La pipì nel cespuglio e l’errata percezione del diritto

La pipì nel cespuglio e l’errata percezione del diritto

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Stefano Rho

Mi piacerebbe tornare sull’argomento del professore che piscia in un cespuglio e, undici anni dopo, lo licenziano per una falsa autocertificazione, perché, secondo me, la cosa, oltre ad essere adatta a diventare un apologo sulla scuola italiana, rappresenta anche un significativo esempio di come venga percepita le giustizia in Italia. La storiella, ormai, credo la conosciate tutti, dato il cancan mediatico che ha accompagnato la vicenda: denunce sui giornali, interpellanze parlamentari, manifestazioni studentesche e così via. Il punto centrale di tutta questa situazione surreale, però, temo risieda altrove: non nel fatto che sia pazzesco verbalizzare una pisciata in un cespuglio, nottetempo, in un posto a casa di Dio. Nemmeno nel venialissimo peccatuccio di dimenticarsi dell’episodio all’atto dell’autocertificazione per l’immissione in ruolo: sarebbe meglio ricordarsele, certe bagattelle, ma può capitare. Penso perfino che lo Schwerpunkt non consista tampoco nella draconiana, quanto ridicola, severità di un licenziamento in tronco, per una bambocciata del genere: sebbene la scuola si sia dimostrata, tanto per cambiare, ottusamente forte coi deboli e debole coi forti, neppure questo mi pare il dato essenziale.

Quello che vorrei sottoporre all’attenzione dei miei pochi, fedeli e pazientissimi lettori è il risultato finale di tutta la spiacevole vicenda. A nessuno, per la verità, sembra essere venuto in mente che, tra l’avere regole stupide e il non aver regole affatto, possano esistere delle regole sensate. E che le regole seguono, per solito una logica di coerenza: se uno, per esempio, avesse svaligiato una banca, ma fosse, nella vita normale, un bravissimo dentista, avrebbe poco senso organizzare un sit-in dei suoi pazienti fuori dal tribunale per reclamarne la scarcerazione. Insomma, il caso dell’insegnante dimentico mi pare che abbia messo a nudo il concetto, un tantinello fantasioso, che abbiamo della giustizia e dei suoi meccanismi. Il fatto è che il malcapitato docente, bravissimo a quel che mi si dice, nonché padre di numerosa prole, non andava licenziato perché la ragione del licenziamento è risibile, non perché è bravo a fare il suo mestiere: non so se rendo l’idea?

Il primo problema, perciò, riguarda la percezione del tutto sbagliata che gli Italiani hanno del diritto: non dei loro diritti, ma proprio del diritto, dello Jus. E’ la norma generale che, se si rivela ingiusta, va modificata o, in subordine, diversamente interpretata: e questo non in base alle medaglie al valore deIl’imputato, ma all’inconsistenza dell’imputazione. Il secondo punto è che, come la responsabilità penale è del tutto personale, così sembra che vengano percepiti i diritti medesimi: una visione assolutamente singola e personalizzata della legge, che, viceversa, è quanto di più collettivo e pubblico possa immaginarsi. Come questa norma balzana, ve ne sono altre decine, che fanno ridere i polli e che ingabbiano i cristiani, mentre i malandrini se la ridono bellamente, continuando a malandrinare: solo che ce ne accorgiamo solo quando ci toccano. Fino a quel momento, ci disinteressiamo del tutto dell’ormai endemica disfasia tra la ratio giuridica e le norme del nostro diritto: ci preoccupiamo degli omicidi stradali quando qualcuno stira una persona a noi cara, ci lamentiamo dell’incertezza della pena se vediamo a spasso il ladro che ci ha svuotato l’appartamento, manifestiamo davanti al tribunale se ad essere vittima di una burocrazia assurda è il nostro insegnante. Altrimenti, ce ne stiamo lì, a coltivare il nostro orticello, serenamente sbattendocene di tutte le altre vittime, di tutte le altre ingiustizie, più o meno patenti.

Questo, signori, si chiama egoismo. E su questo vorrei porre l’accento: io spero vivamente che al professore in questione venga restituita la sua cattedra, con tante scuse, ma non perché Misiani fa le interpellanze o perché quattrocento ragazzi, qualche professore ed un megafono si traslano in piazza Dante un sabato mattina. Io vorrei che gli venisse restituita la sua cattedra perché è giusto: perché la ragione del suo licenziamento è stupidamente sbagliata. E che questa applicazione tanto pedissequa quanto miope della legge non dovesse toccare più a nessuno: compresi quelli che non hanno dalla loro parlamentari interpellanti o manifestazioni megafonanti. Rendo l’idea? Mi direte: ma noi non sappiamo nulla di altri casi, magari in Sardegna o nelle Marche, ci mobilitiamo qui e ora, perché di questo siamo al corrente! Orbene, è proprio qui la questione: se la norma va contro il sentimento di giustizia, si cancelli la norma, così non capiterà di nuovo, quantunque ed ovunque! E le tonitruanti interpellanze lascino il posto agli emendamenti: le prime sono aoristive, puntuali, individue, mentre i secondi lasciano una traccia nella civiltà giuridica di un Paese. Aggiungo che, nello specifico, sarebbe bene che i cittadini imparassero la distinzione, nemmeno troppo sottile, tra un certificato del casellario richiesto da privati e quello richiesto dalla Pubblica Amministrazione, onde evitare spiacevoli equivoci. Ma, forse, con una scuola che butta via milioni di euro per l’educazione alla legalità, sarebbe chiedere troppo.