Chef sugli yacht: «Una carriera, mille emozioni»

Nel mondo della ristorazione c’e una realtà che in pochi conoscono. Parliamo della cucina private extralusso, ovvero la professione di chef per il jet set. Se ne parla poco: i committenti, ricchi magnati e armatori, esigono la massima riservatezza e d’altro canto gli chef eletti sono pochi. Eppure è un mestiere affascinante, avventuroso e molto ben remunerato, che può dare grandi soddisfazioni. Gli stipendi vanno dai 2mila fino ai 10-12mila euro per i cuochi più prestigiosi. E si è spesati di tutto, dai trasferimenti agli abiti fino alle necessità personali. Ad esempio, se lo yacht è attraccato a Miami e si viene chiamati, l’aereo è a carico del committente.

Dario Tagliasacchi, 42 anni, cuoco di Credaro cresciuto nella brigata di Gualtiero Marchesi, ha alle spalle anni di esperienza alla corte del jet set internazionale. Ci racconta aneddoti e curiosità oltre agli aspetti positivi e negativi di questo mestiere che – dice – «fa aprire la mente, conoscere tanti modi di cucinare e vivere vere e proprie avventure». Come, ad esempio, inseguire uno yacht con la borsa della spesa a bordo di un tender per cucinare una cena speciale in una caletta in mezzo all’atlantico, oppure essere mandati a fare un corso a Merano da Henri Chenot per lavorare a una dieta speciale. Cucinare il risotto lombardo per le Eurotoque a Bruxelles, imbandire un buffet di gala sotto le stelle di New York, improvvisare una cena alle cinque di notte a bordo di uno yacht MY Montrevel di 37 metri.

Come si e avvicinato a questo mondo?

«È iniziato tutto per merito di Gualtiero Marchesi. Un giorno sono tornato a Erbusco a trovare lo staff per un saluto. Parlando con il patron mi disse “vuoi partire in barca?”. In quegli anni Marchesi aveva in gestione un Club sulla Costa Atlantica. Dall’oggi al domani si è deciso che sarei andato io. Ho fatto otto mesi tra i Caraibi e il Mediterraneo. Poi qualche crociera tra Venezia, Bari, Istanbul e Pireos. Finita l’esperienza ho lavorato per tre anni e mezzo come secondo di Marchesi a Parigi, al Lotti della catena Jolly Hotel che in quegli anni ottenne una stella Michelin. Qui ho avuto il mio primo incontro con il mondo private extralusso».

Cosa è accaduto?

«Il passaparola è stato importante. Tramite degli amici conosciuti a Parigi ho fatto dei colloqui a Cannes e in un’agenzia di Nizza. Come prova, mi hanno mandato in due abitazioni di lusso a Montecarlo. La prima era uno stabile di 14 piani che ospitava due famiglie e l’azienda. La seconda una villa bellissima abitata da una famiglia e da 12 dipendenti fissi: eravamo due cuochi, uno cucinava per i proprietari, l’altro per i dipendenti».

Come si svolgono il colloquio e la selezione?

«Le selezioni vengono fatte da agenzie specializzate, si chiamano Crew Agency. Ad Antibes ce ne sono molte, valutano le caratteristiche del candidato e cercano di abbinarle a quelle degli armatori. Il colloquio è in due lingue, inglese e francese: ti viene richiesta una breve presentazione, poi ti fanno fare la spesa e cucinare».

Dario TagliasacchiQuali sono le doti necessarie per fare gli chef privati di lusso?

«Innanzitutto e richiesta preparazione sui piatti, sui prodotti e sulla cucina classica. Essere un cuoco italiano è un’eccellenza che da il 30% di punti in più rispetto agli altri candidati. E poi occorre avere una buona esperienza ed essere curiosi, avere una mente aperta. Si tenga conto che quando si lavora sugli yacht, si gestiscono situazioni impreviste, a volte estreme, e si lavora con persone di lingue e culture molto diverse. Servono voglia di sperimentare e capacità di mettere insieme anche culture alimentari diverse, tenendo conto dei gusti e delle tradizioni degli ospiti».

Lei ha lavorato per anni sullo yacht di un armatore. Che tipo di impegno viene richiesto?

«La giornata non finisce mai. È un impegno costante. Gli armatori chiedono di essere disponibili 23 ore su 24, in ogni momento bisogna essere pronti a soddisfare qualunque richiesta, anche stravagante. È un mondo extralusso dove si ottiene sempre quello che si vuole. Poi ci sono mille imprevisti».

Ad esempio?

«Può capitare di cucinare per gli ospiti negli orari più impensati, all’una di notte come alle quattro del mattino e poi alle cinque tornare in cucina per preparare la colazione al personale di bordo. Una sera l’armatore per cui lavoravo mi ha chiesto una cena a base di astice. Non l’avevo, cosi quando è sceso sull’isola sono sceso anch’io e ho girato tra i ristoranti per trovarlo. È costato una fortuna».

Quali sono invece gli aspetti positivi?

«Il mestiere ti porta a conoscere tanta gente e a buttarti senza paura in situazioni nuove. Si impara qualcosa ogni giorno e si allacciano rapporti con altri chef e colleghi. Inoltre nei momenti liberi si può godere al meglio la vita in mare e i posti che si incontrano».

Cosa si mangia sugli yacht? Chi decide il menù?

«Il cuoco è una figura speciale, si deve interfacciare con gli ospiti, si presenta a loro, raccogliere le loro richieste, i loro desideri e in base a quelli formula il menù per il giorno dopo o la sera stessa. La cucina mediterranea e la più apprezzata, poi dipende dall’origine e dalle tradizioni culinarie dell’armatore e degli ospiti e dai loro gusti. Ci sono anche ospiti che mangiano panini e insalate da mattina a sera. In questo caso a bordo non chiedono cuochi professionisti ma stewart tuttofare».

Le esperienze più belle che ricorda?

«Sono davvero tante. Ho comprato pesce al mercato di Saint Tropez per una cena in barca, scelto una miscela di the ad Oxford Circus per uno stuzzichino serale, imparato a fare il Gazpacho da un fruttivendolo di Valencia, comprato pesce fresco sottobordo a Lipari. Ma forse le emozioni più grandi sono state le regate. Per due anni sullo yacht abbiamo seguito l’American’s Cup e ho conosciuto politici e personaggi del mondo della vela e pubblici, come D’Alema e Bertarelli. Un altro anno partecipammo al Classic Week presso lo Yacht Club Montecarlo: è una manifestazione dove sfilano le più belle imbarcazioni del mondo e i loro cuochi si sfidano. In quell’edizione vincemmo noi».

Può essere un’opportunità di lavoro per i giovani cuochi?

«Può essere un’aspirazione. Prima bisogna imparare a cucinare. A un giovane che vuole fare questa avventura il mio consiglio è di insistere, di buttarsi, di non fermarsi al primo no. Anche a me obiettavano che non avevo esperienza in questo settore, ho insistito finché non mi hanno preso. Consiglio anche di fare il libretto di navigazione, il documento marittimo che si ottiene dopo avere superato degli esami, perché chi lo possiede ha tutte le carte in regola per navigare ovunque».

Ha dei rimpianti per quella vita?

«Ora sto focalizzando le mie energie su due ambiti diversi, la consulenza professionale alle attività enogastronomiche che vogliono migliorarsi e la realizzazione di eventi domestici personalizzati ed esclusivi come “Chef a domicilio”. E un’ulteriore evoluzione del mio cammino che non manca di stimoli e che mi fa svegliare ogni mattina pensando: amo il mio lavoro».




Dal latte bio all’agriturismo, l’evoluzione della fattoria che affonda le radici nell’800

Cascina Buona SperanzaLa storia della Cascina Buona Speranza affonda le sue radici nel 1800, quando, assieme ad altre aziende, con le famiglie di proprietari e quelle, sempre più numerose, dei mezzadri, contribuì a dare vita al paese di Zanica. Oggi è un’azienda agricola a certificazione biologica che rispecchia appieno la diversificazione e la multifunzionalità. L’anno di fondazione, scolpito all’ingresso di una delle poche autentiche cascine bergamasche che si possono ancora visitare nel territorio, è il 1847.

La nuova storia della Cascina Buona Speranza risale invece al 1972 quando Virgilio Nosari, macellaio che da sempre acquistava bovini in azienda, decide di rilevarne una parte e di affiancare all’attività del commercio quella agricola. Il sogno dell’agricoltura aveva già qualche anno prima spinto il figlio Ettore con la moglie Natalina Cianfarini ad abbandonare rispettivamente un lavoro da assicuratore ed un impiego in un’agenzia pubblicitaria di Milano, per fare a loro modo il 1968, mettendo su famiglia ed un piccolo allevamento di conigli in Umbria, a Umbertide. Ma l’azienda agricola bergamasca aperta dal padre li richiama a Zanica, dove si specializzano nella fornitura di latte biologico ad una realtà affermata come la Fattoria Scaldasole.

“Con l’avvento delle quote latte, mi sono però trovato di fronte alla scelta di acquistare o vendere, perché avrei dovuto allargare la produzione per renderla sostenibile economicamente – spiega Ettore Nosari -. Abbiamo deciso di cedere e con il ricavato delle quote latte abbiamo riconvertito l’attività in agriturismo. Una volta lavoravamo conto terzi, ora ci rapportiamo direttamente con il cliente finale”. Dal 1992, dopo la decisione di cedere le quote latte, l’azienda ha diversificato la sua attività, tornando ad essere una vera e propria fattoria, aperta anche ai bimbi tutto l’anno per visite didattiche e pronta a dare il benvenuto a turisti, data la vicinanza con l’aeroporto di Orio, con tre camere e due appartamenti.

Natalina e Ettore Nosari
Natalina e Ettore Nosari

Qui si allevano suini, conigli, asini, ma anche bovini – dai piemontesi alle vacche di razza Frisona – e pecore, tra cui la gigante bergamasca. Inoltre la Cascina ospita e accudisce diversi cavalli nei box. “Dieci ettari di terreno producono il foraggio per gli animali, dall’erba medica al fieno, all’orzo al granoturco – continua Nosari -. Per stare sul mercato o ci si ingrandisce e specializza o si diversifica la propria attività. Anche se gli impegni raddoppiano, perché ogni animale e coltura ha esigenze e tempi diversi”. E qui tutto nasce, cresce e si trasforma: dai maiali si producono salumi e insaccati, dalla pancetta al salame, e le carni servite a tavola sono bio e a chilometro zero, dall’agnello alla pecora, dal vitellone al cavallo e all’asino che viene in genere brasato. Le marmellate sono fatte in casa: “Abbiamo un ampio frutteto con, a seconda della stagione, un’ottima varietà di frutta, dalle ciliegie alle albicocche, dalle prugne alle pesche alle pere. Peccato che faccia gola anche a chi vi passa davanti e purtroppo non si limita a qualche frutto, ma riempie intere ceste…”. C’è spazio anche per la sperimentazione alla Cascina Buona Speranza: “Oltre a coltivare con successo frumento, varietà Bologna, per produrre pane e dolci, è stata avviata la coltura di varietà antiche di mais Nostrano dell’Isola e da un seme di mais bianco si sta formando un campo con le prime pannocchie” spiega Nosari.




Il giovane inventore di formaggi

Il ragazzo è sveglio, sa il fatto suo. A 25 anni, lavora sodo, studia e ha l’aspirazione di fare l’inventore. Di formaggi però. Li conosce bene: fin da bambino ha respirato il profumo del latte e delle stalle, con la famiglia proprietaria a Zanica di un’azienda agricola, 240 vacche che aiuta a mungere ogni giorno (sono conferitori storici della Parmalat che vende il loro prodotto ai consumatori come “Latte fresco Alta Qualità”). Poi dalla stalla, Diego Campana passa alla sua mansione preferita, quella nel caseificio aziendale e come giovane casaro, oltre a produrre caci e formaggelle della tradizione bergamasca, comincia i suoi “esperimenti”. Ormai conosce bene la pratica, e pure la teoria, essendo assaggiatore Onaf. Non si fa scoraggiare dai fallimenti che pure esistono quando ci si avventura in sentieri inesplorati. Così nascono caci particolari, come il Formaiù, un semiduro particolarissimo dal retrogusto piccante e sapore intenso o lo Stracampà, erborinato a due paste, con note amarognole e muffate, che si sposa a meraviglia con i passiti. Il gradimento dei consumatori è crescente e il giovane casaro continua nel suo percorso di crescita.

Ci racconta com’è nato il tuo amore per i formaggi?

«La passione per la produzione dei formaggi è nata inizialmente per curiosità. Quando avevo 11 anni c’è stato il crack della Parmalat che ha messo in seria difficoltà la nostra azienda. I miei genitori hanno avuto l’idea di provare a vendere i formaggi, che già producevano per uso familiare. Così ho cominciato ad appassionarmi: mi affascinava vedere il latte trasformarsi in cagliata e poi in formaggio. La svolta me l’ha fornita la possibilità di frequentare la scuola casearia, dove la mia passione è cresciuta fino a trasformarsi in un’attività vera e propria».

La sua famiglia ha un’attività consolidata…

«La nostra è un’azienda a conduzione familiare che alleva vacche da latte ad alta qualità, che conferiamo da più di 40 anni alla Lactis di Albano Sant’Alessandro. Mio fratello Ivan è il responsabile dell’allevamento che gestisce con grande passione e professionalità. La coltivazione dei campi compete a mio papà. Sul fronte caseario, inizialmente producevamo solo formagelle e stracchini, poi la produzione è aumentata fino ad arrivare ad un assortimento che va dai freschi (primi sali, mozzarelle) agli stagionati oltre al gelato e agli yogurt. Il tutto venduto presso il nostro spaccio aziendale o nei mercatini dei produttori di Agenda 21».

Parliamo di lei: da quanto fa il casaro?

«Dal 2010, cioè da quando mi sono diplomato presso la Scuola Casearia di Pandino. Quando studiavo, nei fine settimana e durante le vacanze estive, tornavo a casa e aiutavo mio padre nel nostro minicaseificio aziendale. Sono anche Maestro Assaggiatore Onaf e faccio parte dell’Asssocasearia, un’associazione di ex studenti della Scuola Casearia di Pandino che organizza corsi di aggiornamento per casari ed il prestigioso Trofeo San Lucio: un concorso biennale di formaggi che premia e valorizza la figura del tecnico caseario».

Riesce a conciliare i tempi per famiglia e divertimento?

«È un lavoro impegnativo e assorbe parecchie ore al giorno, anche perché ci sono lavorazioni che vanno eseguite la sera. Nonostante il poco tempo libero, grazie alla convivenza con la mia compagna, trovo comunque del tempo da trascorrere con lei e con i miei amici».

Ol Formaiù del Campana
Ol Formaiù del Campana

Ci descriva il Formaiù…

«Il Formaiù è un formaggio creato da mio padre e che io ho ripreso. È un semiduro a latte intero con stagionatura minima di tre mesi: ha un sapore e un aroma intenso con un piacevole retrogusto piccante. È un formaggio che ci ha regalato grandi soddisfazioni vincendo nel 2010 e nel 2012 rispettivamente la medaglia di bronzo e quella d’argento al Trofeo San Lucio».

Lo Stracampà
Lo Stracampà

E lo Stracampà?

«Appartiene della famiglia degli stracchini: è un erborinato realizzato con l’antica tecnica delle due paste che ne caratterizza il suo aspetto visivo e la struttura della pasta. Lo abbiamo modificato e migliorato nel tempo al punto che nel 2008 ha vinto un “Premio Qualità” al Concorso Infiniti Blu di Gorgonzola».

Ci sono altri formaggi di cui va fiero?

«Un’altra mia creazione è il “Filù”, un pasta filata che valorizza la qualità del nostro latte, conferendogli un sapore dolce e un aroma di latte intero e di burro. È un cacio molto versatile, ottimo da tavola ma che è anche molto utilizzato come ingrediente in cucina».

Qual è il suo sogno professionale nel cassetto?

«Quello di migliorare e approfondire le mie conoscenze di casaro, accostandomi alla conoscenza di nuove tecnologie, ma soprattutto riuscire un giorno a trasformare totalmente la nostra produzione di latte in formaggio, senza aumentare ulteriormente la dimensione aziendale, puntando sempre di più alla qualità».

Quale formaggio sta pensando di inventare in futuro?

«Sarà un formaggio molto particolare di cui non voglio svelare i segreti. A breve sarà pronto e invito tutti a scoprirlo venendoci a trovare nel nostro spaccio di Zanica».

Info: www.formaggicampana.it

 

 




I novant’anni di Mimmo e quel locale comprato in un quarto d’ora

Mimmo Amaddeo e la moglie Lina

 

Si possono riassumere 60 anni di ricordi e di cucina a Bergamo? Se c’è qualcuno che può farlo è Mimmo Amaddeo, fondatore dell’omonimo ristorante in Città Alta e ristoratore da una vita, che ha festeggiato il traguardo dei novant’anni in questi giorni ed è una vera e propria istituzione sulla Corsarola.

Passato e presente si rincorrono nelle sue parole, ne esce un ritratto dolceamaro di una Bergamo lontana, soffocata dalla povertà, e l’orgoglio per un gioiello che infine è uscito dal cassetto.

«Ho varcato la porta di Bartolomeo Colleoni il 1 agosto del 1956. Non avevo ancora trent’anni. Era un pomeriggio afoso, sono entrato in quello che in tutti questi anni è stato il mio ristorante e in un quarto d’ora ho stretto l’affare». «In quegli anni – ricorda – eravamo appena usciti dalla guerra, a Bergamo c’era una grande miseria e molti emigravano all’estero. I locali erano fatiscenti, i bagni erano comuni e quando si entrava sembrava di essere in camere a gas. L’ufficiale giudiziario di allora, un certo Crispino, era il terrore di tutti, fu lui a far fare a tutti i gabinetti».

Mimmo è sempre stato uno che guardava avanti, un innovatore. Con la moglie Lina, entrambi calabresi, ha fatto apprezzare i sapori della cucina popolare italiana, in particolare la pizza, piatto quasi misterioso per i palati orobici (Mimmo è stata la seconda pizzeria aperta a Bergamo dopo Pio ed è la più vecchia tra quelle ancora attive, nonché negozio storico riconosciuto dalla Regione Lombardia).

«Bergamo era un tesoro nascosto, la cenerentola delle città italiane – dice –. Poi gli emigranti sono tornati con i soldi che avevano risparmiato lavorando all’estero, sono arrivati altri ristoranti, gli alberghi, e la gente è cominciata a venire in Città Alta». «Ora – ci racconta con orgoglio – Bergamo è terra di tutto il mondo, non solo dei bergamaschi, ogni giorno ci sono sempre più visitatori».

Tra i suoi ricordi più cari ce ne sono due: «i pomeriggi in cui i bambini venivano al ristorante per vedere al nostro “baraccone di televisore” la tv dei ragazzi, perché in quegli anni erano in pochi ad averla a casa», e il giorno in cui Adriano Celentano si è affacciato alla porta. «Ricordo ancora quel fatto, venne da me e mi chiese un tost».

Da qualche anno Mimmo ha lasciato la guida del ristorante a due dei suoi sette figli, Roberto e Massimo, ma se andate, lo trovate lì ad attendervi all’ingresso, con la moglie e con il suo “buongiorno” e“buonasera”. Come negli ultimi sessant’anni.




Food Film Fest, ecco i finalisti. Si potranno “gustare” a settembre in piazza Dante

Un immagine del film di animazione Wedding Cake, tra i premiati dello scorso anno

 

Sarà un’abbuffata, ma di film. Da martedì 15 a sabato 20 in piazza Dante a Bergamo è in programma la seconda edizione di Food Film Fest, festival internazionale cinematografico dedicato al mondo del cibo. Promosso dall’Associazione Montagna Italia e dalla Camera di Commercio di Bergamo, il Festival ha raccolto oltre 100 film da 28 nazioni grazie ad un concorso. La direzione artistica ne ha selezionati 22, che concorrono per il primo premio e saranno mostrati al pubblico nelle serate del festival al Quadriportico del Sentierone ad ingresso libero.

Al termine delle proiezioni, spazio alle degustazioni di eccellenze locali alla Domus di piazza Dante, grazie alla collaborazione dei produttori di Coldiretti Bergamo.

Sabato 19 settembre alle ore 20.45 si terrà la Cerimonia di Premiazione dei vincitori.

Nell’anno di Expo la manifestazione offre al pubblico la possibilità di viaggiare per il mondo attraverso le tavole di tutte le culture e scoprire tradizioni, produzioni, coltivazioni e tecnologie nel campo alimentare.

Ecco i 22 finalisti

Food Film Fest - finalisti 2015

 




Marcelle, la pioniera delle patatine fritte a Bergamo

Marcelle Gibert
Marcelle Gibert

«In Italia non vengo perché non ci sono le patatine fritte», aveva detto a mo’ di provocazione 47 anni fa la giovane Marcelle Gibert al marito che progettava di rientrare in patria dal Belgio, dove – lei belga, lui figlio di emigranti bergamaschi – si erano conosciuti e sposati.

Invece in Italia ci è venuta, ma ci ha portato anche le patatine fritte dalla sua terra, che si vuole (la disputa con i francesi è aperta) abbia dato i natali ai famosi bastoncini, oggi il più abituale dei contorni o degli snack ma una cinquantina di anni fa pressoché sconosciuti all’ombra delle Orobie.

Da quella battuta l’idea del lavoro che insieme avrebbero potuto fare nel nuovo paese. «Avevo 24 anni ed avevo studiato da cuoca, mio marito era perito meccanico – ricorda –, abbiamo intuito che poteva essere un’opportunità e ci siamo costruiti da soli il mestiere». Gli esordi sono stati su un furgone al Ponte del Costone in Val Seriana e, in Val Brembana, a Zogno ad intercettare il flusso di gitanti di ritorno dalla montagna la domenica (come non ricordare l’acquolina e la tentazione di una sosta?). Poi sono arrivati i mercati e la proposta si è ampliata con polli allo spiedo, wurstel e spiedini. Oggi Marcelle, la pioniera delle patatine, ha 71 anni e dirige con piglio deciso e la parlantina schietta di chi è abituato a vivere la piazza la rosticceria ambulante La Casalinga, con sede a Torre Boldone, che arriva ad impiegare anche sette persone, tra cui la figlia Fulvia Colombi, il genero e il socio Mario. Mentre il marito ha preso la via della Spagna portando anche lì le patatine on the road.

«Ora le domeniche non lavoriamo più – spiega -. Siamo presenti in sei mercati settimanali (nell’ordine da lunedì a sabato: Bergamo, Calolziocorte, Alzano, Nembro, Ponte San Pietro e Gazzaniga) e l’offerta si è moltiplicata. Abbiamo ben 56 prodotti diversi, tra polleria arrosto e fritti». Davanti al bancone c’è l’imbarazzo della scelta, tra polli, arrotolati di vario genere, cosce, spiedini, ali, anche piccanti alla messicana, quaglie. E sul versante dei fritti, accanto alle classiche patatine e crocchette, ogni sorta di verdura pastellata, bocconcini, fagottini, panzerotti. L’evoluzione del gusto e dei tempi ha portato anche le carni certificate halal, per rispondere ai dettami religiosi dei clienti musulmani.

«Si tratta di prodotti già pronti per la cottura, fresche le carni, surgelate le fritture, che poi cuociamo direttamente sul furgone e facciamo trovare sempre caldi – racconta -. La gamma si è ampliata grazie a ditte specializzate che offrono grande scelta e, per certi versi, semplificato il lavoro». Gli inizi, infatti, sono stati tutt’altra cosa. «Utilizzavamo patate fresche – ricorda Marcelle -. Siccome sul furgone non c’era l’acqua le pelavamo in sede, prima a mano, poi è arrivata una macchina, e le trasportavano in contenitori appositi immerse nell’acqua. Una volta sul posto le tagliavamo e le friggevamo». La tecnica è quella belga: una prima frittura, si levano dall’olio, si lasciano asciugare e si ributtano per alcuni minuti al momento di consumarle per ottenere lo speciale mix tra esterno croccante e interno morbido. Un procedimento che la signora consiglia a chi vuole prepararle in casa. «Nella ristorazione invece – evidenzia – non c’è più nessuno che parte dal fresco, le patatine surgelate hanno avuto la meglio. Sono una comodità ed è inutile negarlo. Tutto sta nello scegliere prodotti di qualità e nel friggerle al meglio».




Pasticcini o piatti salati? Gotti lascia di stucco i piccoli MasterChef

Lo chef bergamasco Francesco Gotti continua a stupire in tv. Dopo aver preparato qualche anno fa una frittata perfetta ad occhi bendati sul palcoscenico di “Italia’s got talent”- conquistando il plauso convinto dei giurati Maria De Filippi, Gerry Scotti e Rudy Zerbi – ha lasciato a bocca aperta i piccoli concorrenti di Junior MasterChef. Nell’ottava puntata, andata in onda ieri sera su Sky, l’executive del Bobadilla di Dalmine e manager della squadra Junior della Nazionale Italiana cuochi ha presentato in trasmissione quello che sembrava un bel vassoio di paste mignon, che al palato si sono invece rivelati veri e propri piatti salati.

Gotti MasterChef (1) Gotti MasterChef (2)Da qui è nato lo spunto per la sfida tra gli aspiranti chef, quella a creare piatti salati che sembrassero dei dolci. Le loro proposte, realizzate in un’ora, sono andate dallo stecco gelato di tartare di ricciola al tiramisù con melanzane, al gelato salato con crema al basilico e alla barbabietola, alla finta colazione con vellutata di funghi servita in tazza e biscotti al parmigiano.

Dell’arte di ingannare i sensi a tavola, presentando piatti e prodotti che alla vista appaiono consueti ma al gusto si rivelano tutt’altro, Francesco Gotti è un vero esperto, tanto da racchiudere le sue creazioni nel libro “Pensavo fosse… invece è! Giochi di percezione nel gusto”, realizzato con l’Accademia del Gusto dell’Ascom e pubblicato dalla Rassegna nel 2008.

La puntata di Junior MasterChef, che ha selezionato i semifinalisti, ha visto in scena anche un altro chef bergamasco. Lo stellato Giancarlo Morelli del Pomireau di Seregno, che ha dispensato consigli per la prova in esterna.

Gotti MasterChef (4) Gotti MasterChef (3)

le fotografie sono dell’Unione Cuochi Regione Lombardia



Astino, al via il 21 maggio la mostra su Veronelli

Si apre giovedì 21 maggio la mostra Luigi Veronelli – camminare la terra, prodotta dalla Triennale di Milano e dal Comitato decennale Luigi Veronelli, uno degli appuntamenti in chiave Expo legati al recupero della Valle d’Astino e del complesso dell’ex monastero (la cui inaugurazione ufficiale è fissata per sabato 16 maggio).

Dopo il debutto alla Triennale, la mostra approda in terra bergamasca e rimarrà allestita fino al 31 ottobre nelle sale del refettorio e del vestibolo.

La figura del grande giornalista enogastronomico, tra i primi a portare avanti battaglie per la qualità e la trasparenza del cibo e per la buona agricoltura, ben si presta alla riflessione sui temi dell’Expo. «Camminare la terra – spiega Gian Arturo Rota, presidente del Comitato per il Decennale e tra i curatori della mostra – è pensata per essere fruibile da un pubblico eterogeneo, non necessariamente di appassionati ed esperti. Presenta un Veronelli inedito, non solo esperto di cibi e vini, ma un intellettuale a tutto tondo, editore, filosofo, scrittore, che si è occupato anche di forme nel campo del vino, di società e di sport. Proprio questa varietà di interessi è ciò che ha colpito maggiormente i visitatori della tappa milanese della mostra». Veronelli viene raccontato da libri, articoli, documenti, dai video con estratti delle sue trasmissioni tv, “A tavola alle 7” e “Viaggio sentimentale nell’Italia dei vini”, e dall’esatta riproduzione della sua cantina di via Sudorno, organizzata con moduli cubici di cemento grezzo. Cantina che potrebbe essere collocata definitivamente ad Astino.

La mostra, ad ingresso libero, è aperta dal martedì alla domenica dalle 10 alle 20 (chiuso il lunedì) e sarà accompagnata da eventi collaterali come incontri conviviali, corsi, degustazioni, presso il ristorante Le Cantine di Astino, il chiostro e le cantine medievali.

Info




I grandi chef da bambini? Ecco cosa mangiavano

immagini 194Non tutti gli chef che portano in alto la nostra ristorazione sono stati delle buone forchette, nonostante i buoni esempi a casa. Di contro ci sono grandi chef cresciuti con cucine non troppo stimolanti che hanno sviluppato sin da bimbi un palato eccezionale: «Da piccolo ero curioso, mangiavo tantissimo ed il momento clou era la domenica, con arrosti, pasticci, antipasti toscani, fritti e tanti dolci – racconta lo chef Enrico Bartolini, due stelle Michelin al Devero di Cavenago -. In settimana era un po’ una sofferenza perché mia mamma, che è una grande mamma, cucinava un così e così. La domenica però ci pensava la zia Emilia. E a volte anche il venerdì, quando faceva la polenta e ogni tanto il baccalà». I suoi, ancora piccoli, mangiano già di tutto: «Giovanni, 2 anni, vivrebbe di patanegra e acciughe, senza contare nei dolci il gelato. Tommaso, 8 anni, mangia di tutto, ma ama soprattutto la pasta ed i risotti».

Daniel Facen A'AnteprimaDaniel Facen, nato in Svizzera ma trentino nell’anima e ormai bergamasco d’adozione, è cresciuto in una casa con pentole e padelle sempre sul fuoco: «Mia mamma Roberta lavorava a servizio di un’importante famiglia milanese prima e poi svizzera, dove sono nato. È sempre stata, anche per lavoro, una grande cuoca: grandi secondi di carne, piatti tradizionali lombardi come la cassoela, gli ossibuchi con risotto e la cotoletta alla milanese, erano solo alcune delle sue specialità, assieme a piatti svizzeri come la raclette». Cresciuto coi manicaretti di mamma, lo chef dell’A’ Anteprima di Chiuduno, una stella Michelin, è sempre stato una buona forchetta: «Un piatto odiato e uno amato? Ho sempre mangiato di tutto, ma ricordo con affetto la semplicità di uova con dente di leone, un piatto che segnava l’arrivo della primavera e della bella stagione. Invece, francamente, la faraona con polenta è un piatto che ho odiato e non amo nemmeno oggi: le carni risultano sempre asciutte. Non sono mai andato al ristorante da bambino e per me l’unica cucina è sempre stata quella di mia madre». Suo figlio non ha mai fatto un capriccio a tavola ed è un grande appassionato di cucina: «Luca, che ora ha 21 anni, cucina davvero bene – dice Facen -, tanto che è quasi sempre lui a mettersi ai fornelli a casa. È sempre aggiornato su tendenze e grandi chef, sperimenta nuove ricette. Anche da piccolo ha sempre voluto assaggiare tutto, con grande curiosità».

Chicco CereaEnrico, detto Chicco, primogenito dei cinque fratelli Cerea ed executive chef del tristellato Da Vittorio a Brusaporto è cresciuto tra pentole fumanti e i profumi di una cucina eccellente come quella di papà Vittorio. «Il palato va istruito, allenato, e tenuto sempre aggiornato – afferma -. È qualcosa che in parte si ha nel dna, ma poi contano ambiente ed esperienze, curiosità e desiderio di sperimentare nuovi gusti. Non sempre sono amori a prima vista e gusto: a otto anni, ad esempio, ricordo che sputai un’ostrica. Oggi ne vado letteralmente pazzo». Ma che bimbo è stato Chicco Cerea? «Sono stato goloso sin da piccolo – ammette -. Ho sempre mangiato di tutto: ricordo ancora quel piacere di affondare il dito in una salsa di pomodoro appena preparata in casa. Ricordo con affetto le merende con mio padre del mercoledì, giorno ancora oggi di chiusura del ristorante. Papà ci veniva a prendere a scuola e andavamo tutti insieme a piedi fino in Città Alta per gustare pane, burro e acciuga o pane, salame e cetriolini alla Trattoria Colombina». Anche i “piccoli” di casa Cerea sono dei gourmet come papà: «I miei tre figli – Beatrice, 20 anni, Maria Vittoria, 17 anni e Vittorio, 15 anni – hanno sempre assaggiato ogni piatto sin da piccoli. Ad ogni ricorrenza abbiamo il nostro rituale: regalarci una cena in un ristorante importante. Ci divertiamo un mondo a scegliere la meta gastronomica, sbirciare i menù, iniziando su internet il nostro viaggio tra i sapori. Devo dire che i miei figli sono stati sempre molto aperti all’assaggio e anche il vino l’ho fatto provare a tutti. Io stesso sono il primo ad accettare ogni loro suggerimento: ad esempio Beatrice che ha vissuto tre mesi ad Hong Kong mi ha consigliato su alcune spezie e mi ha portato nuove ricette dall’Oriente».

Roberto Proto e Maria MorbiRoberto Proto, chef de Il Saraceno di Cavernago, fresco di stella Michelin, è approdato alla cucina dopo aver fatto per un paio di anni il parrucchiere e aver capito che non era la sua strada. Ha respirato sin da bambino l’atmosfera del ristorante nella trattoria di famiglia aperta nel 1976 da papà Salvatore e da mamma Trofimena, che da Amalfi avevano inseguito un lavoro e i loro sogni prima in Svizzera, dove erano stati a servizio come governanti presso un’importante famiglia, e poi a Bergamo, dove avevano aperto il loro ristorante “Da Salvatore”. Nonostante i manicaretti di mamma Mena, Roberto Proto non è stato un bimbo gourmet né ha mai avuto una grande predisposizione all’assaggio: «Il mio universo gastronomico è stato per anni quello della pizza margherita, delle bistecchine e delle penne al pomodoro, senza nemmeno l’ombra di un filo di cipolla». Nemmeno un pesce a guizzare in questo menù ristretto e un po’ ottuso, un fatto quanto meno curioso per uno chef destinato in futuro ad esaltare ogni specialità di mare. «Mia mamma non ha mai smesso di propormi piatti di pesce, che ho scoperto però solo a dodici anni. Prima non c’è stato verso di farmeli provare». Ma è stata solo una questione di tempo. «Oggi mangio davvero tutto, ma se posso evito i peperoni. Il piatto a cui non potrei rinunciare è invece la pasta e fagioli di mia madre, un piatto storico della mia famiglia, tramandato di generazione in generazione». Le bimbe dello chef devono ancora ampliare il loro menù, ma mamma Maria Morbi, con tanto di laurea di psicologia in tasca, è pronta a dar loro tutto il tempo necessario, anche perché – come sottolinea – forzare i bimbi a mangiare è uno dei più grandi errori da fare, per non parlare di punizioni e ricompense. «Le mie bambine, Martina di 9 anni e Giulia di 6 anni, purtroppo non mangiano proprio tutto, a partire dal pesce – allarga le braccia Roberto Proto -. Nonostante le paste e le torte fatte in casa dalle nonne Mena e Lisetta, la cura che mette mia moglie Maria nel proporre loro verdure, riducendole in crema o presentandole al meglio, le nostre bimbe non sono delle grandi forchette. La più piccola oggi, ad esempio, non voleva andare in mensa perché in menù c’era il pesce fritto».

 




La maestra di Madrid ora produce pasta a Zogno

Pasta - ivan e maria luisa - Pasta&pasticciUn pastificio dalla storia particolare, o meglio, con una storia recente molto interessante e ancora tutta da scrivere.

I protagonisti sono due: Ivan e Maria Luisa, i due attuali giovani conduttori di questa piccola attività. «Io ho fatto per anni l’operaio metalmeccanico – spiega Ivan – e, durante le vacanze estive, tre anni fa mi sono recato in Sardegna. Nell’ostello dove pernottavo ho incontrato Maria Luisa, originaria di Madrid, in vacanza per fare trekking. È stato un colpo di fulmine. Sono tornato a casa e per un anno abbiamo viaggiato entrambi per vederci il più possibile, poi, un anno e mezzo fa circa, ci siamo sposati in Andalusia».

E in tutto questo cosa c’entra il pastificio? La madre di Ivan da tempo gestiva il pastificio e, quando i due giovani dovevano decidere in quale luogo stabilirsi, se in Italia oppure in Spagna, non si sono lasciati sfuggire l’opportunità di gestire il pastificio di famiglia, mettendosi in gioco totalmente. «Io lavoravo come maestra alle scuole elementari – dice Maria Luisa – e, se qualcuno anche solo 4 o 5 anni fa mi avesse detto che ora avrei imparato a cucinare per professione, probabilmente l’avrei preso per pazzo».

Un po’ di incoscienza, la voglia di fare qualcosa insieme e poco tempo per imparare: Ivan alla pasta e Maria Luisa in cucina. Entrambe le attività sono funzionali alla richiesta della piccola rivendita. La produzione di pasta si dedica essenzialmente al fresco: casoncelli, ravioli ripieni di ricotta e spinaci, tortellini e poco altro. Poi la sfoglia, con cui produrre i vari formati di pasta lunga. In negozio si possono acquistare anche gnocchi, torte salate e dolci preparati in proprio. Tra i primi piatti si trovano le lasagne, le crespelle e i pizzoccheri che Maria Luisa ha imparato a preparare dalla madre di Ivan.

Un’esperienza appena iniziata, tutta da costruire. L’impegno, la creatività, il coraggio e, come detto, quel pizzico di incoscienza sono gli ingredienti che, se mescolati bene, possono portare a grandi risultati.