Cristian, il pizzaiolo che sfida l’allergia

Se l’è persino tatuata sul bicipite la sua passione: una pizza napoletana verace, con tutti i particolari che gli stanno a cuore, il forno rovente, la pala di legno, persino la “puntinatura” del cornicione, indice di buona maturazione della pasta e corretta cottura. In un’era in cui i giovani faticano a trovare la propria strada, Cristian Osio, 25 anni di Brembate, non ha dubbi e sa di voler fare il pizzaiolo. Si è buttato nella mischia e non ha badato ai sacrifici pur di “rubare” il mestiere, ogni giorno però deve fare i conti anche con il proprio organismo che, per via di un’allergia al frumento e agli acari della farina che può insorgere con l’attività, mette a dura prova il suo sogno professionale.
Lui la racconta come una vera avventura, un romanzo di formazione dove il protagonista affronta e supera diverse prove (pure in terra straniera!), ma sa anche che il confronto più serrato è quello con se stesso. «Alla pizza ci sono arrivato per caso – ricorda -. Nel 2010, dopo il diploma di tecnico dei servizi sociali, mi sono trasferito a Londra per imparare l’inglese e girare il mondo. Ho fatto il lavapiatti, ovviamente, poi per una serie di fortunate coincidenze, ma forse anche il fatto che le persone che ho incontrato avevano visto qualcosa in me, sono approdato da Franco Manca, una pizzeria nel quartiere di Brixton aperta da Giuseppe Mascoli dove si utilizza il lievito madre e si fa la vera pizza napoletana. Forno a legna a 480 gradi, pala di legno, per me è stata una folgorazione. Al sabato si sfornavano anche mille pizze, si lavorava sempre in tre: tremavo all’idea di mettermi alla prova e a ricordarlo mi vengono ancora i brividi». Il locale non è un mito solo per Cristian, è stato infatti definito “la pizzeria che ha scatenato una rivoluzione del cibo nel sud di Londra” e “una delle migliori pizze della città”, tanto che la formula è stata presto replicata in altri quartieri. Lui invece è stato trasferito dalla proprietà al Rocca di Papa 2 a Dulwich Village. «È qui che ha cominciato a manifestarsi per la prima volta l’allergia – rivela -, con una dermatite. Avevo comunque deciso di rientrare in Italia perché era il posto migliore per apprendere i segreti della pizza napoletana e così avrei anche potuto curarmi meglio».
A Bergamo sceglie di lavorare con dei maestri campani e ricomincia da capo: «La differenza – nota Osio – era che a Londra facevo, mentre qui “gavettavo”. Con la scusa che dovevo imparare non mi sono mai potuto avvicinare al forno ed è inutile fare una pizza perfetta se poi la bruci! Lavoravo anche gratis per capire qualcosa in più e mi alzavo alle sei la domenica per vedere come si prepara l’impasto». L’occasione di gestire da solo tutto il processo arriva con la stagione estiva al campeggio di Valbondione, nel frattempo il nostro non si fa mancare l’esperienza in altri locali, compreso uno a Barcellona da cui torna con il solo “bottino” di un’impastatrice professionale, e nemmeno la formazione specifica, con il corso dell’Accademia del Gusto Ascom.
«La crisi vera l’ho avuta tornato a Londra – la voce si inceppa -. Sono stato assunto subito da Franco Manca e per me era una bella conferma, ma preparare così tante pizze significava vivere in mezzo alla farina e l’allergia è esplosa. Avevo macchie sulla pelle, il naso chiuso e gli occhi che mi lacrimavano e così mi hanno detto che non potevo più lavorare lì. Non volevo mollare, ho fatto una prova il giorno stesso dai Fratelli La Bufala, a Piccadilly, ed è andata bene, ma anche in quel caso la mia allergia non era compatibile con le politiche dell’azienda». Di fronte all’evidenza ci prova a cambiare settore, passa in cucina, nel locale flagship di Jamie Oliver a Piccadilly e anche tornato a Bergamo. «Ho resisto tre mesi – confessa Cristian -, non faceva per me. Per lavorare ci vuole passione ed io, se penso a ciò che mi piace fare, non posso che vedermi come pizzaiolo. Per me fare la pizza è una magia: toccare la pasta, capirla, è un prodotto vivo, che cambia ogni giorno e il risultato non è mai scontato».
Ma la sua pizza perfetta è anche quella che riesce a tenere insieme salute e aspirazioni professionali. Ora ha iniziato una terapia con un vaccino – da assumere tutti giorni per cinque anni – e da due mesi si occupa della pizzeria di Joe Koala, nuova gestione del centro sportivo di Osio Sopra, con tre giovani (di 26, 27 e 31 anni) alla guida. «Sto abbastanza bene – dice -, il respiro non è proprio libero ma ora è l’unico disagio. I numeri e l’impostazione del locale mi permettono di gestire il lavoro senza esagerare con l’esposizione alla farina. So che la difficoltà sarà sempre quella di trovare la giusta dimensione. Per molti datori di lavoro un bravo pizzaiolo è quello che sforna a ritmi serrati, per me lavorare in stile catena di montaggio significa rinunciare alla passione e stare male». Naturalmente ha anche la sua idea di pizza, che non è disposto a tradire in nome dei gusti e delle abitudini imperanti («ed è un’altra cosa che mi penalizza»). Non parlategli di sfoglie sottilissime, bordi croccanti e di liste infinite di varianti che il cliente, accidenti a lui, chiede quasi sempre di personalizzare ulteriormente. «La pizza che voglio fare è quelle della tradizione napoletana – evidenzia -, morbida e consistente anche perché doveva riempire stomaci affamati. E mi piace farla il più semplice possibile, che si senta il pane. Nell’impasto non metto olio, il colore lo dà il forno, e per farcirla non c’è niente di meglio che pomodoro San Marzano, fiordilatte e basilico, utile anche per tenere d’occhio la cottura, o mozzarella di bufala o qualche altro classico». La sua ricerca è continua, tra le attenzioni alla maturazione lenta della pasta, la sfida a padroneggiare le potenzialità del forno a legna e la fissa in sottofondo per il lievito madre. «Non mi sento mai arrivato. Qualcuno mi ha detto che l’allergia è legata a questa mia insicurezza e anche io sono convinto che con la passione riuscirò a superare il problema di salute. Resta il fatto che è un gran paradosso: sono allergico al mio amore!», conclude con una delle frasi ad effetto con cui –  come un buon personaggio letterario – ama punteggiare i suoi discorsi.




Mogli in affari: «Vi raccontiamo l’altra metà dell’impresa»

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Da sinistra, in senso orario: Luisella Traversi e Benito Guerra, Alessandro Panseri e Mirella Salvi, Pierino Persico e Isa Colombi

Spesso le imprese si identificano in un’unica persona, quella del fondatore, del capo, del volto pubblico – perlopiù maschile, ma vale anche il discorso contrario -, che illustra novità e progressi o denuncia problemi e criticità. In molti casi però l’impresa è una storia a due, che vede affiancati nella buona e nella cattiva sorte (pure aziendale) marito e moglie. Secondo una stima della Camera di Commercio di Monza e Brianza (che ha anche scelto di attribuire un riconoscimento ai “matrimoni d’impresa” più longevi del proprio territorio) in Italia sono quasi un milione (930mila) le coppie che condividono un progetto comune nella vita privata e lavorativa, essendo soci o collaboratori in azienda.

In periodi in cui tenere a galla un’impresa è difficile e i matrimoni si sfaldano come neve al sole, la rilevazione dice anche che si tratta di realtà solide, con una percentuale oltre il 90% (a Bergamo è la più alta, il 96%) di chi dichiara che la crisi non ha scalfito i rapporti e il 3,5% (a Bergamo il 2%) che afferma che si sono addirittura rafforzati.

Se nei negozi, nelle attività artigianali, in bar e ristoranti è molto più facile imbattersi in binomi di questo tipo e riconoscere la divisione dei compiti, meno evidenti sono il ruolo e il valore della coppia nelle realtà industriali.

Ecco allora le testimonianze di tre unioni di cuore e d’affari bergamasche, con il punto di vista dall’altra metà.

Isa Colombi (Persico)

«Parlavamo solo di lavoro, poi il figlio di sette anni ci ha fatto una domanda…»

Parla schietto Isa Colombi. Non colora di rosa il cammino che al fianco del marito Pierino Persico li ha visti passare dalla modelleria di legno in uno scantinato avviata ad Albino nel ’76 ad un’azienda conosciuta in tutto il mondo per gli stampi e i prodotti all’avanguardia nei settori automotive, nautico e con sistema rotazionale. Che ha fatto scoprire al patron di Luna Rossa Patrizio Bertelli, all’inventore di Skype Niklas Zennstrom e agli sceicchi del Bahrein che esistono la Valle Seriana e un paese chiamato Nembro.

«Per una moglie è pesante conciliare la famiglia con l’azienda e credo che sia ancor più difficile per il marito se, come accade più spesso oggi, è la moglie l’imprenditrice e la vita a due comincia quando l’attività è già avviata – afferma -. Per noi, forse, la partenza è stata agevolata dal fatto che eravamo già sposati da quattro anni, con una bimba (quasi due) e che eravamo stati entrambi operai con la “voglia di fare sempre per passione”. Questo ci ha spronato ad aiutarci. In mio marito vedevo tanta passione e una visione capace di individuare clienti e opportunità. Da parte mia ciò ho messo non poca tenacia nel sostenerlo accettando di occuparmi delle consegne dei prodotti finiti e della, allora poca, contabilità, senza mai lasciare la cura dei figli e senza aiuto in casa. Mi sono messa persino a studiare inglese perché avevamo cominciato a viaggiare e ci serviva. Avevo solo la terza media (tre anni serali) e lavoravo come camiciaia. Mi iscrissi allo Shenker Institute e arrivai a dare almeno 35 esami. Mi sarebbe piaciuto continuare almeno sino a 50, ma con tre bimbi, mi dovetti accontentare. Mi piace molto la lingua inglese!».

Il lavoro va bene e aumenta, ma all’alba degli anni Novanta una domanda del figlio di sette anni fa capire alla coppia che è necessaria una svolta. «Una sera a tavola – ricorda Isa Colombi – Marcello ci chiese: “Ma sul lavoro va tutto così male?”. Eravamo arrivati a parlare solo di lavoro e, naturalmente, non dei successi, ma di quello che andava storto e bisognava risolvere. Abbiamo realizzato che non era giusto che in casa si respirassero tante tensioni. Per noi la famiglia era il primo obiettivo e meritava più serenità. Ho scelto di tirarmi fuori, tanto più che ho sempre avuto la passione per la casa, i miei bambini, la buona cucina e i lavori di sartoria e camiceria». «Non sono mai stata quella che voleva apparire o occuparsi di tutto per il solo fatto di essere la moglie dell’imprenditore – rimarca -. Il passo è servito anche a farci comprendere che è importante fare spazio alle persone giuste e affidarsi a dei collaboratori che i problemi li risolvono. Credo che la Persico ne abbia guadagnato e anche la nostra famiglia».

La signora non si trincera comunque dietro i fornelli o la macchina per cucire e continua ad affiancare il marito nei viaggi all’estero. «Abbiamo ormai toccato quasi tutto il mondo, ma soprattutto abbiamo conosciuto tante persone che ci hanno permesso di allargare gli orizzonti – evidenzia -. Grazie a questi contatti i nostri figli hanno fatto presto esperienza negli Stati Uniti e si sono sempre più appassionati all’azienda assumendo man mano responsabilità».

La primogenita Claudia è a capo della divisione Rotazionale, Alessandra dell’Automotive e Marcello della Nautica. Se non più strettamente operativo, il ruolo di Isa Colombi resta di grande peso. E non mancano gli scontri tra il suo atteggiamento più pragmatico e la visione più d’istinto e creativa del marito. Come quando ha preteso che stipulassero un’assicurazione sulla vita: «Pensava che mi stessi già immaginando un futuro da vedova benestante – dice con naturalezza -, ma era semplicemente un modo per tutelare ciò che avevamo costruito».

Fondamentali anche il suo sostegno e incoraggiamento agli investimenti, a fare sempre un passo in avanti, anche quando Pierino si mostrava, per carattere, un po’ più dubbioso: «In pratica abbiamo sempre avuto debiti – ammette -, ma è indispensabile non rimanere fermi, cercare nuove idee, soluzioni. Se non l’avessimo fatto saremmo morti. Il lavoro di modellista oggi non esiste più, ma la Persico è conosciuta in tutto il mondo. Sono contenta che abbiamo sempre reinvestito, il nostro obiettivo non è il profitto a tutti i costi, tirare sui prezzi, ma fare le cose bene».

Sua anche la decisione di sottoscrivere un patto di famiglia (nel giorno del suo compleanno l’incontro con i consulenti) per gestire al meglio il passaggio generazionale e la continuità d’impresa, decidendo preventivamente le regole della successione. «Anche questo può sembrare un passo antipatico – rileva – per una famiglia e dei fratelli che vanno d’accordo. La capacità di resistere anche a momenti difficili è però data dall’integrazione dei tre diversi settori ed è importante e strategico salvaguardare nel tempo una visione unitaria dell’impresa. L’ho fatto pensando anche ai nipoti».

Alla fine ribadisce però il concetto iniziale. «Resto convinta che marito e moglie non debbano fare lo stesso lavoro insieme. Fortunatamente non ho mai capito niente di stampi, altrimenti non so come avremmo fatto, ognuno con le proprie idee, a spartirci le decisioni quotidiane. Credo che il mio apporto più importante sia stato spronare mio marito, credere in lui e fare in modo che non gli pesassero il mio lavoro in famiglia e con i bambini». E di un’altra cosa è certa: «Quel che abbiamo fatto, lo abbiamo sempre fatto volentieri e mettendocela tutta».

Luisella Traversi (Robur)

«La coppia rafforza l’azienda, ma bisogna sapersi aspettare»

Vita di coppia e d’azienda sono tutt’uno per Luisella Traversi Guerra, che con il marito Benito ha fatto crescere la Robur di Verdellino sino a renderla un autentico faro a livello mondiale per l’efficienza energetica dei sistemi di riscaldamento e condizionamento a gas.

Come sarebbe andata lo si poteva probabilmente intuire già da quel viaggio di nozze, 51 anni fa: un mese in Europa sulle tracce di beccucci per il gas, per cogliere al volo le opportunità legate al passaggio dal “gas di città” al metano. Incontrati nell’albergo dei genitori di lei a Selvino, sposati dopo un anno, molto giovani – 19 e 24 anni -, non hanno avuto dubbi nel condividere da subito anche il percorso professionale. «Mio marito era un artigiano con la voglia di fare presto – racconta Luisella Guerra –. Avevamo lo stesso sogno, creare una bella famiglia e fare qualcosa di utile, questo ci ha unito. All’inizio, avendo trascorso nella mia infanzia un lungo periodo a Parigi, ero la “segretaria” che parlava francese, poi sono passata ad occuparmi di tutta la direzione del personale (oggi Robur ha circa 220 dipendenti nella sede di Verdellino ed è presente anche in Germania e negli Stati Uniti ndr.) ed ho seguito da vicino alcuni aspetti del marketing, in particolare quelli legati alla motivazione alla vendita e allo sviluppo delle idee. Da qualche anno sono “ufficialmente” in pensione, ma partecipo ai Consigli di amministrazione portando la mia esperienza e non posso certo dire di aver chiuso con l’azienda. È come un figlio, lo si ha finché si scampa perché in gioco ci sono responsabilità sociali».

Se per molte mogli il ruolo quasi automatico è quello della gestione contabile e finanziaria, Luisella Guerra ha fatto diventare il proprio interesse per la crescita personale e delle relazioni un valore fondante dell’impresa. «Dopo il diploma magistrale mi sarei iscritta a filosofia – ricorda -. Mio marito mi ha riconosciuto un cuore predisposto a creare gruppo, a capire e motivare le persone, a stimolarle nel tirare fuori il meglio di sé, a rispondere con creatività alle situazioni. Siamo complementari, se dovessi sintetizzare il mio apporto direi che sono stata il lievito per la sua visione, aiutandolo a capire per tempo il mercato ed i prodotti, e insieme un’ancora, uno spazio dove rifocalizzarsi e ripartire per fare ancora meglio». Questa predisposizione si è tradotta nell’adozione in azienda, a partire dagli anni Ottanta, dei principi della qualità totale, di cui Luisella Guerra è tecnica e formatrice, che ha la propria base nello sviluppo personale. «Bisogna partire dalle persone, non ci sono alternative – commenta -. Conoscendo se stessi si acquisisce la capacità di migliorare le proprie potenzialità grezze: è questo lo snodo fondamentale, trasversale ad ogni ambito, che si tratti di tecnologia, ricerca o mercato. I problemi tecnici sono giochetti che si risolvono, i problemi veri sono quelli nelle relazioni».

È anche il segreto che fa funzionare una coppia impegnata nella stessa sfida imprenditoriale? «Amore e fiducia sono indispensabili – osserva -, ma poi è molto importante che ognuno sia disposto ad aspettare l’altro. Capita infatti che le esperienze portino marito e moglie ad evoluzioni diverse ed è fondamentale non perdersi di vista e attendere che il partner cresca perché l’obiettivo torni ad essere di entrambi. È un concetto che andrebbe urlato agli artigiani: se c’è questa attenzione all’ascolto di se stessi e dell’altro, senza compromessi, la coppia moltiplica la forza dell’azienda. La coppia è un tesoro sociale, peccato non rendersene conto. Far crescere un rapporto significa lasciar perdere gli egoismi, le pretese, il potere e raggiungere una raffinatezza di espressione sempre maggiore». Non è facile, anzi. «I momenti di difficoltà non sono mancati neanche per noi – ammette -, soprattutto quando si trattava di fare un passo avanti, ma sono stati anche quelli che, illuminati dall’amore e del rispetto, hanno contribuito ad illimpidire il rapporto. Certo, poi c’è anche chi si accontenta dei gioielli o di andare alle terme con le amiche…», dice senza paura di colpire nel segno.

Del resto Luisella Guerra spazza via anche la convenzionale distinzione tra vita privata e lavorativa. «Che siano due cose diverse è una grossa bugia – afferma -. Se si è onesti con sé stessi in azienda lo si è anche nella vita. Personalmente ho coltivato tante dimensioni, quella di scrittrice di libri sul management, quella di pittrice con esposizioni in tutto il mondo, ma il processo di crescita è uno solo e si riversa su tutte le componenti, nel matrimonio, nel rapporto con i figli (sono cinque ndr.), in azienda, sul mercato».

È così che per settembre attende l’uscita del suo libro di fiabe per bambini, edito da Mondadori, mentre con un gruppo di “ragazze” sta preparando un manuale per l’autoformazione allo sviluppo della creatività nel mondo dell’impresa, sognando di dare vita di qui a cinque anni alla prima Università della Creatività d’Europa. Dopo l’impegno in azienda ora la volontà è di mettere a disposizione di altri la sua esperienza. Con una certezza su tutte: «Il bene grande che lega me e mio marito ci ha regalato questa bella storia».

Mirella Salvi (Rotolificio Bergamasco)

«È delle donne il ruolo chiave, devono tenere tutto in equilibrio»

«Sino ad ora i “rotolini” non ce li siamo mai tirati dietro». Scherza Alessando Panseri nel raccontare la storia d’amore (quest’anno festeggia il 45esimo di matrimonio) e d’impresa che condivide con la moglie Mirella Salvi. E dissolve in una battuta l’immagine che vuole per forza i coniugi sempre intenti a battibeccare.

I rotolini in questione sono quelli della Errebi – Rotolificio bergamasco di Gorle, che insieme hanno deciso di rilevare nel 1977 facendola diventare la prima azienda in Italia per fatturato e tra le prime in Europa nella produzione di carta in rotoli. Tradotto nella pratica, significa imbattersi quasi quotidianamente con uno dei loro prodotti, che si tratti di uno scontrino fiscale, di un ticket per il parcheggio o l’autostrada, della ricevuta di una giocata (sono i fornitori di Lottomatica e Sisal) o del bancomat, dei numerini per la coda o di quelli sui capi ritirati dalla lavanderia, ma anche delle maxi affissioni.

«Mio marito lavorava alla Pirelli e spesso era impegnato all’estero, io facevo la casalinga – racconta Mirella Salvi – e seguivo i bambini (Gianluca nato nel ‘70 e Cristiano nel ‘73, mentre nell’87 sarebbe arrivato Pierluigi, il “piccolo” della famiglia ndr.). Il titolare, ormai anziano, del rotolificio, che allora aveva sede a Redona, ci ha proposto di subentrare nell’attività. Ai tempi produceva i rotoli per le calcolatrici di due banche, ma nelle dimensioni ridotte e nella versatilità di questi articoli vedeva grandi prospettive. Abbiamo accettato. E da allora sono qui».

Data la precedente esperienza da impiegata nell’azienda di famiglia, per Mirella è stato scontato occuparsi della parte amministrativa, mentre il marito sviluppava quella tecnica. Alla signora spettano anche le relazioni e la partecipazione alla vita associativa. In Confindustria Bergamo è stata presidente del Gruppo Cartotecnici e fa parte del Consiglio direttivo della Piccola Industria. È anche tra i probiviri di Assografici, l’associazione nazionale del settore e partecipa al network mondiale di donne imprenditrici Aidda. «La divisione dei ruoli dipende più che altro da un fatto pratico, legato alle competenze, alle inclinazioni e al tempo a disposizione – rileva il marito -. Vale anche nell’assegnazione delle cariche. I soci siamo noi due, lei è l’amministratore perché può seguire meglio anche gli aspetti burocratici, io però ho la quota maggiore e posso revocarle l’incarico…», la provoca sorridendo.

Loro e l’azienda sono cresciuti con i propri dipendenti. Hanno infatti sempre assunto persone al primo impiego, un modo per dare fiducia e condividere un cammino. Lo conferma il fatto che solo quest’anno – in quasi 30 di attività – saluteranno il primo dipendente che ha raggiunto la pensione dei circa 70, impegnati tra Gorle e lo stabilimento di Majano, in Friuli, aperto nel 2000. «Teniamo ad ognuno di loro – sottolinea Panseri – e non siamo mai ricorsi alla cassa integrazione o alla mobilità, stringendo i denti nei momenti più difficili». E ce ne sono stati, non solo in questo ultimo periodo. «Mi dicevano, forse solo a mo’ di battuta, che era rischioso lavorare con mia moglie perché se le cose fossero andate male, sull’uno o sull’altro versane, ci avrebbero rimesso in ogni caso sia la famiglia sia l’attività. Posso dire che è l’esatto contrario. Essere impegnati entrambi in azienda significa non essere soli, avere qualcuno che comprende i problemi e su cui contare, ma anche avere la fortuna di passare molto più tempo insieme. La famiglia e l’impresa si rafforzano a vicenda, a patto ovviamente che siano la famiglia e il lavoro i valori in cui si crede», puntualizza.

Secondo la consorte il buon funzionamento di un matrimonio d’impresa dipende comunque più dalle donne, chiamate ad un ruolo di “registe”. «È la donna che regge tutto, con la sua capacità di organizzare, di smussare, di tenere insieme ed in equilibrio, anche accettando di stare un po’ più defilata  – rileva -. Personalmente credo che a dare la linea in azienda debba essere uno solo e non ho mai contraddetto mio marito di fronte ai dipendenti. Certo le decisioni importanti poi le abbiamo sempre prese insieme». Sul conciliare gli impegni del lavoro con quelli della casa, tanto più nel suo caso con tre figli maschi, dice che fissando delle priorità e con un po’ di organizzazione e gioco di squadra si può fare. «Fin da piccoli anche i nostri figli hanno condiviso il nostro percorso, era inevitabile – ricorda mamma Mirella -, e mano mano è stato naturale per loro entrare in azienda e portare il proprio contributo in base alle proprie caratteristiche. Ora i consigli di amministrazione li facciamo la domenica a pranzo – dice per far capire il clima -. Ciò che ci unisce e fa andare d’accordo è, in fondo, semplice. Riconosciamo tutti che è l’azienda quella che ci dà da vivere e che fa stare bene noi ed i nostri dipendenti, per questo facciamo tutti del nostro meglio». O, come dice il primogenito Gianluca, «facciamo a gara a chi lavora di più».

La buona integrazione della nuova generazione e il rapporto creato con i dipendenti li fa guardare al futuro in chiave positiva. «Crediamo di avere messo buone basi per il passaggio del testimone – dicono – e non avremo difficoltà nel farci da parte. Ognuno ha il suo tempo da vivere e questa è la loro epoca». Già, ma c’è la crisi… «Chi ha visto trasformarsi un sogno in realtà come noi non può che continuare ad avere fiducia», concludono. Ecco, dentro quei rotolini di carta che poi arrivano in tutte le nostre tasche c’è questo sogno.




“Vi racconto com’era la Città Alta delle botteghe”

Ezio Lorenzi
Ezio Lorenzi

«Dopo la guerra Città alta era più brutta, più povera di oggi ma c’era il lavoro e pian piano chi ha potuto ha cominciato a sistemare le case». Così racconta i suoi esordi Ezio Lorenzi, 85 anni compiuti a maggio, che domenica scorsa ha ricevuto, insieme ad altre 13 aziende, il “Riconoscimento del lavoro e del progresso economico” della Camera di Commercio per i 58 anni del suo negozio, avviato da elettricista con rivendita di materiale elettrico, con l’aggiunta poi di ferramenta e casalinghi, seguendo l’evoluzione del mercato. È uno dei pochi esercizi di vicinato rimasti nella città vecchia. L’ha aperto nel 1956 nell’attuale sede di via Salvecchio, affiancato dal fratello Severino, morto nell’88. Negli anni ha cambiando diverse sedi, sempre nel centro storico, fino a riapprodare nell’86 nel locale d’origine, che nel frattempo aveva ospitato anche la libreria universitaria.

«Quello che caratterizzava Città alta era la presenza degli artigiani – racconta -, c’era il falegname, il tappezziere, il lattoniere, il materassaio, il fabbro, che non erano solo artigiani, ma quasi degli artisti. Perché a quei tempi si usciva dalla miseria e c’era più inventiva, si cercavano soluzioni. Eravamo giovani, c’era più vivacità, più socialità. Quest’ultimo aspetto, per la verità, non è andato perso. Tra gli abitanti di Città alta continua ad esserci un rapporto speciale, ci si conosce, si domanda come si sta, ci si dà una mano se serve. In fondo è ancora un paesotto, non come “giù” dove non si sa nemmeno chi abita nel proprio palazzo». Il “giù” sta per Bergamo bassa. «Per noi la Città è questa, sotto ci sono i borghi».
«Poi hanno costruito quartieri come Celadina e Monterosso – prosegue – e se ne sono andati in tanti perché erano case nuove ed era più comodo vivere lì. Saremmo stati 10-15mila, oggi forse arriviamo a tremila (2.500, il minimo storico ndr.) ». La nascita dei supermercati ha fatto il resto e decretato il tramonto delle attività di vicinato. «C’erano 3 o 4 salumerie, ne è rimata una; 2 o 3 macellerie, ce n’è una; 3 o 4 fruttivendoli, ora sono 2; le latterie erano due, oggi una. Hanno resistito i panifici, che però hanno cambiato impostazione e fanno pizza e prodotti da mangiare al momento, anche il mercato del venerdì si è ridotto a poche bancarelle, mentre quando lo istituimmo con la Circoscrizione, di cui facevo parte, c’era anche il banco del pesce. Quello che servirebbe davvero è una drogheria con tutti i prodotti per fare la spesa, ma i numeri sono troppo bassi, non credo che resiterebbe. C’è invece abbondanza di negozi di vestiti e accessori, anche se non è tutto rose e fiori nemmeno in questi settori. Chi viene in Città alta la domenica e la vede piena di gente pensa che gli affari sono assicurati, in settimana però è tutta un’altra storia, dopo le 17 le persone che girano si possono contare. Tanti hanno aperto per poi chiudere dopo poco».
Nonostante tutto, Lorenzi vede positivo. «Secondo me, vivere in Città alta è meglio che in altri quartieri, perché c’è questo forte senso della comunità e tutto sommato si sta tranquilli. Del resto sappiamo di abitare in un luogo storico e turistico ed i disagi legati a questo vanno un po’ messi in conto. Io il futuro non lo vedo brutto, ci sono tante potenzialità da sviluppare». Ezio Lorenzi

Si sentono solo i propri passi sulla Corsarola e si ha l’impressione di disturbare il sonno di un gigantesco organismo finalmente quieto. E pure generoso, qualche metro più in là, nel mettere a completa disposizione il suo più bel gioiello: una piazza Vecchia sgombra da ogni traccia della frenesia del giorno, che pare messa lì solo per accogliere. Sono le sei del mattino. Per farci raccontare da Ezio Lorenzi la sua vita da residente-commerciante di Città Alta abbiamo scelto di accompagnarlo nella passeggiata che apre ogni sua giornata. A guardarlo mentre esce dalla porta di casa su via Gombito pare proprio che la corroborante sgambata mattutina sulle mura faccia bene. Sul volto e sull’incedere deciso non si notano proprio gli 85 anni scoccati il 15 maggio e nemmeno lui – ci riflette – si considera vecchio.
Sceglie la versione corta del percorso. Si scende da via San Giacomo («questa è la via dei “titolati”, con i palazzi Colleoni, Moroni, Perini, mentre l’altra, via Porta Dipinta, è quella dei “signori”») e raggiunte le mura individua tutti i punti di riferimento («il treno delle sei e cinque è già passato, sennò era bello da vedere»). «La passeggiata è un’abitudine che ho da una ventina d’anni – spiega -, mi piace perché mi dà l’opportunità di mettere in ordine i pensieri e poi è l’occasione per respirare un po’ di aria pulita, altrimenti c’è troppo smog. Così mi godo davvero la città dove sono nato e cresciuto, ma a quanto pare anche altri hanno scoperto questo piacere, perché adesso incontro sempre più gente, soprattutto chi corre e si allena».
In Colle Aperto, sulle panchine fuori dal Caffè Cittadella, lo aspettano due “nottambuli” come lui, Angelo Piazzalunga, muratore di Petosino che è nato in Città Alta ed ha dei lavori lì attorno, e Ivan Benaglia, custode del Museo archeologico, che abita a Redona e preferisce alzarsi presto per evitare il traffico. Un tempo la compagnia era più numerosa, qualcuno ha cambiato giro, ma loro resistono. Ogni mattina, escluso il lunedì ed i festivi, in ogni stagione, anche al freddo o con l’ombrello scambiano qualche chiacchiera, prima di passare dall’edicola e tornare al bar in attesa dell’apertura, alle 7. Sono i primi clienti di ogni giorno, Angelo ha anche l’“incarico” di portare fuori le sedie da esterno. In perfetta successione arrivano tutti gli altri personaggi, Matteo Roncalli che consegna le brioche, le signore che vanno a servizio nelle case, Nelson, un incrocio di bulldog al quale Ivan porta sempre un biscotto per cani, e il suo padrone. Qualche commento sulla giornata e, per i due imprenditori, sulle tasse e le scadenze, poi ognuno va per la sua strada.
Lorenzi passa ancora per le mura e raggiunge il negozio in via Salvecchio dal vicolo di Santa Grata. Porta e vetrina sono chiuse da pannelli di ferro che vanno sfilati uno alla volta, l’insegna non c’è. All’interno, lo spazio è piccolo, gli scaffali, pieni, arrivano fino al soffitto e lui usa la scala tranquillamente. «Per capire cosa manca mi basta un colpo d’occhio – racconta -. Perché ogni articolo è sempre nello stesso posto, quindi se vedo qualche spazio vuoto so già di cosa dovrò rifornirmi», con buona pace di computer e programmi gestionali. «Possiamo definirlo un bazar – prosegue -, dove si trovano le piccole cose che servono in casa, dalle lampadine alla ferramenta, dagli utensili per la cucina ai prodotti per la pulizia, alle vernici. Scelgo l’assortimento in base a ciò che va di più. Spesso rappresento la risposte per chi ha bisogno di qualcosa in Città Alta, altre volte, lo confesso, mi chiedono prodotti che non so nemmeno cosa siano». Il lunedì è il giorno che dedica alle forniture e alle pratiche amministrative. Si muove in pullman («ma “giù” arrivo a piedi») a va da Rodeschini a Gorle per le prime, all’Ascom di Zogno per la contabilità («mi è più comodo salire presto in Valle che muovermi in centro»).
Inutile nascondere che di grandi incassi non ne fa. «Fino alle 10.30 non entra nessuno. Riesco ad andare avanti perché non ho dipendenti, non devo pagare l’affitto del negozio né quello di casa e mi basta ricavare quanto serve per pagare le tasse e le mie spese personali – dice –, altrimenti sarebbe un’attività da chiudere. Per il momento è un’idea che non ho ancora preso in considerazione, non fare niente mi sembra più faticoso che lavorare e finché la salute me lo permette resterò in negozio». La crisi, è vero, ha complicato le cose, ma nemmeno in passato era tutto rose e fiori. «Gli ostacoli in un’attività ci sono sempre – nota -, la cosa importante è che piaccia il mestiere che si fa, solo così si trovano soluzioni, altrimenti i problemi diventano insormontabili».
Anche il resto della sua giornata è scandito da riti precisi come quello mattutino. Attorno alle 17.30 lo si può trovare al Circolino per una “mini merenda” in compagnia («chi non mi trova in negozio mi viene a cercare lì»), mentre dopo la chiusura delle 19.30 il ritrovo è con Angelo Mangili della storica gastronomia e qualcun altro alla Pasticceria Cavour per un bicchiere di vino e qualcosa da stuzzicare (non lo chiama aperitivo). E poi a casa. Ecco la sua Città Alta.




“Senza un Sistema Paese efficiente per le imprese sarà sempre dura”

Andrea Paganelli
Andrea Paganelli

Andrea Paganelli, milanese, 46 anni, laurea in Ingegneria delle tecnologie industriali al Politecnico, dal 1996 al 2001 ha lavorato per la New Holland, marchio che appartiene al gruppo Fiat. Dal 2002 al 2004 ha diretto gli stabilimenti di montaggio della Bonfiglioli Riduttori. Da nove anni è alla Same Deutz-Fahr di Treviglio, dove oggi ricopre il ruolo di direttore industriale del gruppo. L’azienda, fondata nel 1927 dai fratelli Cassani, impiega 1.280 lavoratori ed è quarta nel mondo per la produzione di trattori e macchine agricole. Il 90% delle vendite avviene all’estero.
Ingegner, la contrazione del mercato italiano spinge per forza a cercare uno sbocco al di fuori dei confini nazionali?
“In Italia, da tre-quattro anni, la situazione economica è disastrosa. E’ necessario puntare ai nuovi mercati, dell’Est asiatico e del Sudamerica. Anche se in Europa stanno funzionando bene quelli di Germania e Polonia”.
Si produce anche nei Paesi in via di sviluppo per il minor costo della manodopera?
“Assolutamente no, sì produce lì per aggredire quel mercato con un prodotto adatto alle richieste domestiche. E spesso, ma non sempre, può significare la creazione di macchinari dalla qualità low cost”.
La sua visione sull’Italia è pessimistica?
“Se vuoi vendere, da noi, è un problema. Da sola un’azienda non ce la fa. Manca un sistema Paese che agevoli l’imprenditoria. Se l’economia non si rimette presto in moto vedo poche speranze per il futuro”.
Stiamo seguendo le sorti di Spagna e Grecia?
“Nei Paesi del Mediterraneo le difficoltà economiche sono acuite. Anche per questo la nostra forza è lo stabilimento tedesco di Lauingen. Ma dal gennaio del 2014 apriremo anche in Cina, con il via produttivo dello stabilimento nello Shandong”.
Perché i tedeschi non hanno subìto gli effetti della crisi?
“E’ una ruota che gira. La Germania investe nella piccola e media impresa che a sua volta traina l’agricoltura. In questo modo i contadini riescono ad accedere ai finanziamenti pubblici e gli operai possono ottenere, facilmente, mutui o prestiti in banca”.
Quanto influisce il costo del lavoro?
“Il prezzo di un prodotto è dato per l’85 per cento dal materiale, la manodopera incide per il 15 per cento”.
Ma il salario in Germania è tra i più alti.
“Un operaio tedesco medio, di quarto livello, costa all’azienda 36-38 euro all’ora. Il collega italiano 27 euro. In un anno i primi scioperano, se capita, al massimo quattro ore, gli italiani cinquanta ore, a volte con picchi di otto al mese, facendo lievitare il costo del lavoro. Dunque, conviene produrre in Germania”.
La colpa è del sindacato?
“No, è uno strumento importante che porta a raggiungere accordi per mantenere i giusti equilibri tra le parti. Diverso il giudizio per la Fiom, troppo estremista”.
Cosa può fare lo Stato italiano per agevolare le imprese?
“La tassazione è esagerata e ci sono pochi finanziamenti a fondo perduto. Mio papà è stato un industriale nel settore della falegnameria. Ricordo che quando ha iniziato aveva acquistato i macchinari grazie alle agevolazioni statali. Ed è stato possibile farlo fino a quindici anni fa. Oggi non più. E poi, se le imprese non sono in parte defiscalizzate, non possono permettersi di investire”.
Cosa pensa dell’Imu?
“Lo Stato deve pur reperire i soldi da qualche parte, purché in modo giusto. A giugno, la Same per il sito produttivo di Treviglio, pagherà una cifra davvero spropositata”.
La ricetta contro la crisi?
“Solo con la ricerca e lo sviluppo si progredisce. Nel quinquennio 2006-2011 noi abbiamo speso per investimenti 100 milioni di euro, in quello successivo oltre il doppio, 250 milioni. Chi ha tirato la cinghia alle prime avvisaglie della crisi oggi è fuori dal mercato”.
Cosa abbiamo, invece, noi italiani, che gli altri ci invidiano?
“La flessibilità. Siamo dei camaleonti, bravi ad adeguarci quando cambiano le carte in tavola. Noi siamo esperti nel crearci i problemi, ma sappiamo anche come risolverli. In questo diamo del filo da torcere ai tedeschi, che fanno fatica ad affrontare gli imprevisti. Sono troppo rigidi e inquadrati”.
C’è chi propone la staffetta generazionale: un lavoratore più anziano accetta meno ore in cambio dell’assunzione di un giovane, è d’accordo?
“Mi trovo bene con i dipendenti di lungo corso perché hanno esperienza. Ma abbiamo anche il management più giovane, con una media di ingegneri trentacinquenni. E quattro sono donne”.
Quale differenza c’è tra i due sessi nel modo di lavorare?
“Le ingegnere sono più brave. Sono più pignole, determinate. E sanno come farsi rispettare dal resto del personale”.
In un colloquio di lavoro, c’è un errore da con commettere?
“Sì, il millantare esperienze e capacità. Chi bara con un curriculum esagerato, viene scoperto subito. La sincerità e la trasparenza sono le doti che più apprezzo”.
Chi riesce a far carriera?
“Chi ha voglia di fare. Di solito individuo i più capaci e li chiamo gli “alti potenziali”. Un’azienda deve saper offrire opportunità, spianando loro la strada, magari con dei corsi di leadership o gestione del personale, a seconda delle lacune che possono avere”.
Ci sono però ragazzi che non trovano sbocchi e sono costretti a cercare fortuna all’estero.
“Se l’Italia può assorbire mille ingegneri e ce ne sono diecimila, l’unica soluzione è scappare. Ma anche fuori dai confini nazionali, chi possiede le qualità giuste riesce a emergere. Anche dal basso, da un semplice stage, in qualche anno si può raggiungere una buona posizione”.
Spesso però c’è chi aspetta fino a quarant’anni perché non trova il lavoro che ritiene più adatto a sé.
“Questo è un problema di eccessive aspettative. Tutti sognano di diventare top manager. Però non ci sono solo generali, ma anche caporali, tenenti e soldati semplici. E ognuno può concorrere al bene della sua azienda”.