Ubi, perché non ha più senso guardare al passato

ubi-banca1.jpgSe la vogliamo buttare sul piano calcistico, se si vuole capire quanto conta la storia e la tradizione in un’impresa, si può guardare a quanto è successo alla Roma A.S. – per inciso una società quotata in Borsa – dove “il capitano” per eccellenza, Francesco Totti, 27 anni in giallorosso, è stato accantonato di punto in bianco. La bandiera e la dedizione sono infatti belle cose, ma l’importante è che la squadra vinca. Per avvicinarsi a Bergamo, qualcosa di simile è avvenuto con un altro capitano, Cristiano Doni, che non aveva certo l’attaccamento alla maglia di Totti: c’è voluto un po’ di tempo perché i tifosi più accaniti riuscissero a metabolizzare una situazione ben più grave di un giocatore giudicato sul viale del tramonto, ma alla fine il capitano è stato scaricato, e poi, tanto per esagerare e con poco rispetto di quella storia che dovrebbe essere riconosciuta nel bene e nel male, condannato  a una sorta di “damnatio memoriae”, perché l’importante era che andasse avanti l’Atalanta.

Se questi discorsi sulla storia passata valgono in una squadra di calcio, a maggiore ragione valgono in una banca, soprattutto se società per azioni. Già spesso si tende a confondere gli istituti di credito con gli istituti di beneficenza e i veri proprietari (gli azionisti) con altri portatori di interessi più o meno concreti. In Ubi sembra che sia anche dimenticato che le regole sono cambiate, che il capitolo cooperativa si è chiuso e non si può gestire un’azienda continuando a guardare all’indietro, recriminando su cosa è stato e cosa sarebbe potuto essere. Invece la componente “orobica” di Ubi, per indicare, semplificando, i  soci di provenienza Bpu, alla retorica della “banca bergamasca” non vuole rinunciare, anche se i numeri in questo momento dicono che non c’è più. Forse non è chiaro il funzionamento di una società per azioni a chi continua a sostenere che il gruppo è patrimonio dei bergamaschi (quali?) perché la Banca Popolare di Bergamo è la banca più produttiva ed efficiente del gruppo. Un sillogismo non distante dall’esigere che nel Consiglio dell’ Abb o della Schneider Electric devono esserci rappresentanti bergamaschi perché la loro filiale in provincia va molto bene: potranno anche entrare nel board, ma solo se i proprietari saranno d’accordo. Lo stesso vale alla Popolare di Bergamo, un gioiellino che va molto bene, ma che  è controllata al 100% da Ubi Banca, dove i bergamaschi sono riusciti finora ad esprimere solo un patto di sindacato presentatosi (in attesa di aggiornamenti) con una quota del 2,27% del capitale. E dato che in un’assemblea di una Spa vince chi ha un’azione più degli altri (come quando Ubi era una cooperativa vinceva chi presenta un socio più degli altri), se si dovesse tenere in questo momento, con le attuali posizioni conosciute,  il controllo non è dei bergamaschi ma della cordata di anima bresciana (ex Banca Lombarda) che rappresenta l’11,95% del capitale e quindi decide sia in Ubi, sia indirettamente nella Popolare di Bergamo.

Con il Patto dei Mille, come al momento sua unica proposta, di fatto Bergamo ha reso palesemente visibile la sua posizione di inferiorità. Se corre da sola sarà con ogni probabilità messa fuori gioco anche dalla lista che dovrebbero presentare i fondi, mentre se troverà un’alleanza con il patto bresciano, probabilmente estesa anche alla Fondazione Caricuneo (ex azionista Lombarda che ora corre da solo), che ha pure una quota superiore al 2%, riuscirà ad esprimere qualche consigliere, con ogni probabilità anche uno dei due presidenti, ma di fatto sarà presente in Ubi più da ospite, che da padrone, grazie alla buona disposizione, in virtù di relazioni consolidate, degli alleati bresciani che, se volessero, potrebbero avere tutto. Questa situazione, in ogni caso, non si è creata tanto per colpa della Spa, quanto perché Bergamo non è riuscita ad esprimere una formula che permetta di unire la forza dispersa dei tanti ex soci della Popolare, azionariato diffuso e frammentato, e per aver pensato che si potesse continuare a contare senza tirare fuori i soldi e acquistare azioni.

Ma il fatto che venga superata una divisione geografica ormai antistorica, dopo ormai quasi nove anni dalla fusione e della nascita del terzo-quarto gruppo bancario – e si intende non provinciale, ma nazionale -, leader non solo a Bergamo ma anche su altre piazze,- dovrebbe essere nel gioco delle cose. Si può pensare che alla maggior parte dei clienti e degli azionisti, sempre di più non bergamaschi, importi ben poco dove siano nati i consiglieri e siano legittimamente più interessati ad avere una banca sana ed efficiente e  soprattutto, in questi tempi da panico di bail-in, di non avere brutte sorprese. Che spesso arrivano proprio dai conterranei, come hanno scoperto a loro spese gli obbligazionisti di Banca Etruria e Banca Marche, quando la conoscenza, l’amicizia e i favori reciproci portano a perdita di professionalità. Pensare che una gestione sia migliore solo perché i Consigli siano composti da bergamaschi o da bresciani (con l’avvertenza che in ogni caso il consigliere delegato Victor Massiah è nato in Libia) è ingenuo, mentre se la questione riguarda solo interessi di potere o di poltrone sarebbe meglio chiudere subito, con un po’ di preoccupazione,  il discorso. Per aiutare a valutare con orizzonti più grandi si potrebbe piuttosto pensare di chiudere definitivamente con il passato, realizzando anche sinergie e risparmi, e procedere alla realizzazione di una banca unica: forse ragionando solo come Ubi, Unione di Banche Italiane, l’aspetto del campanile provinciale inizierebbe veramente a contare meno e si guarderebbe a questioni più importanti.

 




L’elenco degli aderenti al Sindacato azionisti UBI Banca

 

L’ELENCO DEGLI ADERENTI AL SINDACATO AZIONISTI UBI BANCA SPA

 




Ubi, il patto dei bresciani vincola il 12% del capitale

Dopo il “Patto dei Mille” di Bergamo (65 azionisti in rappresentanza del 2,27% delle quote), ecco che nella galassia Ubi nasce un altro Patto di consultazione sul capitale. A dar vita al sodalizio alcune tra le principali istituzioni, famiglie imprenditoriali e professionisti residenti nel Bresciano e in altre province in cui la banca opera. Il nocciolo duro del Patto fa riferimento ai soci raccolti nell’Associazione Banca Lombarda e Piemontese e raggruppa azionisti di Lombardia, Piemonte, Veneto, Trentino ed Emilia Romagna. Ad oggi hanno aderito al Patto 173 azionisti che hanno apportanto circa l’11,95% del capitale. Il patto è di consultazione e voto per la nomina del Consiglio di sorveglianza e ha l’obiettivo di sostenere lo sviluppo nel medio e lungo termine del gruppo Ubi Banca. Alberto Folonari è il presidente del patto, mentre Aldo Poli ed Enrico Minelli sono i vicepresidenti.




Ubi sbarca in Marocco. Aperto l’ufficio di rappresentanza a Casablanca

uubii877.jpgIl Gruppo UBI Banca ha ottenuto un’autorizzazione dalla Banca Centrale del Marocco e lo status di CFC rilasciato dalla CFC Commission che permettono di aprire l’Ufficio di Rappresentanza a Casablanca all’interno del Casablanca Finance City (CFC). Quest’ultima è la piattaforma creata dalle autorità marocchine nel 2010 con l’intento di promuovere il ruolo di Casablanca come centro finanziario della regione, in grado di attrarre aziende africane e internazionali che scelgono la città come base per lo sviluppo della propria attività nell’Africa settentrionale, occidentale e centrale. Il responsabile della struttura sarà Abdelkrim Sbihi, 43 anni che proviene dall’incarico di CFO di un importante Gruppo attivo nel settore del retail commerciale in Marocco. Abdelkrim Sbihi in precedenza ha maturato numerose esperienze in Marocco, Europa e Stati Uniti e ha lavorato presso Credit Agricole Morocco e presso Attijariwafa Bank ricoprendo vari incarichi tra cui quelli di Direttore della Sala Cambi, Corporate Trader e Correspondent Banking Officer. L’iniziativa rientra nella più ampia strategia di UBI volta a potenziare i servizi necessari a sostenere l’espansione produttiva e commerciale delle imprese italiane all’estero. “La presenza nelle aree economicamente più attive del Paese ci ha permesso di osservare il riflesso che la domanda estera ha sulle possibilità di sviluppo delle imprese italiane in questi anni – sostiene Sergio Passoni, responsabile dell’attività internazionale del gruppo UBI. – Un fenomeno che ha imposto alla banca di dotarsi di professionisti, strutture e capacità di servizio adeguate a sostenere le aziende più dinamiche nei propri progetti di internazionalizzazione”.




Bergamo città senza contanti? I dubbi e le proposte dell’Ascom

Non tutto ciò che è tecnologico è per forza conveniente per un’impresa. Ci ha tenuto a sottolinearlo il direttore dell’Ascom Oscar Fusini nel corso dell’incontro “Senza contanti Bergamo è avanti!” organizzato a Loreto dal circolo 2 di Bergamo del Pd – con la partecipazione, tra gli altri, dell’assessore all’Innovazione del Comune di Bergamo Giacomo Angeloni e degli onorevoli Antonio Misiani e Sergio Boccadutri – per misurare come sono cambiate le abitudini dei cittadini con il progetto cashless city, volto a diffondere e incrementare l’utilizzo dei pagamenti elettronici tramite ogni tipo di carta e Pos.

Non è aumentando i Pos che crescono le transazioni

Se la propensione a utilizzare la moneta elettronica è più scarsa in Italia che all’estero, intanto, non dipende dalla diffusione dei terminali (Pos). «Il numero dei Pos nel 2014 in Italia era pari a 31 per mille abitanti, la più alta densità in Europa, più di Francia (24) Germania (9) Regno Unito (26) e Spagna (26) con una variazione in aumento dal 2010 al 2014 del + 37%, la più alta nella Ue», ha spiegato Fusini. «La dotazione complessiva di Pos nel nostro Paese risulta in linea rispetto agli altri principali paesi dell’area euro, mentre ci sono evidenti divari relativamente al numero di operazioni effettuate per ogni singolo Pos e per persona (34 operazioni per abitante, solo l’8,8% del Pil)».

Questo è perché il consumatore non possiede carta di credito o debito o perché non la vuole usare per svariati motivi (abitudine alla modalità di spesa, tempo del pagamento, sicurezza del pagamento, plafond carte, monte spesa volontario, scarsa abitudine al controllo bancario, rintracciabilità dell’acquisto). «L’assenza del Pos nel punto vendita è solo una delle motivazioni – ha evidenziato Fusini – mentre è l’unico aspetto sul quale si concentra l’attenzione».

Il nodo dei costi

Tanto è vero che l’obbligo di installare il Pos in Italia è stato esteso in pratica a tutte le attività, comprese quelle in cui la spesa è il più delle volte di piccola entità. «Secondo una ricerca del dicembre 2015 dei nostri colleghi dell’Unione del commercio di Sondrio – ha ricordato il direttore dell’Ascom bergamasca -, l’accettazione del pagamento elettronico per l’acquisto di un giornale quotidiano di € 1,30 (margine lordo € 0,244) con commissione Pagobancomat del 0,686% si riduce a + € 0,005 mentre con commissione carta di credito al 2,20% diventa addirittura negativo a – € 0,015. Allo stesso modo nel caso di un tabaccaio per la vendita di un pacchetto di sigarette di € 5,20 (aggio lordo 10% pari a € 0,52) nel caso di pagamento elettronico con commissione Pagobancomat pari a 0,686 l’aggio lordo scende a € 0,254 e nel caso di carta di credito con commissione al 2,20% scende addirittura a € 0,176».

«Esiste – quindi – un problema evidente di costi per talune merceologie i cui margini commerciali sono troppo bassi (tabaccai, edicolanti, agenzie viaggio, benzinai ecc.) o per i quali la spesa media è troppo bassa (bar panifici ecc.). Infine esistono costi fissi troppo rilevanti per esercizi nei quali l’utilizzo del Pos è limitato da parte della clientela. Nell’attuale contesto, gli oneri ricadono infatti solo ed unicamente sulle imprese, lasciate peraltro sole a cercare di strappare, da una posizione di minorità, condizioni contrattuali dignitose da soggetti che spesso sembrano operare in condizioni di vero e proprio oligopolio». «L’avvio, il mantenimento del servizio e le commissioni sui pagamenti rappresentano – ha evidenziato -, soprattutto per le imprese con margini di redditività e volumi di fatturato molto ridotti, un ulteriore aggravio a carico di settori già pesantemente vessati dalla crisi. I costi di noleggio, le commissioni percentuali le altre spese sono paradossalmente più alte per coloro che incassano poco rispetto a coloro che transano molto con un’incidenza spesso insostenibile».

Le proposte dell’Ascom

Oltre ai costi, anche problemi di affidabilità e inefficienze nel sistema frenano un utilizzo più ampio della moneta elettronica da parte delle piccole aziende commerciali. Se la diffusione in queste realtà è comunque auspicabile, per migliorare la sicurezza e il servizio, ecco allora alcune proposte dell’Associazione per fare in modo che l’aumento delle transazioni con Pos diventi economico anche per loro.

«Promuovere la realizzazione di piattaforme efficienti in grado di superare gli attuali schemi di produzione ed erogazione dei servizi di pagamento, riducendo i livelli di intermediazione finanziaria tra consumatore/cliente ed esercente», ha cominciato Fusini. E poi imporre l’effettivo tetto massimo alle commissioni interbancarie sulla base dei contenuti del Regolamento della Commissione Ue sulle commissioni interbancarie; sviluppare offerte “a pacchetto” particolarmente convenienti, sulla base di quanto è stato già fatto con i conti correnti di base per le fasce più disagiate della popolazione in seguito all’obbligo di dotarsi di un conto corrente; consentire a tutte le imprese di beneficiare delle economie di scala derivanti dall’aumento complessivo dei volumi transati che le nuove normative dovrebbero indurre, creando una relazione diretta, ed inversamente proporzionale, tra l’incremento dei volumi transati e la riduzione delle commissioni bancarie applicate alle imprese su ogni operazione; in ogni caso, in materia di obblighi Pos, introdurre principi di gradualità e sostenibilità, limitando gli obblighi di istallazione a operatori economici con livelli di fatturato al di sopra di predeterminati livelli ed imponendo la non utilizzabilità per talune merceologie».




Ubi, tempesta sul titolo. Ma c’è chi ne approfitta

ubi31.jpgE’ bastato che trapelasse l’indiscrezione non confermata che Deutsche Bank, la prima banca tedesca seppure ultimamente un po’ acciaccata, non fosse in grado di rimborsare le cedole di un bond subordinato in scadenza 2017 perché il titolo finisse nella bufera con un calo a due cifre, nonostante tutti i proclami da parte dell’istituto e del governo sulla solidità del gruppo. Solo quando è stata fatta uscire, presumibilmente ad arte, l’indiscrezione di riparazione che il gruppo starebbe considerando un’operazione di riacquisto del proprio debito, l’isteria del mercato è rientrata. La banca continua ad essere sotto stretta osservazione, ma il fatto che abbia anche soltanto la possibilità di un’idea di buy back ha dato l’apparenza di una situazione di liquidità sotto controllo. I problemi rimangono, tanto è vero che giovedì i credit-default-swap, le coperture che assicurano dal rischio di insolvenza sono balzate a 265 punti base, così che la prima banca tedesca è sentita più rischiosa della prima banca italiana (Unicredit) che è ferma a 245, ma almeno i mercati si sono leggermente rilassanti. Al di là di tutti gli indici e i parametri, in fondo, quello che vogliono i clienti, e quindi gli investitori, da una banca è tranquillità e fiducia ben riposta. Quando questa viene minata, a torto o a ragione, il risultato sono le pazze oscillazioni di questo inizio 2016.

All’origine dei dubbi sulla solidità degli istituti italiani c’è infatti paradossalmente il salvataggio delle quattro banche commissariate, realizzato grazie alle risorse dello stesso sistema creditizio nazionale. Un’operazione che invece di essere vista come espressione di solidità degli istituti italiani, ha acceso un faro sulla possibilità che anche gli istituti di credito possano fallire e sull’esistenza dell’accordo europeo sul bail-in, con una differente rischiosità per chi ha rapporti con le banche. In fondo nulla di particolarmente diverso (se non per i possessori di quei 58 miliardi di obbligazioni subordinate in circolazione a fine anno) da quanto accadeva prima in Italia, ma sufficiente per mettere agitazione, come se all’improvviso ogni banca dovesse fallire. A volte basta una piccola ingenuità, un venticello, per incrinare la credibilità. E provocare un crollo del titolo, come è accaduto giovedì per Ubi, un clamoroso meno 12% finale dopo perdite in corso di seduta ancora più alte, nel giorno della pubblicazione di risultati forse non eccelsi in termini assoluti, ma comunque più che dignitosi nel contesto attuale, tanto da permettere un lieve incremento del dividendo. Lo scivolone è avvenuto, a parere di molti, su una questione in fondo marginale come il diritto di recesso. In ottobre, in occasione della trasformazione da popolare cooperativa in Spa, Ubi ha previsto la possibilità per i soci dissenzienti di uscire dalla società rivendendole le azioni, come il codice civile prevede in caso di trasformazioni. Nell’occasione è stato fissato un limite ai rimborsi, che incidono negativamente sul patrimonio, ad una quota che in ogni caso non facesse scendere il coefficiente Cet1 a regime sotto un livello calcolato su una media parametrata europea. A ottobre questo si traduceva in circa 350 milioni di disponibilità per l’operazione. A chiedere il recesso sono stati soprattutto fondi di investimento che avevano deciso di uscire al prezzo fissato di 7,288 euro per azione, valore che all’epoca era prossimo a quello di Borsa, con circa 35,5 milioni di azioni (poco meno del 4% del capitale) per un importo totale di circa 257 milioni, quindi ampiamente all’interno della previsione di spesa.

E’ successo però che in pochi mesi il cambiamento dello scenario e i contributi al fondo di risoluzione e in generale all’operazione di salvataggio dei quattro istituti commissariati, hanno eroso gli indici patrimoniali ed hanno ridotto a circa 13 milioni di euro (a fronte di richieste rimaste a circa 257 milioni) la possibilità di riacquistare le azioni da parte di Ubi senza scendere sotto il limite patrimoniale prefissato. Così solo il 5% delle domande di recesso potrà essere accolta. E chi pensava di poter vendere a 7,288 euro ora si trova titoli che valgono meno di 3 euro. Tutto logico, corretto e condivisibile, ma nonostante tutte le spiegazioni, il messaggio rovesciato che è passato è che Ubi non può pagare quanto annunciato. Il che formalmente non è nemmeno falso, anche se le ragioni sono diverse da una crisi di liquidità – il peggior rischio per una banca – come un’affermazione del genere potrebbe invece fare immaginare. L’ad Victor Massiah ha parlato di una “reazione assolutamente inorridita” da parte dei fondi. Fatto sta che si sono scatenate le vendite, con scambi per oltre 30 milioni di azioni, oltre il 3% del capitale, quasi quanto i titoli che hanno chiesto il recesso (che però sono congelati nell’operazione) e più dell’intero pacchetto dichiarato dal Patto dei Mille. Grandi vendite, quindi, ma quando ci sono scambi vuol dire anche che ci sono grandi acquisti. E si può immaginare anche che ci siano costruzioni di posizioni importanti a prezzi scontati che poi si vedranno in assemblea. Se ci fosse una mano forte che ha rastrellato quanto è stato precipitosamente venduto si sarebbe creato in una giornata il terzo maggiore azionista della banca. I giochi insomma non sono ancora fatti, mentre per il titolo è da aspettarsi ancora un’ ampia volatilità.

 




Banche, l’onda ribassista e le possibili sorprese in assemblea

a-ubi.jpgIn sei mesi Ubi ha praticamente dimezzato il suo valore in Borsa e da inizio anno la quotazione è scesa di circa un terzo, tornando ai livelli (3,808 euro) dell’aumento di capitale di cinque anni fa e a un valore che è quasi la metà del valore del diritto di recesso stabilito in occasione della trasformazione in Spa. Non è nemmeno la performance peggiore di un settore bancario in generale caduta, all’interno di una Borsa comunque in calo anche per fattori internazionali, dalla discesa del prezzo del petrolio al rallentamento economico non solo in Cina. Non ci sono motivi concreti che indichino un peggioramento della salute delle banche tale da portare a un crollo così repentino. La Borsa però vive anche, e a volte soprattutto, di aspettative e di sensazioni che portano a rialzi immotivati come a ribassi irrazionali. Questo non vuol dire che sia in atto un complotto contro le banche italiane o contro l’Italia in generale. Preoccupazioni reali di fondo esistono e caso mai si tratta di riuscire a capire quanto siano state amplificate.

Il motivo principale è quello delle sofferenze bancarie, le perdite legate ai prestiti che non vengono restituiti, oltre 200 miliardi di euro nell’intero sistema bancario, mediamente già svalutate in bilancio per il 60%, ma con 80 miliardi di euro ancora da gestire. Si è aggiunto il timore che dopo i quattro istituti commissariati (Etruria, Marche, Carife e Carichieti) che con il loro salvataggio a novembre hanno scatenato i dubbi sul settore, altri si possano aggiungere, portando a cascata ulteriori costi alle altre banche. E più recentemente è esplosa anche l’insofferenza del mercato sulla incertezza delle aggregazioni, una questione che interessa in particolare le Popolari e quindi Ubi, per il suo ruolo riconosciuto di potenziale aggregatore. Non si vedono infatti all’orizzonte fusioni dalle prospettive chiare e lineari che diano certezza di successo. Tutte sono operazioni problematiche con diversa gradualità e per vari motivi, tanto che l’impressione è che alla fine piuttosto che procedere a un cattivo matrimonio, almeno per chi non è obbligato dai conti, sia meglio restare single. Il mercato vede con preoccupazione, ad esempio, che la solidità patrimoniale di alcuni istituti, e tra questi c’è Ubi a tutto diritto, possa diluirsi o addirittura scomparire dall’unione con istituti più deboli. Ma resta anche perplesso sulla possibilità che possa derivare un istituto più solido dall’unione di due debolezze ed è altrettanto preoccupato che non si trovi soluzione per le banche dall’equilibrio fragile. Il consolidamento degli istituti è infatti visto come una necessità e i ritardi nella sua realizzazione li paga l’intero sistema bancario, che ha già sborsato più di 3 miliardi per tenere in piedi i quattro istituti

La tempesta borsistica, inoltre, si è scatenata nel periodo di limbo che precede la comunicazione dei dati societari, attesi nei prossimi giorni, che dovrebbero dare un aggiornamento, e auspicabilmente tranquillizzare, sulla solidità degli istituti, riguardo a struttura patrimoniale, salute dei prestiti, loro copertura, accantonamenti e, non ultimo, redditività e prospettive di dividendo, elementi che in Borsa hanno sempre la loro importanza.  L’incertezza accentua tutte le tendenze e anche la scarsa trasparenza sull’effettivo andamento dei famosi “colloqui di tutti con tutti” contribuisce a rendere poco chiara la situazione, alimentando la volatilità. Per le Popolari c’è poi l’ulteriore incertezza legata alla riforma, che dal punto di vista temporale, si sta rivelando improvvida. La trasformazione in Spa non ha al momento portato ad alcuna aggregazione come era negli auspici dei promotori della normativa, ma ha anzi aperto altri fronti di instabilità, con la possibilità di cambiamenti delle maggioranze e quindi della gestione.

Tutte queste tensioni si scaricano sulle quotazioni di Borsa, con prospettive tra l’altro di grande complessità per quegli istituti, Veneto Banca e Popolare di Vicenza, che in Piazza Affari stanno per sbarcare, non per obbligo della riforma, ma come logica conseguenza. E non è totalmente vero che una banca sia totalmente indifferente dalle quotazioni di Borsa. Facendo il caso eclatante del Monte dei Paschi, che proprio nei giorni scorsi ha presentato il suo primo bilancio in utile dopo cinque anni, quello che conta per la sua solidità è la patrimonializzazione netta concreta di quasi 10 miliardi, non che il mercato gli riconosca un valore, in termini di capitalizzazione di Borsa, di appena uno e mezzo. La bassa capitalizzazione non incide sulla gestione ordinaria, ma può avere però implicazioni importanti in operazioni straordinarie, dall’equilibrio tra le parti nelle aggregazioni di cui tanto si parla, al successo di eventuali aumenti di capitale che potrebbero essere necessari per la questione delle sofferenze, fino allo stesso assetto interno, perché con un investimento non astronomico neanche per la finanza nazionale, dove molti imprenditori si trovano con grande liquidità dopo avere ceduto le loro azienda, si possono creare pacchetti in grado di determinare il controllo di un istituto. Tanto per fare dei numeri, il 5% di Ubi adesso lo si compra con 170 milioni, il 5% del Banco o della Popolare di Milano con 150,il 5% della Bper per 110: il 5% di Montepaschi per 80 milioni (quando un anno fa ce ne volevano 400). Il 5% di Carige poco più di 20. Non si può escludere che ci sia chi è interessato al ribassismo per poter comprare domani a un prezzo inferiore a quello di ieri e magari presentarsi con posizioni forti al cambio dei vertici in assemblee demoralizzate per il calo delle quotazioni.




Accesso al credito, Fogalco amplia il raggio di azione

Fogalco e Lia Eurofidi si aprono anche alle piccole medie imprese del manifatturiero. I due confidi bergamaschi, che aderiscono ad Asconfidi Lombardia, hanno firmato la scorsa settimana un accordo con Cdo Bergamo in tema di accesso al credito. L’intesa permette ai soci Cdo di accedere a condizioni vantaggiose ai servizi di Fogalco e Lia Eurofidi relativi alla prestazione di garanzia fideiussoria per il credito. Ai soci Cdo vengono garantite tutte le forme tecniche, chirografarie ed ipotecarie di breve, medio e lungo termine, secondo le migliori condizioni.

Con questo accordo Fogalco e Lia, attraverso l’attività di garanzia di Asconfidi Lombardia, ampliano il loro bacino di riferimento e diventano gli interlocutori “globali” sul tema del credito agevolato per il settore del terziario, artigianato e manifatturiero.

«Le ultime due crisi economico–finanziarie, quella del 2008/2009 e del 2011-2014, hanno lasciato il segno sulle imprese italiane. In particolare le pmi, imprese che costituiscono la spina dorsale dell’economia del territorio, continuano ad incontrare difficoltà nell’accesso al credito – afferma Riccardo Martinelli, presidente Fogalco -. In questo contesto, per aiutare le nostre imprese è fondamentale che entri in gioco la rappresentanza ed il legame di rapporti tra le varie associazioni di categoria ed i confidi di matrice associativa. L’accordo fatto con Cdo percorre questa strada.  Insieme saremo più forti nel nostro compito di offrire servizi su misura alle imprese e di aiutarle nei rapporti con il sistema bancario».

«L’esperienza che stiamo percorrendo in Asconfidi Lombardia ci ha insegnato che “Fare Sistema”, ovvero agire con metodo e con il concorso coordinato di tutte le energie e le risorse disponibili, è indubbiamente la risposta vincente per il nostro territorio – dichiara Irene Paccani, presidente Lia Eurofidi -. In attesa della nuova normativa che disciplina gli Intemediari Finanziari minori (art. 112 del Tub) che con buona probabilità attuerà una riforma sostanziale non solo nei contenuti ma anche nel numero dei Confidi presenti sul territorio, una risposta di “Sistema” è a nostro avviso il modo migliore per anticipare i tempi, per non dover rincorrere per necessità il cambiamento, ma essere invece in prima linea insieme alle imprese».

In termini di numeri, il risultato dell’unione tra Foglaco e Lia Eurofidi è positivo sul territorio. I dati sullo scorso anno registrano al 30 novembre operazioni garantire per poco meno di 30 milioni di euro a favore di 207 imprese, il 20% dei volumi complessivamente perfezionati da Asconfidi Lombardia.

«Questo accordo con Fogalco e Lia Eurofidi, oltre ad agevolare l’accesso al credito e ad arricchire l’offerta dei servizi finanziari a disposizione delle numerose piccole e medie imprese associate, vuol essere anche l’occasione per mettere a fattor comune le rispettive esperienze, agevolando le imprese bergamasche nell’accesso al credito, condizione sostanziale per cogliere le opportunità offerte dai timidi segnali di ripresa del mercato», afferma Alberto Capitanio, presidente Cdo Bergamo.




Ubi, gli azionisti bergamaschi fanno squadra e lanciano il “Patto dei Mille”

A seguito della delibera di trasformazione da società cooperativa per azioni in società per azioni, alcuni azionisti di Ubi Banca hanno deciso di assumere un’iniziativa comune sulla scorta della tradizione del credito popolare e nella prospettiva di salvaguardare i principi ispiratori che hanno caratterizzato l’attività della Banca Popolare di Bergamo nella valorizzazione delle risorse del territorio di riferimento. A tal fine, lo scorso 27 gennaio, è stato stipulato un patto parasociale denominato “Patto dei Mille”  che disciplina la preventiva consultazione tra i titolari delle azioni sindacate, l’esercizio del diritto di voto attribuito alle azioni sindacate e alcuni limiti alla circolazione di queste ultime. Il Patto dei Mille ha carattere aperto, così da consentire l’adesione di altri azionisti di UBI Banca che ne condividano le ragioni costitutive. Al 1° febbraio 2016 hanno aderito al Patto dei Mille n. 65 azionisti, che hanno complessivamente vincolato n. 20.500.412 azioni ordinarie, pari al 2,273% del totale dei diritti di voto rappresentativi del capitale sociale di UBI Banca. A guidare il patto sarà Emilio Zanetti, già presidente della Banca Popolare di Bergamo e del Consiglio di gestione di Ubi. Tra i nomi presenti nel patto figurano Alberto Bombassei (Brembo), la famiglia Zanetti, Pesenti (Italcementi), Roberto Sestini (Siad), Antonio Percassi, Domenico Bosatelli (Gewiss), Angelo Radici (RadiciGroup), Miro Radici e Alberto Barcella (B.M. Industria Bergamasca Mobili). Il patto ha definito anche un consiglio direttivo composto da  Angelo Radici, Roberto Sestini e Matteo Tiraboschi (vicepresidente di Brembo).




Credito, perché è bene cominciare a spulciare i bilanci delle banche

credito45541.jpgLa Bce chiede all’Italia di fare al più presto pulizia dei prestiti bancari di difficile rientro. Le ipotesi sono una bad bank, ovvero un istituto deficitario dove concentrarli, o uno smaltimento per altre strade, come la cessione a istituti specializzati nell’immondizia bancaria, che comprano a forte sconto i “non performing loans” (i prestiti non performanti) per procedere poi all’incasso del più possibile con le cattive più che con le buone, abbandonando quel minimo di garbo al quale gli istituti di credito sono comunque costretti. L’importante è che non appesantiscano più i bilanci degli istituti, frenandone tra l’altro l’operatività, dato che la qualità degli attivi condiziona il rispetto dei requisiti patrimoniali

Un rapporto Abi-cerved sostiene che il tasso dei crediti difficili scenderà sensibilmente, ma solo nel 2017. E allora questa “nuttata” lunga almeno un anno sarà ricca di patemi per tutti. Per i debitori, per le banche, per i loro azionisti e anche, per l’effetto del bail in (il coinvolgimento in caso di necessità di risanamento), anche dai correntisti. Il salvataggio dei quattro istituti commissariati (Etruria, Marche, Carife e Carichieti), condotto in maniera accorta e previdente dal governo, nonostante la cattiva pubblicità strumentale che ne è stata fatta, non sarà infatti più possibile. Grazie alla tempestività dell’intervento del decreto sono stati limitati i danni e sono stati colpiti “solo” quanti erano azionisti o avevano strumenti finanziari equivalenti ad azioni, come le obbligazioni convertibili. Dall’inizio dell’anno anche chi è semplice correntista di una banca in dissesto rischia di rientrare nel pagamento del dissesto, almeno per il deposito superiore ai 100 mila euro.

Al momento ci si trova di fronte a “crediti non performanti” per poco meno di 200 miliardi di euro, secondo gli ultimi dati Abi. Ma la Bce sospetta che l’impatto finale sulle banche possa essere peggiore di quanto appare ed ha avviato una serie di verifiche, per capire, tra l’altro, se sono adeguate le garanzie a presidio del credito. Ad esempio, nel settore immobiliare a fronte di mutui ci sono ipoteche accese sulla base di perizia per un importo che si aggira sull’80% del valore dell’immobile a garanzia perché fortunatamente la fase del mutuo facile, a volte anche superiore al 100% della perizia, in Italia è durata poco. Però il calo dei prezzi del mercato degli immobili, specie se di livello non elevato, sta comportando che la garanzia dell’ipoteca è una tutela sempre più parziale. I vigilanti della Bce vogliono capire insomma se ci possono essere sorprese negative per l’istituto in caso si trovino nella necessità di dover vendere all’asta un immobile ipotecato per mutui non pagati per recuperare il credito.

Cosa può fare il governo in questi casi, oltre a raccogliersi gli strali, anche se immeritati? Poco come intervento diretto, mentre può fare molto indirettamente, con una politica che crei veramente le condizioni per una crescita diffusa, a partire dalla tutela della popolazione, tipicamente il ceto medio, che contrae mutui in modo che non si trovino nelle condizioni di non pagare. E potrebbe fare qualcosa per rendere i sistemi di recupero crediti più efficienti degli attuali, dove per principio il debitore ha sempre ragione.

Cosa può fare il cittadino per non trovarsi coinvolti nel bail-in. Il primo dato è quello di ricorrere all’informazione finanziaria: nonostante quello che si dice, è almeno dal 2013 che Banca Etruria è quanto meno chiacchierata. Un altro dato è quello di guardare ai bilanci degli istituti. Lavoro non facile e poco piacevole, ma che può risultare molto interessante. Oppure guardare all’ammontare dei crediti deteriorati e soprattutto alla sua loro percentuale sull’attivo. Tre istituti da soli hanno quasi 190 miliardi di crediti deteriorati lordi: Unicredit 80,7, Intesa Sanpaolo 64,4 e Montepaschi 47,4. Ma mentre per i primi due questi pesano rispettivamente il 4,5% e il 5,1% dell’attivo, per il Montepaschi rappresentano il 14,3%. Tra i grandi istituti solo Carige (6,7 miliardi, pari al 28% dell’attivo) ha una percentuale peggiore. Sopra il 10% sono anche Creval (12,5%), Banco Popolare (11,5%) e Bper (10,9%). Sotto il 10% si trovano Ubi (8,5%), Bpm (7,5%). Popolare Sondrio (6,1%) e Credem (2,3%). Sono crediti lordi e molto dipende da quanto sono coperti dalle riserve e dalle garanzie che ora la Bce vuole verificare. Ma quando non ci sono problemi con il lordo, nel ragionamento con il netto non può che esserci un miglioramento.