L’architetto, l’antiquaria e la passione per le torte: ecco DuLciS

Simona Sai e Laura Crotti
Simona Sai e Laura Crotti

La passione e la volontà fungono da benzina per sviluppare progetti che sembrano impossibili da realizzare, ma che improvvisamente diventano realtà e permettono di seguire un percorso, una strada che forse non si era neanche mai immaginata come futuro sbocco professionale.

Devono averlo pensato, solo qualche mese fa, Laura Crotti e Simona Sai, due bergamasche che, tornando indietro di un paio di decenni, già si conoscevano di vista e frequentavano alcuni amici in comune, ma la cui quotidianità era segnata da professioni e storie molto diverse. Laura con competenze professionali nel mondo dell’antiquariato (e un negozio di famiglia da gestire in centro a Bergamo), Simona, invece, impegnata nel seguire, dopo l’università, la carriera di architetto, tra progettazioni edilizie e la costruzione di impianti sportivi e centri benessere.

Poi, quasi in contemporanea, è arrivata la svolta per entrambe, la cosiddetta “sliding door”, con la grande passione per la pasticceria, che nasce e si evolve sulla scia dell’esplosione, anche mediatica, del cake design, ma prende il via con un approccio più casalingo per entrambe, prima di seguire dei corsi specialistici.

«Ricordo bene quando ho deciso che volevo lavorare nel mondo dei dolci – dice oggi Simona -. È stato circa sette anni fa, il giorno in cui mi sono messa a preparare una torta di compleanno per mio nipote. Mi sono sentita subito realizzata nel fare qualcosa di più personale e piacevole di quello che il destino mi aveva riservato sino ad allora con la routine giornaliera tra cantieri e uffici».

E a farle eco è l’attuale socia Laura, con la quale ha inaugurato da poche settimane DuLciS, un laboratorio di pasticceria ad Almé, in via Campofiori al civico 26c: «Questa è una professione che ho iniziato a svolgere in maniera piuttosto naturale, perché possiamo certamente dire che racchiude una certa dose di creatività e permette di sviluppare idee artistiche davvero interessanti. In fin dei conti non è poi stato complicato, perché tutte e due già svolgevamo dei lavori dove la creatività e il gusto del bello dovevano essere decisamente spiccati. Diciamo che ora abbiamo aggiunto anche il gusto del buono…».

Simona e Laura si sono incontrate quattro anni fa un po’ per caso. Hanno scoperto che entrambe dovevano partecipare al corso di modelling di un famoso cake designer a Legnano, così si sono risentite dopo anni e hanno deciso di fare il viaggio in macchina insieme. Durante la lunga chiacchierata che è scaturita sono state gettate in qualche modo le premesse della futura collaborazione, anche se negli anni successivi il percorso delle due è stato un po’ diverso. Simona ha lavorato nel dietro le quinte de La Marianna, in Città Alta, occupandosi prevalentemente della decorazione della biscotteria lavorata, mentre Laura ha iniziato a confezionare torte con la pasta da zucchero e a inanellare collaborazioni di prestigio che continuano tuttora. Per fare un esempio, il grande cappello da chef che pochi mesi ornava la torta celebrativa dei cinquant’anni del ristorante Da Vittorio è opera sua, e con la famiglia Cerea ancora oggi le capita di realizzare torte su misura o parti di dolci che richiedono attenzioni certosine e manualità artigianale.

Ora con il nuovo laboratorio DuLciS (la L e la S maiuscole ovviamente sono le iniziali delle due socie…) si sono aggiunte anche collaborazioni con altri ristoranti di fama, come l’Osteria della Brughiera e Frosio, i due indirizzi “stellati” che, tra l’altro, sono più vicini al laboratorio. Certo, il nuovo lavoro in proprio adesso impone ritmi più serrati e una scaletta decisamente impegnativa, come si vede bene osservando dalla vetrina che invita ad entrare nel laboratorio Così, pur mantenendo la caratteristica di una attività assolutamente artigianale, di due ragazze che realizzano dolci su ordinazione, DuLciS sin dall’apertura ha iniziato a sfornare un mondo di prelibatezze piuttosto variegato, che prende il via dalle praline, passa attraverso i biscotti e arriva dalle parti delle torte, passando per la cioccolateria.

Con scelte ben precise, che non badano troppo alle esigenze di chi, proprio in questi giorni, vorrebbe ordinare il classico dolce delle feste. Dice Laura: «Niente panettoni o pandori. Preferiamo concentrare la nostra attenzione sui prodotti freschi e in tutti quelli dove si percepisce bene l’utilizzo di un’ottima materia prima. Sicuramente prepareremo anche dei dolci natalizi, ma come idea regalo e saranno perlopiù confezioni di biscotti, quelli con la frolla decorata, oppure cioccolatini con un packaging dedicato proprio al Natale. Non vogliamo buttarci in una produzione seriale e preferiamo curare la qualità e il rapporto con il singolo cliente. Sia ben chiaro, la nostra idea di dolce è quella della classica torta italiana e della pasticceria tradizionale, ma al tempo stesso ci piace l’idea di adattare qualche preparazione alle novità proposte dal cake design, senza però finire nelle classiche americanate».

Intanto da DuLciS c’è già l’occasione di partecipare a dei corsi di pasticceria, per un massimo di otto persone e sono quasi sempre giornate intense, per i grandi che vogliono poi cimentarsi tra le mura domestiche, magari carpendo prima qualche trucco del mestiere, oppure per i piccini che si divertono a impastare e a preparare dolcetti, come se fosse un gioco.

DuLciS

via Campofiori, 26c
Almé
dulcissnc@hotmail.com
366.4943440 – 393.9866639



“Tilde”, a Treviglio il panettiere che rilancia i grani antichi

Simone conti con la moglie Marisol
Simone conti con la moglie Marisol

Cresciuto nel negozio di alimentari gestito per mezzo secolo da suo papà Pino, storico commerciante trevigliese scomparso il mese scorso, Simone Conti sembrava lontano anni luce dal raccoglierne il testimone: si è laureato in Lingue e Letterature Straniere all’Università di Bergamo, in Editoria a Londra, dove ha vissuto e conosciuto la moglie Marisol Malatesta – pittrice peruviana e tutor all’ateneo di Bournemouth, al suo fianco nella nuova avventura, dopo una parentesi a Barcellona – occupandosi di fotografia e mantenendosi lavorando nei ristoranti della City.

Finché, dopo tante esperienze, ha ritrovato la strada di casa, aprendo un forno artigiano, nella frazione di Castel Cerreto, dove produce pane a pasta madre e recupera grani antichi. Le pagnotte sono a pezzatura grande, sugli 850 grammi, e destinate a negozi e ristoranti. Annessa, però, c’è la bottega per la vendita diretta. Il laboratorio, 120 metri quadri nella corte padronale di via Contessa Piazzoni, si chiama “Tilde”, come il simbolo dell’infinito che è impresso nel suo pane, usato in spagnolo e, fin dal Medioevo, dagli amanuensi per abbreviare risparmiando carta e inchiostro. «Richiama la mia filosofia: cura e rispetto della tradizione, usando tecnologie moderne», spiega Simone.

La svolta è avvenuta proprio a Londra, dove era “fuggito” nel 2005 con l’obiettivo di migliorare l’inglese. Il nonno paterno, Luigi, era agricoltore e aveva un banco al mercato. Il padre iniziò a stare dietro al bancone della carne che era dodicenne. Due anni dopo aveva ottenuto il primo contratto in regola. Dopo quattordici anni di lavoro come dipendente, il grande salto: l’opportunità, colta al volo, di comprare l’attività, diventata a conduzione familiare.

«Ricordo, da bambino, quando facevo da accompagnatore per le consegne con il furgoncino. Mio papà ha sempre amato il suo mestiere, tanto da dimenticarsi di aver raggiunto i requisiti per la pensione, ma ha anche sempre condotto una vita durissima e io, al contrario dei miei familiari, ho scelto di fare altre esperienze», sorride il panettiere.

Tilde - forno artigiano - Treviglio - paneMentre cercava la sua strada, Simone si è mantenuto prima lavando i piatti, poi arrivando a occuparsi di pasticceria e diventando cuoco nella capitale inglese. L’incontro che gli ha aperto un nuovo mondo è stato con Giorgio Locatelli, il più famoso chef italiano a Londra, che vanta clienti come Madonna, Robbie Williams, Johnny Deep o i Beckham. «Mi ha fatto apprezzare la filosofia di Slow Food ed è stato allora che ho maturato il mio progetto – dice Conti -: usare farine ottenute da varietà di cereali rare e superiori per migliorare il prodotto, renderlo più aromatico e salutare, favorendo l’economia locale e facendo tornare sovrana la biodiversità alimentare». I grani provengono da aziende che praticano un’agricoltura in piccola scala, investono in pochi ettari di campi e non usano pesticidi. Il glutine è limitato. La macinatura avviene a pietra naturale in modo che il chicco non sia spaccato, né schiacciato, ma pelato, conservando tutte le proprietà nutritive originali. Il lievito madre è da farine tipo 2 e integrale con germe di grano e parte della fibra.

Difficile da lavorare, la miscela è impastata da una macchina speciale a braccia tuffanti, dopo un passaggio in apposite celle frigorifere che fanno ritardare la fermentazione. Il prodotto si mantiene in tutta la sua bontà per almeno per cinque giorni. Segreti e tecniche che Simone ha imparato frequentando un master a Bra nel 2010. Tornato a Londra, ha preso spunto da ciò che accadeva a Hackney, il quartiere dove viveva con Marisol, dalla riscoperta delle botteghe e del cibo a chilometro zero già avviata. A Bristol, al Bordeaux Quay, ristorante che ricicla anche l’acqua piovana, ha invece appreso l’importanza della sostenibilità, mentre all’E5 Bake House di Londra l’arte della panificazione, impastando ogni giorno a mano. «Gli inglesi si ispirano molto ai francesi nelle tecniche, ma sono più integralisti e sono copiati anche dagli americani. Nulla è approssimativo o lasciato al caso, da loro ho imparato l’importanza delle lievitazioni lunghissime, che superano le venti ore e che quasi nessuno, da noi in Italia, propone perché antieconomiche, ma che io metto in pratica ogni giorno», ammette.

Nel suo forno a Castel Cerreto, l’artigiano si concentra su quattro varietà. La prima è la più antica, il grano tenero che mescola sei-sette tipi di semi, forniti dall’azienda agricola Floriddia di Peccioli, nel Pisano. «Ogni risultato è un esperimento, provano a coltivare diverse specialità e quel miscuglio diventa il frutto tipico di quel territorio, un unico irripetibile altrove», aggiunge Marisol.

I nomi dei semi sono, per citarne alcuni, il monococco, la sarragolla, la tumminia, il farro spelta e il farro dicocco. Poi, i grani siciliani, i tre farri e la segale Val di Gesso. A fornire la materia prima sono anche il Mulino della Riviera di Dronero e dal Sobrino a La Morra, nel Cuneese, Del Ponte a Castelvetrano, in provincia di Trapani, e Podere Monticelli a Villanova del Sillaro, nel Lodigiano.

Il locale possiede uno spazio che sarà dedicato alle esposizioni d’arte e in programma ci sono anche corsi per i bambini. «L’educazione è la base, la differenza non sta nel prezzo, ma nella qualità, le nuove generazioni devono saper distinguere una fetta “vuota” da una ricca di vitamine», è l’opinione della coppia. La produzione iniziale è di 300 chilogrammi a settimana. A questi si aggiungono biscotti, dolci, focacce e la rivendita di prodotti del territorio come latte, uova, confetture, miele, lumache. Tra tanta esperienza, la più importante resta però quella di papà Pino: «Lui vale più di qualsiasi master, lo ricordo sempre felice dietro al bancone, conosceva i nomi dei clienti, scambiava battute in dialetto, li consigliava. Mia mamma e due mie sorelle gli erano sempre vicine – ricorda l’artigiano del pane -. Per lui i problemi non dovevano entrare nella bottega, doveva accogliere il suo cliente. Con il sorriso».

Tilde - forno artigiano - Treviglio - paneTilde

via Contessa Piazzoni 7/a
Treviglio – Castel Cerreto
www.tildeforno.com

 




Quante cantonate sulla storia del riso. Pure Cracco ne ha presa una

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«Qual è il piatto che unisce l’Italia?» – tuona Carlo Cracco in una delle puntate d’apertura dell’ultima edizione di Hell’s Kitchen. Schierata dinnanzi all’impudente mattatore, la spaurita brigata di cucina appare ancor più esitante del solito. «Il riso» – azzarda un commis di chiare origini sicule. Per quanto assai più pertinente della pizza che lo chef vicentino vorrebbe sentirsi suggerire, la risposta è da questi accolta con un’irridente canzonatura: “Certo, chi non conosce le celebri piantagioni siciliane di riso?”. La frecciata del nume televisivo dei fornelli sibila tra i risolini di condiscendenza degli astanti. “Ma gli arancini?” – si schermisce l’ingiustamente sbeffeggiato concorrente, cui nessuno presta però più attenzione.

Pur senza ubique coltivazioni, è in realtà indiscutibile che il riso sia profondamente radicato nella tradizione culinaria di quasi ogni angolo del nostro paese. E proprio la Sicilia fu il portale attraverso il quale, su impulso arabo, il cereale fece nel cuore del medioevo il suo definitivo approdo alla gastronomia della Penisola. Oltre che dai famosi arancini, questo importante passaggio storico è eloquentemente documentato da un manicaretto tutt’oggi in voga nel levante della Trinacria: la tummala, un timballo strettamente imparentato con i polow della cucina persiana. La singolare denominazione della vivanda è legata all’emiro-gourmet Mohamed Ibn Thumma, reggente di Catania nell’XI secolo, che nell’epopea dei paladini ha estorto discutibili simpatie tradendo i correligionari per stringere alleanza con il normanno Ruggero I d’Altavilla.

Quella su cui è sdrucciolato l’ineffabile Cracco non è certo la prima – ed a fortiori neppure la più illustre – delle topiche nelle quali, discettando di riso, sono incappati gastronomi e uomini di scienza. Già nel I secolo d.c. Plinio il Vecchio scriveva che lo stelo della graminacea è corredato di «foglie carnose, simili a quelle del porro, ma più grandi». Tale descrizione appare, ad essere generosi, quantomeno fantasiosa. A discolpa dell’illustre naturalista, v’è da precisare che all’epoca il cereale non era ancora coltivato in Europa e che dunque, con ogni probabilità, mai lo studioso aveva avuto facoltà di ammirarne una pianticella con i propri occhi. Diciassette secoli più tardi toccò nientemeno che al sommo Carlo Linneo, padre della moderna classificazione degli esseri viventi, prendere un veniale granchio collocando in Etiopia – e non, come successivamente assodato, in estremo oriente – la località d’originaria provenienza dell’oryza sativa.

Di minor indulgenza sono invece meritevoli gli svarioni dei quali sono zeppe parecchie pagine a stampa dei nostri giorni. Scrivendo ad esempio del vialone nano veronese, tal Marino Melissano, compilatore di una trattato dall’ampollosa titolazione di “Alimentologia”, sostiene che «la sua coltivazione fu spinta dalla Repubblica Serenissima di Venezia». Peccato che la celebre varietà risicola fu ottenuta per ibridazione presso la Stazione Sperimentale di Vercelli solo nel 1937 – ovverosia quasi un secolo e mezzo dopo la caduta dello Stato Veneto per mano del Bonaparte. A rincarare la dose ci pensa Rosalba Gioffré in un libello dedicato al “Vegano Italiano”. Nel trattare di risi e bisi – piatto che il giorno di San Marco era servito sulle mense dei Dogi – l’immaginifica gastronoma si spinge addirittura a speculare sul cru della graminacea di cui si sarebbero approvvigionati gli antichi cucinieri di Palazzo Ducale, azzardando chimericamente che «il riso utilizzato è sempre stato il vialone nano di Grumolo delle Abbadesse».

In effetti, le varietà risicole attualmente in voga nella nostra cucina hanno alle spalle una storia relativamente recente. Sino alla fine del XVIII secolo di fatto se ne conosceva solamente una – l’ormai estinta nostrale – appartenente alla sottospecie nota come indica. Si doveva trattare di un ceppo a grani cilindrici ed allungati, probabilmente simili a quelli dell’esotico basmati che oggi è agevolmente reperibile anche presso la grande distribuzione. All’inizio dell’ottocento le risaie iniziarono tuttavia a subire gli attacchi di un appestamento botanico – il cosiddetto brusone – il cui impatto sulla coltivazione della graminacea fu non meno devastante di quello che la fillossera avrebbe di lì a pochi decenni avuto sulla viticoltura. L’ottenimento di cloni cerealicoli resistenti alla patologia, che scamparono la risicoltura del nostro paese da un’altrimenti certa capitolazione, fu esclusivo merito di due autentici eroi della storia agricola Italiana, tanto schivi in vita delle luci della ribalta quanto ingiustamente relegati in un postumo oblio.

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Il primo dei due personaggi rispondeva al nome di padre Giovanni Calleri, un tenace gesuita sabaudo spedito nei primi decenni del XIX secolo ad evangelizzare i selvaggi delle Filippine. Sulla via del definitivo rientro a casa, l’ardimentoso canonico riuscì a trafugare dalla Cina le sementi di ben 43 varietà risicole endemiche, appartenenti alla sottospecie denominata japonica, la cui esportazione dal Catai era all’epoca (1839) severamente interdetta. Le pianticelle che germinarono dai chicchi arraffati dal religioso, immuni al brusone e produttive di grani pingui ed oblunghi, assicurarono le fondamenta genetiche delle principali tipologie di riso oggi coltivate nella Penisola.

La seconda figura è quella di Ettore De Vecchi, un caparbio agronomo pavese che nella prima metà del novecento dedicò la propria esistenza a selezionare nuovi cloni di elevato profilo qualitativo. Povero al punto da non potersi permettere un’automobile – perì infatti quasi ottuagenario travolto in sella alla sua vecchia motocicletta – De Vecchi fu l’indiscusso padre di molte tra le varietà d’eccellenza attualmente in dote alla risicoltura italiana. Tra queste hanno distinzione il carnaroli, cui per eccesso di modestia l’agronomo impose il nome di un collaboratore, ed il vialone, che ai nostri giorni sopravvive quasi esclusivamente nella versione ibridata con la varietà nano.

A pochi è infine noto che la coltivazione della nobile graminacea conobbe una timida quanto caduca fioritura anche nel nostro circondario. A metà dell’ottocento lo storico Gabriele Rosa censiva infatti diecimila pertiche a risaia sulla sponda meridionale del fosso bergamasco, in un distretto all’epoca vocato alla coltura del cereale per via degli acquitrini che ancora residuavano dall’antico lago Gerundo. Neppure lo stizzoso Cracco avrà dunque titolo a disconoscere che il riso sia a buon diritto da annoverarsi tra i prodotti storici della cucina di Bergamo.




Prodotti locali e un nuovo raviolo, il Convivium celebra la Val Brembana

Più di trenta chicche. Formaggi soprattutto, di cui la Valle è prezioso scrigno, ma anche salumi, verdure, confetture, succhi di frutta, pane, zafferano, tartufi, birra e persino latte d’asina. Prodotti spesso realizzati da piccole aziende che con coraggio resistono nel difficile contesto della montagna.

Li ha riuniti in una serata denominata “Convivium – Eccellenze della Valle Brembana”  lo chef Andrew Regazzoni, che nell’occasione ha anche presentato ufficialmente un nuovo piatto omaggio al territorio, il “Capel de Monega” (Cappello di monaca), un raviolo che nella forma ricorda il copricapo di alcuni ordini religiosi e che nel ripieno raccoglie produzioni locali – patate, barbabietole, formaggio di monte stagionato e burro di malga -.

L’iniziativa, lo scorso venerdì 25 novembre all’albergo Papa di San Pellegrino, realizzata in collaborazione con le aziende e gli chef brembani, ha fatto assaggiare le diverse specialità gastronomiche in versione finger food e poi il piatto forte, il Capel de Monega, seguito da “Sella di coniglio bardata al tartufo con bresaola orobica sfumata alla birra di Via Priula”, polenta “Nostrano orobico”, patate della Ca’ Al del Mans al latte d’asina e Formai de Mut, per chiudere con il panettone alle mele della Val Brembana.

Il Capel de Monega è stato creato nei primi anni novanta da Ludovico Pozzi, l’amico e collega Regazzoni ha scelto di valorizzarlo registrando all’Ufficio brevetti e marchi della Camera di Commercio di Bergamo nome, forma e ingredienti del piatto, corredandolo di tabella nutrizionale, curata dal nutrizionista Vito Traversa, e di un’immagine firmata dall’illustratore Stefano Torriani. L’operazione si è realizzata grazie anche al sostegno della Comunità Montana valle Brembana e degli Operatori turistici di San Pellegrino Terme. «La scelta di tutelarlo con un marchio non è legata a fini commerciali – precisa Regazzoni -, ma alla volontà di fissare in maniera precisa come è fatto e come è nato. Questo progetto serve ad affermare che in Val Brembana ci sono prodotti di eccellenza ma anche idee, professionalità e determinazione per farli apprezzare. Un modo per dare una mano al territorio con ciò che noi cuochi sappiamo fare».

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Il Topinambur trova “casa” a Fontanella

Elisabetta Ravani
Elisabetta Ravani

A portarlo in Italia è stato Cristoforo Colombo, eppure ancora oggi è poco conosciuto. Dopo averlo consumato nei periodi delle guerre, è stato dimenticato con l’eccezione della cucina piemontese. Il topinambur, o rapa tedesca, oltre a essere buono, fa bene, tanto da essere chiamato la patata della salute. L’azienda Lombarda Topinambur, di Fontanella, la prima nella Bergamasca a coltivare l’antico tubero, ha iniziato il raccolto a ottobre e proseguirà fino a primavera con la previsione di distribuirne cinque tonnellate. A decidere di farlo tornare sulle tavole è stata Elisabetta Ravani, 31 anni, appassionata di sana alimentazione.

«Quando ho avviato il progetto, c’era chi mi guardava incredulo chiedendomi cosa fosse il topinambur – sorride l’imprenditrice agricola -: i suoi benefici sono tantissimi, purtroppo la raccolta a mano l’ha reso un ortaggio difficile, le multinazionali hanno preferito le patate. Noi lo coltiviamo senza l’utilizzo di concimi, diserbanti, antigermoglianti, antiparassitari, prelevando di volta in volta i tuberi in base agli ordini che riceviamo per offrire la massima freschezza del prodotto».

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I bulbi sono, infatti, attorno alle radici e, al contrario delle patate, possono restare sotto terra, mantenendo inalterate le loro proprietà. L’aspetto ricorda quello del ginger, il colore è rosso-violaceo, mentre la pianta, che si semina tra febbraio e maggio, può raggiungere i quattro metri di altezza. Altra sua caratteristica sono i fiori gialli, simili ai girasoli che si volgono verso la luce. Le qualità sono tantissime: è povero di calorie, quindi ideale nelle diete dimagranti, ricco di vitamine A, B1, B2 e C e di minerali come magnesio, ferro e zinco, ha poco amido e tanta inulina. Inoltre, ha potere lassativo e viene usato nella cucina dell’infanzia e come digestivo, con un’accortezza: non si possono superare i 200 grammi giornalieri. Il sapore ricorda il cuore del carciofo, non serve pelarlo, ma basta spazzolarlo. Si può consumare nel risotto, al forno con le patate, come polpette che accompagnano la carne, tagliato a pezzetti nella minestra o nel minestrone, nella pasta, fritto a fettine sottili come le patatine. Ottimo anche trifolato, condito con olio, aglio, sale, prezzemolo e pepe. Si può consumare anche crudo in insalata, dopo averlo tagliato con una mandolina.

img_1344Lombarda Topinambur guarda anche al suo utilizzo tutto l’anno. «È un peccato non godere dei suoi benefici in estate, l’idea è di essiccarlo come si fa con i funghi porcini e creare una farina per pane e dolci. E poi farne sottolii e ravioli, oltre a infusi con fiori e foglie», conclude Elisabetta. Le consegne sono gratuite nei paesi limitrofi a Fontanella, come Treviglio, Caravaggio, Soncino, Misano, Mozzanica, Chiari, Romano, Bariano, Calvenzano, Covo, Calcio, Cortenuova. Il costo è 2,40 euro per mezzo chilo, 4,60 per uno, 19,50 per cinque.

Lombarda Topinambur

via Filippo Corridoni, 42
Fontanella
www.lombardatopinambur.it
tel. 333 5237430



Capel de Monega, un raviolo “brevettato” in omaggio alla Val Brembana

Andrew Regazzoni e il collega Ludovico Pozzi, ideatore del primo Capel de Monega
Andrew Regazzoni e il collega Ludovico Pozzi, ideatore del primo Capel de Monega

Una valle racchiusa in un raviolo! È la sfida di Andrew Regazzoni, chef 41enne di San Pellegrino, che, convinto dell’importanza della gastronomia per raccontare e promuovere un territorio, ha voluto offrire alla sua Val Brembana un nuovo biglietto da visita goloso. Per farlo non ha lasciato nulla al caso. Ha infatti registrato all’Ufficio brevetti e marchi della Camera di Commercio di Bergamo nome, forma e ingredienti del piatto, lo ha corredato di tabella nutrizionale, curata dal nutrizionista Vito Traversa, e di un’immagine firmata dall’illustratore Stefano Torriani.

Si chiama “Capel de Monega”, tradotto dal dialetto “cappello di monaca”. È una pasta ripiena che, come dice il nome, ricorda nella forma i copricapi dalle larghe falde di alcuni ordini religiosi. All’interno un cuore di magro fatto di patate, barbabietole, formaggio di monte stagionato, mostarda di Cremona (unico sconfinamento fuori provincia per trovare la nota acida necessaria a chiudere il gusto) e burro di malga. «È un omaggio alle produzioni e tradizioni del territorio – spiega Regazzoni -. Le patate, un tempo tipiche delle nostre montagne, di Carona in particolare, sono quelle della cooperativa sociale Ca’ Al del Mans di Serina, le barbabietole, che danno il caratteristico colore rosa al ripieno, vengono dalla Valle di Astino, il formaggio di monte è quello stagionato tre anni della latteria sociale di Valtorta e la pasta è fatta con poche uova, secondo l’uso bergamasco. Il mio consiglio è di servirlo su una fonduta di Taleggio o Branzi, anche aromatizzata con erbe».

Il raviolo brembano Ccapel de Monega
Il raviolo brembano Ccapel de Monega

Il Capel de Monega è già nella carta di alcuni ristoranti e rifugi, ma verrà presentato  ufficialmente venerdì 25 novembre nella serata “Convivium” organizzata da Regazzoni all’albergo Papa di San Pellegrino, dove lavora e dove per l’occasione ha riunito aziende, anche piccolissime, della Valle Brembana con i loro prodotti ed un gruppo di chef del territorio che li elaboreranno sul momento in versione finger food, prima di passare a tavola e gustare il raviolo.

«La ricetta risale ai primi anni Novanta – racconta lo chef -. L’ha messa a punto un amico e collega, Ludovico Pozzi, che oggi lavora al Niniva di Almè.  Quando l’ho assaggiato, circa cinque anni fa, mi è sembrato un buon prodotto ed ho cercato, d’accordo con lui, un modo per valorizzarlo».  «La scelta di tutelarlo con un marchio non è legata a fini commerciali – precisa -, ma alla volontà di fissare in maniera precisa come è fatto e come è nato. Sino ad ora lo abbiamo lasciato volentieri “in eredità” nei locali dove siamo passati e potrà anche darsi che verrà copiato. Non ci importa. Per noi quest’operazione serve ad affermare che in Val Brembana ci sono prodotti di eccellenza ma anche idee, professionalità e determinazione per farli apprezzare. Un modo per dare una mano al territorio con ciò che noi cuochi sappiamo fare».

 




È bergamasco il terzo miglior formaggio al mondo

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Il terzo miglior formaggio al mondo è bergamasco. È il Gorgonzola Dolce Dop del caseificio Arrigoni Battista di Pagazzano, unico rappresentante italiano selezionato per la finalissima alla 29esima edizione dei World Cheese Awards, il più importante concorso internazionale dedicato ai formaggi, quest’anno organizzato a San Sebastian, in Spagna.

L’erborinato di casa nostra ha prima ottenuto la Super Gold Medal, assegnata ai 66 formaggi che rappresentano le eccellenze a livello mondiale (tra cui sei prodotti italiani in tutto). È poi stato valutato da una seconda giuria specializzata, che ha scelto i 16 migliori formaggi in assoluto dal concorso, tra i quali è stato eletto il miglior formaggio del mondo: il norvegese Kraftkar del produttore Tingvollost, seguito dal Conish Kern di Lynher Dairies dal Regno Unito e, appunto, dal campione bergamasco.

Il concorso ha visto in gara oltre 3.000 formaggi da 30 Paesi. Con questo risultato il caseificio Arrigoni ha ulteriormente impreziosito il suo palmarès, che già comprende due Super Gold Medal, ottenute nel 2014 e nel 2015. In questa edizione dei World Cheese Awards ha anche ricevuto per il secondo anno consecutivo la medaglia d’argento con il Taleggio Dop mentre il Gorgonzola piccante Dop e l’Italico, un formaggio a pasta molle a crosta lavata, si sono aggiudicati il bronzo.

Ma anche altri produttori bergamaschi escono medagliati dalla competizione. Arrigoni Sergio di Olda di Taleggio ha ottenuto due ori con Branzi e con “Leonardo”, un argento con il Gorgonzola Dop e un bronzo con lo “Strachì del Belo Ecc”. Medaglie di bronzo anche per il “Pan di Cacio” del caseificio Taddei di Fornovo San Giovanni, “Surfin’ Blue”, formaggio erborinato prodotto con latte di bufala e affinato in una birra artigianale, dei Quattro Portoni di Cologno al Serio e le chicche di latte caprino de La Via Lattea di Brignano Gera d’Adda “Morla” e “Nocino”.




Grumello, da venerdì a domenica torna la magia del cioccolato

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Lo scorso anno circa 10mila visitatori si sono fatti conquistare da un mondo fatto di cioccolato, magia e giochi. Quest’anno Chocolab fa il bis e torna al palafeste di Grumello del Monte (via Kennedy, 70) da venerdì 11 a domenica 13 novembre. La manifestazione, a ingresso gratuito, propone degustazioni di diversi tipi di cioccolato, spazi per bambini ed intrattenimenti, giocolieri, spettacoli e persino dimostrazioni di massaggi al cioccolato. L’obiettivo è coinvolgere tutte le fasce d’età con proposte a tema, dai laboratori interattivi per i più piccoli alle iniziative per ragazzi, agli abbinamenti, per gli adulti,  di birra e passito. Insomma un week end interamente dedicato al cioccolato, da assaggiare e acquistare in tutte le sue forme.
L’evento quest’anno si aprirà con una grande festa il venerdì dalle 19 alle 22. Durante tutto il week end sarà possibile pranzare e cenare all’interno della manifestazione. Sabato e domenica l’apertura è dalle 10 alle 22. L’appuntamento è organizzato da 3Mendi che, sempre a Grumello ma in piazza Camozzi, propone anche, il 19 e 20 novembe, la prima edizione di “Sapori d’autunno” dedicato ai prodotti enogastronomici più tipici della stagione.

info@3mendi.it

 

 




La svolta della Regione: «Basta prodotti tipici, è ora dei prodotti distintivi»

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L’assessore regionale all’Agricoltura, Gianni Fava

«La fase dei prodotti tipici per me è finita, la gente vuole i prodotti distintivi, al consumatore non interessa che lo hai sempre fatto, ma che lo hai fatto solo tu, che è di quel territorio e non di un altro». È il cambio di prospettiva indicato dall’assessore regionale all’Agricoltura Gianni Fava, intervento a Broni (Pv) ad un convegno sul tema delle tipicità agricole in Lombardia.

«Il mercato ha vissuto cambi radicali e per noi non c’è altra strada che l’internazionalizzazione – ha proseguito -. Non tutti devono andare all’estero. Piuttosto dobbiamo spingere chi è in grado di andare fuori per poter liberare quote di mercato interno, oggi asfittico». «Non abbiamo problemi dal punto di vista qualitativo – ha detto Fava -. La nostra scarsa competitività a livello internazionale è data, oltre che dalle difficoltà del sistema economico nazionale, anche da una scarsa organizzazione sul tema della internazionalizzazione. Avevamo una filiera agroalimentare fortissima che viveva di consumi interni, ma da quando la situazione è cambiata, da un lato abbiamo avuto un calo di consumi interni dall’altro abbiamo continuato a produrre in misura significativa per molto tempo».

Di qui la difficoltà poi di penetrare certi mercati, dove peraltro il gradimento verso i nostri prodotti è altissimo. «Le grandi imprese hanno dimostrato meno difficoltà nell’andare oltre confine – ha spiegato Fava -. Dobbiamo migliorare, da un lato, la penetrazione dei mercati mettendo a disposizione del sistema delle imprese di meccanismi utili per garantire la logistica e la capacità di vendere sul mercato internazionale e dall’altro, la promozione. Buona parte dei nostri prodotti non sono conosciuti, a parte alcuni, nell’immaginario globale. Tutti gli altri sono da promuovere, certamente si tratta di produzioni piccole».




Cusio, due giorni dedicati all’antico mulino e al mais della Val Brembana

antico-mulino-di-cusioUn fine settimana per scoprire l’antico mulino di Cusio, che risale al XVII secolo e ancora oggi è funzionante, e conoscere il Mais della Val Brembana. Sabato 22 e domenica 23 ottobre è in programma “Festa d’autunno al Borgo del Mulino” un appuntamento con la tradizione e la gastronomia fatto di attività, laboratori, dimostrazioni e degustazioni

IL PROGRAMMA

SABATO 22 OTTOBRE
  • dalle 15 – dimostrazione del funzionamento dell’Antico Mulino di Cusio
  • dalle 15,30 – attività e laboratori per bambini presso il Mulino (a cura di Kairòs)
  • ore 16 – La Merenda del Mugnaio, con dolci a base di farina macinata al Mulino
  • ore 16,30 – passeggiata nel borgo e visita a un piccolo campo di Mais locale
  • ore 17,30 – L’Aperitivo del Mugnaio con degustazione di polenta preparata con la farina del Mulino
DOMENICA 23 OTTOBRE

La giornata sarà rallegrata dai Canti Popolari dei “Coscritti di Premana”

  • dalle 10,30 – mercatini di artigianato e prodotti locali
  • dalle 10,30 – dimostrazione del funzionamento dell’Antico Mulino di Cusio
  • ore 11,30 – aperitivo all’Antico Mulino
  • ore 12,30 – Il Pranzo del Mugnaio. Menù: polenta con la farina integrale di mais del Mulino, nosècc e osèi scapà
  • ore 14,30 – danze popolari al Mulino con il gruppo Folkinvalle
  • dalle 15 – Laboratori, caldarroste e pomeriggio in compagnia con canti e divertimento

Info: 348 1842781 – info@altobrembo.it