Confcooperative, riflettori puntati sull’Oriente

La ricerca di nuovi mercati e opportunità di business come soluzione alla crisi per le proprie associate: giovedì 10 ottobre, nell’auditorium della sede di via Serassi, Confcooperative Bergamo organizza il workshop-incontro con la Camera di Commercio bilaterale Italia-Hong Kong dal titolo “Great Opportunity”, iniziativa che bissa quella organizzata con successo lo scorso anno e che rafforza il rapporto tra la Camera di Commercio italiana ad Hong Kong-Macao, riconosciuta dal ministero dello Sviluppo cinese ormai da più di dieci anni, e la centrale cooperativa bergamasca che insieme al Consorzio Prometeo ha avviato una collaborazione con l’ente camerale di Hong Kong per evidenziare i vantaggi legati agli investimenti nel Sud Est asiatico. A fare luce sull’importanza del Made in Italy, ormai diventato un brand sempre più ricercato in Cina e che continua ad avere un grande appeal sui consumatori locali, è stato chiamato Manuele Bosetti, general manager della Camera di Commercio italiana ad Hong Kong e Macao, che, oltre a presentare i servizi dell’ente, è a disposizione dei presenti al termine del workshop per incontri one-to-one di approfondimento.
L’apertura dei lavori, alle 16.30, è affidata a Sergio Bonetti, consigliere della Camera di Commercio di Bergamo, cui seguono la relazione introduttiva di Pieralberto Cangelli, direttore di Confcooperative Bergamo, e quella di Marco Daniele Ferri, presidente Prometeo, consorzio specializzato in servizi import ed export il cui obiettivo è proprio quello di ridurre il gap tra le imprese bergamasche e il mercato estero cercando di costruire un ponte di collegamento tra le cooperative locali e i paesi dove si amplificano le opportunità di business tramite l’apertura di canali export e affiancando le aziende nella ricerca di soluzioni per l’internazionalizzazione. Una strategia, quella di Confcooperative e Prometeo, che si sviluppa dopo un anno di viaggi e missioni all’estero che hanno toccato diversi paesi strategici. «I mercati con cui abbiamo consolidato delle relazioni commerciali importanti sono concentrati nel Sud della Cina e a Hong Kong ma anche negli Emirati Arabi e in Russia: tutti paesi dove il Made in Italy è richiesto e apprezzato, soprattutto in ambito agroalimentare – sottolinea Cangelli -. Anche se focalizzato sulle opportunità legate al mercato cinese, il workshop è quindi un’occasione importante per le nostre imprese di conoscere le reali opportunità legate all’internazionalizzazione potendo contare sul supporto a 360 gradi di Confcooperative e di Prometeo».
Un impegno che rispecchia la linea di azione nazionale di Confcooperative e dell’Ufficio per le politiche di internazionalizzazione del Dipartimento “Politiche per lo sviluppo”. Il consolidamento dell’attività delle cooperative passa infatti attraverso l’export delle imprese – che vanta un giro di affari di quasi 5 miliardi di euro – e a oggi i servizi di internazionalizzazione sono ormai “di casa” per 16 Unioni regionali e 44 provinciali. Di queste ben 22 affrontano direttamente il tema mentre 26 si affidano a strutture convenzionate. Solo 12 unioni non offrono nessun servizio ma ritengono che un sostegno per la ricerca di nuovi mercati sia fondamentale. Tra i servizi più richiesti spiccano la progettualità e il supporto per l’avviamento e lo sviluppo della gestione delle esportazioni, l’accompagnamento all’estero e la formazione. I mercati che rivestono maggiore interesse sono quelli europei e russi, seguiti da Nord America, Est Europa, Medio Oriente e Sud Est asiatico. E proprio l’Oriente sarà la tappa della prossima mission di Confcooperative Bergamo che tra ottobre e novembre tornerà in Cina per partecipare a diverse fiere dell’agroalimentare.




Tra crisi e sinergie decollano gli uffici condivisi 

Cresce anche a Bergamo il ricorso allo studio associato. E capita sempre più di frequente di trovare negli stessi spazi professionalità diverse, come architetti, ingegneri, avvocati o agenti immobiliari. Si dividono le spese, ma scattano anche le occasioni per passarsi i clienti. Patelli (Fimaa): «Le soluzioni più appetibili sono quelle all’interno di uffici o studi di rappresentanza»

Dall’ufficio di rappresentanza alla scrivania: avvocati, ingegneri, architetti, geometri e gli stessi agenti immobiliari ormai optano per la condivisione degli spazi. La formula dello studio associato viene adottata anche da professionalità diverse tra loro, pronte a scommettere su nuove e fino a qualche anno fa inedite sinergie. C’è l’avvocato che divide lo studio con il geometra e con l’amministratore di condominio, c’è l’architetto che ha la stanza a fianco di quella dell’ingegnere, che lavora ad un passo dall’agente immobiliare, ci sono poi i tecnici specializzati in campi diversi, dal legale a quello fiscale, pronti a sbrogliare ogni nodo burocratico.
Imu o affitti, Tia-Tares, sale riunioni e costo di segreteria e reception sono suddivisi, con un bel risparmio in costi fissi, e dalla condivisione con altri professionisti c’è solo che da guadagnarne, perché spesso i lavori passano dalla propria scrivania a quella del vicino e viceversa. La formula funziona e tra crisi, ritardi o mancati pagamenti, si cercano nuove strade per reggere una tassazione opprimente ed insopportabile e proporsi al meglio in un mercato sempre più competitivo. “Se gli studi associati sono da sempre la regola per avvocati, medici, commercialisti ed altre categorie professionali, negli ultimi anni l’aggregazione tra specializzazioni diverse è in costante crescita – spiega Antonello Pagani, direttore di Appe Confedilizia -. Specialmente dal 2005, anche a Bergamo tanti professionisti condividono ufficio e spese, conservando la propria piena autonomia. Sono sempre più anche i professionisti che affittano stanze dei loro studi con un contratto di cessione di spazio e servizi a colleghi o ad altri profili professionali. Molto frequente, con la nuova Riforma del Condominio, in vigore dal 18 giugno, è la condivisione d’ufficio da parte di amministratori di condominio e avvocati. La riforma obbliga infatti gli amministratori ad adire alle vie legali entro sei mesi dalla messa in mora per mancati pagamenti delle spese, fenomeno purtroppo sempre più frequente. È sempre più usuale anche dividere l’ufficio con tecnici per opere straordinarie. Il settore più colpito dalla crisi dell’edilizia è quello della progettazione ed è sempre più frequente la ricerca di condivisione degli spazi da parte dei progettisti”.
Le richieste di “scrivanie” sono comunque in aumento: “Nell’ottica di razionalizzare i costi tanti professionisti che possono gestire tranquillamente la propria attività, dividendosi tra computer, mail e telefono, optano per un piccolo spazio, che ormai si addice alla gestione della maggior parte delle piccole imprese – sottolinea Luciano Patelli, presidente provinciale Fimaa, la Federazione dei mediatori e agenti d’affari aderente a Confcommercio -. Gli spazi più appetibili sono quelli all’interno di uffici o studi di rappresentanza, che possono contare su una zona di accoglienza clienti con segreteria ed una sala riunioni. La condivisione delle spese, soprattutto del personale di segreteria, rappresenta un’alternativa interessante per diversi profili professionali, che possono, unendo le forze, avere una sede di maggior prestigio. Se un tempo sotto lo stesso tetto convivevano attività affini, questa non è più una regola rigida: assistiamo sempre più a “convivenze” tra business diversi e non necessariamente complementari, fattore quest’ultimo che continua a rappresentare un indiscutibile vantaggio, oltre che un’occasione di incrementare il proprio giro e volume d’affari”.
Oltre alla tentazione di incrementare il proprio business contando sul vicino di scrivania, la divisione degli spazi resta prima di tutto una necessità: “Le parcelle si assottigliano e i giovani professionisti fanno rete per restare a galla o rendere più sostenibili i costi che ogni avvio di attività comporta, alleggerendo almeno le spese per la sede della propria attività – spiega Enzo Pizzigalli, consigliere del Gruppo Mediatori immobiliari Ascom -. Mi è capitato anche di affittare un bilocale a quattro psicologhe che lo utilizzano come sala colloqui, suddividendosi i giorni settimanali. In genere anche gli studi associati hanno dimensioni più ridotte rispetto ad un tempo, in una vera e propria ottica di ridimensionamento dei costi di gestione”. Lo stesso Pizzigalli ha voluto per la sua impresa questa formula di gestione: “Da oltre vent’anni la mia sede, in via San Francesco d’Assisi, è suddivisa tra un geometra ed altri mediatori in quattro studi. Condividiamo la sala riunioni e conteniamo il costo d’affitto ed ognuno gestisce la propria attività con la massima autonomia e spesso ci capita di collaborare insieme, con la massima soddisfazione del cliente e con un lavoro in più che non sarebbe altrimenti arrivato”. Gli stessi mediatori sono tra le categorie professionali in cerca di una scrivania: “È ormai abbastanza comune per un mediatore dividere l’ufficio con il commercialista o con il geometra o con l’architetto o, ancora, con l’interior designer – spiega Mafalda Fiumana nel consiglio del Gruppo Mediatori immobiliari Ascom -. È un’idea che sta sempre più prendendo piede. La richiesta della “scrivania” è sempre più frequente da parte soprattutto di professionisti, ma anche chi ha spazi in ufficio sta valutando questa opportunità per abbassare i costi fissi”.
Il dato – A Bergamo, in base ad una recente elaborazione della Camera di Commercio di Milano, la formula del temporary office sta prendendo piede.  Una tendenza in linea con il dato nazionale: sono 2.427 in Italia, +2,4% rispetto allo scorso anno. Milano è prima con oltre 300 attività che gestiscono uffici “a tempo”, di cui ben 270 a Milano città. Seguono poi Roma con 134 e Bergamo, terza, che con 115 scavalca Torino (114). Tra le prime 10 anche Brescia e Monza entrambe con 62. La Lombardia è una regione leader in Italia sia per numero di uffici temporanei (738, +2,1% rispetto al 2012), sia per imprese che, più in generale, offrono servizi a supporto delle attività di uffici e di temporary shop, quasi mille, un quarto del totale nazionale, con una crescita del 4,1% in un anno, contro il +2,6% italiano.




Abbigliamento, «oggi più che mai è l’ora dell’imprenditore»

La chiacchierata a cuore aperto con cui Luca Sacerdote ha raccontato, sullo scorso numero della Rassegna, della sofferta decisione di chiudere lo storico negozio di famiglia sul Sentierone ha dato il via ad alcune riflessioni da parte dei commercianti sui problemi e le prospettive del settore moda. Ecco gli interventi.

Facciamo emergere la nostra
creatività, solo così ci possiamo salvare

Egregio direttore,
ho letto con molto interesse l’intervista a Luca Sacerdote sull’ultimo numero della Rassegna. La notizia della cessata attività mi ha colpito profondamente, anche perché è una sconfitta commerciale che reputo ingiusta. Non doveva accadere, anche solo per la considerazione e la stima che questa famiglia ha ottenuto nel tempo in un comparto che mi vede attore ormai da anni, grazie all’attività commerciale nel settore Abbigliamento e calzature griffati che conduco a Torre Boldone.
L’annuncio è purtroppo l’ennesimo segnale di un quadro economico fortemente deteriorato, dove la forza dell’immagine meritocratica, fino a pochi anni fa baluardo di ogni solidità commerciale, non ha più valore. Le condizioni del mercato, anche per il nostro comparto, sono critiche e se la situazione rimarrà così, molti saranno costretti a cambiare il proprio modo di gestire l’attività. Saranno chiamati a dover mettersi in discussione e – nel mio caso – a ricredersi nei confronti di una tradizione ormai rara contraddistinta nel rifiutare ogni tipo di vendita promozionale o saldo della merce. Per dare un’idea delle condizioni in cui ci tocca operare, basti dire che in tanti siamo costretti a dover mettere mano al patrimonio personale per ripianare le perdite gestionali. Questo non può proseguire a lungo.
Ha ragione Sacerdote a puntare il dito contro i saldi? In effetti, a forza di anticipare sconti e svendite si abituano gli acquirenti a pazientare per le compere stagionali e a rimanere in attesa dei ribassi. Ma per noi i mancati guadagni si fanno sempre più consistenti.
Una chiara dimostrazione inoppugnabile di tutto questo la si ha guardando gli incassi del mese di settembre, molto al di sotto di quelli di alcuni anni fa. Una condizione generale che fa il paio con un nuovo “analfabetismo emotivo” che spinge il consumatore sempre più verso l’azione senza riflessione. Diversamente le persone non frequenterebbero prevalentemente i centri commerciali per gli acquisti importanti del proprio guardaroba. Insomma, come imprenditori siamo chiamati fortemente in causa. Come sottolinea Sacerdote nell’intervista, alla fine siamo noi a poter e a dover fare la differenza. Cerchiamo di sviluppare e affinare ancor di più il talento imprenditoriale, integrando l’azione col pieno coinvolgimento delle persone che ci circondano, componente essenziale di noi stessi.
Dobbiamo curare ancor di più ogni dettaglio, far emerge la nostra creatività, unica componente che possa oggi farci sopravvivere in un momento di profonda crisi. Il pericolo di fallire è alto, lo sappiamo, ma questo non ci deve far indietreggiare, al contrario ci deve spingere a mutare il nostro dna commerciale con continue e innovative ricerche negli stili e nei marchi commerciali. Cosa non facile, ma maledettamente indispensabile. Altrimenti sarà la nostra fine e la fine di un settore storico come quello dei negozi di vicinato, che lascerà spazio non si sa bene a chi!

Diego Pedrali
titolare del negozio “L’Uomo Più”
Torre Boldone

Non si può dare la colpa alle bancarelle,
ma il centro potrebbe essere valorizzato meglio

Spettabile Rassegna,
ci è dispiaciuto tantissimo sapere della prossima chiusura di Sacerdote. Notizie come queste rattristano soprattutto chi, come noi, ha un’attività familiare e vede scomparire, uno ad uno, negozi che hanno fatto la storia del commercio in centro. Purtroppo, la situazione che ha illustrato Luca Sacerdote nella vostra intervista è verissima. È cambiato del tutto il modo di considerare l’abbigliamento. Per le cerimonie – non parlo dei matrimoni, dove c’è ormai quasi un settore specializzato, ma di comunioni, cresime, battesimi – non si pensa più a comperare un bell’abito, non c’è più nemmeno il culto del capotto nuovo da sfoggiare ad inizio stagione ed anche il professionista che prima vestiva con capi di un certo prestigio, spesso, per il lavoro, sceglie ora soluzioni meno impegnative.
È cambiato l’atteggiamento, ma, lasciatecelo dire, si è persa soprattutto la capacità di riconoscere e dare valore alla qualità e questo è un peccato. Le signore della mia età sanno ancora distinguere il pregio di una stoffa, l’accuratezza delle rifiniture e dei dettagli, mentre le generazioni più giovani non ci fanno caso e così si rischia di non comprendere più la differenza tra un prodotto e un altro, con la conseguenza di un abbassamento generale del livello dell’offerta. Mio padre, che ha 87 anni ed ha aperto l’attività nel ‘61, è ancora fiducioso sul futuro. Resistiamo, sperando che la crisi si sblocchi, e continuiamo ad offrire quel servizio personalizzato che ci ha sempre contraddistinto. Quando arrivano gli scatoloni, i capi sono solo merce, quando escono dal negozio ognuno ha già una sua storia perché è legato alla persona che lo ha acquistato e che abbiamo ascoltato e seguito mettendoci tutta la nostra attenzione. Potrà sembrare un aspetto di poco conto, ma per noi questo è un valore e non possiamo fare a meno di lavorare così.
Anche sui saldi non possiamo che dar ragione a Sacerdote. Vanno bene se servono a smaltire le rimanenze di fine stagione, ma non si può pensare di impostare un’attività con sconti tutto l’anno, come si sta facendo oggi, al punto che la Regione sta di nuovo pensando di non vietare le promozioni nel mese prima dei saldi. Per reggere, l’attività deve essere impostata su ricarichi equi, non si può lavorare sottocosto.
Un’ultima notazione sulle bancarelle. D’accordo, non possono essere prese come scusa, ma alcuni problemi li creano, basta chiederlo ai negozi di alimentari. E non si può nemmeno dire che aiutino il commercio né che migliorino l’immagine del centro. Personalmente mi piace vedere la città piena di gente, partecipo a tutte le iniziative in cui si chiede di tenere i negozi aperti, comprese le “movide”, perché credo che sia giusto esserci, ma non danno grandi risultati in termini commerciali, ammettiamolo. Il salotto della città merita di più. E a volte basterebbe poco per valorizzarlo. È un bel biglietto da visita la massa di motorini parcheggiati proprio all’inizio di via XX settembre?
Grazie per l’attenzione

Maria Grazia Volpi
Carom Abbigliamento – Bergamo

La moda è un’eccellenza,
troviamo idee per il rilancio

Egregio direttore,
mi ha molto colpito l’intervista a Luca Sacerdote pubblicata sulla Rassegna di giovedì 3 ottobre, da un lato per l’umanità che traspare, il forte attaccamento all’attività che chi fa questo mestiere conosce bene (in effetti, i negozi sono come delle nostre creature!), dall’altro perché fa riflettere tutto il settore. Se chiude infatti un’insegna così prestigiosa, viene spontaneo chiedersi cosa ne sarà di tutte le altre. I dubbi sul nostro futuro crescono leggendo – e non potendo fare a meno di confermare – le difficoltà che Sacerdote elenca, cambio della mentalità della clientela, concorrenza e questa corsa esasperata ai saldi che noi commercianti per primi dovremmo cercare di rallentare, non svendendo prima del necessario i nostri prodotti.
Non me la sento però di vedere tutto nero e ci terrei a lanciare un messaggio di speranza e, soprattutto, un invito a trovare insieme – nella categoria, nel territorio e nell’associazione – idee e strumenti per affrontare il cambiamento.
Sono convinta che i negozi familiari abbiano ancora un senso. Il desiderio del cliente di sentirsi coccolato c’è, dobbiamo trovare una maniera per farlo riscoprire e per farci conoscere meglio. Ad esempio, tutti parlano dell’Expo come di una grande opportunità e sono certa che per l’evento un po’ di visitatori arriveranno anche in Bergamasca. Sarebbe importante poter presentare in maniera accattivante le nostre attività, portare i turisti nei nostri negozi. Il made in Italy, il gusto italiano nel vestire sono un’eccellenza apprezzata e ricercata in tutto il mondo, che vanno valorizzati in vista di un appuntamento internazionale così vasto. Per capire le potenzialità dell’abbigliamento pensiamo anche al riscontro che hanno le settimane della moda a Milano. Certo la realtà bergamasca non si può paragonare a quella di una capitale del fashion, ma l’esempio milanese fa capire come la moda può diventare protagonista. Un’idea che personalmente mi frulla in testa – ma servirebbe l’appoggio delle associazioni – è quella di allestire presentazioni di abiti nei luoghi più visitati dai turisti, come i musei. Non semplici manichini ma ambientazioni che facciano vivere l’emozione che dà un bel vestito e magari far riscoprire anche ai bergamaschi, e non solo ai visitatori, il piacere di un bel capo, che ormai si è perso. Sarebbe un bel biglietto da visita per le nostre attività, che hanno la prerogativa di tenere viva l’attenzione alla qualità e allo stile, che sanno consigliare e trovare l’abito e l’accessorio su misura. Che sanno ancora regalare sogni.
Sono ipotesi naturalmente. So che la crisi sta purtroppo togliendo voglia fare a molti colleghi. Ma nelle difficoltà si possono trovare anche nuovi stimoli e forza per reagire. Nel nostro negozio ci siamo buttati a capofitto nella formazione, che ci tiene occupati quasi come un corso scolastico, mentre ci siamo affidati alla nuova generazione per affacciarci sul mondo del web e dei social network. Basterà? Intanto ci proviamo… .
Grazie per l’ospitalità

Marisa Gamba
Pigal – Almé

Ciò che si può fare oggi è essere pronti  al cambiamento

Egregio direttore,
ho apprezzato la schiettezza con cui Luca Sacerdote, sul numero scorso della Rassegna, ha raccontato la scelta di chiudere lo storico negozio di famiglia. Senza dimenticare l’autocritica –  merce piuttosto rara, non solo nel mondo del commercio -, ha analizzato dal suo punto di vista i mutamenti nei comportamenti di acquisto e nelle modalità di vendita, arrivando a dare un giudizio piuttosto drastico sulle prospettive del settore abbigliamento, in particolare dei negozi familiari o cosiddetti “indipendenti”. Le sue parole non sembrano dare molte speranze ai negozi, almeno a quelli “tradizionali”, ma forse, allora, sarebbe il caso di chiedersi perché. Non penso che sia tanto una questione di dimensioni, patrimonio immobiliare, storia, gestione familiare o meno. Ad essere stato completamente scardinato è un modello, un’impostazione della vendita ancorata a schemi che i tempi hanno irrimediabilmente superato. Di questo occorre rendersi conto se si vuole continuare a guardare al commercio come ad un settore ancora vitale e capace di dare il proprio apporto al sistema economico, anziché arrendersi e prendere semplicemente nota, una dopo l’altra, delle serrande abbassate.
La mia esperienza professionale e imprenditoriale nasce nella distribuzione organizzata (i marchi Intimissimi, Calzedonia e Tezenis) e posso dire che, solo negli ultimi dieci anni, la realtà ha subito tali e tante trasformazioni da perderne il conto. Ciò che un negozio può e deve fare è essere pronto al cambiamento, cogliere tutti i segnali in tempo reale e adeguarsi a questi, non stare in attesa. Non siamo i soli sul mercato, il consumatore è bombardato da stimoli da ogni parte – centri commerciali, offerte on line, outlet -, dobbiamo dargli un motivo per sceglierci e riuscire a fidelizzarlo, che sia per i prodotti, per la cortesia del personale, per la vetrina, la pulizia dei camerini e tanti altri dettagli che possono fare la differenza. L’orario continuato noi lo facciamo dal ’99 ed ora siamo anche aperti la domenica, non perché pensiamo che sia bello dare la possibilità di fare acquisti la domenica (il mio giudizio sul fenomeno, dal punto di vista sociologico, è negativo), ma se è questo che la gente fa oggi non si può fare a meno di rimanere aperti. Al momento va così, domani potrebbe essere diverso e dovremo cercare di capire per tempo come si orienteranno le scelte e le abitudini. 
Non che nella distribuzione organizzata sia tutto oro quello che luccica, intendiamoci, ma è indubbio che alcuni aspetti su cui si basa, come la capacità di rilevare e analizzare i comportamenti dei clienti, sono fondamentali. Grazie anche allo sviluppo delle tecnologie, oggi abbiamo sensori che ci dicono quanta gente entra in negozio e in quali orari, attraverso dei software sappiamo quanti di questi comprano, cosa comprano e possiamo di conseguenza organizzare gli orari, il personale, gli ordini, modificare la vetrina appena allestita se vediamo che non funziona e non aspettare una settimana. Siamo anche abituati a guardare fuori dal negozio, a controllare cosa espongono i concorrenti, di che cosa si parla, qual è il colore di tendenza per poi magari utilizzarlo per la divisa delle commesse, facciamo volantini, distribuiamo cataloghi dal parrucchiere… Con la consapevolezza che non tutte le scelte saranno azzeccate, soprattutto in un momento di crisi come questo, in cui i segnali che dovrebbero orientare le strategie sono sempre più deboli. Eppure qualche riscontro c’è e, visti i tempi, va bene così.

Claudia Marrone
Imprenditrice nel settore abbigliamento




I mille volti dell’Incubatore d’impresa

Da sinistra: Dario Maffioli, Francesca Valenti e Valeria Brunelli, Adriano Bacchetta

All’interno dell’Incubatore d’Impresa di Bergamo Sviluppo in questi 12 anni di attività hanno preso forma tante imprese, per lo più di servizi, che si possono a ragione definire “innovative”, vuoi perché hanno sfruttato nicchie di mercato ancora libere, vuoi perché hanno utilizzato tecnologie, risorse, servizi o anche materiali in modo nuovo o che sono stati proposti in modo diverso.
L’evoluzione delle idee d’impresa accolte nel tempo dalla struttura ha portato a creare 2 sezioni tematiche accanto a quella generica, ossia la sezione turismo, nata nel 2007, e quella tecnologica/innovativa, avviata invece nel 2010. «Il costante aumento di presenze di aziende attive in ambito informatico-grafico-web e della green economy – sottolinea Cristiano Arrigoni, direttore di Bergamo Sviluppo – ci ha convinto a dare vita anche alla sezione tecnologica quando ancora non si parlava di start up innovative. Infatti questo termine è stato introdotto con la Legge 221/2012, che ha convertito il DL Crescita 2.0». «La start up innovativa – ricorda Giovanni Fucili, responsabile del progetto Incubatore per Bergamo Sviluppo – è una società di capitali, costituita anche in forma cooperativa, avente sede fiscale in Italia, che ha come fine principale lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico. Chi crea una start up, e per esserlo deve avere una serie di caratteristiche, ha diritto a una serie di vantaggi, come l’esenzione dal pagamento dell'imposta di bollo e dei diritti di segreteria per l'iscrizione nel Registro Imprese, possibilità di assumere personale con contratti a tempo determinato con un regime fiscale e contributivo vantaggioso, incentivi fiscali per investimenti da aziende e privati per gli anni 2013-15, accesso semplificato, gratuito e diretto, al Fondo Centrale di Garanzia, e supporto ad hoc nel processo di internazionalizzazione da parte dell'Agenzia ICE».
«A Bergamo – prosegue Giorgio Ambrosioni, delegato alla creazione e sviluppo d’impresa di Bergamo Sviluppo – sono 16 le nuove imprese iscritte nella sezione speciale del Registro Imprese e 2 di queste sono nate nel nostro Incubatore, una operante nel settore dell’ICT e l’altra nel settore dei servizi avanzati nell’ambito della produzione di energia». E sul tema start up innovative proprio nell’ambito del progetto sono stati realizzati, per le imprese partecipanti, momenti di approfondimento che hanno coinvolto, oltre alla Camera di Commercio, il Consiglio Notarile Distrettuale, l’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e l’Ordine dei Consulenti del Lavoro.




Commesse, più facile a dirsi che a farsi 

Le 500 donne in fila nei giorni scorsi a Genova per tre posti da commessa in una catena di negozi di abbigliamento per bambini sono un’altra delle istantanee del bisogno di lavoro in tempo di crisi. Sono però anche l’occasione per scoprire cosa sta dietro questa professione, spesso inquadrata in vecchi o scontati cliché, come quello che per farlo bastino una certa presenza e stare sull’attenti in negozio. Tanto che è soprattutto considerato un “lavoretto” per cominciare ad essere indipendenti da chi ancora studia o il ripiego di chi aveva altre ambizioni («è finita a fare la commessa!»), in ogni caso un’attività che non richiede particolari doti o preparazione, dove, in fin dei conti, basta avere la forza di stare in piedi per tante ore.
Naturalmente non è così. Ciascuno può infatti testimoniare quanto sia più gratificante lo shopping se si è affiancati da una brava assistente alla vendita e non può sfuggire come in questo periodo storico – tra consumatori sempre più attenti a come si spende e la crescente competizione tra insegne e forme di distribuzione – il ruolo diventi ancor più strategico per il successo di un’attività.
Per capire cosa significa fare le commessa oggi abbiamo chiesto a tre figure d’esperienza di raccontarci il proprio lavoro.
Mariastella Suardi, responsabile della profumeria Douglas nel centro commerciale alle Valli di Seriate, ha scelto questa strada 16 anni fa, dopo una precedente occupazione come impiegata in area commerciale. «Doveva essere un lavoro temporaneo – racconta -, in attesa di valutare nuove opportunità in linea con la mia esperienza e il mio profilo, invece, pur davanti ad altre offerte, è scattata la decisione di restare, di rimettermi in gioco». A conquistare Mariastella, stanca di ufficio e computer, «è stata la possibilità di stare con la gente». «Fare la commessa non significa solo contatto con il pubblico – precisa -, ci sono le pulizie, gli scatoloni da aprire, i prodotti da disporre e, man mano crescono le responsabilità, gli ordini, gli appuntamenti con i rappresentanti, le direttive dell’azienda da valutare. Avere a che fare con i clienti resta però l’aspetto più importante e al tempo stesso più gratificante di questa professione». «I prodotti li hanno tutti – annota -, la differenza la fa chi li propone. In profumeria, più che in altri settori, è indispensabile una precisa conoscenza tecnica delle referenze, ma soprattutto la capacità di capire il bisogno di chi si ha di fronte, saperlo ascoltare. Vendere un profumo, ad esempio, è vendere emozioni, occorre comprendere cosa il cliente si aspetta da una fragranza».
Un compito che si è fatto più arduo con la crisi, ma anche con la generale crescita della consapevolezza tra i consumatori. «Molti arrivano già con le idee chiare – spiega la responsabile del negozio -, ma magari esistono prodotti che possono rispondere meglio alle loro esigenze. La soddisfazione maggiore è, a mio avviso, quando si riesce a far cambiare idea: è la chiara dimostrazione che abbiamo conquistato la fiducia del cliente ed è quasi la certezza che tornerà». Guai però a puntare tutto sull’individualità, «saper lavorare in team è fondamentale – rimarca -, perché tutti contribuiscono a definire l’immagine del punto vendita e del servizio». L’ulteriore suggerimento è imparare una seconda lingua «sempre più richiesta per via dell’incremento dei turisti, ad esempio per lavorare ad Orio, ma utile anche per migliorare le possibilità di carriera, visto che le catene hanno ormai negozi in tutta Europa».
Anche per Tecla Legrenzi, responsabile di Sisley nel centro commerciale di Seriate, ciò che continua a rendere bello il lavoro anche dopo anni è «stare a contatto con la gente». «E pensare che ero piuttosto timida – ricorda -. Avevo 19 anni ed è stata una scelta di necessità. Certo la timidezza dipendeva anche dall’età, ma credo che questo lavoro mi abbia aiutato ad aprirmi ed anche oggi ciò che più mi appaga non è l’aver allestito una bella vetrina, ma il grazie di un cliente soddisfatto». Pazienza, solarità e disponibilità sono, per Tecla, le caratteristiche indispensabili per una commessa, ma non nasconde che la crisi ha reso più delicati i rapporti. «Oggi basta anche solo salutare, che è pura cortesia – rileva -, che ci si sente rispondere “do solo un’occhiata”, come se la persona temesse di essere costretta a provare e comprare per forza. C’è quasi timore a scambiare qualche parola, oltre ad una maggiore attenzione a quanto e come si spende». Volendo descrivere le tipologie di chi entra in un negozio di abbigliamento, agli estremi ci sono «chi vuole fare tutto da solo, anche perché crede, erroneamente, che se fa perdere tempo alla commessa debba alla fine acquistare qualcosa – afferma -, e gli indecisi perenni che senza un consiglio non comprerebbero nulla». Cosa è più difficile vendere? «Le proposte più originali e alla moda, si preferisce sempre di più andare sul sicuro sia nelle forme sia nei colori, così da poter sfruttare il capo per più stagioni. La capacità della commessa è ascoltare e rispettare il cliente, con l’esperienza si riesce ad inquadrare quasi subito il tipo e si impara a trattare anche con la persona più scorbutica».
Valentina Pavoni, del negozio Intimissimi di via Tiraboschi a Bergamo, ha cominciato a fare la commessa a 22 anni mentre era iscritta all’università (Design industriale alla facoltà di Architettura, «32 esami sostenuti, manca la tesi, che vorrei dare», sottolinea). Oggi ne ha 36, ha trovato la sua dimensione professionale e pensa a metter su famiglia. «Volevo rendermi più indipendente dal punto di vista economico – racconta – e non arrivare a 26/27 anni senza avere nessuna esperienza nel mondo del lavoro. Vedere che man mano crescevo, che aumentavano le responsabilità mi ha convinto a rimanere». «A differenza di quanto può sembrare, non si sta mai fermi, è un lavoro impegnativo e non per tutti – evidenzia -. Si può imparare, ma credo che se di base non c’è la predisposizione all’empatia non si regge a lungo». «Lavorare in un centro storico significa avere una clientela più fidelizzata rispetto ai centri commerciali – spiega –, ma anche qui il profilo è sempre più esigente e attento. E anche se le collezioni sono ogni stagione più belle («una decina di anni fa con queste proposte il marchio avrebbe fatto incassi da record», dice tra le righe), ora per spendere anche piccole cifre ci si pensa». Sono nel frattempo anche cambiati gli orari, con il moltiplicarsi delle aperture festive e serali. «Chi vuol fare questo mestiere – ricorda – deve mettere in conto di dover lavorare tutti i sabati, fare i turni serali e le domeniche, anche se può essere pesante. La parola “sacrificio” deve per forza far parte del suo vocabolario». «La retribuzione? Premesso che oggi già avere un lavoro è una fortuna, credo che sia nella media. Forse non sono ben valorizzate dal contratto le figure di maggiore responsabilità, il cui stipendio non è molto diverso da quello di chi inizia».




Moda, l’ira dei negozianti: «Sull’etichettatura non siamo sceriffi»

Al tavolo, da sinistra: Massimo Torti, Diego Pedrali e Oscar Fusini

È scattato l’allarme etichettatura tra i commercianti di abbigliamento e calzature, ma Federazione Moda Italia corre in soccorso delle imprese con il “Kit Sos Etichettatura” ed un incontro dedicato ad approfondire i rischi legati al mancato rispetto delle nuove normative. A seguito dell’entrata in vigore del Regolamento dell’Unione Europea (1007 del 2011) i commercianti infatti rischiano grosso, con multe fino a 3.098 euro in caso di etichette non conformi. L’Ascom ha approfondito i dettami del nuovo regolamento europeo nel corso di un seminario che ha visto la partecipazione del segretario generale di Federazione Moda Italia, Massimo Torti, e dei vertici dell’Associazione per fugare ogni dubbio ed aiutare gli imprenditori a tutelarsi da eventuali sanzioni. L’obiettivo del progetto lanciato dalla Federazione Moda Italia è quello di creare maggiore consapevolezza tra le imprese del commercio, approfondire gli obblighi degli operatori commerciali sul controllo delle etichette dei capi venduti e sui rischi in caso di riscontri di vizi di etichettatura. Nel corso del seminario sono stati forniti consigli agli operatori commerciali per avere maggiore autorevolezza e forza contrattuale nei confronti dei fornitori.
«In un periodo già complicato per il commercio e in particolare per il settore abbigliamento e calzature, occorre evitare di subire ulteriori danni» hanno introdotto, in estrema sintesi, il presidente dell’Ascom, in rappresentanza anche della Camera di Commercio, Paolo Malvestiti, il direttore Luigi Trigona e il vicedirettore Oscar Fusini. «L’etichetta è una sorta di carta di identità di ogni prodotto tessile e accessorio e rappresenta oggi un oggetto di attenzione particolare da parte non solo del produttore, ma anche, e non con minori incombenze, dei commercianti – ha spiegato Torti -. In capo alla rete distributiva è infatti l’onere di controllo e rispetto della conformità dell’etichetta di ogni capo o accessorio venduto. È importante che i commercianti siano bene informati, le nuove regole europee, infatti, impongono alcuni criteri che, se non vengono rispettati, determinano una responsabilità del commerciante in solido con il produttore e sanzioni anche parecchio pesanti».
L’attenzione deve essere rivolta, in particolare, all’uso della lingua e dei codici meccanografici. «Per la salvaguardia e la tutela del consumatore finale è necessario che l’etichetta di un capo d’abbigliamento o accessorio sia riportata in modo chiaro e trasparente – ha aggiunto Torti -. In quest’ottica, il regolamento europeo impone che le etichette debbano riportare le denominazioni fibre tessili contenute nel capo in lingua italiana, mentre non devono essere riportate le abbreviazioni o codici meccanografici o altre formule poco trasparenti».

Il regolamento, su cui la Federazione Moda Italia si sta adoperando affinché la responsabilità della corretta etichettatura ricada – come sarebbe logico – sul produttore e non sul rivenditore, rappresenta un ulteriore obbligo per i commercianti già alle prese con contratti di fornitura sempre più pesanti. «Il rapporto con i fornitori diventa così ancora più asimmetrico, come se già non bastasse la rinuncia al diritto di rivalsa, che compare ormai tra le clausole contrattuali – evidenzia Diego Pedrali, presidente del Gruppo Abbigliamento e Calzature Ascom e consigliere nazionale di Federmoda Italia -. Ora il mancato rispetto delle regole di etichettatura si ripercuote anche sulla rete distributiva che non partecipa certo alla fase di produzione e non può far altro che limitarsi a constatare la conformità o meno di ogni singolo capo». E le tendenze moda non aiutano l’etichettatura: «Il trend di vintage e capi slavati, in voga sin dall’anno scorso, non agevola l’impresa – continua Pedrali -. Le aziende produttrici non hanno finora previsto, per ovvi motivi di costi, un passaggio ulteriore di lavorazione, così anche le etichette risultano “slavate”». Per quanto più stringente, la normativa europea tralascia tuttavia un aspetto fondamentale: la valorizzazione del “Made in Italy”, un marchio di immenso valore per la qualità e lo stile di capi e accessori che il resto del mondo ci invidia. «Purtroppo la questione del Made in Italy è rimasta ferma sui tavoli dell’Unione Europea, quando rappresenta un importante valore aggiunto per ogni abito, calzatura o borsa disegnati e realizzati in Italia – rileva il presidente -. Per ora, invece, di italiano ci sarà solo la lingua ad indicare ogni componente sull’etichetta».
Le polemiche non mancano da parte dei commercianti che hanno seguito con forte interesse il seminario. «È l’ennesima sorpresa che arriva dall’Unione Europea. Le norme ci inchiodano ogni giorno e appesantiscono il nostro lavoro, con il rischio di incorrere in pesanti sanzioni. L’etichettatura non tutela allo stato attuale né la produzione né la filiera italiana, che tanto ha investito ed investe ogni giorno nel Made in Italy – dichiara Lodovico Ruggeri, consigliere del Gruppo Abbigliamento e Calzature dell’Ascom e titolare dell’insegna che porta il suo nome a Costa di Mezzate -. Di contro non si tutelano nemmeno i consumatori, basti pensare alle dermatiti e ad altri inconvenienti riscontrati da chi ha acquistato capi, specialmente scuri, prodotti in Cina. Nell’era della globalizzazione l’italiano diventa obbligatorio solo nella lingua, non nei valori e nello stile che trasmette». «La questione dell’etichettatura è molto complicata – sottolinea Andrea Provenzi, di Provenzi Sport a Trescore Balneario, consigliere del Gruppo -. La sensazione è che le aziende produttrici abbiano scaricato il problema su di noi che nulla possiamo nella creazione delle etichette eppure abbiamo l’onere del controllo. È davvero assurdo che questo obbligo sia in capo nostro e che siamo soggetti a sanzioni, anche pesanti».
Roberto Rigoli del negozio Abitex di via Borgo Palazzo si unisce ai colleghi: «La normativa verte su questioni ridicole come l’obbligo di scrivere “cotone” anziché “cotton”, ma la cosa davvero inconcepibile è che ad essere passibili di sanzioni siamo anche noi commercianti. Sembra davvero illogico rivolgersi a noi. I controlli vanno fatti dai produttori non dai distributori e invece noi siamo in balia dei produttori».




Sacerdote: «Nell’abbigliamento non vedo prospettive confortanti»

“Io mi chiedo, ma tutta questa gente dove era prima?”. Luca Sacerdote si interroga con una domanda a mezz’aria, intendendo con quel “prima”, tutto il tempo trascorso prima che scattassero i supersconti con messa in liquidazione del negozio, lo storico marchio che da 86 anni a questa parte campeggiava sul Sentierone. Sabato 28 settembre è stato un giorno, nel negozio superstite a quello “uomo” chiuso a dicembre di un anno fa in Galleria Santa Marta, modello “assalto al forno delle grucce”. Cachemere che è andato via come il pane.
Un avvio con il botto…
“Quello che mi premeva in questo periodo era realizzare, fare cassetto. Certo la svendita è partita con il botto, ma non nascondo una certa amarezza. Mi chiedo, tutta questa gente che è venuta in massa, dove era prima?”
Evidentemente l’occasione fa l’uomo…saldo.
“D’accordo, ma è un fatto che deve far riflettere i commercianti. Significa che la tipologia di clientela è divisa in due: quelli che vorrebbero acquistare e non possono farlo e quelli che potrebbero farlo, ma che, con gli armadi strapieni, preferiscono aspettare il saldo o, come nel mio caso, la svendita”.
Certo, la clientela fashion addicted, quella che cambia un capospalla perché largo un centimetro è in via di estinzione…
“Il 90% della clientela preferisce dare fondo ai capi che ha già, non ne acquista di nuovi perché in pochi mesi sono diventati più stretti o più larghi. La gente è piena di cose e molti meno soldi in tasca. Diluisce gli acquisti nel corso dell’anno, tanto prima o poi una qualche occasione spunta sempre. La scorsa primavera è stata la volta di Tiziana Fausti uomo, adesso tocca a me…Si tratta solo di aspettare l’occasione giusta per approfittarne”.
Più che il commercio sembra che sia cambiato il mondo…
“Il piccolo negozio sta scomparendo ed il commercio, soprattutto a gestione famigliare, fatica moltissimo. Avranno un futuro i negozianti proprietari dei muri, dal momento che il canone di locazione incide moltissimo nel far quadrare i conti. Resisterà chi è bravo a fare questo mestiere e chi ha impostato il proprio lavoro con un occhio verso i mercati esteri”.
È la fine di un certo tipo di negozio…
“Sul Sentierone c’erano moltissimi negozi medio piccoli che sono scomparsi. Anche Bergamo è piena di catene, Zara, Stefanel, Benetton…cioè i brand che si trovano dappertutto. Il centro della città è una duplicazione del centro commerciale. I negozi sono gli stessi”.
Una omologazione senza scampo?
“In Bergamo si salva Biffi, in via Tiraboschi, che ha saputo ritagliarsi uno spazio personalissimo e molto qualificato. Mentre l’unica che ha saputo dare lustro al Sentierone, insieme ai ragazzi che hanno rimesso in piedi il Colleoni, è stata Tiziana Fausti che ha saputo creare uno store di respiro internazionale. Lei fa un lavoro diverso, facendo commerce dei grandi marchi mentre io faccio il commercio al dettaglio. Si tratta di ambiti commerciali ed operativi completamente diversi, che generano flussi, canali e cash flow diversi. Riconosco alla Fausti una grande intuizione imprenditoriale, quella di aver guardato all’estero con grande anticipo sugli altri. Chapeau, ha percorso una strada innovativa. È senz’altro lei la più brava”. 
Perché non ha modificato il concept commerciale di Sacerdote? Forse sarebbe bastato quello, un restyling merceologico e di location…
“Non è una cosa così semplice. Avrebbe significato cambiare un’immagine molto tradizionale, legata indissolubilmente al passato, e con un investimento che non mi sono sentito di affrontare. In questi ultimi anni ho messo mano al patrimonio personale per ripianare le perdite di gestione. Purtroppo, nel commercio al dettaglio dell’abbigliamento, non vedo delle prospettive confortanti”.
Dove sta andando l’abbigliamento?
“Non so dove finiremo, certo è che i commercianti di abbigliamento scontano una concorrenza fortissima dei centri commerciali che assolvono anche ad una funzione, come dire, sociologica, soprattutto per le giovani generazioni. In questo senso, va detto che quando la tradizionale clientela che abbiamo conosciuto non ci sarà più, subentrerà questa new generation che non è cresciuta con la stessa “cultura commerciale”.
Altri concorrenti?
“Gli outlet, dove anche aziende di punta fanno grossi investimenti, soprattutto immobiliari. Ci sono produzioni intere pensate e realizzate per essere commercializzate negli outlet che pure, malgrado i prezzi concorrenziali, garantiscono buoni margini di guadagno. Senza dimenticare poi gli spacci aziendali, dove si può trovare anche il capo dell’ultima collezione ad un prezzo più che buono. Ovvio che anche il cliente più affezionato, ci va per risparmiare. Infine occorre mettere in conto anche la concorrenza on line. che personalmente non ho mai considerato come un’opportunità da sfruttare. Quante volte i ragazzi sono venuti a provarsi capi che poi hanno acquistato con la taglia giusta, on line”.
Last but not least, i saldi…
“È una strada dalla quale non si torna più indietro: i saldi vengono sempre più anticipati, certi negozi addirittura li avviano, con messaggi personalizzati, alla metà di novembre o a giugno quando la stagione non è ancora cominciata. Chi acquista un cappotto oggi a settembre, sapendo che a novembre lo trova a metà prezzo? Per due mesi si fa andar bene quello che si ha già nell’armadio. Solo le shopaholiche non sanno dire di no”.
È un consumo di nicchia…
“Esatto. Mancano i volumi delle vendite a prezzo pieno. Sono queste che riescono a mantenere in piedi, in vita il commercio. Se mancano quelle si chiude. Per l’abbigliamento vedo in atto un cambiamento strutturale; resteranno i negozi aziendali, quei grandi store monomarca che hanno fatto scelte commerciali radicali. Penso, ad esempio, alle grandi griffes che si trovano solo nelle vie della moda delle grandi città”.
Certo, Bergamo non è Milano…
“La clientela internazionale qui da noi è ancora una chimera. Il nostro turista è come dire low cost di nome e di fatto, arriva con il trolley e il marsupio in vita; entra, guarda, tocca i vestiti con le mani unte di pizza, ma alla fine non compra nulla. E i negozi devono fare i numeri, come tutte le aziende. Numeri e fatturati, anche grandi, altrimenti non solo non si guadagna, ma non si vive”.
Un bel quadretto…
“Attenzione, è facile trovare scusanti, dalle bancarelle alla chiusura delle strade, al tempo, ma l’elemento di fondo resta comunque l’abilità dell’imprenditore, la sua capacità di chi gestisce il negozio. Inutile dare colpe anche all’ente pubblico, al Comune, a quello che fa o non fa: c’è chi ha raddoppiato il negozio e chi come me, invece, lo ha chiuso. Occorre guardarsi un po’ dentro e fare un serio esame di coscienza. Il destino non è sempre cinico e baro”.
Che cosa c’è nel suo futuro?
“Bella domanda, sicuramente un periodo di riposo assoluto. Ho deciso di chiudere perché andare avanti così era troppo difficile. Quando un’azienda non funziona, si ha la sensazione di continuare a mettere acqua in un lavandino senza tappo. Temo, però, che ci saranno altre chiusure dolorose. Per me è un lutto, come se mi fosse morto un parente molto stretto, mi servirà tempo per elaborarlo. E poi vedrò. Domani è un altro giorno”.




Aumento dell’Iva, Malvestiti (Ascom): «Duro colpo per famiglie e imprese»

Da questa sera a mezzanotte scatta l'aumento dal 21 al 22% dell'Iva. La crisi di governo apertasi con le dimissioni di parlamentari e ministri del Pdl non ha consentito al Consiglio dei Ministri di venerdì scorso di varare il decreto per far slittare l'aumento almeno fino a gennaio.
«E’ una stangata per imprese e famiglie – afferma Paolo Malvestiti, presidente di Ascom Bergamo -. Deprimerà ulteriormente i consumi in un momento di grave difficoltà e metterà in discussione l’auspicata ripresa prevista per il 2014».
L'aumento al 22% riguarderà il 70% dei prodotti e costerà 207 euro annui a famiglia, portando consistenti rincari nel settore dell'abbigliamento (+81 euro), nell'acquisto di scarpe (+25 euro) e bevande alcoliche, vino compreso, e gassate (+12 euro).
«Nonostante fosse già stabilito da tempo, l’attesa per la modifica del decreto ha fatto sì che ad oggi nessun commerciante abbia adeguato i proprio listini all’aumento dell’Iva – continua il presidente di Ascom -.  E ciò comporta da una lato un fortissimo aggravio di lavoro per i nostri imprenditori e dall’altro, come giù successo quando c’è stato il precedente aumento dell’aliquota a metà settembre del 2011, che siano le imprese, nonostante la difficoltà attuale, ad assumersi l’onore dell’aumento. L'Ufficio Studi Confcommercio nei giorni scorsi ha effettuato una precisa analisi economica dell’aumento Iva, evidenziando l’impatto sui consumi, sui prezzi, sul gettito, sull’occupazione, sui redditi e il risultato è preoccupante: sarà un colpo duro per imprese e famiglie.»
Dall’analisi dell’ Ufficio Studi Confcommercio risulta:
· impatto sui consumi: si amplificherebbe la già drammatica situazione dei consumi che, dopo aver chiuso il 2012 a -4,3%, chiuderà, senza interventi, anche quest'anno in negativo a -2,4%. L'incremento dell'Iva, che si tradurrebbe in una riduzione dei consumi dello 0,1% a parità di altre condizioni, andrebbe a incider negativamente sulle spese del mese di dicembre e quindi delle festività, momento nel quale, invece, potrebbero concretizzarsi finalmente gli auspicati segnali di ripresa;
· impatto sui prezzi: in una situazione in cui l'inflazione è sostanzialmente sotto controllo, si avrebbe un incremento dei prezzi tra ottobre e novembre di circa lo 0,4%, il cosiddetto "effetto scalino", con inevitabili effetti di trascinamento anche nel 2014;
· impatto sul gettito: come già accaduto con l'aumento dell'aliquota dal 20 al 21%, la contrazione della domanda porterebbe con sé anche una riduzione del gettito Iva atteso;
· impatto su produzione e occupazione: la perdita di produzione, determinata dal calo dei consumi, comporterebbe, a regime, una riduzione dell'occupazione approssimativamente di 10 mila posti di lavoro;
· impatto sulle imprese: in una situazione già di estrema difficoltà per le imprese del commercio, gravate da una pressione fiscale da record mondiale e dal mancato pagamento dei debiti della P.A., un'ulteriore contrazione della domanda interna porterà alla chiusura di molte attività;
· impatto sui redditi: risulteranno più penalizzate le famiglie a basso reddito in quanto la pressione Iva (rapporto tra Iva pagata e reddito) per il 20% di famiglie più povere arriverebbe al 10,5%, mentre per il 20% di famiglie più ricche sarebbe del 7,5%, circa il 30% in meno.




Professionisti, «facciamo rete per aiutare le aziende in crisi»

CresciVits, ovvero vitamine per la crescita. Non è un integratore alimentare, ma un tavolo di confronto tra le professioni al servizio delle aziende – ingegneri, consulenti del lavoro, avvocati e commercialisti – che, come già mostra il nome non convenzionale, vuole rompere gli schemi, portare le categorie «a guardare fuori dal proprio orticello», promuovendo un approccio sinergico e integrato nella consulenza alle imprese, passaggio non più rimandabile, secondo i promotori, da quando la crisi si è fatta sentire anche nel tessuto produttivo bergamasco. Il percorso, avviato da poco più di un anno, ha vissuto la sua prima iniziativa ufficiale lo scorso 18 settembre, chiamando a raccolta i professionisti dei diversi settori per gettare le prime basi della collaborazione. Carlo Viganò, presidente dell’APE, Associazione dei Periti e degli Esperti, è il coordinatore del gruppo di lavoro.
Da dove nasce l’idea di una rete interprofessionale?
«Il processo è stato graduale. Diciamo che l’apertura alle diverse competenze è già nel Dna della nostra Associazione, di cui fanno potenzialmente parte esperti di tutti i settori di cui i tribunali possono avere bisogno per consulenze tecniche: ingegneri, architetti, psicologi, medici, grafologi, periti, solo per fare degli esempi. Questa visione ci ha portato a collaborare dapprima con la commissione Industria dell’Ordine degli ingegneri, sul versante della convegnistica e delle proposte formative sui temi legati alla riorganizzazione, all’efficienza e alla strategie industriali. In seguito, anche alla luce della perdurante crisi, ci è sembrato indispensabile coinvolgere i professionisti più vicini alle aziende, ossia i commercialisti e i consulenti del lavoro, che spesso sono le uniche figure di riferimento di un’impresa, ma anche gli avvocati, il cui supporto viene richiesto in caso di cause di lavoro o per la contrattualistica».
Il senso del progetto è, dunque, che un solo professionista non basta.  
«È difficile che un professionista lo ammetta, ma è così. L’operazione ha prima di tutto un valore culturale, conoscersi per assimilare che con le proprie competenze ciascuno può arrivare solo ad un certo punto, che ci sono figure che su altri aspetti sono più specializzate e che lavorando in team si può fornire il supporto migliore alle imprese».
Gli Ordini sembrano averlo compreso, visto che hanno supportato l’organizzazione del seminario…
«Si possono avere opinioni diverse sull’utilità degli Ordini, ma è indubbia la loro attenzione alla formazione e, ultimamente, proprio alla formazione interprofessionale. L’incontro, per l’esattezza, è stato organizzato dagli Ordini provinciali degli Ingegneri, dei Consulenti del Lavoro, dall’Unione Provinciale dell’Associazione Nazionale dei Consulenti del Lavoro e dall’Associazione Provinciale Forense, con la collaborazione dell’APE. Da tutti abbiamo ricevuto un’adesione entusiastica e questo ci fa ben sperare per lo sviluppo del percorso, così come l’alta affluenza al seminario, circa 230 presenze».
A chi si rivolge questo tipo di consulenza?
«L’idea di unire le forze è nata considerando i settori più in difficoltà della Bergamasca, che sono anche quelli più significativi in termini numerici, la manifattura e le costruzioni, di dimensione industriale o artigianale. Oggi l’aiuto che viene richiesto ai professionisti riguarda come rendere il più indolori possibile fallimenti e concordati, anche tramite i nuovi strumenti a sostegno della continuità d’impresa. Ma il nostro obiettivo è intervenire prima che la situazione sia irrimediabilmente compromessa, fare in modo che l’imprenditore si accorga per tempo o che lo faccia il professionista che lo segue e proponga un check-up di prodotti e servizi, mercati, metodi di vendita e produzione, costi, finanza, competenze, collocazione dell’azienda all’interno dei trend in atto».
Quali sono i punti deboli delle aziende che potrebbero migliorare con consulenze mirate?
«Cominciando da prodotti e mercati, dalla produzione, le politiche di gestione delle risorse umane e l’utilizzo della capacità produttiva. Ci sono imprese con fior di macchinari che stanno fermi 16 ore al giorno. Naturalmente se si produce di più occorre anche ampliare il mercato ed in questo momento lo si può fare soprattutto guardando all’estero. Anche il credito è un fattore strategico e il supporto nella pianificazione finanziaria diventa fondamentale. Occorre, ad esempio, far valere il know how di un’azienda, che se non dichiarato non entra nella valutazione del merito creditizio, e riarticolare gli assetti fiduciari con le banche, perché non può essere che un imprenditore rischi tutto quanto ha messo da parte in una vita».
Il tessuto imprenditoriale bergamasco è costituito per la stragrande maggioranza di piccole e piccolissime realtà, anche a loro si può attagliare una consulenza “multidisciplinare”?
«L’ostacolo sono i costi e il tempo necessario a esaminare una situazione in modo multidisciplinare, è difficile infatti che una piccola impresa possa decidere di dedicare risorse alla consulenza. Sino a che hanno potuto lavorare con margini elevati, le piccole realtà si sono potute permettere anche degli errori o delle inefficienze nella gestione, ora non si può più sbagliare ed una mano serve anche a loro. Stiamo valutando un modello per intervenire su questo versante, ma la priorità restano le aziende più strutturate, di cui spesso le piccole sono fornitrici e ne seguono l’andamento».
Gli imprenditori sono pronti ad affidarsi ad un pool di professionisti anziché al consulente di fiducia?
«È l’ostacolo col quale si scontreranno, ad esempio, le Società fra Professionisti, nuova figura giuridica recentemente entrata nell’ordinamento italiano. La nostra attività parte a monte, dai professionisti stessi, che per primi devono rendersi conto dell’utilità di mettersi in rete e da lì sensibilizzare gli imprenditori a questo tipo di approccio».
Una mossa per far fronte alle difficoltà che anche le professioni stanno vivendo?
«Abbiamo tutto l’interesse a fare in modo che le aziende sopravvivano e, anzi, si costruiscano delle prospettive di sviluppo. Mettersi in rete vuol dire offrire un miglior servizio al cliente e la possibilità di ottenere risultati migliori».
Allora avete la ricetta per il successo…
«È semplicemente la constatazione che le difficoltà e le minacce sono sempre di più e che per questo servono strumenti nuovi, la volontà di dare il nostro contributo per fermare la moria di aziende. Il compito sarebbe più facile se non ci si dovesse scontrare con gli ostacoli al fare impresa in Italia. Chi ci governa non ha capito che sono le aziende quelle che tengono in piedi il Paese e anziché aiutarle, allocando risorse per lo sviluppo, non fa che spremerle con le tasse e complicare loro l’esistenza con una legislazione carente e mai precisa ed una burocrazia e incertezza normativa insostenibili. E poi ci si chiede perché si preferisce aprire un’attività all’estero…».
Quali saranno i prossimi passi di CresciVits?
«Il progetto non si è ancora dato una forma giuridica, stiamo lavorando sulla sensibilizzazione e la formazione dei professionisti per poi trovare insieme le modalità migliori per operare. Aprire la mente è il passaggio fondamentale, cominciare a parlarci, a dirci cosa facciamo, in quali settori siamo specializzati e da lì cominciare a costruire sinergie. Per far questo sarà indispensabile il web e continuare gli incontri. Già nel prossimo evento pubblico vorremmo coinvolgere gli imprenditori ed i dirigenti delle aziende per costruire un percorso anche con loro».




Passeggiar Gustando, l’Ascom imbandisce il Sentierone

Le botteghe del dettaglio alimentare tornano ad animare il centro di Bergamo con l’ottava edizione di Passeggiar Gustando, la manifestazione promossa dall’Ascom e dall’Aspan, con il patrocinio del Comune di Bergamo, che promuove le attività del commercio tradizionale coniugando sapori e solidarietà.
L’appuntamento è per domenica 27 ottobre, dalle 10 alle 18, quando i gruppi dei Gastronomi e salumieri, Macellai, Fruttivendoli e i panificatori Aspan imbandiranno il Sentierone con le proprie specialità. La formula è quella ormai consolidata: basta dotarsi alla cassa dei gettoni della solidarietà (offerta minima di 5 euro per tre degustazioni con acqua, vino e pane offerti) ed utilizzarli per “acquistare” per le proposte che stuzzicano di più. A seconda dell’orario e dell’appetito, ci potrà fermare per un aperitivo, la merenda, uno stuzzichino o arrivare a comporre, passando da una postazione all’altra, un pasto completo, aggiungendo, in ogni caso, un tocco diverso alla passeggiata in centro.
Una serie di stand accoglierà le categorie, contraddistinte da divise di colore diverso: blu per i gastronomi-salumieri, mattone per i macellai, verde per i fruttivendoli e bianca per i panificatori. Facendo tappa dai gastronomi si potrà spaziare tra i salumi e i formaggi tipici presentati con la collaborazione dei consorzi di tutela o optare per piatti caldi, come il risotto o l’orzotto e la polenta. Dai macellai immancabili le carni alla griglia, mentre chi preferisce rinfrescarsi con la frutta di stagione può rivolgersi ai fruttivendoli. I fornai Aspan sfoderano infine i loro progetti legati al territorio, la Garibalda, ossia il pane nato da un concorso che cercava una ricetta rappresentativa di Bergamo, la Torta di Sant’Alessandro, omaggio al patrono, ed il pane realizzato con le farine a chilometro zero, da grano cresciuto in Bergamasca. La manifestazione è realizzata anche con la collaborazione della Pia Unione San Lucio, storico sodalizio tra gli alimentaristi bergamaschi che fa capo all’Ascom, completando il coinvolgimento delle organizzazioni del commercio alimentare. In totale saranno così impegnati circa 50 operatori.
L’iniziativa vuole portare in primo piano le attività di vicinato, il loro ruolo di servizio all’interno dei centri urbani, la professionalità e l’esperienza dei negozianti ricordare il grande patrimonio di relazioni che i piccoli commercianti custodiscono con il proprio lavoro quotidiano. Per sottolineare questi aspetti è pensata come una festa per le famiglie, arricchita quindi con musica e spettacoli per tutte le età. Al mattino si esibirà l’Abbaclub, tribute band della mitica formazione svedese, dalle 15 sarà la volta dello spettacolo musicale “Wander Thrugh the time”, mentre per tutto il pomeriggio trampolieri e clown divertiranno i bambini.
La manifestazione è inoltre un’occasione per promuovere i prodotti e le aziende bergamasche e le ricette tipiche della tradizione, missione che i piccoli commercianti hanno fatto propria da tempo, caratterizzando la propria offerta in bottega con la ricerca della migliori espressioni della produzione locale.
L’obiettivo solidale dell’evento, in fine, non fa che rimarcare ulteriormente lo stretto legame con il territorio. Quest’anno il ricavato sarà devoluto al fondo diocesano di solidarietà Famiglia e Lavoro attraverso il fondo Ascom aperto presso la Fondazione della Comunità Bergamasca Onlus. Si tratta di un progetto della Caritas inteso come “servizio-segno” verso le famiglie che si trovano in una condizione di forte difficoltà sociale per la perdita del lavoro. «È una forte emergenza – spiega il presidente dell’Ascom Paolo Malvestiti – e ci siamo sentiti in dovere di dare il nostro contributo su questo versante, anche perché nei nostri negozi tocchiamo con mano ogni giorno il disagio di tante famiglie. Siamo ben consci che i fondi che raccoglieremo saranno una goccia nel mare delle necessità attuali, ci è sembrato comunque importante renderci partecipi del progetto, testimoniando la nostra vicinanza e cercando, con la manifestazione, di sensibilizzare i cittadini». Sul tema dell’occupazione, tra l’altro, le categorie del commercio alimentare ed i Giovani Ascom si sono già impegnati con il progetto “Tempo di Lavoro”, che ha permesso ai ragazzi dai 19 ai 29 anni, utilizzando la formula dello stage, di apprendere un nuovo mestiere.