Cacciagione, un mese di proposte nei ristoranti bergamaschi

Per gli amanti della selvaggina e dei sapori di terra torna la rassegna “Caccia in cucina”, organizzata dall’Ascom di Bergamo e dall’Anuu (associazione di cacciatori che a livello provinciale conta più di 5.000 iscritti) in collaborazione con il Consorzio di Tutela del Valcalepio e giunta alle 14esima edizione. Per un mese, dal 20 febbraio al 20 marzo, 26 ristoranti (2 in città e 24 in provincia) propongono nel proprio menù piatti a base di cacciagione con l’obiettivo di valorizzare una tradizione culinaria diffusa sul territorio.

La manifestazioncaccia in cucina - logoe, che negli anni scorsi aveva respiro regionale e si svolgeva in diverse province lombarde, quest’anno, complici le difficoltà delle Amministrazioni provinciali nel garantire il sostegno, viene portata avanti solo in Bergamasca, dove ha sempre riscosso grande successo in termini di adesioni e gradimento.

Rispetto al passato ci sarà più tempo per gustare le diverse proposte, l’iniziativa dura infatti un mese, anziché una settimana, in tutti i locali. La mappa è ampia e va dalla montagna alla pianura al lago, senza dimenticare la città e l’hinterland. Anche i piatti spaziano e interpretano le diverse carni in abbinamenti e cotture classiche o innovative. Alcuni ristoratori hanno anche scelto di condividere le proprie ricette con gli appassionati, che potranno trovarle pubblicate sulla rivista dell’Anuu.

I locali aderenti

  • BERGAMO
Ristorante Il Circolino – vicolo S. Agata 19 – tel. 035 218568

Pasta fresca al ragù di lepre; Stufato di cinghiale con polenta (fino all’8 marzo)

Ristorante Ol Giopì e la Margì – via Borgo Palazzo 25/g – tel. 035 242366 (chiuso il lunedì)

Trofiette alla lepre tartufate; Cosciotti di cervo al Valcalepio

  • ALBINO
Ristorante Isola Zio Bruno – via Serio 24 – tel. 035 751687 (chiuso il lunedì)

Risotto con pernice al profumo di tartufo; Stufato di capriolo al Valcalepio

  • ALZANO LOMBARDO
Trattoria del Brugo – località Burro snc – tel. 327 503032

Tortelli al cinghiale in salsa di verdure brasate; Bocconcini di cervo in salmì con polenta “rustida”

  • AMBIVERE
Trattoria Visconti – via A. De Gasperi 12 – tel. 035 908153 (chiuso il martedì e mercoledì)

Pappardelle al ragù di fagiano; Polenta con cinghiale

  • BOTTANUCO
Ristorante Villa Cavour – via Cavour 49 – tel. 035 907242 (chiuso la domenica sera)

Terrina di fagiano con misticanza e aceto di mele; Lepre in salmì con polenta

  • BRANZI
Ristorante Corona – via San Rocco 8 – tel. 0345 71042 (chiuso il martedì e mercoledì)

Tortelli di selvaggina ai mirtilli; Polenta taragna con capriolo in salmì e cervo alle erbe alpine

  • CAPRIATE SAN GERVASIO
Osteria Da Mualdo – via Privata Crespi 6 – Frazione Crespi – tel. 02 90937077 (chiuso la domenica sera e il lunedì)

Bottoni di pasta fresca ripieni al cinghiale selvatico, bietola appassita, Strachitunt fondente e melograno; La quaglia: coscette brasate lentamente con polenta rustica e petto arrostito, servito con zucca e sedano appena cotto allo zafferano

  • CASTIONE DELLA PRESOLANA
Ristorante La Teglia – via Papa Giovanni XXIII 20 (chiuso il martedì)

Capriolo in salmì; Filetto di cervo al vino rosso; Cinghiale in umido

  • FINO DEL MONTE
Ristorante Garden Hotel – via Papa Giovanni XXIII 1 – tel. 0346 72369 (chiuso il lunedì)

Lasagnette al salmì di lepre con formaggio piccante; Petto d’anatra con mele caramellate e uvetta

  • FORESTO SPARSO
Ristorante Il Platano da Gira – via Franzi 5 – tel. 035 930118 (chiuso martedì sera e mercoledì)

Farfalle al ragù di lepre

  • GAVERINA
Ristorante K2 – Località Moletti 1 – tel. 035 814262 (chiuso il lunedì)

Cucina casereccia e pasta fresca con cacciagione

  • GRUMELLO DEL MONTE
Ristorante da Ubaldo – via Fontana Santa snc –tel. 035 830243 (chiuso il sabato a pranzo)

Gnocchi di polenta con ragù di selvaggina; Stracotto di cinghiale con polenta di Rovetta

  • MAPELLO
Trattoria Bolognini – via Divisione Alpina Tridentina 11 – tel. 035 908173 (chiuso il martedì)

Tagliatelle con la lepre; Bocconi di cinghiale al rosmarino

  • PIAZZATORRE
Albergo Ristorante Piazzatorre – via Centro 21 – tel. 0345 85033 (chiuso il mercoledì)

Pappardella fresca all’uovo con ragù di camoscio; Sminuzzato di cervo alle erbe di montagna

  • PONTERANICA
Ristorante da Tandy – via 8 marzo 15 – tel. 035 5292072 (chiuso il mercoledì)

Risotto alla fagianella e timo limonato; Bocconcini di capriolo al cioccolato amaro e composta di mirtilli

Trattoria Del Moro – via Castello 42 – tel. 035 573383 (chiuso il lunedì)

Foiade al sugo di lepre; Polentina con cinghiale e verdurine

  • RIVA DI SOLTO
Ristorante Bellavista – via Gargarino 23 – tel. 035 986034 (chiuso il martedì)

Cinghiale con polenta

  • SCHILPARIO
Hotel Ristorante S. Marco – via Pradella 3 – tel. 0346 55024 (chiuso il lunedì)

Le Pappardelle fresche al nostro ragù di cinghiale al coltello; I Bocconcini di cervo stufati alle bacche di ginepro e polenta grezza

  • SERIATE
Ristorante Al Centro – corso Roma 1 – tel. 035 4235467 (aperto venerdì, sabato e domenica sera)

Tagliatelle di castagne e ragù di cinghiale; Polenta taragna con bocconcino di cervo

  • SERINA
Ristorante La Fenice – via Dante Alighieri, 14 – tel. 0345.66315

Bocconcini di cervo panna e noci; Ravioli di cinghiale con stufato di cipolle

  • SPINONE AL LAGO
Ristorante Da Pacio – via G. Verdi 5 – tel. 035 810037 (chiuso le sere di martedì e mercoledì)

Tris di selvaggina con polenta taragna; Cervo, canguro, antilope, cinghiale

  • TRESCORE BALNEARIO
Ristorante della Torre – piazza Cavour 26/28 – tel. 035 941365 (chiuso domenica sera e lunedì)

Terrina di fagianella ai profumi del bosco in pasta sfoglia su Porto rosso ristretto; Costoletta di cervo alla Maria Stuarda con spuma di castagne e topinambur

  • URGNANO
Ristorante Quadrifoglio – via D. Alighieri 780 – Fraz. Basella tel. 035 894696

Tagliatelle di pasta fresca al salmì di lepre; Polpa scelta di cinghiale con funghi porcini e polenta

  • VILLONGO
Ristorante Cadei – via Roma 9 – tel. 035 927565 (chiuso il lunedì e martedì sera)

Brasato di cinghiale con polenta; Bocconcini di cervo alla boscaiola

  • ZOGNO
Ristorante Da Gianni – via Tiolo 37 – tel. 0345 91093 (chiuso il lunedì)

Polenta taragna con bocconcini di cervo




Quella volta che Caravaggio quasi accoppò un garzone d’osteria

CARAVAGGIO-AUTORITRATTO“Faccio un salto al bar”. È nozione comune che tale pronunciamento di intenti, oggidì del tutto innocente, non manchi di essere accolto dalle più arcigne tra madri e consorti con almeno un’occhiataccia di riprovazione. Ciò di cui coniugi e genitrici non sono forse al corrente è che le ragioni dell’anacronistico biasimo sono ormai vecchie di un paio di millenni. Ancor ai nostri giorni i locali dove prendere un cicchetto o un caffè pagano infatti lo scotto della pessima fama che, invero non senza fondamento, all’epoca della Roma imperiale bollava le tabernae.

A quei tempi, a dar retta a Giovenale, le frequentazioni delle bettole di cui traboccavano i bassifondi della Città Eterna erano tutto fuorché raccomandabili: malfattori, marinai, schiavi fuggitivi, boia e – sic – fabbricanti di catafalchi. Una siffatta ghenga di avventori finiva inevitabilmente per attirare anche qualche entraîneuse, spesso appartenente alla più stretta cerchia familiare del titolare della mescita. Alle lucciole della casa il diritto latino accordava peraltro singolari liberatorie professionali: ancora nel VII secolo, secondo i disposti della Lex Romana Curiensis, appartarsi con la moglie del tabernario non costituiva infatti adulterio. Non sorprende dunque che ai membri della casta senatoriale fosse elevato divieto di convolare a nozze con le figlie degli osti.

Se nelle bottiglierie più malfamate libagioni smodate e meretricio la facevano da padrone, non mancavano altresì locali di profilo meno ambiguo nei quali il vino era accompagnato da una più ortodossa offerta di cibo ed alloggio. Questa bipartizione tra taverne di equivoca nomea e più rispettabili hostarie venne di fatto mantenuta anche nel corso del medioevo, nel quadro di un generale impulso a regolamentare e moralizzare l’attività dei pubblici esercizi. Risale ad esempio al 1270 il bando con il quale la Repubblica di Venezia vietava ai locandieri di fornire ospitalità a donne di malaffare, inibendo inoltre la vendita di bevande che non fossero distribuite dai grossisti incaricati dall’amministrazione.

Le frodi alla mescita erano in effetti tutt’altro che inusuali, perpetrate soprattutto somministrando intrugli ottenuti dalla rifermentazione di vinacce esauste, o brode in via di acetificazione. A copertura dei raggiri, i gestori solevano confondere la bocca della clientela addolcendola con spicchi di finocchio offerti a guisa di amuse-guele. Da tale malvezzo è derivata la singolare voce “infinocchiare”, ancor oggi in uso per designare l’adozione di condotte levantine. Un ulteriore filone di imbroglio atteneva inevitabilmente ai quantitativi serviti. Ecco dunque che lo scarno corpo degli statuti cinquecenteschi della valle di Scalve, nel disciplinare il complesso dominio delle vettovaglie, aveva come unica previsione l’assoggettamento delle vinerie all’obbligo di avvalersi esclusivamente dei boccali bollati dalle autorità, per evitare che, nello spillare dalle botti, gli osti finissero per essere di mano troppo parca.

Che le libagioni propinate nelle bettole non potessero certo essere ascritte alla categoria dei grandi cru risulta evidente da innumerevoli testimonianze. Spicca in particolare il celebre sonetto di Cecco Angiolieri – amico di Dante Alighieri ed impenitente cantore degli ozi da taverna – nel quale il poeta giungeva ad affermare che persino la sua consorte in preda all’ira gli facesse meno uggia del vino servito nelle fiaschetterie. Emblematica è poi la sentenza di Alvise da Cà da Mosto, esploratore veneziano che verso la metà del quattrocento guidò un paio di spedizioni lungo le coste atlantiche dell’Africa: al succo delle patrie uve il pioniere della Serenissima dichiarava di preferire addirittura la linfa fermentata stillata dalle palme dai selvaggi del Senegal.

Se truffe e sofisticazioni erano all’ordine del giorno, non mancano comunque le attestazioni d’esistenza di locali condotti con perizia e probità. Colpisce in special modo quella di Jacques La Saige, mercante di seta della Fiandra francese che il 12 aprile del 1518, sulla via verso la Terrasanta, si trovava alle porte di Torino. Fermatosi per rifocillarsi all’Osteria della Croce Bianca di Rivoli, nei suoi appunti di viaggio il pellegrino riporta con stupore che, in abbinamento all’ottimo pasto, gli venne proposta una selezione di ben dieci diversi vini alla mescita, tutti di eccellente livello.

Un altro paio di aneddoti, stavolta di più chiaro marchio bergamasco, contribuisce infine a far luce sulle condizioni di lavoro nelle locande del XVI secolo. Del primo, invero a tinte piuttosto fosche, siamo debitori alla penna dell’infaticabile zibaldonista Donato Calvi. Nell’Effemeride si narra infatti di un cruento incidente consumatosi il 14 ottobre 1583 presso l’Osteria delle Due Ganasse, ubicata lungo l’attuale via XX Settembre. Nell’esercizio prestava opera un giovane garzone meneghino – all’epoca il nostro capoluogo era in assai più floride condizioni di Milano –  di nome Gasparo Gariboldi. L’inserviente, giunto prima dell’alba a riassettare i locali dal servizio della sera precedente, dopo aver compiuto le proprie incombenze si era appisolato su una sedia accanto al focolare. Per colmo della sventura, proprio sopra il suo capo erano appesi degli spiedi utilizzati per arrostire carni ed uccelletti. D’improvviso la fibbia che reggeva una delle acuminate aste si allentò, e quest’ultima nel cadere trafisse il collo del malcapitato trapassandolo da lato a lato. Richiamati dalle urla del poveretto – appunta laconicamente il cronista – i maldestri soccorritori, “volendoli strappare il ferro dalla gola, li strapparono in vero l’anima dal corpo”.

Il secondo episodio, ancorché di ambientazione romana, ha come protagonista nientemeno che Michelangelo Merisi da Caravaggio. Lo stizzoso artista, già nelle peste con la giustizia papalina per innumerevoli precedenti, si ficcò vieppiù nei guai malmenando e tentando addirittura di uccidere un povero cameriere dell’Osteria del Moro, reo di non aver saputo rispondere se i carciofi che stava servendo al pittore fossero stati cucinati nell’olio anziché nel burro. Tra arnesi di cucina che si trasformavano in armi letali ed avventori pronti a sguainare la sciabola per delle quisquilie, è dunque arduo definire quanto dura potesse essere la vita di uno sguattero di cinque secoli fa.




Il signor Carrara e il supplizio del polpettino

Il polpettino realizzato secondo la ricetta pubblicata nel “Libro de arte coquinaria” di Martino da Como

Seppur spogliato della pensione d’anzianità dai giacobini, la cui ferrea propensione ai tagli – al tempo non schiva di quelli di teste – pare essere tornata in auge ai nostri giorni, fa sfoggio di inossidabili estro e sagacia l’ottuagenario Carlo Goldoni che nel 1787 dà alle stampe a Parigi le proprie memorie. Nell’autobiografia l’impareggiabile commediografo fornisce prova di non comune lucidità ripercorrendo nei più minuti dettagli un florilegio di ormai remote rimembranze. Tra queste spicca il resoconto di una scampagnata di oltre cinquant’anni prima nell’agro circostante Milano, effettuata in compagnia di un amico bergamasco dal tutt’altro che imprevedibile cognome di Carrara.

È un giorno d’estate del 1733, e la coppia di bighelloni, varcata quella Porta Tosa che oggi si troverebbe all’altezza di piazza Cinque Giornate, si incammina in aperta campagna alla volta delll’Osteria della Cazzuola per una frugale merenda. Già all’epoca la metropoli – nota il drammaturgo veneziano – ha fama di ville gourmande, tant’è che i suoi abitanti sono soprannominati lupi lombardi dai più sobri fiorentini. “Non si fanno in Milano passeggiate, ne’ si mette insieme divertimento di qualunque sorte sia, in cui non si discorra di mangiare: agli spettacoli, alle conversazioni di giuoco, a quelle di famiglia, siano esse di cerimonia o di complimento, alle corse, alle processioni, alle conferenze spirituali inclusive, sempre si mangia.”

Carlo Goldoni
Carlo Goldoni

Giunti a destinazione, i due gitanti comandano uno spuntino a base di gamberi, uccelletti e polpettino. Dalle vivande settecentesche della storica osteria, in contrapposizione alle più tarde e moderniste lusinghe del risotto allo zafferano e della costoletta impanata, promana un nostrale sentore d’arcaico. I crostacei sono quelli d’acqua dolce dei quali già nel tredicesimo secolo, a dar retta a Bonvesin de la Riva, in riva ai Navigli si divoravano più di sette moggi al giorno. La cacciagione minuta, che in abbinamento alla polenta rappresenta un’irrefutabile icona gastronomica del circondario di Bergamo, tra XVII e XVIII secolo pare altresì una voce regolarmente impressa anche sui menù delle taverne milanesi – quella dei Trì Merla aveva particolare rinomanza per i suoi passaritt.

Quanto al polpettino, è del tutto ingannevole lo scontato rimando ad una pallottola di carne trita che la denominazione parrebbe sottendere. Si tratta invece di un involtino la cui ricetta, di sicure origini padane, è riportata per la prima volta nel quattrocentesco Libro de arte coquinaria di Martino da Como: una fettina di vitello, cosparsa di semi di finocchio e velata di un battuto di lardo ed erbe, viene arrotolata su sé stessa e quindi arrostita allo spiedo. Ad una pietanza affine doveva forse alludere un paio di secoli prima lo stesso Bonvesin de la Riva, quando menzionava un ripieno a base di noci, uova, cacio e pepe con cui i suoi concittadini solevano farcire le carni nel periodo invernale.

Metropoli delle polpette – definiva Milano il medico-poeta Giovanni Raiberti. Ed all’ombra della Madonnina morfologia e terminologia del morsello di carne hanno inevitabilmente finito per distinguersi da quelle della consuetudine. Se polpettino sta per saltimbocca, è con la voce mondeghili che vengono invece designate quelle che altrove si chiamano polpette. Il dualismo, di marchio squisitamente lombardo, è attestato anche dal ricettario del Cocho Bergamasco, che a fine seicento distingue rispettivamente tra polpette di carne cruda – simili a quelle di Martino da Como – e quelle di carne trita cotta, a propria volta affini ai mondeghili.

Questi ultimi, il cui appellativo deriva dalla storpiatura meneghina dell’ispanico albondeguillas, rappresentano in apparenza uno dei plurimi imprestiti iberici alla cucina milanese. In realtà l’apparentamento è d’ordine più lessicale che gastronomico. Non si è certo dovuto attendere l’arrivo in Italia degli aragonesi per apprendere a cucinar polpette: già nel ricettario latino di Apicio fanno infatti comparsa numerose preparazioni (isicia) in guisa di trito appallottolato di carne o di pesce, variamente aromatizzate. Una delle basi predilette dagli antichi romani per la preparazione della pietanza era peraltro rappresentata dal fegato di porco. E non è certo casuale che, tra gli ingredienti dei mondeghili, baleni l’arcaicizzante richiamo della mortadella di fegato.

Ma torniamo alla scampagnata di Carlo Goldoni e dell’ineffabile Carrara. Il loro spuntino all’Osteria della Cazzuola viene troncato sul nascere dall’estemporanea apparizione di un’avvenente giovinetta in lacrime. Il veneziano, incorreggibile donnaiolo, appura che la fanciulla – per singolare combinazione sua concittadina – è fresca reduce da una disavventura di seduzione ed abbandono, e si fa in quattro per rincuorarla. Il compare, da buon bergamasco, pare invece persuaso che le lusinghe della galanteria non debbano in alcun modo venir anteposte a quelle della tavola – o che comunque non sia opportuno indulgervi a stomaco vuoto -, e scalpita perché si dia senza indugi inizio alla merenda. Ma Goldoni, del tutto incurante delle rimostranze dell’amico, seguita imperterrito a blandire la giovane. Alla fine si addiviene ad un compromesso, e l’agognato pasto è servito negli alloggi della donna ponendo termine al tantalico supplizio cui è sottoposto il povero Carrara.

L’epilogo della vicenda è, assai prevedibilmente, del tutto teatrale. Il commediografo lascia discretamente intendere di essere riuscito ad intessere con l’affascinante concittadina una tenera amicizia, che si protrae per qualche mese. L’idillio è tuttavia falciato dai cannoni dei Savoiardi agli ordini di Carlo Emanuele III, che nel dicembre del 1733 cingono d’assedio il capoluogo lombardo. Goldoni, che in quel mentre svolge le funzioni di attaché del Console della Serenissima presso il Granducato di Milano, è costretto a riparare a Crema al seguito del diplomatico. La giovane amante resta invece in città, ed i due finiscono perdersi di vista – apparentemente senza eccessivi struggimenti. Ed il vorace Carrara? Rimedia un posto da corrispondente della Repubblica di Venezia su raccomandazione dello stesso Goldoni. Anche tra i marosi del burrascoso secolo dei lumi, è dunque e comunque bene tutto quel che finisce bene.




Storie di paste ripiene e di abbagli

 

Cannelloni-ricotta-e-spinaci_7Se non già un’irrefutabile patente di genitura del casoncello, la tradizione gastronomica bresciana può perlomeno vantare un concorso di paternità nella procreazione di un altro prototipo delle paste ripiene. Corre infatti il 1855 quando il milanese Giuseppe Sorbiatti – cuciniere di fama nazionale dai saldi addentellati professionali alle falde del Cidneo – dà alle stampe la prima edizione de “La gastronomia moderna”. Tra le ricette dell’enciclopedica raccolta, tutte pomposamente declinate in francese secondo la moda del tempo, spicca quella dei “Cannellons à la bressane”. Si tratta di cannoncelli dalla sfoglia ottenuta con un procedimento affatto singolare: si inizia mettendo al fuoco un paiolo con un quinto della farina e poca acqua per ottenere una polentina soda. Questa va quindi impastata a freddo con il resto della semola, con l’aggiunta di qualche tuorlo, per ottenere una massa piuttosto consistente. Stesane una lamina sottile, la si farcisce con un composto di foglie di verza o cime di rapa sbollentate e triturate, quindi saltate con burro e cipolla e legate con cacio, pangrattato e uova. Arrotolati a forma di sigaro, gli involtini vanno infine lessati in acqua bollente, con la rifinitura di qualche cucchiaiata di burro nocciola e l’immancabile spolverata di formaggio lodigiano.

Questa è, a mia notizia, la più antica codificazione in letteratura gastronomica del cannellone a guisa di pasta ripiena. Ai buongustai dell’epoca, ormai tediati dal formalismo allogeno della cucina d’oltralpe, Sorbiatti si affretta a giurare che “questa minestra è del tutto campagnuola”. In realtà i panni posticci da trattore del contado non riescono a dissimulare il gastronomo borghese che cerca di mascherarvisi. Nel suo monumentale Grand dictionaire de cuisine, l’eclettico Alexandre Dumas ragguaglia invero che i cannellons sono una preparazione di pasticceria – di gran lunga la più elitaria tra le branche della cucina – consistente in un piccolo cilindro di pasta sfoglia imbottito di composta di frutta. Il cuoco meneghino è verosimilmente il primo ad essere illuminato dall’intuizione di trasfigurare lo zuccheroso cannolo in un involucro di lasagna. Il ripieno – quello invece sì – è senza dubbio di genuina marca rustica. Stando ai glossari vernacolari del Melchiori e del Tiraboschi, corrisponde infatti alla farcia dei casoncelli come la si preparava nell’ottocento: a base di erbette, cacio ed uova.

Per qualche decennio il nuovo formato di pasta resta nell’ombra, tant’è che alla fine del XIX secolo Pellegrino Artusi, nei suoi Stati Generali della gastronomia Italiana, non ne fornisce alcuna menzione. Ma a partire della belle époque il vento cambia con decisione, prova ne sia lo ieratico “Cannelloni! Cannelloni! Cannelloni!” che Gabriele d’Annunzio – per combinazione sempre dal suolo bresciano del Vittoriale – verga in un carteggio indirizzato alla propria cuoca personale, ilarmente soprannominata Suor Intingola. La susseguente apoteosi è storia assai recente.

Questa ricostruzione parrebbe nondimeno messa in discussione da un passaggio della ponderosa enciclopedia della pasta redatta da Oretta Zanini de Vita – edita in Italia da ERI-RAI e ripresa in inglese dall’University of California Press. L’autrice, passando in rassegna le minestre asciutte citate nel cinquecentesco trattato di scalcheria del ferrarese Giovan Battista Rossetti, tra i macaroni all’urbinata ed i gnocchetti di Genova ritiene di dover censire anche i canellini bergamaschi. E nell’Oxford companion to food il serioso storico della gastronomia Alan Davidson sembra darle eco sostenendo – non senza una certa dose di audacia – che i cannellini siano semplicemente dei cannelloni in miniatura. Vuoi mai che anche in quest’occorrenza, come presumibilmente avvenuto per il casoncello (AdG maggio 2015), i cucinieri bresciani si siano lasciati precorrere di qualche secolo dai loro colleghi bergamaschi?

Ad onor del vero, non va taciuto che nel vernacolo ottocentesco della Toscana la voce cannelloni designasse quelli che altrove erano chiamati maccheroni, e non si può certo escludere che anche il suo diminutivo, di cui non è comunque pervenuta alcuna attestazione, fosse in qualche modo entrato nell’uso corrente. Ciò non toglie che i ben più antichi canellini bergamaschi del Rossetti, serviti all’epilogo di un banchetto che Alfonso I d’Este offrì in onore della consorte Lucrezia de’ Medici e del padre di questa Cosimo I di Toscana, altro non fossero che i confetti alla cannella, noti anche come cinnamomi (AdG novembre 2014), per i quali la nostra città godeva di lustro planetario nel XVI secolo.

Pur con l’indulgenza dovuta in ragione dell’innegabile assonanza, desta non poca sorpresa che in popolari testi di gastronomia dei dolciumi possano essere scambiati per una fantomatica portata di pasta, per soprammercato recata in tavola al momento del dessert. La topica giunge comunque a conforto dei paladini della tradizione culinaria bresciana: per una volta un primato della Leonessa, ancorché conseguito per mano di un cuoco forestiero, non pare destinato ad essere riveduto a beneficio degli invisi cugini d’oltre Oglio.




Pasticcerie, il Capab premierà quelle storiche

logo capab - pasticcieri confartignato bergamoI pasticcieri orobici si sono ritrovati numerosi, lunedì 5 ottobre nell’affascinante cornice del ristorante Il convento dei Neveri di Bariano, per la 37ª Festa del Pasticciere organizzata dal Capab(Consorzio Artigiani Pasticceri Bergamaschi), aderente a Confartigianato Bergamo.

La serata si è aperta con l’intervento del presidente del consorzio, Giosuè Berbenni, che ha presentato le iniziative di formazione e promozione della categoria. In particolare, ha annunciato l’intenzione di istituire un apposito premio per valorizzare le botteghe storiche del consorzio, che vedono protagoniste famiglie di pasticcieri da più generazioni.

È quindi intervenuto il presidente di Confartigianato Bergamo, Angelo Carrara, che ha evidenziato come negli ultimi anni l’attenzione alla qualità del cibo, agli ingredienti utilizzati e alla ristorazione in genere sia cresciuta in modo esponenziale, così come l’esigenza della clientela. Il Capab, ha sottolineato Carrara, è stato il primo nel campo della pasticceria a fare della qualità la sua filosofia. E questo grazie allo spirito di collaborazione e alla sinergia che gli operatori hanno saputo costruire dal lontano 1978, anno di fondazione, ad oggi.

Ha infine preso la parola il fondatore e primo presidente del Capab, Alessandro Piva, che ha invitato i pasticcieri, soprattutto in questi tempi di difficoltà generalizzata, a non scoraggiarsi mai, ma a innovarsi e a proporre sempre qualcosa di nuovo con l’obiettivo di tenere alta la qualità della pasticceria bergamasca.

Tra i presenti alla festa anche Angelo Ondei, presidente del presidente del consorzio fidi Confiab.

serata capab




Campionato di mungitura a mano, secondo e terzo posto per Bergamo

SONY DSC
SONY DSC

Gianmario Ghirardi, 32 anni, di Malonno (Brescia) si è riconfermato Campione del mondo di mungitura a mano di vacche, seconda edizione della sfida internazionale disputatasi all’agriturismo Ferdy di Lenna. Il mungitore camuno, contadino e operaio, ha munto in due minuti dalla sua fedele vacca Mirka, 8,749 litri di latte, poco meno della performance dello scorso anno, quando vinse con 8,779 litri. Sul secondo gradino del podio Roberto Carrara, diciottenne di Serina (Bergamo), con 7,6 litri e terzo gradino per Giorgio Volpi, 52 anni, di Adrara San Rocco (Bergamo). Ghirardi, arrivato a Lenna con al seguito due bus di tifosi, sindaco in testa, ha gareggiato nell’ultima batteria, rendendo particolarmente emozionante la gara che, fin dall’inizio, aveva visto in testa il giovane Carrara di Serina. “Ancora una volta devo dire grazie alla mia mucca Mirka – ha detto un emozionato quanto felicissimo Ghirardi -. Buona parte della vittoria la devo a lei”. Il bresciano della Val Camonica, dopo un anno di visibilità mediatica, torna così in vetta al mondo dei mungitori. Ieri, tra il tripudio dei compaesani e con tanto di inno nazionale, ha alzato al cielo il “Secchio d’oro”, il trofeo del Campionato del mondo dedicato ai “Formaggi principi delle Orobie”, eccellenze casearie locali. A lui, in premio, anche 3.500 euro in buono valore.

In gara 37 concorrenti provenienti da Lombardia, Piemonte, Val d’Aosta, Liguria, Trentino Alto Adige, Basilicata, Puglia e Sardegna, quindi da Olanda (un ottantenne già campione di mungitura nei Paesi Bassi), India e Romania. Prima tra le donne si è riconfermata Sofia Caratti, 46 anni, di Berzo Demo (Brescia) che ha munto in due minuti 4,5 litri di latte. Primo tra i giovani under 18 Alberto Ronzoni di San Pellegrino (Bergamo), con 4,3 litri. Defezioni tra i mungitori all’ultimo minuto, per vacche risultate malate, ma anche per un incidente occorso a un allevatore della Val Seriana (Bergamo) ribaltatosi con il camion, fortunatamente senza conseguenze gravi per animale e persone, mentre stava raggiungendo il campo gara.




Campionato di mungitura a mano, concorrenti da mezzo mondo

Mungitura a manoArriverà direttamente da San Nicandro Garganico, in provincia di Foggia, dopo aver percorso con la sua mucca ben 800 chilometri: a poco meno di un mese giorni dall’evento dal campionato del mondo di mungitura a mano, in programma all’agriturismo Ferdy di Lenna, il prossimo 20 settembre, un ventisettenne pugliese è ad oggi il concorrente “mucca – munito” che arriverà da più lontano per partecipare alla seconda edizione del concorso. Attraverserà l’Italia con la sua mucca pur di poterla mungere nel corso della sfida. Perché, come ben sa ogni mungitore, la vacca riconosce il proprio padrone ed è certo meglio disposta a fornirgli più latte. L’anno scorso presero parte concorrenti anche da India, Romania e Svizzera e da una decina di regioni italiane, Sicilia compresa. Con le vacche, per evidenti ragioni di distanza e per i problemi legati al superamento delle dogane, fornite dal comitato organizzatore.

E l’eco mediatica del campionato fu internazionale, dall’America all’Australia. Quest’anno il parterre di concorrenti stranieri si arricchirà anche di mungitori olandesi e di lingua tedesca. Obiettivo: superare gli 8,7 litri munti in due minuti, performance di Gianmario Ghirardi di Malonno (Brescia), vincitore lo scorso anno del trofeo “Secchio d’oro – Formaggi Principi delle Orobie”. Patrocinato dal padiglione Italia di Expo 2015 e organizzato dall’associazione “San Matteo – Le Tre Signorie”, il campionato mira a valorizzare una pratica antica, quindi un’agricoltura sana e sostenibile. Vacche, mungitori e formaggi saranno i protagonisti. Quest’anno la sfida si inserirà in una due giorni di festa, dedicata alla biodiversità delle Prealpi Orobie (vacche, capre e mais autoctoni), con contorno di sapori e tradizioni. Iscrizioni al campionato scrivendo a campionatomungitura@gmail.com (nome, cognome, data di nascita, età, indirizzo, numero di cellulare e indirizzo mail).

info: www.campionatomondialemungitura.it




Parre, un tuffo tra mestieri e sapori antichi

Sabato 27 giugno Parre torna all’antico. Dalle 15 alle 22, tra le vie e i cortili più caratteristici di “Parre Sopra” si sviluppa infatti “Sapori e tradizioni” un percorso storico-culturale che riporta alle tradizioni e ai costumi tipici del paese della Val Seriana. Gli abitanti in abbigliamento tradizionale mostreranno i lavori di una volta e daranno luogo ad una ricostruzione di come appariva la vita quotidiana 100 anni fa.

Tanti artigiani e hobbisti mostreranno le proprie abilità e il frutto del proprio lavoro: artigianato in legno, argilla, ferro, gioielli, tessuti e tanto altro, con spettacoli folcloristici e musica di baghet, la tipica cornamusa bergamasca. E ancora degustazione e vendita di prodotti tipici bergamaschi, show cooking, passeggiata a cavallo per il centro.

Ecco il programma

  • Alle 16.30 visita guidata alla chiesa parrocchiale di Parre che conserva una tela del celebre pittore cinquecentesco di Giambattista Moroni
  • dalle 15.30 alle 18.30 apertura con visite guidate al Museo Archeologico in piazza S. Rocco
  • alle 16, alle 18 e alle 20.30 esibizione di Valter Biella che terrà una lezione concerto col baghet, la tipica cornamusa bergamasca
  • nel pomeriggio visite ad una antica casa contadina in via Quintavalle
  • alle 15.40, 17.15 e 18.40 presentazione del libro “50 anni della festa degli Scarpinocc” presso lo stand della pro loco

Alle 17 si aprono gli assaggi dei prodotti tipici, mentre dalle 19 nei ristoranti locali si possono gustare i tipici Scarpinocc e gli altri piatti della cucina bergamasca.

Menù convenzionati si possono trovane ai ristoranti Belvedere, Miravalle, Il Moro, La Pesa.




Col festival dei burattini arrivano i menù del Gioppino

Ha anche un volto goloso il Baraca Festival, prima edizione del festival internazionale dei burattini promosso dal distretto del commercio Morus Alba, che riunisce i comuni di Stezzano, Azzano San Paolo, Grassobbio, Orio al Serio e Zanica, paese, quest’ultimo, che secondo la tradizione popolare ha dato i natali alla maschera di Gioppino, personaggio centrale della manifestazione.

Accanto agli spettacoli, due in ogni paese a partire dal 5 giugno, le attività commerciali e della ristorazione si sono sbizzarrite nel creare il menù del Gioppino, che sarà possibile gustare nel corso degli eventi.

Ad Azzano San Paolo ci sono il Cocktail del Giopì, polenta e salàm, pà e strinù e gelato ai tri gòs (tre gozzi, caratteristica della famiglia di Gioppino). A Grassobbio si va dall’antipasto gioppiniano al piatto unico, dalla polenta condita alla bergamasca al dolce dei tre gozzi (bicchierino con polenta e osèi), fino alla pizza e a due tipi di biscotto ispirati alla maschera e alle tradizioni gastronomiche della bergamasca. A Orio al Serio si può spaziare dai fusilli zucchine e salsiccia ai casoncelli alla scatoléra, al brasato d’asino e ancora tra pizze, cocktail e pà e codeghì. Si potrà trovare inoltre la polenta pedalata, mescolata cioè attraverso uno speciale attrezzo alimentato dalla forza delle gambe, insieme a formaggi e salame.

La rassegna sia apre ad Azzano il 5 giugno, prosegue a Stezzano il 6 e a Grassobbio il 7. Il 13 giugno tornerà a Stezzano, mentre il  20 e 21 giugno farà tappa per il gran finale a Orio al Serio e Zanica.

Obiettivo dell’iniziativa è valorizzare la figura di Gioppino, protagonista di tante avventure del teatro di figura bergamasco, e le altre antiche maschere bergamasche, Arlecchino e Brighella, allo stesso tempo promuovere il territorio bergamasco, ricco di cultura e di tradizione popolare. La manifestazione si completa con incontri e convegni e una mostra (nei mesi di giugno e luglio a Zanica, al civico 15 di piazza XI febbraio) di oggetti da collezione, burattini, copioni, scenari, documenti e tante curiosità sul mondo dei burattini bergamaschi e lombardi.

Per i dettagli




Via i pizzoccheri dalle mense scolastiche. Fava: “Atto insensato”

pizzoccheriTempi “duri” per i pizzoccheri. Il piatto della Valtellina non figura più nel menu delle mense scolastiche di Sondrio, perché considerati un piatto povero.

E la polemica infuria. La decisione del comune di eliminare il famoso piatto dai menù delle mense scolastiche, assieme alla polenta, ha prodotto un’interrogazione consiliare presentata dal consigliere di minoranza Andrea Massera (Sondrio Liberale). “Questi cibi della nostra tradizione – scrive Massera – adattati in versione leggera alle esigenze di una mensa scolastica, riscuotono da sempre un elevato gradimento da parte dei fruitori. Tuttavia, Comune e ASL, che annualmente definiscono il menù unico, hanno deciso di eliminarli a seguito di richieste avanzate da un gruppo di genitori di una singola scuola dell’infanzia. Motivazioni addotte? Non si possono proporre a scuola piatti poveri, da contadini…“

Protesta appoggiata anche dai consiglieri del Movimento 5 Stelle, che già nell’ottobre scorso avevano presentato un’interrogazione sulla gestione delle mense scolastiche, puntualizzando sull’utilizzo di prodotti locali a filiera corta, ricevendo dall’assessore risposta chiara e precisa che nei menù venivano utilizzati prodotti locali.

Decisione che non si spiega quindi, e che non trova fondamento nemmeno nel “non gradimento” delle pietanze da parte di alcuni utenti: i menù delle mense scolastiche sono sottoposti a verifiche di gradimento generali, e non si possono soffermare sui singoli piatti, che altrimenti andrebbero di volta in volta variati a seguito delle proteste di questo o quel genitore, viste anche le numerose richieste di reinserimento nei menù dei piatti in questione.

Sul tema incandescente è intervenuto anche l’assessore regionale all’agricoltura Gianni Fava. “Togliere i pizzoccheri dalle mense scolastiche della Valtellina penso sia un atto di totale insensatezza e di scarso rispetto delle tradizioni locali. Ed è altresì offensivo derubricare un piatto che racconta la cultura e il territorio come piatto dei contadini, con accezioni dispregiative che i contadini, custodi della terra, non meritano”. Fava si schiera dalla parte dei pizzoccheri e di quei cittadini che chiedono per i loro figli che vengano introdotti nel menù della mensa. “Dopo i piatti esotici introdotti da Milano Ristorazione in passato e sonoramente bocciati dagli utenti delle mense scolastiche – commenta Fava -, sinceramente pensavo che si fosse toccato il fondo. Invece mi sbagliavo e, alla vigilia di Expo, evento mondiale che sarà l’occasione di un confronto sull’agricoltura, sul cib o, sui territori e sulla promozione e difesa dei prodotti locali a ogni latitudine e longitudine, assistiamo a questa malparata del Comune di Sondrio e dell’Asl”. “I pizzoccheri della Valtellina, come molti altri prodotti tipici della Lombardia – conclude l’assessore -, nascono da tradizioni contadine e, sebbene qualcuno li abbia definiti ‘piatto povero’, ricordo a questi benpensanti che sono figli di una cultura ricca di fantasia, artigianalità e fatica”.