Il rettore: «Le politiche ingiuste 
rischiano di rendere vani i nostri sforzi»

Il rettore: «Le politiche ingiuste rischiano di rendere vani i nostri sforzi»

di Stefano Paleari*
 
Tre anni or sono, all’inizio del mio mandato, avevo affermato che saremmo andati verso un progressivo ridimensionamento del peso dello Stato nel finanziamento all’Università italiana. Così è stato. Non mi aspettavo, tuttavia, che questo sarebbe avvenuto in modo così rapido e così poco ordinato. Negli ultimi tre anni, infatti, abbiamo assistito a una riduzione nel finanziamento statale all’Università per oltre l’11%. Se altri comparti della spesa pubblica o della spesa amministrata avessero percorso lo stesso cammino, l’Italia sarebbe oggi da tempo ben oltre il pareggio di bilancio. Vi bastino due numeri. Posti a 100 i valori del 2009, la spesa pubblica per la scuola oggi è a 95, quella per l’Università a 89. Tenendo conto dell’inflazione, l’Università che torna a 89 nel 2013 perde, rispetto al 2009, ben 22 punti percentuali. E questo malgrado l’intera spesa corrente pubblica al netto degli interessi sia invece cresciuta di 2 punti. Non solo, questo ripiegamento dello Stato dalla Scuola e dall’Università è coinciso, paradossalmente, con una sua maggiore presenza nei processi decisionali e con un ulteriore appesantimento del quadro normativo. E pensare che la riforma dell’Università doveva proprio servire, lo ribadisce l’articolo 1 della relativa legge, a rivitalizzare l’autonomia in un quadro ovviamente di maggiore responsabilità. I tagli decisi anche per l’anno in corso, consegnano al Governo che verrà un sistema nazionale indebolito e a un bivio drammatico. Anche per la nostra Università gli ultimi sono stati anni veramente difficili; nel 2013 il finanziamento statale ritornerà ai livelli nominali del 2006. Da allora, il grado di copertura dello Stato sulle spese caratteristiche è sceso di ben 17 punti percentuali. Ancora oggi, tuttavia, sono regolati centralmente il  turnover, il livello delle retribuzioni, il quadro generale dell’offerta formativa, le procedure di reclutamento e i meccanismi di funzionamento di tutte le attività. Il risultato finale evidenzia quindi minori risorse e, contemporaneamente, minore autonomia. La nostra Università, che continua ad essere sotto-finanziata rispetto alla media nazionale per una cifra prossima ai 15 milioni di euro all’anno, ha retto solo in virtù di una politica di rigore, dello sforzo di riprogettazione di tutte le iniziative, molte delle quali in condivisione con i soggetti territoriali, e per l’impegno richiesto a tutti i collaboratori e agli studenti. Il limite, tuttavia, è stato raggiunto. Un limite che attiene più ancora alla serietà che ai finanziamenti. Perché la serietà è una forma di rispetto per i cittadini, per gli studenti e per le loro famiglie e per tutti coloro che svolgono il ruolo di civil servant in questo Paese.
Mi permetto di chiedere due sole cose: coerenza e semplicità. Per la coerenza, si abbia il coraggio di dire quanto e come l’Università deve essere finanziata; si provi a prendere un qualunque Paese europeo e lo si assuma come modello, visto che è con l’Europa che ci dobbiamo in primo luogo costantemente confrontare. C’è un’ampia scelta, dal Regno Unito dove le rette per gli studenti sono ora prossime alle 9.000 sterline all’anno, alla Germania, dove l’Università è finanziata dalle Regioni ed è praticamente gratuita per gli
studenti per i quali, tuttavia, esistono ferree regole di accesso e di mantenimento. Oppure, se nessun modello si adatta alla nostra realtà, se ne costruisca uno nuovo che abbia, appunto, il dono della coerenza. Ad esempio si dica con chiarezza che quando lo Stato finanzia meno l’Università, sono alla fine gli studenti e le loro famiglie a pagarne in gran parte il conto. Per la semplicità, il Legislatore si adoperi affinché non si abbia bisogno di interpreti nella lettura delle norme che si chiede di applicare in ogni attività. Si faccia in modo che il nostro tempo sia speso per migliorare la qualità di ciò che diamo ai nostri studenti e la qualità della nostra attività di ricerca, piuttosto che nel
rincorrere rompicapi normativi che la stessa scienza giuridica fatica a interpretare. Vedete, queste cose le affermo più con rammarico che
come forma di rimprovero. Grazie al confronto con altri Paesi e altre Università ho maturato la convinzione del grandissimo potenziale che il nostro Paese possiede in materia di Università. (…). Ecco perché vorrei fare una proposta, una proposta non una provocazione: il nostro Paese per rinascere dovrebbe offrirsi come il terreno per la crescita dei giovani di tutta l’Europa e non solo. Pensate, in Italia le Università dell'Europa; in Italia il luogo d’Europa dove si formano i giovani di tutto il mondo. Sembra una sfida temeraria, lo è, ma se non ci diamo un grande progetto non possiamo pretendere di motivare i nostri giovani. Daremmo un'opportunità di intrapresa e nuova forza alle nostre città; la nostra tradizione non sarebbe più un peso ma una nuova risorsa. Gli esempi della nostra Storia ci inducono a percorrere questa strada. C’è una “comunanza dei destini”, quella che lega l’imprenditore al lavoratore, il medico al paziente, il banchiere ai suoi debitori, l’insegnante ai suoi allievi, chi ha di più a chi ha di meno; su questa “comunanza dei destini” si costruisce il tessuto connettivo di una comunità e anche di una Nazione. Non basta un insieme di contratti ben fatti, serve la consapevolezza dello stesso destino per generare il sentimento fiduciario e la proiezione in avanti di una società. (….) Proviamo oggi a immaginare i nostri prossimi dieci anni. Molte sono le intelligenze che
possiamo mobilitare, già presenti e che dobbiamo convincere ad accompagnarci. Quello che stiamo imparando, osservando le tendenze in atto nella nostra città e sul nostro territorio, è che siamo alla ricerca di un sentiero capace di promuovere nuovo sviluppo e di riconciliare modi di vedere e di essere anche molto diversi. Ognuno di noi è chiamato a esercitare un ruolo e una proposta. Una proposta che non ha paura di essere interessata, nel senso che esprime un genuino interesse. Bergamo ormai da molti anni è una città che vede la presenza dell'Università. Non è però ancora una “città universitaria”, cioè una città che pone anche l'Università al centro dei suoi progetti e che intorno ad essa costruisce una chiara strategia di proposta territoriale. Non possiamo più affidarci al caso, lo sviluppo non è mai né automatico né casuale. Sappiate che l’Università c’è e vuole svolgere la sua parte. L’unico rischio che intravedo è che il protrarsi di politiche ingiuste e inique su scala nazionale verso i sistemi educativi rendano vani i nostri sforzi, quantomeno perché ci costringono costantemente alla trincea (…).

*Dalla relazione del Rettore dell’Università di Bergamo all’inaugurazione dell’Anno Accademico