Lavoro, è boom di voucher. A Bergamo ne sono stati utilizzati oltre due milioni

voucher_lavoro_1217È boom di buoni lavoro. Dal commercio al turismo, all’edilizia, alle attività agricole, i voucher da 10 euro lordi all’ora nati per pagare ore di lavoro accessorio chiudono il 2015 con numeri record. Nell’anno sono stati venduti 115 milioni di voucher, con una crescita del 66%o rispetto al 2014. I lavoratori pagati con almeno un voucher sono stati quasi 1,7 milioni (almeno 1 su 10 tra gli occupati dipendenti; 8 su 100 se si considera l’intera platea dei 22 milioni di occupati e ben 7 su 10 se si rapportano i voucheristi ai 2,2 milioni di lavoratori temporanei e stagionali subordinati).

Dal 2008 al 2015 sono stati venduti quasi 278 milioni di voucher per un importo complessivo di circa 2,8 miliardi di euro. La stima è della Uil ed è contenuta nel rapporto realizzato dal Servizio politiche del lavoro del sindacato. La Lombardia è la regione che più ha utilizzato i voucher, con 21 milioni seguita da Veneto (15,2 milioni) e Emilia Romagna (14,3 milioni).

A livello provinciale, secondo i dati Inps, svetta Milano con 7,3 milioni di buoni-lavoro venduti, seguita da Torino con 4,5 milioni di voucher, Roma con 3,8 milioni, Verona (circa 3,3 milioni di voucher), Brescia (3,2 milioni) e Bolzano (3,2 milioni). Bergamo si posiziona al quattordicesimo posto con 2.224.376 voucher venduti.

Il terziario è il settore che più ha utilizzato questo strumento di pagamento: commercio, turismo e servizi detengono quasi il 50% dei voucher emessi. Mentre i settori che dovevano essere protagonisti quasi assoluti, giardinaggio, lavoro domestico, attività sportive, coprono meno del 15% dei buoni venduti e la stessa agricoltura solo l’1,3%. La crescita costante negli anni dei voucher è legata alle modifiche normative che hanno dilatato, anno dopo anno, il loro campo di utilizzo. L’ampliamento della platea degli utilizzatori e l’innalzamento, con il jobs act, da 5mila a 7mila euro netti del tetto massimo di retribuzione annua tramite buoni ha fatto dilagare l’uso dello strumento avviato in via sperimentale nel 2008 per le vendemmie.

Nel 2012 la riforma Fornero ha tolto ogni limite di settore per l’utilizzo, consentendolo anche negli enti pubblici. Ciò ha portato il presidente dell’Inps Tito Boeri ha definire i voucher una possibile nuova frontiera del precariato. Entro qualche settimana il governo dovrebbe definire un intervento per stringere i bulloni e eliminare i comportamenti illegali e scorretti. «Stiamo facendo una valutazione – ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti – la chiuderemo rapidamente. Non vogliamo buttare il bambino con l’acqua sporca. Ci sono elementi positivi ma anche comportamenti illegali o scorretti. Sono questi ultimi che vogliamo eliminare».




Lavoro, a Bergamo saldo positivo grazie al commercio

commessa_optLe comunicazioni di avviamento in provincia di Bergamo nell’intero anno 2015 sono state complessivamente 142.261 (+15,3% rispetto alle 123.330 del 2014) a fronte di 141.747 comunicazioni di cessazione (+9,7% in confronto alle 129.941 del 2014). Il saldo globale tra contratti e comunicazioni di avviamento e di cessazione nel 2015 è leggermente positivo (+514), dopo tre anni consecutivi di saldi marcatamente negativi. E’ quanto emerge dal rapporto dell’Osservatorio Provinciale del mercato del lavoro sui dati e flussi del 2015. Un incremento ancor più netto riguarda le comunicazioni totali di trasformazione del rapporto di lavoro tra diverse tipologie di contratto o modalità orarie di lavoro: nel 2015 sono state 18.553, +80,1% rispetto alle 10.304 dell’anno precedente. In forte crescita anche le comunicazioni di proroga (riguardanti in larghissima misura i contratti a tempo determinato) che sono state 37.421 (+38,8% sulle 26.953 del 2014). La dinamica intra annuale evidenzia nel quarto e ultimo trimestre del 2015, con un evidente picco a dicembre, una crescita tendenziale vistosa delle trasformazioni (più che raddoppiate rispetto all’ultimo trimestre del 2014), degli avviamenti (cresciuti di oltre un terzo) e delle proroghe. Meno netto l’aumento tendenziale delle cessazioni che tipicamente si concentrano negli ultimi mesi dell’anno.

Con riferimento alle tipologie contrattuali, gli avviamenti a tempo indeterminato nel corso del 2015 sono stati 38.895 (+58,5% rispetto ai 24.534 del 2014). Per la prima volta dopo tre anni gli avviamenti a tempo indeterminato hanno superato, di poco, le corrispondenti cessazioni (38.239, +7,5% sul 2014). La modalità d’avviamento più ricorrente resta quella a tempo determinato con 52.743 comunicazioni (+5,8% sulle 49.838 del 2014); le corrispondenti cessazioni (48.851) sono aumentate del +8,8%. Aumentano in misura considerevole tra gli avviamenti anche le comunicazioni di tirocinio (4.491, +31% sul 2014) e i contratti di somministrazione (27.188, +16,5%), questi ultimi tipicamente destinati, per la loro breve durata, ad altrettante cessazioni. Si riducono invece gli avviamenti al lavoro parasubordinato (4.852, -27,6% sul 2014), i contratti di apprendistato (3.381, -17,5%), gli avviamenti al lavoro domestico (3.855, -6,3%) e al lavoro intermittente (3.766, -9,2%).

Se si considerano congiuntamente gli ingressi (avviamenti), le uscite (cessazioni) e le trasformazioni di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato spicca il saldo netto dei contratti a tempo indeterminato (+13.531 nel corso del 2015, in larghissima misura dovuto alle trasformazioni) che compensa il bilancio negativo dei contratti a tempo determinato (-7.651), del lavoro parasubordinato (-2.185), dell’apprendistato (-963) e degli altri contratti, ad esclusione dei tirocini. Il boom dei contratti a tempo indeterminato si è concentrato nell’ultimo trimestre del 2015 con 12.326 avviamenti (contro i 4.318 del quarto trimestre 2014) e 6.105 trasformazioni (contro le 1.326 di un anno addietro). Si assiste ad uno spostamento nelle preferenze delle forme contrattuali adottate dai datori di lavoro, sintetizzato dalla variazione dell’incidenza percentuale degli avviamenti a tempo indeterminato (27,3% degli avviamenti complessivi nel 2015, in crescita sulla quota del 19,9% nel 2014), di quelli a tempo determinato (in calo al 37,1% del totale nel 2015 contro una quota del 40,4% nel 2014) e del lavoro parasubordinato (al 3,4% nel 2015 contro il 5,4% del 2014), quest’ultimo costituito in buona misura da “collaborazioni” non più consentite dalle nuove norme.

Il cambiamento della composizione contrattuale è influenzato dalle novità normative del 2015: in particolare, oltre al già ricordato esaurimento delle collaborazioni parasubordinate, la decontribuzione su assunzione o trasformazione in contratto a tempo indeterminato (Legge di stabilità del 23 dicembre 2014) e la regolazione “a tutele crescenti” dei nuovi contratti a tempo indeterminato (Jobs Act), la prima in vigore dal 1° gennaio 2015, la seconda da marzo 2015. L’osservazione dell’andamento mensile di avviamenti e trasformazioni dei contratti a tempo indeterminato, con il già citato “picco” nell’ultimo trimestre del 2015, rende plausibile l’ipotesi che l’annunciata riduzione della decontribuzione sui contratti a tempo indeterminato dal 1° gennaio 2016 abbia favorito il boom delle trasformazioni e indotto un’anticipazione delle assunzioni previste per l’immediato futuro.

Ai fini di un’analisi più omogenea del mercato del lavoro è bene circoscrivere l’analisi alle comunicazioni relative al lavoro dipendente e parasubordinato. Questo sottoinsieme ha registrato, nell’intero anno 2015, 127.059 avviamenti (+17,1% sull’anno precedente) e 125.259 cessazioni (+9,6% annuo), con un saldo positivo di 1.800 contratti che interrompe una serie triennale di bilanci pesantemente negativi. In specifico, i contratti di lavoro dipendente hanno visto 122.207 avviamenti contro 118.222 cessazioni con un saldo positivo di 3.985 contratti. Il lavoro parasubordinato ha visto invece prevalere sugli avviamenti (4.852) le cessazioni (7.037) con un saldo negativo di 2.185 contratti. Il saldo positivo (1.800) dell’insieme dei contratti di lavoro parasubordinato e dipendente è dovuto a un bilancio positivo nel commercio e servizi (+3.248 contratti), al sostanziale equilibrio (+22) tra ingressi e uscite in agricoltura, al saldo negativo dell’edilizia (-1.216, in lenta attenuazione rispetto agli anni precedenti) e al deciso recupero dell’industria che dopo tre anni consecutivi di perdite massicce, tra le 3mila e le 4 mila unità, chiude con un risultato solo di poco negativo (-253).

Spostando l’analisi dai contratti ai lavoratori coinvolti, le persone complessivamente avviate nel corso del 2015 sono state 104.445 (+13,5% su base annua) contro 106.923 cessate. Il saldo è negativo (-2.478) ma in riduzione rispetto ai tre anni precedenti. Se si circoscrive l’analisi ai soli lavoratori parasubordinati e dipendenti, il saldo negativo si riduce a -905, dovuto in prevalenza a maschi (-883, contro -21 per la componente femminile), di nazionalità italiana (-1.341), mentre il saldo dei lavoratori stranieri è positivo (+411). Il saldo è, tipicamente, positivo tra minori di 30 anni e negativo nelle classi più anziane. Confortante notare che la dimensione del saldo giovanile (+4.885) è la più elevata da tre anni a questa parte.  Per quanto riguarda i titoli di studio degli avviati e cessati per il complesso delle comunicazioni, il saldo è negativo per i lavoratori meno scolarizzati ed è positivo per i lavoratori in possesso di diploma (+648) e di laurea (+983).




Adapt / Dipendenti o autonomi, il lavoro del futuro è molto di più

di Francesco Seghezzi*

 

In questi giorni in Senato è in discussione il cosiddetto Statuto del lavoro autonomo. Con questa espressione si indica un disegno di legge che il governo ha presentato e che ha l’obiettivo di regolare da un lato il lavoro autonomo e dall’altro il cosiddetto lavoro agile. Non è questo il luogo per entrare nei dettagli del testo, né per valutarne i singoli aspetti. Ma l’occasione consente di riflettere meglio su una delle dorsali lungo le quali si muove il Jobs Act, ad oltre un anno dalla sua approvazione: la distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. La politica del lavoro del governo Renzi ha avuto come scopo quello di tentare di eliminare le aree grigie che si trovano tra queste due forme di impiego. In questo senso vanno lette le norme che hanno eliminato i cocopro e hanno tentato di ricondurre le false partite iva nell’alveo del lavoro subordinato. L’assunto di partenza è quindi che possano essere chiaramente distinte le due tipologie, potendo identificare senza troppi dubbi cosa è lavoro dipendente e cosa è lavoro autonomo. Così facendo tutte le forme di impiego ricondotte al lavoro subordinato dovranno rispettarne le norme e i principi, primi fra tutti la subordinazione a orari, direttive, presenze sui luoghi di lavoro, dipendenza dai mezzi di produzione ecc. A ciò si affianca la seconda grande linea guida del Jobs Act, ossia che il lavoro subordinato deve essere sempre più stabile, riproponendo la vecchia distinzione tra stabilità e precarietà che proprio l’introduzione del contratto a tutele crescenti, senza articolo 18, ha contribuito, meritoriamente, a dissolvere nei fatti. Fin qui tutto chiaro, ma sorge una domanda: siamo sicuri che nel mercato del lavoro di oggi, e il mondo del lavoro in generale, si possa chiaramente distinguere tra queste due forme e giocarsi unicamente sulla dipendenza o meno da un datore di lavoro?

Lavoro Jobs ActSono diversi i segnali che sembrano mettere in dubbio questa tesi. In un recente Libro Verde pubblicato dal ministero del lavoro tedesco dal titolo Work 4.0 si sostiene che oggi le preferenze dei lavoratori, in particolare dalla generazione dei millennials in poi, siano completamente diverse da quelle del Novecento industriale. E questo non solo per le nuove forme di economia dei servizi, ma per esigenze di vita e di carriera che non possono oggi faticano a coincidere con il tradizionale modello del lavoro subordinato. Molti lavoratori oggi sono interessati a cambiare spesso lavoro, a poter gestire autonomamente i loro tempi e luoghi di lavoro facendosi valutare e retribuire sulla base dei risultati e della produttività, coinvolgersi in lavori per progetti e fasi, magari anche rapide, che possano sia stimolarli continuamente che consentirgli acquisizioni di nuove competenze. Il paper tedesco sostiene quindi che sia fuori tempo parlare ancora di standard employment relationship e che sia necessario dirigersi verso forme di lavoro caratterizzate da una maggior sovranità del lavoratore sui tempi di lavoro e soprattutto su una vera “flessibilità nello sviluppo di piani lavorativi”. E a chiarire di cosa parliamo per indicare queste forme di lavoro non-standard, che spesso in Italia vengono tacciate di diffondere il precariato, ci viene in aiuto una ricerca dell’Eurofund su “New forms of employment” in cui si analizzano quelle nuove tipologie di lavorano che caratterizzano i mercati contemporanei. A leggerlo ci si stupisce che molte di queste, come il job-sharing, l’employee sharing, il casual work ed altre siano in parte quelle tipologie contrattuali che il Jobs Act ha cancellato nel nuovo codice dei contratti. Molte di queste, come l’ICT-based mobile work, si trovano proprio in quell’area grigia tra lavoro autonomo e subordinato che il governo vuole provare ad ingabbiare nelle, strette, maglie del lavoro dipendente. Questi sono solo alcuni spunti, ma vi sono molti altri fattori, di tipo soprattutto manageriale che portano a dire che i modelli di business delle imprese contemporanee siano essi stessi lontani dall’aver bisogno di un tradizionale lavoratore subordinato.

Alcuni passi sono stati fatti in questo senso, in particolare il tentativo di diffusione dei voucher, per venire incontro a quelle forme di lavoro occasionale che spesso sfociano nel lavoro nero, ma come possiamo vedere dagli ultimi dati sull’aumento del loro utilizzo il rischio è proprio quello che vengano utilizzati come contenitore per tutta quell’area grigia che si sperava di eliminare. Ci troviamo così ad una notevole diminuzione dei contratti di collaborazione (che pur restano vivi nella forma dei cococo) ma al travaso di questi rapporti nel lavoro accessoria a mezzo voucher, che rischia di essere una copertura di nuovo lavoro nero. A ben vedere infatti è questo il rischio più grande: che la convinzione nella cancellazione dell’area grigia porti ad un aumento di lavoro sommerso o a contratti minimi per coloro che vogliono lavorare per progetti, fasi e missioni e che oggi non trovano una adeguata formula.

Bisogna quindi creare nuove tipologie contrattuali? Questa potrebbe essere una soluzione, concentrando lo sforzo su quei lavori dall’alto livello di competenze per evitare degenerazioni come avvenuto con i cocopro, individuando meccanismi per confinare questi contratti a chi veramente si muove lungo le linee guida del lavoro del futuro. Allo stesso modo è importante, se si sceglie di ricondurre tutto al lavoro subordinato, sciogliere quei lacci e lacciuoli che oggi lo rendono troppo granitico. In questo può essere una opportunità la recente discussione sul lavoro agile, se impostata correttamente. Ossia norme che consentano a qualunque lavoratore, a prescindere che sia autonomo o subordinato, di essere veramente agile nell’organizzazione dei tempi e luoghi di lavoro e della valutazione sulla base dei risultati. Andare oltre quindi ai vincoli della subordinazione che invece il disegno di legge governativo ripropone, facendo esplodere i limiti della visione rigida e schematica del Jobs Ace laddove ora si immagina possibile un lavoratore dipendente che però lavora a risultato come un autonomo. A questo occorrerebbe affiancare a questo un moderno sistema di politiche attive del lavoro che faccia sì che gli stessi passaggi tra un posto di lavoro e l’altro abbiano una parallela agilità e flessibilità a vantaggio del lavoratore. Sarebbe interessante per questo valutare come e se applicare anche in Italia la proposta di portable benefits lanciata dai freelance americani. Non si tratta di una sfida semplice, perché impone una rivoluzione nei vecchi schemi e delle vecchie norme che compongono il diritto del lavoro italiano. Ma un governo che voglia davvero guidare il cambiamento e non subirlo, e non farlo subire ai lavoratori, dovrebbe coglierla al volo.

 

*Responsabile comunicazione e relazioni esterne ADAPT




Alternanza scuola-lavoro, in campo anche i pubblici esercizi

pubblici eserciziNei giorni scorsi, il direttore generale del ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, Carmela Palumbo ed il direttore generale di Fipe Marcello Fiore, hanno siglato un importante protocollo d’intesa nella prospettiva di una maggiore integrazione tra scuola e lavoro. Come è noto, con la recente riforma della scuola l’alternanza con il lavoro è entrata ufficialmente nel curriculum scolastico e coinvolgerà, a partire dalle terze classi, tutti gli studenti delle scuole superiori. Attraverso il protocollo siglato, il MIUR e la Fipe promuoveranno il raccordo ed il confronto tra sistema di istruzione e formazione professionale e il sistema delle imprese, al fine di favorire lo sviluppo delle competenze degli studenti nel settore di riferimento e coniugare le finalità educative con le esigenze del mondo produttivo.

L’intesa raggiunta con la sottoscrizione del protocollo consentirà infatti di realizzare una serie di iniziative tra le quali: attività di orientamento; attività di formazione rivolta ai docenti per rendere i percorsi formativi quanto più connessi alle mutevoli esigenze del mercato del lavoro; attività formative rivolte agli studenti, per sviluppare nei ragazzi le competenze cosiddette “trasversali”, necessarie per il saper lavorare (es. il lavoro di gruppo, senso di responsabilità civile e sociale, imprenditorialità); la costruzione di alleanze tra i diversi soggetti istituzionali e non; la realizzazione di tirocini formativi in aziende del settore, visite aziendali ecc. per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

La collaborazione con il MIUR si aggiunge a quella già instaurata con Re.Na.I.A nell’ottica di definire i rapporti tra gli istituti professionali e le Associazioni territoriali al fine di creare una rete tra i vari soggetti per diffondere pratiche di alternanza scuola lavoro. Il protocollo avrà una durata di tre anni e prevede un’azione di monitoraggio per proporre opportuni adeguamenti per il miglioramento dei risultati. Affinché il protocollo possa tradursi in proposte concrete Vi invitiamo a darne ampia diffusione presso gli associati e a creare canali di comunicazione diretta con le scuole, con l’obiettivo di favorire la stipula di Protocolli d’intesa a livello territoriale e sviluppare forme di collaborazione tra le istituzioni scolastiche e le imprese.

 




Italcementi, i sindacati: “Il governo intervenga su Heidelberg”

La cassa integrazione del “pianeta” Italcementi toccherà, a partire dal prossimo aprile, anche Calcestruzzi. Nello stesso periodo, CTG sarà accorpata a Italcementi. Inoltre, verranno aperte procedure di mobilità non oppositive, per facilitare la rioccupazione dei lavoratori che possono trovare soluzioni occupazionali durante il periodo di cassa. Sono queste le notizie più importanti uscite dall’incontro di oggi a Roma tra sindacati, RSU  e la direzione di Italcementi SpA.

L’azienda nell’ambito dell’informativa presentata ha affermato che alla data attuale sono in forza ad Italcementi spa 1688 lavoratori di cui 294 in cassa integrazione, mentre tra i 192 del CTG, in 19 utilizzano ammortizzatori sociali. A Bergamo sono attualmente posti in cassa integrazione 49 lavoratori presso la sede di via Camozzi, 9 a Calusco, e 19 al Ctg.
“Il coordinamento delle Rsu e i sindacati – informano da Roma Giuseppe Mancin, segretario generale Feneal Uil di Bergamo, Danilo Mazzola, segretario generale di Filca Cisl Bergamo, e Luciana Fratus, della segreteria provinciale di Fillea Cgil – ritengono che il governo debba essere parte attiva nel definire da subito l’incontro con l’amministratore delegato di Heidelberg per esigere le risposte alle proposte avanzate dai lavoratori in vista della chiusura dell’acquisizione prevista tra giugno e luglio 2016. Ulteriori ritardi sarebbero incomprensibili. Abbiamo inoltre espresso preoccupazione per il calo produttivo annuale degli stabilimenti di Calusco d’Adda e Rezzato, che sfruttano un funzionamento dell’80% dei forni di cottura della farina di cemento. La situazione produttiva e occupazionale della Lombardia sarà oggetto di successivi incontri a livello regionale e territoriale che coinvolgerà anche Calcestruzzi azienda che opera nell’ambito commerciale del calcestruzzo”. Nei prossimi giorni si svolgeranno le assemblee di informazione dei lavoratori.




Sciopero all’ex Centax. “Poca chiarezza sul futuro di 90 persone”

Sciopero alla ex Centax. Lo hanno deciso lavoratori e sindacati per protestare sulla situazione della Cofidis,  gruppo che ha assorbito il vecchio marchio nel servizio del credito al consumo e bancario. Oggi, dunque, dopo 11 mesi di trattative con la nuova proprietà, i 90 lavoratori della sede di via Pignolo incroceranno le braccia per tutto il giorno. Centax spa è attiva sul territorio bergamasco dal 1988. A marzo 2015, la famiglia Maffeis decide di vendere la società al gruppo francese Cofidis che punta con l’operazione a rafforzare la propria presenza sul mercato italiano.

“Dopo una serie di incontri iniziali – dichiarano Mario Colleoni e Diego Lorenzi, che per Filcams Cgil e Fisascat Cisl hanno seguito la vertenza, “l’azienda ci comunica la volontà di mantenere un’unica sede a Milano e ci conferma di voler rinforzare la società, garantendoci che ogni passaggio sarebbe stato fatto con l’obiettivo di far crescere l’attuale struttura e rassicurandoci del fatto che sarebbe di fatto stato reso sostenibile il passaggio dei lavoratori bergamaschi nella nuova sede di Lambrate. Questo – stando ai sindacati – a oggi non è ancor accaduto. Per mesi lavoratori e sindacati hanno discusso cercando di trovare un accordo, “ma troppi sono i punti poco chiari, soprattutto relativamente agli orari di lavoro. La società – spiegano ancora  i sindacati – chiede ai lavoratori del call center di recarsi presso la sede milanese con un orario che prevede una copertura su 24 ore senza alcuna flessibilità, mentre ai lavoratori degli uffici viene chiesto di ampliare la fascia oraria di disponibilità. Considerando l’incidenza della spesa legata allo spostamento e la parziale copertura che l’azienda sarebbe disponibile a riconoscere e considerando il fatto che molti sono i part time e molte le mamme , ci risulta evidente che l’operazione che Cofidis sta attuando è finalizzata a un obiettivo diverso da quello dichiarato”.




Agenti immobiliari, più facile lavorare nell’Ue

agente_di_comme.jpgLavorare nei Paesi dell’Unione Europea diventerà più facile, almeno per alcune professioni. È entrata in vigore la European Professional Card (EPC), una certificazione elettronica che velocizza e rende meno oneroso il riconoscimento dei titoli professionali negli altri Paesi. La tessera per ora interessa cinque categorie: infermieri, farmacisti, fisioterapisti, agenti immobiliari e guide alpine. Ma potrebbe essere presto estesa ad altre professioni. La novità è contenuta nel decreto legislativo che recepisce la direttiva 2013/55. Il testo è stato approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri a novembre scorso per essere sottoposto al parere della Conferenza Stato-Regioni e delle competenti Commissioni parlamentari, prima dell’approvazione definitiva dell’Esecutivo. Grazie alla nuova tessera, agenti immobiliari, farmacisti, fisioterapisti e guide alpine potranno trasferire la propria attività in un altro Paese dell’Unione, anche solo in via temporanea, evitando le pratiche e i tempi burocratici necessari alla conversione dei titoli. Si tratta di un passo importante, perché nonostante i vari tentativi compiuti finora per armonizzare i sistemi scolastici, negli stati europei rimangono ancora molte differenze (chi ha provato a lavorare in un altro paese Ue sa quanto sia difficile far riconoscere i titoli di studio).  La tessera vale sia per i professionisti italiani che intendono esercitare in un altro Paese sia per i professionisti europei che vogliono esercitare in Italia e consente di esercitare in tutto il territorio comunitario.  Funziona come un passaporto’ elettronico e testimonia che il professionista ha superato tutte le procedure per ottenere il riconoscimento della qualifica professionale nel Paese ospitante.
Per Annarita Fioroni responsabile Confcommercio Professioni «la tessera professionale deve essere un’opportunità per i professionisti del nostro Paese per l’accesso al mercato europeo».«L’esperienza maturata  dall’applicazione della tessera professionale europea ai settori che attualmente possono richiederla – dice – sarà un banco di prova per capire punti di forza e debolezza e fare una valutazione complessiva dell’efficacia dello strumento per la competitività dei nostri professionisti. Soprattutto in un momento in cui c’è bisogno di interventi di sostegno per questa categoria in  un mercato che tende a svalutare competenza e professionalità».
In un momento di forte difficoltà per tutto il mondo professionale la EPC rappresenta una possibilità per i professionisti di allargare il proprio orizzonte di lavoro aprendo a un mercato  europeo in cui fino ad oggi solo in  pochi hanno potuto confrontarsi, spesso proprio a causa di difficoltà burocratiche.
Spiega Luciano Patelli, presidente di Fimaa provinciale «con la tessera europea la categoria degli agenti immobiliari acquista una buona carta per equipararsi agli altri agenti europei ed essere riconosciuti tra professionisti all’interno della Ue. Da anni ci sono grandi investitori italiani che acquistano dove il mercato è in buona salute: a Praga, a Londra, sulla costa Mediterranea della Spagna. La tessera europea ci accredita in modo istantaneo, e così ci dà la possibilità di collaborare con i colleghi europei, senza il timore da parte loro di incorrere in truffatori, e anche di aprire agenzie fuori dai confini italiani in modo semplice».

LA PROCEDURA PER IL RILASCIO DELLA TESSERA EUROPEA

– Per ottenere la tessera basta collegarsi al sito dell’Unione europea e registrarsi, compilare tutti i campi richiesti dalla domanda telematica (generalità, professione, formazione, esperienza lavorativa, modalità con la quale si prevede di esercitare la professione, Paese ospitante), allegare copie digitali dei documenti richiesti, e inviare la propria domanda. Per avere risposta bisognerà attendere tre settimane per le domande di esercizio temporaneo all’estero e fino a 3 mesi se si intende stabilirsi definitivamente in un altro Paese Ue, con il vantaggio di poter seguire on line l’avanzamento della domanda. La  concessione della card prova il superamento dei controlli amministrativi previsti dalle norme comunitarie e attesta che le qualifiche del professionista sono state riconosciute dal Paese ospitante o hanno soddisfatto le condizioni per la prestazione temporanea di servizi. Dopo la verifica in alcuni casi (a seconda delle proprie qualifiche e del paese indicato) potrebbero essere indicate al richiedente misure compensative per il riconoscimento delle qualifiche nello stato estero (si parla di eventuali prove attitudinali o tirocini). La direttiva sulla EPC prevede anche un meccanismo di allerta: segnalerà su tutto il territorio UE i professionisti colpiti da una sanzione disciplinare o penale che abbia incidenza sull’esercizio della professione.

 




È la settimana dell’apprendistato. La Regione lancia la sfida a imprenditori e commercianti

Regione Lombardia“Questa per Regione Lombardia è la settimana dell’apprendistato, abbiamo preparato un manuale, una guida intitolata ‘Adotta un apprendista’: con questa campagna vogliamo lanciare una sfida a tutte le imprese della Lombardia, grandi e piccole, un invito a favorire il ricambio generazionale nelle aziende, nelle imprese, in tutti gli esercizi dove è possibile fare esperienza, ma anche adottare un apprendista”. Così si è espresso ieri l’assessore regionale all’Istruzione, Formazione e Lavoro Valentina Aprea che ha lanciato le iniziative della Regione per agevolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. “Saremo la prima Regione a lanciare il nuovo contratto di apprendistato – prosegue Aprea -, perché all’interno del ‘Jobs act’ c’è anche una nuova disciplina dell’apprendistato, un contratto che in passato non ha mai avuto tanta fortuna, perché era costoso per gli imprenditori, pieno di normative, di impegni, di vincoli per la formazione, per cui in questi anni le imprese piuttosto facevano contratti a tempo determinato, ma hanno sempre trascurato questa tipologia contrattuale”.

“Per ovviare a queste difficoltà – chiosa la titolare lombarda del Lavoro – Regione Lombardia ha lavorato con il ministro Poletti e con il team del ministero del Lavoro, anche perché abbiamo il carico di migliaia di imprese che sentono il bisogno del ricambio generazionale e abbiamo approntato una disciplina del contratto di apprendistato di primo e terzo livello veramente vantaggiosa. Ciò significa che oggi studiare e lavorare sarà possibile, che oggi i ragazzi per avere esperienze di lavoro non devono aspettare di diplomarsi, di laurearsi, magari di fare master, ma potranno, con questi contratti, sperimentare subito ‘on the job’, le loro competenze, le loro attitudini proprio perché diventa vantaggioso per gli studenti”.  “La guida che abbiamo approntato – spiega ancora Aprea – contiene anche cinque buone ragioni per gli studenti per andare in apprendistato e cinque buoni motivi per le imprese per scegliere l’apprendistato di primo e terzo livello; abbiamo semplificato al massimo il contratto di apprendistato per le imprese, rendendolo estremamente vantaggioso dal punto di vista economico, con sgravi fiscali, e bonus occupazionali”. “Inoltre – sottolinea l’assessore – in questa guida indichiamo agli imprenditori dieci mosse per chiamare apprendisti nelle proprie aziende”.

“Il nostro obiettivo – spiega Aprea – è quello di favorire una cultura del lavoro che veda i giovani impegnarsi quando ancora non hanno completato gli studi e questo con molteplici vantaggi: una predisposizione all’apprendimento permanente, perché oggi si continua ad apprendere in tutte le fasi della vita attiva, ma poi nella vita attiva ti capiterà di fare tanti lavori, o fare lo stesso ma in maniera diversa, per cui prima si comincia e meglio è”. “Giovedì 18 febbraio, al pomeriggio – conclude Aprea – gli imprenditori e gli esercenti che hanno in mente un ricambio generazionale nella propria attività e ritengono di voler adottare un apprendista, possono venire in Regione. Alle 14.30 in Sala Biagi – esorta Aprea – racconteremo tutti i vantaggi per gli imprenditori e gli sgravi fiscali, i bonus occupazionali legati agli apprendisti. Così facendo – conclude l’assessore – gli imprenditori avranno un vantaggio, ma soprattutto contribuiranno a creare una vera cultura dell’alternanza scuola-lavoro e del lavoro per i giovani, che devono imparare a lavorare e studiare insieme come si fa in tutto il mondo; solo noi finora li abbiamo lasciati a imparare nelle aule scolastiche. Non basta più, non può bastare: dobbiamo rivoluzionare il sistema, Regione Lombardia pone su questa misura tantissimi finanziamenti e tantissime iniziative”.




Tute blu, a Bergamo calato il numero di licenziati nel 2015

Sono stati quasi seimila (5773) i licenziamenti nel settore metalmeccanico lombardo nel 2015: 2.700 unità in meno nel raffronto con il 2014. Nella comparazione con il 2013, c’è una riduzione di 1.200 unità: il calo dunque risulta abbastanza significativo. A scanso di equivoci si tratta ancora di numeri importanti, che danno la cifra di una situazione molto delicata. Soltanto nel mese di dicembre si possono contare mille esuberi tra le tute blu, quasi la metà rispetto all’ultimo mese del 2014 (1890). Nel dicembre 2013 invece a perdere il lavoro furono in 533. Com’è noto, si tratta di lavoratori  licenziati collettivamente da imprese che hanno attivato la procedura di mobilità. Guardando nello specifico, la parte del leone a dicembre l’hanno fatta i comprensori di Bergamo con 264 licenziamenti (925 su base annua contro i 1.123 del 2014)) e Milano 255 (1960 spalmati su 365 giorni). A seguire i distretti di Monza (144, un quarto rispetto a tutto il 2015) e Varese (108, contro i 405 dell’intera annualità). Significativi anche i numeri di Pavia e Brescia, rispettivamente con 63 e 55 risorse messe in mobilità. Chiudono la graduatoria Cremona e Como, appaiate con 40 licenziati, Lecco (27), Mantova (20), Sondrio (11) e Lodi (3).

“La diminuzione dei licenziati non deve trarre in inganno perché c’è una diminuzione della struttura industriale e della base occupazionale. Rimangono numeri molto alti, tenendo presente il numero elevato dei cassintegrati e che tendenzialmente difficilmente ad oggi hanno le condizioni per rientrare nel mondo del lavoro”, commenta Mirco Rota, segretario generale della FIOM Cgil Lombardia. “L’alto numero dei licenziati – continua il segretario delle tute blu lombarde – dovrebbe mettere il Governo nelle condizioni di riflettere sull’avvenuto taglio degli ammortizzatori sociali. Perchè come vedremo nei prossimi mesi le aziende procederanno ai licenziamenti per fronteggiare la crisi, non potendo più ricorrere a misure alternative. Da parte della Regione Lombardia  ci aspettiamo un intervento ancora più concreto rispetto alle crisi industriali, che sono il vero tema da affrontare per intervenire sulla crisi e il numero dei licenziati”

 




Adapt / Conciliazione vita-lavoro, i rischi nelle nuove norme

di Agnese Moriconi*

Le novità introdotte in materia di conciliazione vita-lavoro ad opera del d.lgs. n. 80/2015 sono state accolte con favore quale espressione della sensibilità del legislatore nell’attualizzazione, in particolare, delle disposizioni contenute nel TU sulla maternità, divenute in parte obsolete rispetto alle mutate esigenze economico-sociali. Ed infatti, se ne comprende agilmente la ratio sottesa: ridurre la sempre crescente incompatibilità, soprattutto per le donne madri, tra le esigenze economiche ed organizzative personali, scaturenti dal possedere una famiglia, e gli obblighi relativi all’adempimento della prestazione lavorativa. Il fattore comune di molte delle novità introdotte (es. cumulabilità anche oltre i 5 mesi dei giorni non fruiti per parto prematuro, sospensione maternità durante il ricovero del neonato, fruizione del congedo su base oraria anche in assenza di accordi collettivi, estensione dei congedi anche ai lavoratori autonomi) è l’incremento di efficacia delle opzioni organizzative riconosciute ai genitori (anche in caso di handicap del figlio, adozione o affidamento) per far fronte ad esigenze quotidiane difficilmente conciliabili con gli obblighi che derivano dal rapporto di lavoro. È opportuno, però, riflettere su eventuali ricadute applicative di alcune delle nuove misure introdotte, pur nella consapevolezza del rischio di avanzare valutazioni “impopolari” e peraltro condividendo la necessità di ridurre il dualismo per i lavoratori tra ambito personale e lavorativo.

Conciliazione vita-lavoroAlle nuove previsioni che ampliano le soluzioni organizzative a disposizione dei lavoratori corrispondono infatti conseguenze non trascurabili in capo al datore di lavoro, che potrà trovarsi a dover fronteggiare assenze improvvise, talvolta prolungate o, diversamente, estremamente frazionate, senza avere a riguardo alcuna possibilità di contraddittorio. Un esempio di tale spostamento del punto di equilibrio è rappresentato dalla nuova disciplina del congedo “su base oraria”, di cui all’art. 32, comma 1-ter del d.lgs. n. 151/2001, modificato ad opera dell’art. 7 del d.lgs. n. 80/2015. In considerazione della prevista possibilità di fruizione di tale congedo anche in assenza di una regolamentazione di fonte collettiva o di secondo livello, il lavoratore potrà esercitare tale diritto scevro da particolari limiti e/o condizioni, eccezion fatta per un brevissimo termine di preavviso (2 giorni), anche quest’ultimo peraltro derogabile in caso di «oggettiva impossibilità». Rispetto ad un istituto che nella sostanza, soprattutto quanto a modalità di gestione, può essere considerato nuovo anche per il datore di lavoro, salta agli occhi il mancato riferimento ad eventuali e minime misure di accordo o coordinamento con quest’ultimo. E ciò tanto più in considerazione del fatto che il congedo su base oraria era già stato previsto dalla l. n. 228/2012, ma era rimasto inapplicabile proprio a causa della mancanza, nella maggioranza dei casi, di una disciplina collettiva che ne consentisse l’attuazione. Già in passato il legislatore aveva dimostrato consapevolezza rispetto alla necessità di un corretto coordinamento tra le esigenze del lavoratore e quelle del datore di lavoro, ontologicamente opposte anche su questo profilo (tra gli altri).

Ci si riferisce, ad esempio, alla disciplina dei riposi giornalieri della lavoratrice madre – ex art. 10, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, poi integralmente sostituita ad opera dell’art. 39, d.lgs. n. 151/2001 – che attribuisce a quest’ultima il diritto a due ore di riposo durante la giornata lavorativa (o un’ora in caso di giornata lavorativa di durata inferiore a sei ore). Tale fondamentale riconoscimento è stato mitigato dall’art. 10 del D.P.R. n. 1026/1971, che indica al lavoratore la necessità, in fase di richiesta e collocazione dei suddetti permessi, di «tenere conto» anche delle esigenze di servizio. Peraltro, in caso di mancato accordo, l’identificazione della soluzione organizzativa è devoluta all’Ispettorato del lavoro. Nel caso dei permessi per allattamento, quindi, nonostante la loro indubbia rilevanza sul piano della conciliazione vita-lavoro, al chiaro riconoscimento dell’obbligo a carico del datore di lavoro di garantire la soddisfazione delle esigenze familiari della propria dipendente è stata affiancata e non frustrata la necessità di addivenire ad accordi finalizzati a scongiurare pregiudizi ad entrambe le parti coinvolte.

Benché la nuova fruibilità oraria dei congedi parentali presenti, a parere di chi scrive, notevoli affinità anche applicative con la disciplina dei c.d. permessi per allattamento appena descritta, nel primo caso non è stata però prevista alcuna modalità di raccordo con le esigenze organizzative e produttive dell’impresa. È quindi prevedibile – ed anzi auspicabile – un intervento della contrattazione collettiva soprattutto nazionale, capace di raggiungere anche le imprese non sindacalizzate, che, prendendo atto del sempre crescente interesse per i lavoratori verso gli strumenti di conciliazione vita-lavoro, con conseguente possibile aumento della relativa fruizione, andasse a rimodulare le modalità di esercizio del diritto al congedo su base oraria, in funzione di una maggiore sostenibilità per le imprese. Ad ogni modo, pur in mancanza di esplicita indicazione normativa, nulla impedirebbe alle parti (datore di lavoro e lavoratore) di definire accordi proprio sulle condizioni o sui limiti generali cui i lavoratori dovrebbero attenersi in fase di collocazione dei congedi su base oraria, anche se ciò, a ben vedere, d’altra parte mal si concilierebbe con la velocità e la semplicità che dovrebbe caratterizzare l’applicazione pratica delle nuove disposizioni.

Si rileva, inoltre, come la lettura complessiva della disciplina delle misure di conciliazione vita-lavoro (ad es. nuove disposizioni sul congedo di maternità in caso di parti prematuri, congedo su base oraria, estensione della fruibilità del congedo parentale fino ai 12 anni di vita del bambino), benché queste ultime siano indubbiamente apprezzabili dal punto di vista sociale, possa risultare, soprattutto agli “occhi” delle PMI ed in un contesto sociale in cui le donne vivono ancora alcune penalizzazioni nel mondo del lavoro, organizzativamente ed economicamente onerosa, concretizzandosi in un ulteriore disincentivo all’assunzione di giovani donne. A margine dell’intervento della contrattazione (anche decentrata), che potrebbe mitigare la suddetta onerosità, sarebbe forse stato utile, inoltre, prevedere misure incentivanti, anche assimilabili alla defiscalizzazione prevista per il welfare aziendale, volte a controbilanciare la flessibilità richiesta alle imprese. In questa ottica si è probabilmente mosso il legislatore rispetto alla novità introdotta per il telelavoro, con la finalità di favorire l’implementazione di best practice di lavoro flessibile, prevedendo, in particolare, la possibilità che i telelavoratori non siano computati nel numero complessivo dei lavoratori, al fine della applicazione dei vari istituti di legge (modalità da sempre ritenuta estremamente “incentivante”).

* Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo