescia, e già in predicato in passato di entrare nel consiglio di gestione di Ubi, dopo che dal consiglio di sorveglianza era uscito, per la normativa sui doppi incarichi, il padre Giovanni Bazoli, numero uno di Intesa Sanpaolo, che lascerà l’incarico alla prossima assemblea. Ma al di là delle entrate e delle uscite, quello che più dovrebbe interessare è se in Ubi Spa cambierà qualcosa. E questo non sembra probabile se si considera, appunto, che dei primi dodici nella lista, a parte Francesca Bazoli, ci sono undici conferme, a partire da presidente (Andrea Moltrasio) e vicepresidente vicario (Mario Cera). Le altre sono quelle, in ordine di lista, di Armando Santus, Gian Luigi Gola, Pietro Gussalli Beretta, Pierpaolo Camadini, Letizia Bellini, Renato Guerini, Giuseppe Lucchini (l’industriale bresciano che controlla la Lucchini Rs di Lovere), Sergio Pivato, Alessandra Del Boca. Una garanzia di continuità e quindi dello spirito Ubi – che in ogni caso non è mai stato a maggioranza bergamasco, se non al massimo per metà -, che vale più di tante carte di identità.

 




Assemblea di Ubi Banca, patto tra Bergamo, Brescia e Cuneo. Ecco i bergamaschi in lista

Ubi Banca ha reso noto l’accordo per l’esercizio del voto nell’assemblea convocata per il prossimo 2 aprile. Accordo che vede come protagonisti gli aderenti ai due patti parasociali – il “Sindacato Azionisti di Ubi Banca” di matrice bresciana e il “Patto dei Mille” con radici bergamasche – e la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo. Il nuovo Patto raggruppa 256 azionisti che detengono 153.674.628 azioni pari al 17,04% del capitale sociale con diritto di voto. La lista per la nomina del Consiglio di sorveglianza di Ubi per il triennio 2016/2018, che verrà presentata in occasione dell’assemblea, registra la presenza di cinque bergamaschi su 15: Andrea Moltrasio (capolista e confermato presidente), Armando Santus, Renato Guerini, Luciana Gattinoni e Antonella Bardoni (per quest’ultime due le chance di entrare in Consiglio dipenderanno dal peso dei Fondi). Gli altri in lista sono: Mario Cera (secondo in lista), Gian Luigi Gola (in rappresentanza della Fondazione di Cuneo), Pietro Gussalli Beretta, Giuseppe Lucchini, Pierpaolo Camadini, Letizia Bellini, Francesca Bazoli, Sergio Pivato, Alessandra Del Boca e Simona Pezzolo De Rossi.




Ubi Banca, il Patto dei Mille cresce. Ecco l’elenco dei soci

ubi_b5.jpgSoci saliti da 65 a 82 e azioni sindacate passate dal 2, 27% al 2,861% per un totale 25, 8 milioni. Fa piccoli passi avanti il Patto di Mille, il sodalizio bergamasco che per primo è uscito allo scoperto in vista del rinnovo dei vertici alla prossima assemblea di Ubi Banca. A scorrere l’elenco, oltre ai nomi dell’imprenditoria bergamasca, spiccano quelli della Diocesi di Bergamo, dell’istituto diocesano per il sostentamento del Clero e di “San Narno, che detengono complessivamente 3.522.000 azioni. Tra i bergamaschi, in evidenza la finanziaria “Quattro Luglio” con 4.410.977 azioni, la Nuova Fourb spa (famiglia Bombassei) con 1.250.000 mila azioni, la Scame con 2.262.000, la Vittorina srl (famiglia Cefis) con 1.800.000 mila azioni. In lista anche la famiglia Radici con 1.452.000 azioni, la famiglia Zanetti (6.262.000), Miro Radici (966.519), la famiglia Sestini (120.000) e la holding Odissea Persassi (100 mila azioni). Nel pdf allegato l’elenco completo dei soci.

Il Patto dei Mille – L’elenco dei soci